Suspiria: la recensione del capolavoro di Dario Argento
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    Suspiria: la recensione del capolavoro di Dario Argento

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    «Escher Strasse». Comincia con questo indirizzo, riportato a un tassista, il viaggio nell’ignoto di Susy Benner, la protagonista di Suspiria di Dario Argento. Un’opera che, proprio come quelle dell’artista olandese Maurits Cornelis Escher, ci appare come una sorta di architettura impossibile: imponente, sfarzosa, intricata e soprattutto impossibile da afferrare pienamente con i soli strumenti della logica e della razionalità. Una favola horror di sublime raffinatezza estetica, che segna il definivo passaggio della poetica argentiana dal giallo a una dimensione fantastica, in cui il realismo viene sacrificato in nome di una narrazione più rarefatta, quasi visionaria. Il fulgido avvio della trilogia delle tre madri, che fra scintillanti alti (Suspiria nel 1977 e Inferno nel 1980) e rovinosi bassi (La terza madre, 2007) rappresenta un punto di riferimento difficilmente superabile per il cinema della stregoneria e dell’occulto.

    Suspiria De Profundis
    Suspiria

    Traendo spunto da Suspiria De Profundis di Thomas de Quincey e da una reale esperienza di Yvonne Loeb (nonna della sua compagna di allora e co-sceneggiatrice Daria Nicolodi), che scappò da un istituto artistico francese quando scoprì che si trattava di una copertura per una scuola di magia nera, Dario Argento ci introduce in prima persona (sua è la voce narrante sui titoli di testa) all’agghiacciante esperienza di Susy Benner (Jessica Harper) nell’Accademia di danza classica di Friburgo. Giunta a destinazione in una spaventosa notte di pioggia, Susy incrocia una sua compagna in fuga dall’edificio, subendo inoltre un rifiuto alla sua richiesta di entrare. Facendo ritorno all’Accademia il giorno dopo, Susy scopre che la ragazza che ha brevemente incrociato è morta in circostanze misteriose, e in un clima di sospetto e tensione fa la conoscenza della vicedirettrice della scuola Madame Blanche (Joan Bennett) e dell’insegnante Miss Tanner (Alida Valli).

    A margine delle lezioni accademiche, supervisionate con rigore e cinismo dalla Tanner, all’interno dell’istituto e nelle sue immediate vicinanze cominciano ad accadere fenomeni inspiegabili e violenti, come sinistri rumori notturni, un’infestazione di larve e addirittura il terrificante assassinio del pianista cieco della scuola (interpretato dal recentemente scomparso Flavio Bucci) da parte del suo stesso cane. Con l’aiuto della sua compagna Sarah (Stefania Casini), Susy comincia a indagare sulla natura di questi eventi. I suoi sospetti cadono sulla Blanche e sulla Tanner, ma anche sulla fantomatica direttrice della scuola, ufficialmente all’estero. Addentrandosi nella storia dell’Accademia, Susy scopre inoltre che essa è stata fondata dall’enigmatica Helena Markos, ritenuta una strega praticante della magia nera. La verità sulla scuola di danza di Friburgo supera però tutte le più spaventose fantasie di Susy.

    La passione per il dettaglio

    Suspiria

    Se dovessimo sintetizzare con un solo fattore la differenza fra il cinema italiano di un tempo e quello odierno, non avremmo dubbi: l’attenzione al dettaglio. Suspiria è probabilmente l’esempio più lampante in questo senso. Un lavoro della stessa caratura di quello di Argento è semplicemente inimmaginabile per i ritmi frenetici delle nostre produzioni contemporanee, comprese quelle firmate dalle nostre star della regia Paolo Sorrentino, Luca GuadagninoAlice Rohrwacher e Matteo Garrone. Tutte le componenti principali di un film si amalgamano alla perfezione, esaltando la resa complessiva del racconto: la scenografia di Giuseppe Bassan, la fotografia di Luciano Tovoli, le musiche dei Goblin e ovviamente la maestria dietro alla macchina da presa dello stesso Argento, che porta il suo cinema a un livello mai più raggiunto successivamente.

