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Royal Blood

Royal Blood

Un rock di sangue nobile

Partendo da un rock grezzo e trascinante, sorretto dal basso splittato di Mike Kerr e dalla batteria di Ben Thatcher (la sei corde non è contemplata), il power-duo di Brighton ha progressivamente affinato la sua proposta, intercettando atmosfere più stratificate e influenze dal miglior brit-rock degli ultimi decenni

di Andrea Campana

Mike Kerr e Ben Thatcher: due giovanotti inglesi apparentemente senza alcuna caratteristica notevole, che a metà anni 10 all’improvviso riscrivono le regole del rock. Lo fanno in un periodo nel quale il futuro del genere è in pericolo, mentre i giovanissimi sono affascinati più dal rap, dalla nascente trap e dall’R&B e mentre il pubblico più “anzianotto” aspetta ancora l’uscita del nuovo disco degli Ac/Dc ignorando beatamente tutta la realtà indie-rock che si è andata evolvendo in mille sfumature fin dall’inizio del millennio. E un po’ indie lo sono, i Royal Blood, ma anche molto stoner (una vena di Queens of the Stone Age si coglie benissimo), tanto alternative e un po’ pure hard-rock. Il loro è un suono moderno ma tradizionale al tempo stesso, fatto di energia e decisione, ma colmo pure di quella particolare sensibilità tutta millennial che percorre le vene delle produzioni musicali di tutta la loro generazione.

Kerr (basso, voce, classe 1990) e Thatcher (batteria, 1988; a proposito, uno dei più talentuosi drummer della sua generazione) si conoscono da adolescenti nei meandri di Worthing, nel West Sussex, una città che precedentemente non aveva cresciuto quasi nessun artista inglese celebre, fatta (notevole) eccezione per Billy Idol, che vi aveva trascorso la giovinezza negli anni 70. Una classica cittadina inglese portuale, sita non lontano da Brighton e affacciata sulla Manica. Un panorama ideale per la costruzione di un sound rock essenziale e diretto, imparentato (non troppo) alla lontana con il punk, fatto di durezza e decisione.
Anche se Kerr e Thatcher suonano insieme in una band, i Flavour Country (il primo vi suonava la tastiera e il keytar), già negli anni 00, la loro storia come Royal Blood comincia separatamente all’inizio del decennio successivo. Il gruppo si forma nel 2011 a Worthing, ma all’inizio comprende Kerr come bassista, Joe Dennis come chitarrista e Mike Swann come batterista. Thatcher non c’è. Nel 2012 il chitarrista lascia la band ed è allora che la caratteristica più peculiare del suono dei Royal Blood prende vita: la fusione del sound di chitarra e basso in un unico strumento, suonato da Kerr mentre pure canta, realizzato grazie al saggio ausilio di effetti, pedaliere e amplificazione specifica.

Kerr e Swann si trasferiscono temporaneamente in Australia, dove registrano una prima versione di quello che poi diventerà uno dei classici della band, “Come On Over”. Ma il successo non gli arride, e Kerr sceglie di tornare in Inghilterra. Leggenda vuole che a prenderlo all’aeroporto arrivi proprio Thatcher, e che quasi prendendolo come un segno del destino i due scelgano di continuare insieme sotto il nome Royal Blood ma sempre come duo e reiterando l’originale formula basso/chitarra studiata da Kerr.

Basso e batteria

All’inizio le cose non vanno bene e i due debbono vivere la classica gavetta che tocca a ogni gruppo rock che si rispetti e che costruisce la propria carriera dal vivo, nei locali. Incapaci di trovare chi è disposto a farli suonare, i Royal Blood si presentano inizialmente solo a competizioni open-mic, continuando nel frattempo a scrivere e a provare. Tutto cambia quando riescono a firmare con una sussidiaria della Warner e iniziano a essere rappresentati dallo stesso management team degli Arctic Monkeys. Ed è proprio Matt Helders a lanciarne la notorietà, infatti, indossando una loro t-shirt al Festival di Glastonbury nel 2013.
Il terreno è pronto e l’11 novembre dello stesso anno esce il primo singolo ufficiale dei Royal Blood: si intitola “Out Of The Black” e cattura subito un pubblico affamato di un rock giovane, fresco e incisivo.Come B-side, una versione ri-registrata di “Come On Over”, poi singolo a sua volta, che conferma le buone capacità di scrittura ed esecuzione dei due e contribuisce subito ad affermarli come realtà solida e in ascesa, costruita su salde radici di preparazione strumentale; elemento che del resto porta il duo a scontrarsi a viso aperto con una realtà musicale, quella di inizio anni 10, sempre più dominata da produzioni digitali, esecuzioni dal vivo con basi pre-registrate, correttori vocali e performance con strumenti analogici praticamente assenti. Il contrasto è vivo e lampante.

