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Quando nel 1949, nel difficile periodo post bellico, Carol Reed decise di imbarcarsi nel progetto di “The Third Man” aveva già alle spalle un solido carnet di opere realizzate che mettevano al riparo i produttori del film da qualsiasi sorpresa. Sebbene ancora giovane, non aveva infatti ancora 43 anni, Reed aveva già girato qualcosa come 17 lungometraggi e un numero imprecisato di corti, collaborando con gente del calibro di John Huston e Graham Greene e acquisendo una fama più che meritata. Fino a quel momento il suo miglior film l’aveva probabilmente girato l’anno precedente: “Idolo Infranto”, da un romanzo di Greene, interamente girato e prodotto in UK. Del resto Reed era un uomo di spettacolo a 360 gradi, a cominciare dalla sua estrazione culturale: suo padre era infatti Sir Herbert Beerbohm Tree, l’uomo che aveva fondato la Royal School Dramatic Art di Londra, la più venerabile e autorevole istituzione teatrale di tutto il Regno Unito. Reed era quindi una sorta di predestinato e il casting per “The Third Man” completò il quadro di un momento irripetibile e di un successo già scritto: furono scelti quattro attori molto diversi tra loro, ma ognuno a suo modo dotato di un’aura magnetica che si rivelò determinante per la riuscita e la definitiva consacrazione del film negli anni a venire. Nel ruolo del protagonista fu infatti chiamato Joseph Cotten, un artista lanciato ad inizio carriera proprio da Orson Welles (naturalmente in veste di regista) in due splendidi film che fecero poi la sua fortuna di attore: “Quarto Potere” (1941) e “L’orgoglio degli Amberson” (1942). Per il ruolo femminile fu scelta l’eterea Alida Valli, donna dalla bellezza conturbante, all’epoca appena 28enne ma già con un grande bagaglio di esperienza cinematografica. Per impersonare il maggiore Calloway, ufficiale di Sua Maestà a Vienna, la scelta cadde su Trevor Howard, attore inglese di 35 anni, a inizio carriera. Infine nel ruolo di “third man” fu fatalmente scritturato Orson Welles che diede al personaggio di Harry Lime un’aura carismatica e sinistramente languida, ma che al contempo diede non pochi grattacapi alla produzione.

Il problema maggiore di Orson Welles erano le fogne. Il suo personaggio infatti fa la sua comparsa nella seconda metà del film e la più lunga sequenza che deve affrontare è un interminabile inseguimento nelle fogne di Vienna, il famigerato Wienkanal, un lungo budello di canali di scolo sotterranei che andavano a gettarsi nel “bel Danubio Blu“. Inutile dire che l’ambiente pullulava di topi, umidità e il resto dello scenario che uno si aspetterebbe di trovare in un luogo così malsano e inospitale. Welles si impuntò a tal punto che il direttore di produzione, e assistente alla regia, Alexander Korda, dovette organizzare una ricostruzione scenica della location negli studi cinematografici londinesi, e soltanto pochi fotogrammi furono girati nelle vere fogne viennesi. In secondo luogo Welles era un uomo molto impegnato e si presentò con oltre due settimane di ritardo all’appuntamento fissato per le riprese, tanto che dovette essere sostituito da varie controfigure in alcune scene: si mormora che una di queste fosse proprio Carol Reed. Infine Orson Welles era un personaggio decisamente troppo carismatico perché si limitasse al ruolo di mero attore, e sembra sia confermato, che gran parte dei dialoghi del suo personaggio, Harry Lime, li avessi scritti egli stesso, imponendosi su regista e sceneggiatori.

Nonostante questi piccoli intoppi le riprese non furono funestate da nessun altro serio problema, questo grazie alla grande organizzazione del produttore esecutivo David O. Selznick, un professionista stimato che aveva nel suo curriculum produzioni sontuose come “Via col vento“, “Io ti salverò” e “Duello al sole“. Selznick aveva fortemente voluto la Valli nel cast ma si era fermamente opposto a Welles, definendolo un “veleno per il box office“, a causa del suo carattere difficile e della sua discussa popolarità tra gli spettatori. Nonostante la sua opposizione però, Selznick non riuscì a far cambiare idea a Reed, nemmeno dopo che Selznick promise nientemeno che Cary Grant nel ruolo di Harry Lime. Fu tutto inutile perché il regista londinese aveva bene in mente il profilo del personaggio ed era profondamente convinto che a questo profilo si attagliasse in modo perfetto soltanto Orson Welles.