    Prima di procedere oltre, è doveroso spendere qualche parola sulla genesi di Suspiria. Oltre alle già citate opere letterarie e pittoriche, gli espliciti punti di riferimento di Argento erano il cinema espressionista tedesco, con le sue architetture vertiginose e i suoi potentissimi contrasti cromatici, e un celeberrimo lavoro d’animazione come Biancaneve e i sette nani, la cui ripetuta visione fu imposta allo stesso Tovoli per ispirarlo all’utilizzo di colori forti.

    Originariamente, l’impianto favolistico di Suspiria avrebbe dovuto essere accentuato da un cast di bambine, che fu però negato dalla produzione. Facendo di necessità virtù, il regista italiano optò quindi per attrici dall’aspetto infantile (la Harper, 28enne all’epoca dell’uscita di Suspiria, dimostrava almeno 7-8 anni in meno) e soprattutto per una scenografia che restituisse allo spettatore un’esperienza il più possibile fanciullesca. Da qui la scelta di utilizzare porte più grandi del normale e maniglie poste più in alto del solito, ricreando la difficoltà nell’aprire le porte per i bambini, e il ricorso a dialoghi in larga parte puerili e sciocchi, anch’essi ad altezza di bambino.

    Suspiria: la favola horror di Dario Argento

    Dario Argento sa che i timori più forti sono collegati all’infanzia, il periodo della vita in cui l’immaginazione è più fervida, nonché l’età in cui ogni emozione è amplificata. Un piccolo rumore nella notte fa temere a un bambino una terribile minaccia, un pacifico animaletto notturno diventa il più temibile dei mostri. Persino racconti dell’infanzia cui solitamente diamo un’accezione positiva segnano indelebilmente il nostro immaginario. Chi non prova ancora un brivido ripensando agli aspetti più foschi di Pinocchio o alle streghe di Biancaneve e di Hänsel e Gretel?

    Le streghe e la favola finiscono così per andare a braccetto in un’opera che ha nel concetto stesso di paura l’oggetto della propria riflessione. Fin dalla sequenza d’apertura all’aeroporto, densa di contenuti nella sua semplicità, Argento ci invita ad affrontare un terrore senza volto o corpo, che alberga nelle nostre più ancestrali emozioni: nelle porte automatiche che si aprono al passaggio di Susy, accogliendola in un luogo metafisico, fuori dal tempo e dallo spazio; nel temporale che affronta Susy, le cui luci illuminano sinistramente il suo volto impaurito; nel lugubre boschetto che attraversa la protagonista in taxi prima di arrivare all’agognata Accademia.

    Suspiria, proprio come l’opera di Escher, è un perpetuo inno al disorientamento, alla prospettiva impossibile. Tutti gli eventi più inquietanti del racconto (il duplice assassinio iniziale, il già citato omicidio del pianista in una spettrale Königsplatz, il dialogo in piscina fra Susy e Pat) avvengono infatti da un punto di vista illogico e irrazionale. Una soggettiva dell’assassino, che farà la fortuna di Halloween – La notte delle streghe di John Carpenter e di buona parte del filone slasher, senza che questo assassino si palesi mai, se non, implicitamente, nel momento dell’ingresso di Susy nel nascondiglio delle streghe. Il male ti osserva, ma a te non è concesso osservarlo.

    Suspiria: fra gotico e Art Nouveau

    Questo vero e proprio trattato sul terrore firmato da Dario Argento non risulterebbe così efficace senza il certosino lavoro sull’immagine e sul suono che lo contraddistingue. I Goblin superano loro stessi con una colonna sonora meno frastornante di quella di Profondo rosso, che fonde sonorità synth e tribali, spaziando dall’elettronica al bouzouki e generando, anche grazie al ricorso a particolari suoni ambientali (vento, sibili, voci incomprensibili) un’atmosfera puramente esoterica, ideale contrappunto musicale del percorso iniziatico di Susy.

    L’accoppiata Tovoli-Bassan riesce a infondere una sensazione di perenne inquietudine sensoriale, esasperando i colori primari (e in particolare il rosso) grazie a una particolare commistione fra lenti anamorfiche, drappi colorati e lampade ad arco, esaltata dal glorioso formato Technicolor (di cui Suspiria fu uno degli ultimi esempi). Gli interni dell’Accademia sono una stupefacente combinazione di stile gotico (sembra di trovarsi in uno dei tanti castelli che hanno scritto la storia dell’horror) e di Art Nouveau, che inonda letteralmente gli interni, con espliciti richiami alle figure femminili di Alfons Mucha e alla acconciature tipiche delle opere di Aubrey Beardsley.