Seguono altri singoli, tutti tra le canzoni migliori di quello che sarà poi l’album d’esordio eponimo del duo. Sono “Little Monster”, “Come On Over”, “Figure It Out” e “Ten Tonne Skeleton”, queste ultime due tranquillamente elencabili tra le migliori canzoni rock del 2014. Kerr è il compositore di tutti i brani e di tutti i testi, e il suo stile come autore si coglie subito: coeso, coerente, tutto giocato su potenti ed essenziali riff, distorti quanto basta ma più incentrati su un ruolo fondamentale nella ritmica dei brani, di concerto con le parti di batteria di Thatcher. Il ritmo è in effetti la componente più importante del suono rock dei Royal Blood, che si esprime in canzoni veloci ma anche sincopate, incalzanti e intriganti nella costruzione di atmosfere oscure ma non troppo violente.

Riff, energia e cinismo

Il primo album, dal titolo eponimo Royal Blood, esce il 25 agosto 2014, in piena estate. Il pubblico ha già imparato a conoscerli con i videoclip dei primi singoli, quasi tutti incentrati su semplici performance dal vivo del duo in cornici ridotte come quelle di club e piccoli concerti, come a volerne sottolineare l’approccio musicale diretto e senza pretese, privo di fronzoli e di retorica ma lanciato verso una nuova espressione del buon vecchio, solido rock’n’roll. E la formula funziona, specialmente presso il nuovo pubblico millennial, in cerca di nuove icone del genere che siano anche loro contemporanee, ma anche per gli ascoltatori un po’ meno giovani in cerca di un suono rock classico energico e coinvolgente che non segua per forza, come si diceva poc’anzi, le ridondanti introspezioni malinconiche dell’indie.

La musica che i Royal Blood producono fin dal loro primo album (e che del resto fino ad oggi è rimasta più o meno la stessa, non avendo seguito un’evoluzione eclatante perché forte di una grande compattezza già di per sé) non si può dire esattamente originale, eppure risulta tale nel panorama di metà anni 10 e non solo per via dell’approccio innovativo di Kerr circa l’utilizzo del basso. Come si diceva, c’è tanto di Queens of the Stone Age nel loro sound, ma si avverte anche l’urgenza di un certo punk britannico - di una qualità tuttavia molto seriosa e audace, non quella scanzonata e “da pub” dei Libertines o dei Jam. La formazione a due, poi, riporta ad altri celebri attori della scena musicale come i White Stripes, ormai sciolti, e i Black Keys, invece sulla cresta dell’onda in quegli stessi anni. Entrambi questi sono poi complessi il cui stile si può legare a quello degli stessi Royal Blood anche per via dello schema ridotto in comune (sempre due strumenti suonati per volta, per forza di cose).

Kerr scrive testi che parlano di relazioni ma vissute con metafore forti che sanno di violenza (“Ho una pistola come bocca/ E un proiettile col tuo nome sopra”– “Out Of The Black”), nichilismo (“Non c’è un Dio/ E non mi importa davvero” – “Come On Over”) e auto-commiserazione velata di rancore (“Vorrei che mi importasse di meno/ Ma ho paura che non sia così/ Non potrebbe importartene di meno/ Quindi immagino che non ti importerà” – “Careless”). In “Ten Tonne Skeleton” una relazione passata e conclusa viene paragonata appunto alla carcassa di un inimmaginabile animale preistorico, tale dev’essere stata l’importanza del rapporto e l’impatto della sua fine. Il brano brilla nel disco per via specialmente del ritmo in sincope e del riff portante che ne sostiene l’atmosfera inquieta e quasi orrifica; la sua parte la gioca anche lo splendido video, costruito su immagini misteriose e altrettanto allarmanti, incentrandosi sulla paura del “non-visto”.
Menzione a parte merita “Figure It Out”, pezzo fortissimo con un ritmo esemplare, un riff semplice ma geniale e un finale fulminante. Si tratta del brano più esistenziale del disco (“Diventa difficile dormire/ Il sangue è nei miei sogni/ L’amore mi sta uccidendo/ Sto cercando di capirci qualcosa”), nel quale Kerr si presenta come una figura necessariamente astuta, cinica e scaltra, atteggiamenti adottati per contrastare le difficoltà della vita ed essere più furbi degli altri (“Ho rotto la mia scarpa/ Sono scivolato e sono caduto su di te/ Ma non sapevi che l’avevo pianificato”). Nel video, molto intelligente, vediamo una ragazza che vaga per la città non ricordando com’è finita lì o dove si trova; in realtà è stata rapita e l’atroce verità della sua situazione le sovviene appena in tempo per sfuggire al suo rapitore, in un contrasto alternato di filtri rosso e blu che rappresentano il suo confuso stato mentale. Una buona metafora per gli accenti sottili e freddi della canzone.