La sceneggiatura del film fu affidata ad uno scrittore noir emergente, Graham Greene, che aveva già collaborato l’anno precedente con Carol Reed nel film “Idolo infranto”. Greene, letterato di grande caratura: drammaturgo, sceneggiatore e scrittore, aveva appena dato alle stampe quello che a detta di molti è stato il suo più grande romanzo: “Il nocciolo della questione“. Fu subito chiaro che occorreva concedergli carta bianca per ottenere un risultato all’altezza del talento che era nelle sue corde, e in questo senso sia Reed che Selznick gli fornirono questa libertà di cui aveva bisogno. Greene fu così libero di ideare, creare, plasmare, sceneggiare e adattare la storia come meglio riteneva opportuno. Il risultato fu decisamente magistrale. Una trama che non lascia spazi a tempi morti conduce lo spettatore nei meandri di una città oscura e ostile, deturpata dalla guerra appena finita, con loschi personaggi che si annidano dietro la facciata di rispettabili cittadini, e un investigatore improvvisato che percorre queste strade alla ricerca ostinata dell’ultima verità.

La trama è incentrata sul personaggio di Holly Martin (nel doppiaggio italiano il nome di battesimo si trasforma abbastanza surrealmente in “alga”, o qualcosa di simile). Martin è uno scrittore americano spiantato di romanzi d’avventura di genere western. Viene chiamato a Vienna da un amico d’infanzia: Harry Lime che gli promette un lavoro e una nuova vita. Martin arriva carico di belle speranze nella capitale austriaca e trova uno scenario post bellico inquietante: molti edifici sono devastati dai bombardamenti, inoltre la città è suddivisa in zone di competenza delle 4 potenze straniere vincitrici: USA, URSS, Gran Bretagna e Francia, con conseguenti conflitti amministrativi tra le rispettive burocrazie e polizie. Ma la cosa peggiore è che gli viene annunciato che Harry Lime è morto, investito da un auto il giorno precedente. Al frastornato Martin non resta altro che presenziare al funerale dell’amico dove conosce il maggiore Calloway, della polizia britannica. L’ufficiale cercherà di spiegare a Martin come in realtà Lime fosse un losco figuro ma inizialmente lo scrittore non crederà a questa versione. In seguito l’americano comincerà una sua inchiesta personale per stabilire l’esatta dinamica della morte del suo amico e soprattutto la verità su Lime. Scoprirà così che oltre a due amici di Lime che prestarono il primo soccorso ci fu anche un misterioso terzo uomo presente sulla scena della morte, ma nessuno sembra avallare questa ipotesi. Martin conoscerà anche l’amante di Lime, una donna dalla bellezza conturbante, che parteciperà all’inchiesta e cercherà con lui di stabilire la verità. L’epilogo mostrerà che il maggiore Calloway aveva dannatamente ragione su Lime e che in realtà l’uomo non era altro che un volgare farabutto che speculava sul mercato nero dei medicinali (in particolare sulla penicillina) per lucrare e fare affari sulle spalle dei malati. Ma le sorprese non si fermano qui e i morti a volte fanno ritorno sulla terra per continuare i loro loschi affari…

Denso di rimandi ad una tradizione noir consolidata, si discosta in un certo modo dal filone psicologista per addentrarsi in una sfumatura più espressionista, basata sull’impatto iconografico della realtà e sulla suggestione delle atmosfere decadenti. Vienna è la grande protagonista di questo film: una città lugubre, ferita, opprimente. Memorabili alcuni invenzioni come l’entrata in scena di Orson Welles, una silhouette oscura in un androne buio, improvvisamente illuminata dal fascio luminoso di una finestra soprastante che si apre. La luce rivela il volto imperscrutabile di Welles-Lime, un cumulo di candida neve in una tenebra impenetrabile, un volto che non dimenticheremo facilmente. Un’altra sequenza indelebile è il dialogo tra il redivivo Lime e Martin, sulla ruota panoramica. E’ qui che Lime declama la famosa metafora sulla Svizzera che in 5 secoli di pace e amore fu capace di partorire nient’altro che l’orologio a cucù, mentre l’Italia che nello stesso periodo visse guerre dilanianti, produsse geni del calibro di Michelangelo, Raffaello e Leonardo. Un’ultima menzione per la colonna sonora di Anton Karas: un inesauribile arpeggio di cetra che di variazione in variazione diviene una sorta di lisergico mantra, un affascinante compendio al mistero che si dipana attraverso la storia.

Il Terzo Uomo: un film di rara perfezione stilistica, una gemma preziosa nella storia della Settima Arte, un’opera straordinaria dell’ingegno umano.

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