    Evidente poi l’influenza dell’onnipresente Escher, in particolare nella decorazione del muro dell’ufficio di Madame Blanche. Un’altra architettura impossibile, che fa da cornice ai fondamentali tre iris giallo, rosso e blu (non a caso, di nuovo i tre colori primari), ultima tappa da superare per Susy nel suo cammino verso l’agognato faccia a faccia con la personificazione del male.

    Il beffardo finale di Suspiria

    Suspiria

    «I tre iris, gira quello blu!». Susy gira l’iris blu, aprendo uno squarcio fra reale e soprannaturale, fra sogno e incubo. Ciò che ne segue sta al cinema dell’occulto come Twin Peaks sta alla narrazione seriale. Il covo delle streghe come la Loggia Nera di David Lynch, un non-luogo in cui la ragione e la logica sono sospese. È in questa manciata di minuti conclusivi che Dario Argento tocca il proprio apice, raccontando esclusivamente per immagini e suggestioni. Una tenda blu, che sembra quasi un sipario che divide il vero dalla finzione, uno stretto e lungo corridoio (ma è davvero così lungo? Uscendo Susy lo percorre in pochi secondi), un dialogo cospirativo fra quelle che si rivelano finalmente essere streghe, osservato dalla fessura di una porta, con la paura che incontra il voyeurismo.

    E ancora, il surreale confronto fra Susy e la Mater Suspiriorum Helena Markos (interpretata, secondo la leggenda, da una ex prostituta novantenne) e la conseguente uccisione della prima Madre, che, come anticipato dal professor Milius nell’unica lunga sequenza ambientata alla luce del giorno e lontano dall’Accademia, porta alla morte delle altre streghe, ridotte ormai a corpo decapitato di un serpente. Una moltitudine di intuizioni visive e registiche condensate in una lunga e annichilente scena madre, che pur con i suoi effetti speciali artigianali è ancora un esempio di tensione e suspense, ineguagliabile per qualsiasi remake o presunto tale.

    Dario Argento mette quindi il punto esclamativo a Suspiria. Mentre Susy lascia l’Accademia in fiamme, libera da quel marcio e sadico potere che si è definitivamente messa alle spalle, si lascia andare a un ambiguo sorriso (gioia? Sollievo? Beffardo segnale di una nuova consapevolezza di sé?) che precede un’inusuale dichiarazione (“Avete visto Suspiria“), brusca e suggestiva discontinuità fra finzione e realtà.

    L’impossibilità di afferrare l’ignoto

    Suspiria
    Lasciano in fondo il tempo che trovano le critiche ai passaggi più forzati della sceneggiatura di un’opera che rifiuta costantemente la razionalità, come del resto non è così incisiva la chiave di lettura secondo cui l’Accademia è allegoria del nazismo (l’autoritarismo delle dirigenti della scuola, che spezzano ogni voce dissidente, e la rappresentazione di un brutale assassinio al centro di Königsplatz, uno dei luoghi simbolo del Terzo Reich), messa in ombra da una narrazione che si muove costantemente in territori più sfumati, al limite dell’onirico.

    Il fascino di quest’opera di Dario Argento sta nel suo essere limpida e sfarzosa e allo stesso tempo cupa e impenetrabile, nella sua capacità di accumulare sequenze dal forte impatto visivo ed emotivo, per poi ritrarsi e lasciare alla nostra immaginazione il compito di definire l’essenza di quanto abbiamo appena ammirato. Come le più grandi opere d’arte, Suspiria è una porta che si apre lentamente, facendoci intravedere le nostre ossessioni e le nostre più intime paure, per poi richiudersi improvvisamente, abbandonandoci all’impossibilità di afferrare l’ignoto.

    La magia è quella cosa che ovunque, sempre e da tutti è creduta.

    Overall
    10/10

    Verdetto

    Dario Argento firma il capolavoro della sua filmografia, dando vita a una favola dell’orrore che si muove costantemente sul confine fra realtà e fantasia, trascinando lo spettatore in un vortice di suggestioni e atmosfere occulte.