Il successo del primo disco è ottimo e impone da subito il duo tra le nuove realtà rock, facendo guadagnare loro diversi riconoscimenti e proiettandoli in fretta verso la celebrità: già a metà anni 10 i Royal Blood non riempiono esattamente gli stadi (non da soli, perlomeno), ma poco ci manca. Suonano con Iggy Pop e i Foo Fighters, a Glastonbury e al Reading Festival, lanciandosi in tour internazionali che li portano in tutta Europa e negli Stati Uniti, dove nel 2015 si esibiscono anche al prestigioso Coachella Festival, arrivando anche poi al celebre Rock in Rio in Brasile. Il disco arriva alla posizione numero uno della classifica nella chart rock di Stati Uniti, Regno Unito e in Irlanda (e alla numero 83 in Italia), conquistando anche top ten di Canada, Australia e Nuova Zelanda. Particolare impressione, al di là del sound solido del duo, fa anche l’estetica di copertina dell’album, realizzata dall’artista londinese Dan Hillier: rappresenta Pachamama, una parola quechua per indicare la Madre Terra. Il disegno evoca un senso di mistero, mentre lo stretto bianco e nero utilizzato, ripreso poi anche in futuro, ben riassume le sfumature di colori essenziali e dirette delle canzoni della band. Ciliegina sulla torta: il brano “Blood Hands” viene inserito nel blockbuster “The Divergent Series: Insurgent”, portando ancora ulteriore popolarità al duo.

Così oscuri?

Nel 2017 i tempi sono maturi per il secondo album, How Did We Get So Dark?, che si presenta con una cover altrettanto criptica nella quale si vedono due donne poste in modo da avere il volto coperto, una di fronte e l’altra girata, su due lati di quello che sembra un grande tavolo nero. Anche qui ricorre il tema del bianco e nero, a sottolineare la semplicità e la durezza della musica del duo. Il disco brilla con singoli come “I Only Lie When I Love You”, quest’ultimo sostenuto da un video accattivante che vede Kerr e Thatcher ripresi da diverse angolature in costante movimento, sfidando la forza di gravità. C’è poi “Lights Out”, nel cui video i due suonano in una stanza dalle cui pareti e soffitto iniziano a emergere varie figure che vi nuotano come se fossero in acqua. Video ambiziosi e chiaramente girati con budget più alto, che segnalano lo scatto di carriera dei Royal Blood e superano la dimensione puramente “live” ed essenziale rappresentata nei video basati sui singoli del primo album. Musicalmente, il secondo lavoro sulla lunga distanza poco si discosta dal primo: si sente molto di Josh Homme, molto di Jack White, qualcosa di Arctic Monkeys.
Le canzoni girano tutte attorno a solidi riff sui quali Kerr veleggia con una voce libera, melodica ma anche disincantata. Nella tracklist a emergere davvero è “She’s Creeping”, forse uno dei loro brani più sottovalutati in assoluto, che si distingue nel costruire un’atmosfera per una volta non semplicemente energica ma anche in qualche modo ironica e sarcastica. Il brano narra di un amore tossico e della dipendenza da una relazione, dalla quale è necessario finalmente emanciparsi. Canta Kerr: “Perché ho smesso di ascoltare/ Sto solo aspettando la risposta a una domanda che conosco già/ Ti deluderò” e “Le parole sono così economiche/ Ma di recente mi sono sentito come se vivessi sempre nella tua ombra/ Quando non sei attorno”. Più classico il tema affrontato in “Lights Out”, una canzone che racconta di una sofferenza dovuta a un amore perduto (“I miei occhi bruciano ancora di rosso/ Quindi spegni le luci/ Non sei così difficile da dimenticare/ Con tutte le luci spente), mentre “I Only Lie When I Love You” riprende la solita visione molto cinica delle relazioni attorno alla quale i Royal Blood e specialmente Kerr come paroliere costruisce molti dei suoi brani: “Mento solo quando ti amo/ Striscio solo quando cado a terra/ Piangi solo quando ti amo/ Mento solo quando emetto un suono”.
Tra gli altri brani si distinguono sicuramente “Where Are You Now?”, un pezzo dall’incedere quasi punk che però si decora di un ritornello con cambio di tempo e forte costruzione di atmosfera, dal quale più che mai emergono le sonorità dei Queens of the Stone Age; poi “Don’t Tell”, canzone più “lenta” e suggestiva rispetto alle altre, quasi sussurrata per così dire, e che nella performance vocale ricorda molto un Matt Bellamy, esprimendosi in interventi solisti di chitarra-basso alla Jack White; e “Hook, Line & Sinker”, bel brano hard-rock ritmato con forti riff che è forse quello che più troverebbe posto adeguato nel primo album della band anziché in questo. E c’è infine “Hole In Your Heart”, nella quale sentiamo per la prima volta una tastiera sfruttata per caratterizzare una strofa molto Arctic Monkeys, sottile e seducente, alternata a un refrain ben più duro e brutale.