    Cinema indipendente

    Pennywise: The Story of IT, recensione del documentario sulla celebre miniserie

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    Pennywise: The Story of IT

    A quasi 40 anni dal suo arrivo nelle librerie di tutto il mondo, il fascino di It di Stephen King non accenna a diminuire, dal momento che è in lavorazione la serie Welcome to Derry, prequel degli eventi narrati nei due recenti adattamenti cinematografici di Andy Muschietti. L’occasione ideale per riportare alla luce il primo adattamento di questo folgorante romanzo, cioè la miniserie televisiva di Tommy Lee Wallace, divisa in due puntate e trasmessa nel 1990 dall’emittente americana ABC. Un successo immediato, diventato in poco tempo un fenomeno planetario, grazie soprattutto alla formidabile prova di Tim Curry nei panni del pagliaccio Pennywise, incarnazione di una mostruosa creatura che ciclicamente torna a seminare paura e morte nella fittizia cittadina di Derry. Uno show scandagliato in profondità da Pennywise: The Story of IT, documentario del 2021 di John Campopiano e Christopher Griffiths, finanziato con una campagna di crowdfunding su Indiegogo.

    Pennywise: The Story of IT si concentra sulla genesi, sulla lavorazione e sul lascito di questa popolare miniserie, che in un’epoca in cui la serialità era ancora considerata la serie B dell’audiovisivo ha immobilizzato davanti allo schermo decine di milioni di spettatori in tutto il mondo, imprimendosi nell’immaginario collettivo anche grazie alla sua forte vena orrorifica e sanguinolenta, solo parzialmente attenuata dagli inevitabili compromessi dovuti alla programmazione televisiva. Un prodotto fondamentale per la formazione di molti cinefili e appassionati di horror di oggi, nonostante gli ampi tagli al materiale di partenza e una seconda parte (quella con i protagonisti adulti) molto meno efficace e riuscita della prima.

    Pennywise: The Story of IT, dietro le quinte di una miniserie di culto

    Pennywise: The Story of IT

    Pennywise: The Story of IT deve scontare numerose assenze, come quelle di Jonathan Brandis (Bill Denbrough bambino), Harry Anderson (Richie Tozier adulto) e John Ritter (Ben Hanscom da adulto), che purtroppo sono prematuramente scomparsi. Fra i vari intervistati inoltre manca quello più importante di tutti, cioè Stephen King, comunque presente all’inizio del documentario grazie a del girato d’archivio, in cui racconta la genesi del suo terrificante capolavoro. John Campopiano e Christopher Griffiths si concentrano poi sulla lunga fase di gestazione, che ha coinvolto anche George A. Romero (la cui versione si sarebbe però aggirata intorno alle 10 ore) e Lawrence D. Cohen, autore della prima versione della sceneggiatura, rivista poi dallo stesso regista designato Tommy Lee Wallace, stretto collaboratore di John Carpenter già apprezzato dietro alla macchina da presa per Halloween III – Il signore della notte e Ammazzavampiri 2.

    Proprio Lawrence D. Cohen e Tommy Lee Wallace raccontano la complessa fase di adattamento, che ha portato a sforbiciare numerosi passaggi fondamentali del libro, come il controverso momento in cui la giovane Beverly fa sesso con tutti gli altri componenti maschili del Club dei Perdenti, di cui era ignara anche l’interprete Emily Perkins, che nel corso del documentario racconta alcuni aneddoti divertenti in proposito. Fra confessioni, ricordi e retroscena, emerge chiaramente l’insoddisfazione di Tommy Lee Wallace a proposito della famigerata seconda parte, penalizzata dal budget e a suo dire anche da un cast adulto complessivamente meno convincente rispetto agli interpreti bambini.

    Fra aneddoti e ricordi

    Pennywise: The Story of IT concede comunque il suo momento a ogni protagonista, in un flusso di emozioni e nostalgia alimentato da Richard Thomas (Bill Denbrough adulto), Seth Green (Richie Tozier bambino), Dennis Christopher (Eddie Kaspbrak adulto) e tanti altri. A emergere su tutti è però ancora una volta Tim Curry, che nonostante la salute precaria porta il suo contributo di attore di razza, nonché il suo fondamentale punto di vista sulla creazione dell’agghiacciante look del pagliaccio che ha infestato i sogni di molti bambini degli anni ’90, anche grazie al trucco non troppo invasivo preteso dall’attore.

    Pennywise: The Story of IT non indora mai la pillola e affronta anche i risvolti meno riusciti del progetto, come le divergenze creative sul ragno al centro dello scontro finale della seconda parte, che ancora oggi grida vendetta. Un approccio lucido e sincero, che completa una riuscita operazione nostalgia, capace di fornire agli appassionati di questa miniserie diverse informazioni utili e allo stesso tempo di solleticare la fantasia e la memoria di chi invece ha dimenticato o non ha mai visto questo pezzo di storia della televisione.

    Sul sito della casa di produzione del documentario Cult Screenings UK, è disponibile in edizione limitata anche un libro basato su Pennywise: The Story of IT.

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    Overall
    7/10
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    Eileen: recensione del film con Thomasin McKenzie e Anne Hathaway

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    Eileen

    Un thriller psicologico dalle atmosfere hitchcockiane, con un personaggio che si chiama Rebecca; una rivisitazione in chiave noir dell’appassionato intreccio di Carol; un torbido racconto sullo sguardo e sull’immaginazione, che strizza l’occhio al cinema di Brian De Palma. Tutto questo è Eileen, opera seconda di William Oldroyd, che dopo il suo Lady Macbeth, con cui ha imposto all’attenzione generale il talento di Florence Pugh, torna a dare vita a un dramma a trazione femminile con protagoniste due delle migliori attrici delle rispettive generazioni, Thomasin McKenzie e Anne Hathaway.

    Ci troviamo nel New England degli anni ’60, rigido sia dal punto di vista climatico che da quello etico e morale. Mentre si avvicina il Natale, la vita della giovane Eileen (Thomasin McKenzie), sospesa fra un insoddisfacente impiego in un carcere minorile e la cura del padre alcolizzato, viene improvvisamente sconvolta dall’arrivo nell’istituto della psicologa Rebecca (Anne Hathaway). Attraversata da una fortissima carica erotica nei confronti della nuova arrivata, Eileen inizia con lei un rapporto sempre più stretto, fatto di sottili sfumature e di emblematici non detti. La violenza che cinge il carcere irrompe però nella vita delle due donne, portandole in territori oscuri e pericolosi.

    Eileen: Thomasin McKenzie e Anne Hathaway in un torbido thriller psicologico

    Eileen

    Il lavoro di William Oldroyd (tratto dall’omonimo romanzo di Ottessa Moshfegh) è una storia di prigioni, fisiche ed emotive. La rigida e austera struttura del carcere riverbera infatti nell’animo delle protagoniste, entrambe insoddisfatte delle loro esistenze, anche se per motivi diversi. Da una parte abbiamo Eileen, assalita da dubbi, imbarazzi e pulsioni contrastanti, perfettamente tratteggiate da Thomasin McKenzie, che conferma le doti interpretative messe già in mostra in Jojo Rabbit, Old e Ultima notte a Soho. Dall’altra parte Rebecca, che è presenza eterea e aggraziata all’interno del carcere ma allo stesso tempo potenziale dark lady, grazie alla solita superba Anne Hathaway, di nuovo alle prese con un personaggio ambiguo e per certi versi inquietante dopo Mothers’ Instinct.

    Il sentimento fra le due cuoce a fuoco lento, con una sensualità lambita dal regista ma mai deflagrante, se non nell’immaginazione e nel desiderio represso di Eileen. Un labirinto di emozioni e di passioni, che proprio nel momento in cui crediamo di essere arrivati all’uscita si rigenera sterzando in direzione del thriller, pur mantenendo la sua carica erotica. Un cinema ambizioso e rischioso, e in quanto tale da difendere e proteggere anche quando i risultati si collocano al di sotto delle potenzialità, come in questo caso.

    L’ottimo lavoro delle protagoniste

    In un continuo peregrinare fra suggestioni pruriginose e tensione sentimentale e criminale, con la cornice dell’America bigotta e puritana dell’epoca, William Oldroyd trasforma il film in un racconto a immagine e somiglianza della sua impacciata giovane protagonista, che proprio come lei non riesce mai a spiccare definitivamente il volo, nonostante le ottime premesse. Un’opera costantemente e volutamente trattenuta, con risultati contrastanti.