In generale, l’album non aggiunge moltissimo allo stile sviluppato dal lavoro precedente ma si coglie chiaramente tra le righe una voglia di crescita, testimoniata dalla crescente complessità delle costruzioni di basso e specialmente dal notevole lavoro sulle armonie vocali compiuto da Kerr, che canta con sé stesso scoprendo le possibilità della sua ugola e sfruttandole sempre più in ampio contrasto con la robustezza del muro chitarra e batteria che sostiene tutto l’insieme strumentale. Concettualmente, come suggerisce il titolo, sembra riflettere sulla natura crescentemente “oscura” e perciò sprezzante e rancorosa dell’essere umano, la cui evoluzione è ovviamente legata alle imperfezioni delle relazioni (amorose e non) e del loro fallimento. Ma non c’è una pretesa di elaborazione filosofica: Kerr si limita a mettere in musica vari suoi pensieri e sfoghi, senza per forza individuare una soluzione.
L’album ottiene sempre un notevole successo in Gran Bretagna, Stati Uniti e in varie top ten (Olanda, Canada, Belgio, Australia, Nuova Zelanda), arrivando stavolta a una notevole posizione numero 29 in Italia. Nel frattempo la coppia intraprende nuovi tour di successo in Europa e negli Stati Uniti, quest’ultimo non a caso in varie date anche a fianco dei Queens of the Stone Age.