    Non si può che lodare il lavoro svolto dalle due protagoniste e in particolare da Thomasin McKenzie, che non soffre minimamente il confronto con la più celebre ed esperta collega, ma al contrario le tiene testa con un’interpretazione dai registri opposti e complementari, fatta di sguardi ammaliati, di piccoli tic nervosi e di tante malcelate fragilità. La svolta che dà il via a un terzo a un terzo atto intriso di violenza, inganni e sogni infranti raccoglie i frutti di questo lavoro sulle interpreti, lasciando spiazzati e al contempo amareggiati per una parabola esistenziale condannata al crimine e alla frustrazione.

    Eileen

    Nonostante ciò, si ha la sensazione che il risultato sia minore della somma delle sue notevoli parti, principalmente a causa di una scrittura in eccessivo controllo, che si limita ad alludere senza mai scavare a fondo. Del sublime cinema di Alfred Hitchcock resta così solo l’ossatura, con esiti comunque apprezzabili ma non travolgenti.

    Eileen è disponibile nelle sale italiane dal 30 maggio, distribuito da Lucky Red e Universal Pictures.

    Dove vedere Eileen in streaming

    Al momento non disponibile su nessuna piattaforma.
    Overall
    6.5/10

    Valutazione

    William Oldroyd firma un thriller psicologico dalle buone potenzialità e con due ottime protagoniste, che tuttavia non riesce mai a spiccare definitivamente il volo.

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    Essi vivono: recensione del film di John Carpenter

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    Essi vivono

    «Dovete capire una cosa: è un documentario. Non è fantascienza». È John Carpenter in persona a chiarire nel corso di un’intervista la sua personale visione di Essi vivono, una delle sue opere più conosciute e amate. Una posizione netta e limpida, come netto e limpido è questo straordinario film del 1988 che, anche se nel corso del tempo è stato scioccamente tirato per la giacchetta per sostenere le più disparate fesserie o le più bizzarre teorie del complotto, non ha perso una virgola del suo fascino incendiario, diventando al contrario sempre più lucido e attuale.

    Essi vivono prende spunto da Alle otto del mattino, un racconto del 1963 di Ray Nelson, ma la sua principale fonte di ispirazione è la società statunitense dell’epoca, all’apice della Reaganomics e dello yuppismo, a loro volta discendenti diretti del più cinico e bieco capitalismo. Un sistema marcio e corrotto, che cavalcando gli ultimi resti del famigerato sogno americano ha spinto l’intero Occidente a un consumismo sfrenato, in direzione di uno stile di vita al di sopra delle proprie possibilità economiche e verso il mito del successo professionale a ogni costo, lasciando soltanto macerie e aumentando le disparità sociali.

    In questo desolante quadro facciamo la conoscenza di un personaggio che è letteralmente nessuno, ovvero John Nada, perfetto per l’attore feticcio di John Carpenter, Kurt Russell, ma interpretato invece Roddy Piper, di professione wrestler ma prestato con successo alla recitazione, anche se privo di particolari doti espressive.

    Essi vivono non è un film di fantascienza, è un documentario

    Nada è l’emblema della metà del cielo di cui il capitalismo non si interessa, ovvero un’impressionante moltitudine di poveri e precari, privi di qualsiasi tipologia di tutela o sussidio. Lo vediamo spostarsi da Denver a una fosca Los Angeles, munito solo di uno zaino e di un sacco a pelo, alla speranzosa ricerca di un lavoro. Dopo essersi scontrato con l’insensatezza del sistema, sotto forma di ufficio di collocamento, l’uomo trova un instabile impiego come operaio in un cantiere edile nei pressi di una baraccopoli, stringendo inoltre amicizia con il suo collega nero Frank Armitage (Keith David, già diretto da John Carpenter ne La cosa). Mentre la sua esistenza sembra incanalarsi verso una pallida imitazione della normalità, Nada si imbatte fortuitamente nelle misteriose attività di una chiesa situata in mezzo al più totale degrado.

    Fra predicatori che esortano a un risveglio, messaggi televisivi che si sovrappongono brevemente alle normali trasmissioni e inquietanti messaggi registrati, Nada trova una scatola piena di occhiali da sole. Dirigendosi verso un’area popolata, indossa uno di questi oggetti, che gli rivela l’agghiacciante realtà. Sotto le sembianza di cartelloni pubblicitari, schermi e riviste, si celano messaggi subliminali come “Obbedite“, “Restate addormentati“, “Non pensate“, “Consumate“, “Sposatevi e riproducetevi“, “Non mettete in dubbio l’autorità“. Nada scopre inoltre che fra le persone benestanti, le forze dell’ordine e le figure di potere si nascondono esseri alieni dalla testa di zombie, tutti parte della medesima cospirazione, nonché allarmati nel momento in cui scoprono che l’uomo è in grado di riconoscerli.

    Lo sguardo aspro e corrosivo di John Carpenter

    Non è un caso che questa epifania su un mondo in cui informazione, intrattenimento e istituzioni fanno tutte parte di un sistema volto a controllare e soggiogare il popolo arrivi dal basso, per la precisione da un uomo di cui non sappiamo nulla ma che ha chiaramente perso tutto, ancora fedele alla propria patria («Io credo nell’America. Io seguo le regole», dice) nonostante la palese assenza di qualsiasi forma di ascensore sociale per una persona nelle sue condizioni.

    La prospettiva perfetta per lo sguardo aspro e corrosivo di John Carpenter, che non risparmia nessuno: persone che in televisione ambiscono a diventare famose e a essere seguite e ammirate (decenni prima di influencer e content creator), forze dell’ordine pronte a reprimere con la forza qualsiasi forma di dissenso (nulla è cambiato in questo senso), mass media pronti a fare la loro parte per ammansire il popolo, con sinistri richiami all’altrettanto formidabile Videodrome di David Cronenberg. Uno scenario disarmante e diretto a folle velocità verso l’apocalisse (tema portante dell’ideale trilogia di John Carpenter composta da La cosa, Il signore del male e Il seme della follia), che ha il merito di anticipare anche i disastri ambientali odierni, parte del piano di sfruttamento del pianeta da parte degli alieni.

    Fra Lovecraft e i B-Movie

    Essi vivono

    Essi vivono procede con il passo del B-Movie, fra richiami alla fantascienza sociale di Ultimatum alla terra a L’invasione degli ultracorpi, uno sfrontato e acido umorismo («I have come here to chew bubblegum and kick ass. And I’m all out of bubblegum», afferma Nada, adattato in italiano nel non altrettanto efficace «Raccomandate l’anima al vostro creatore: sono venuto ad annientarvi… Anche perché ne ho le palle piene!») e volute esagerazioni visive e narrative. Fra queste c’è sicuramente la celeberrima rissa fra il protagonista e Frank Armitage, nome che costituisce un omaggio a L’orrore di Dunwich di Howard Phillips Lovecraft e che lo stesso John Carpenter sceglie come proprio pseudonimo per la sceneggiatura.

    In questa lunga scazzottata, in cui Roddy Piper sfrutta nel migliore dei modi le sue doti di lottatore professionista, Nada impone con la forza a Frank di guardare una realtà che semplicemente non vuole vedere, per quieto vivere e per la propria stabilità emotiva. Una vera e propria opera di convincimento fatta di calci e pugni, dalla valenza simbolica ben più profonda di un semplice scontro fisico, che il regista non a caso colloca al centro del racconto, dividendolo idealmente in due segmenti, uno più concettuale e l’altro più sbilanciato verso l’azione.

    Una digressione volutamente esasperata da John Carpenter, che nel corso degli anni gli ha procurato numerose critiche per la presunta durata eccessiva di 6 minuti scarsi. Ci aspettiamo che lo stesso metro di giudizio venga riservato ad alcune serie televisive contemporanee dalla narrazione dilatata a dismisura per diverse ore, ma rischiamo di rimanere delusi.

    Essi vivono: un attacco diretto al capitalismo

    Essi vivono

    Il regista fonde la sua radicale visione politica con un racconto di invidiabile purezza, capace di soddisfare sia le esigenze in termini di narrazione e spettacolo, sia gli spettatori in cerca di un intrattenimento più concettuale. La metafora è scoperta, come la critica a un sistema che arriva nel momento del suo massimo e illusorio splendore, quindi ancora più acuta e lungimirante. Essi vivono ci invita infatti ad aprire gli occhi per guardare veramente un sistema che si nasconde solo in parte e che ognuno di noi non fa che alimentare continuamente. Un circolo vizioso fatto di annullamento degli istinti, delle passioni e delle aspirazioni delle persone, di indottrinamento in direzione di modelli insostenibili e di emarginazione di ogni voce discorde.