Tifoni

Un chiaro salto in avanti nelle sonorità del duo si coglie con Typhoons, il terzo album che esce nel 2021. Già fin dal primo brano, “Trouble’s Coming”, il suono appare rinnovato, fresco, più levigato e decorato da una produzione più colorata. Questo si deve certamente a un cambio di personale dietro al mixer, laddove il produttore dei primi due album, Tom Dalgety (che ha lavorato anche con Pixies e Band Of Skulls, tanto per dare un’idea) lascia il posto a Paul Epworth (Bloc Party, Maxïmo Park, Foster The People) e soprattutto a quella che è di fatto ormai una figura tutelare per il duo: proprio Josh Homme, invitato stavolta a curare direttamente il suono dell’album dei suoi discepoli. Anche la copertina, che per la prima volta invita la presenza di colori superando lo schema bianco e nero dei dischi precedenti, segnala l’inspessimento del sound della band alla ricerca di una gamma di suoni più vasta e aperta. Vediamo una specie di istantanea di una bacchetta di batteria che viene fatta girare, creando una sorta di effetto visivo circolare riempito in punti specifici con sfumature rosse e blu. Un’immagine che suggerisce tutta una nuova dinamicità, sposata dal duo nel nuovo album, al confronto della quale i brani “vecchi” suonano in effetti un po’ ingessati e troppo composti.
Questa rinnovata dinamicità viene collegata dai critici anche ai suoni di alcune produzioni dei Daft Punk (pensiamo a “Harder, Better, Faster, Stronger”, per esempio), e il riferimento non è sbagliato. Allo stesso tempo va ricordato che all’alba degli anni 20 il nuovo rock inglese si è ormai evoluto: consolidata la propria posizione all’interno del genere, i Royal Blood, in quanto millennial, sentono l’urgenza di tentare cose diverse e non si creano problemi a contaminare il proprio stile con influenze anche non strettamente legate alle sei (o meglio, quattro) corde. Beninteso, sempre di rock parliamo: ma il lavoro su una ritmica più fantasiosa (si sente bene in “Who Needs Friends”, con percussioni atipiche per il duo) e su composizioni più vivaci è chiaramente il risultato di una volontà di espansione che è anche e soprattutto sinonimo di maturità.
Sembra poi che buona parte della scrittura del disco sia il risultato di un difficile periodo di ricerca di sobrietà da parte di Kerr, rimasto semi-distrutto dopo la stagione di costante baldoria in tour con i QOTSA. E proprio le influenze “disco”, esplose con la scrittura del terzo album, rappresentano secondo il batterista Thatcher la via d’uscita dall’impasse creativo, in grado di aiutare Kerr nella sua ripresa e anche nella sua maturazione come autore. Un esempio di come guardare oltre i propri limiti e le proprie convinzioni spesso possa portare a risultati eccezionali.
Di conseguenza, l’ispirazione concettuale del disco varia rispetto al passato: non più amari commenti su relazioni d’amore fallite, ma riflessioni sulle difficoltà della vita, sull’immobilità e su come superarla affrontando gli ostacoli e accogliendo il cambiamento. In “Million And One”, per esempio, Kerr canta: “Tutto quel tempo ero fuori controllo/ Tutto quello che volevo era che qualcuno mi portasse a casa/ Tutte quelle notti mi sentivo solo/ Tutto quello di cui avevo bisogno era di qualcuno in un milione e uno”; in “Trouble’s Coming”: “Lascio che i miei demoni mi intrappolino e mi soffochino su di me/ Non posso riempire questi buchi che sto scavando/ Non posso fermare il mio cuore quando sta affondando/ Ma se potessi, lo farei”; in “Typhoons”: “Ho bisogno di svegliarmi/ Dovrei affrontare la realtà/ Potrei calmare la tempesta/ Se lo volessi”; e in Boilermaker, forse la miglior canzone dell’album: “Stavo cercando qualche tipo di salvatore/ Qualcuno che ancora contasse sul mio comportamento peggiore”. In questo senso i “tifoni” menzionati nel titolo sembrano rappresentazione di una serie di veri e propri turbamenti emotivi che, come trombe d’aria, coinvolgono l’individuo (Kerr) contro la sua volontà costringendolo a trovare un equilibrio che sia anche una via di fuga dalle forze impetuose e distruttive della sua emotività.
A livello di suoni, l’album si presenta molto ritmato e quasi “danzereccio” si potrebbe dire, con una grande enfasi sulla costruzione di riff distorti ma anche veloci che ben si incastrino con i ritmi sostenuti e stratificati costruiti da Thatcher. “Trouble’s Coming”, “Oblivion”, “Typhoons” e “Boilermaker “sono tutti esempi di questo nuovo approccio più ricercato. “Million And One” è forse il brano più “elettronico” del disco (sia detto preso con le pinze), con un ruolo molto importante giocato dalle tastiere, mentre “Limbo” si presenta come pezzo piuttosto riflessivo, atmosferico e suggestivo, sintomatico di una ricerca sonora più sottile e meno scontata. “Mad Vision” suona forse più come un brano dei Justice che come uno dei Daft Punk, molto plastico e foriero di una certa sensibilità indie-rock; in chiusura, invece, una vera e propria ballad pianistica, la prima vera canzone pensata come tale nella storia del gruppo e che perciò si distingue nettamente dalle altre, con la voce di Kerr che giunge in echi con un cantato emotivo e un arrangiamento nebbioso e quasi ipnotico. Un album che è in definitiva un piccolo grande esperimento, che potrebbe anticipare per il futuro l’adozione da parte del duo di suoni ancora diversi e imprevedibili, un’evoluzione che lascia mille porte aperte.

Acque profonde

Una di queste porte dà verso l’interno, come risulta evidente all’uscita del quarto album, Back To The Water Below, nel 2023. Se il terzo è il disco dei turbamenti emotivi e delle tempeste umorali, il quarto è finalmente il disco dell’introspezione, della malinconia e della titubanza. Sì, perché è come se Kerr e Thatcher per la prima volta davvero un po’ si fermassero a guardare sé stessi, e la direzione che la loro musica sta prendendo. Il nuovo lavoro contiene ben poche tracce (seppur ragguardevoli) che seguono lo stile stoner classico del duo; la maggior parte delle canzoni sperimentano invece con toni acustici, arrangiamenti nebulosi, suoni pieni e wall of sound in cui trovano posto per la prima volta ampiamente anche pianoforte, chitarra acustica, sottili orchestrazioni persino. Da qualche parte, nel mezzo, spuntano ispirazioni che richiamano i Radiohead di “The Bends” (in “The Firing Line”) o i primi Muse, oppure gli Arctic Monkeys di “Tranquility Base Hotel + Casino” (in “There Goes My Cool”); e spostandosi lateralmente i due riscoprono anche le proprie radici inglesi in canzoni che si potrebbero definire prettamente brit (forse non “pop”, ma magari “rock”) come “How Many More Times”, che potrebbe essere un pezzo di uno dei due Gallagher (Liam, forse) o “High Waters”.
La parte rock più “brutale” si concentra specialmente nelle due canzoni d’apertura, “Mountains At Midnight” e “Shiner In The Dark”, e al centro della tracklist in “Tell Me When It’s Too Late” e “Triggers”; brani ottimi che di certo soddisfano la fanbase e i seguaci della prima ora, ma che allo stesso tempo rendono chiaro come non sia questa la direzione nella quale ai due interessa procedere. Sull’album infatti una dichiarazione del duo riporta: “Volevamo ricordarvi chi siamo e che cosa facciamo prima di trascinarvi giù per la tana del coniglio con noi”; laddove la tana del coniglio rappresenta un’immersione in un mondo di dubbi, incertezze, esitazioni e passi incerti, sicuramente non propria di un gruppo rock energico e aggressivo come questo. Che, in tal senso, compie una chiara evoluzione: Kerr, in particolare, si erge a songwriter con una visione ora più ampia, aperta, rifiutando di farsi limitare da riff ombrosi e ritmiche serrate, disposto a scoprire e ad abbracciare tutto un mondo di suoni nuovi pur di poter esprimere quello che vuole. Cioè, spesso, esplicite richieste d’aiuto. Significativa in questo la traccia di chiusura, “Waves”, nella quale il bassista/ cantante/polistrumentista canta: “Ma dove andrei? Che cosa prenderei?/ Se mai mi trovassi a scivolare via/ Non lasciarmi soffocare come se non fossi nulla da salvare/ Se mi perdessi giù sotto le onde”; oppure, in “Pull Me Through”: “Affondando verso il fondo/ Perso ma non dimenticato/ Giù per andare ancora/ Il cuore che oscilla come un sacco da boxe/ Aspetto che tu/ Mi trascini oltre”.
Nell’album non a caso il tema delle acque e degli oceani ricorre spesso, a partire dalla copertina che rappresenta una medusa che brilla nel buio (o, sempre, nelle liriche: “Sul precipizio, sopra l’abisso/ Oceani oscuri si infrangono/ Mi inghiottono per intero” - “How Many More Times”) e l’acqua come elemento torna particolarmente utile nel metaforizzare una situazione incerta, impervia ma allo stesso tempo ben più quieta e pacata rispetto ai tifoni affrontati in precedenza.

Dopo la tempesta la calma, insomma, e possiamo immaginarci che queste oscure acque siano il risultato, nella loro essenza palustre e stagnante, proprio di rimestamenti imprevisti portati da quei venti e da quelle nubi. Se il vento è qualcosa contro cui resistere, contro cui lottare e il cui impeto va imbrigliato, le acque al contrario sono qualcosa da cui uscire ma anche qualcosa da imparare a conoscere, scoprendo come nuotarci dentro per non annegare e restare a galla. Concetto che risulta evidente nella scelta dei Royal Blood di produrre questa volta l’album da soli, in duo, senza l’ausilio di alcun collaboratore esterno. Non può che risultarne quindi un lavoro estremamente personale, nel quale a emergere (usiamo il verbo appositamente) sono soprattutto le qualità da songwriterdi Mike Kerr e la sua visione di un percorso, per i due, diverso da quello seguito in precedenza e fatto di esplorazioni, ricerche, aperture. Difficile dire se questa per loro sia solo una fase di passaggio, l’inizio di qualcosa di nuovo o la fine di qualcosa di vecchio. La cosa evidente è che i Royal Blood hanno superato sé stessi, evitando di restare incastrati tra i nomi rock revival inglesi minori e aspirando, ora, a una musica inedita che ancora non si scorge completamente ma, dando tempo al tempo, sicuramente arriverà.

 

Royal Blood

Discografia

Royal Blood (Black Mammoth, Warner Bros, 2014)
How Did We Get So Dark? (Black Mammoth, Warner Bros, 2017)
Typhoons (Black Mammoth, Warner Bros, 2021)
Back To The Water Below (Black Mammoth, Warner Bros, 2023)
Pietra miliare
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