    They Live, We Sleep“, legge Nada, esplicitando una dinamica che non accenna a indebolirsi e che solo gli spettatori più ingenui e prevenuti possono scambiare per una mera allegoria dei presunti poteri forti di turno, in ambito economico, politico, tecnologico, etnico o scientifico. Come ribadito da John Carpenter in un tweet del 2017, Essi vivono ha un solo grande bersaglio, cioè il capitalismo, sostenuto involontariamente anche da chi capitalista non è (o non pensa di essere). Nella sua percorso di violenza e alienazione, Nada non si scontra solo con pericolosi e inquietanti extraterrestri, ma anche con tanti umani che li appoggiano e collaborano con loro, perché inconsapevoli del quadro generale, troppo debolì per resistere o convinti di ricevere favori o ricompense per il loro doppio gioco.

    Essi vivono e le sue sbalorditive intuizioni

    Essi vivono

    Ragione per cui è ingiusto ridurre a un semplice concentrato d’azione a sfondo fantascientifico la seconda parte di Essi vivono, che ha al contrario il merito di scoprire gli ingranaggi del complotto ai danni dei terrestri. Fra sbalorditive intuizioni (il porto intergalattico tramite il quale gli esseri alieni si spostano, che non può che ricordare gli sforzi odierni sempre più insistiti in direzione di un possibile turismo spaziale) e una spinta rabbiosa e ribelle sempre più dirompente, emerge la doppiezza del personaggio di Holly Thompson (Meg Foster), che prima viene presa in ostaggio da Nada, poi finge di essere dalla stessa parte del protagonista e infine rivela la sua vera natura di collaborazionista, seguita a ruota da uno degli abitanti della baraccopoli, fiero della sua nuova ripulita immagine.

    Un quadro umano e sociale raggelante, perfettamente in linea con il pessimismo che contraddistingue il cinema di John Carpenter, alleggerito però dallo sferzante umorismo del regista, che con orgoglio e irriverenza arriva addirittura ad autocitarsi nel momento in cui un opinionista televisivo (ovviamente alieno) sproloquia «Tutto quel sesso e quella violenza che si vedono sullo schermo si sono spinti troppo oltre per me. Ne ho abbastanza. Registi come George Romero o John Carpenter, ecco, si può dire che sono semplicemente…», interrotto dallo svelamento finale della cospirazione.

    Il finale di Essi vivono

    Con l’ultimo folle e autodistruttivo atto di ribellione di Nada si chiude questo capolavoro dal basso budget (appena 3 milioni di dollari) ma forte di una visione ben precisa del mondo e della narrazione, che ne fanno ancora oggi un’esperienza indispensabile per la cinefilia. Un’opera che continua a scolpire nell’immaginario collettivo (anche nel campo dell’abbigliamento), a stimolare riflessioni sempre più urgenti e a cercare di squarciare il velo di Maya che ci separa da un mondo più equo e sereno.

    «Oggi possiamo dimostrare che avendo seguito fedelmente il nostro schema ideologico, siamo riusciti nell’intento di mettere l’economia americana al servizio dei nostri obiettivi politici. Se i nostri alleati terrestri manterranno la loro attuale linea politica nei nostri confronti, il loro cammino economico sarà in ascesa. Infatti, riducendo la spesa dei nostri armamenti, abbasseremo enormemente l’inflazione interna perché la nostra politica sociale, oltre a salvaguardare la sicurezza della nostra sopravvivenza, desidera anche collaborare per il progresso del Paese che ci sta ospitando. Il nostro esercito è riuscito a sterminare quasi tutti i rivoltosi e la loro emittente televisiva è stata distrutta; resteremo forti e uniti per difendere la pace, continueremo a lavorare per la prosperità».

    Essi vivono

    Essi vivono in Home Video

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    10/10

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    John Carpenter firma un’incendiaria e amara riflessione sul capitalismo, con un disperato action fantascientifico più attuale che mai.

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