Spartacus

Spartacus

di

Tonitruante racconto della più celebre ribellione degli schiavi contro il potere romano, Spartacus è anche il tentativo di rinnovare la politica hollywoodiana dell’immagine lavorando sull’epica classica. Voluto fortemente da Kirk Douglas, che licenziò Anthony Mann dopo una settimana di riprese per affidare il compito a Stanley Kubrick, il film è sceneggiato da Dalton Trumbo, all’epoca dei fatti ancora sulla lista nera per le attività anti-americane. Spettacolo annichilente e così roboante da essere in parte superficiale, Spartacus è innervato tanto dall’invettiva libertaria di Trumbo (e del romanzo d’origine di Howard Fast) quanto dalle qualità pittoriche e dinamiche di Kubrick, che pure non si sentì a suo agio sul set.

Io sono Spartaco!

Nel 73 a.C. il gladiatore trace Spartaco promuove una rivolta di schiavi contro il governo di Roma, sconfigge una legione e si dirige verso il sud. E sconfitto dall’armata di Crasso che fa crocifiggere seimila schiavi sulla via Appia. [sinossi]

Nel finale di Spartacus Varinia, passando con il carro che la sta portando al sicuro nel luogo in cui è stato crocifisso l’amato Spartaco, gli mostra il figlioletto che lui, come aveva annunciato ad Antonino nel momento della morte di quest’ultimo, non vedrà mai crescere. In questa scelta conclusiva, per paradosso, si possono finalmente congiungere tutte le varie anime e teste che fino a quel momento hanno portato avanti la narrazione. Sì, perché quello che resta a oltre sessant’anni dalla sua realizzazione il miglior peplum della storia di Hollywood – migliore per ambizione, migliore per resa cinematografica, migliore per tentativo di stratificare il racconto – è un’idra a quattro teste, sempre in lotta intestina tra di loro. La prima di queste teste è anche quella che svanisce con maggiore rapidità dalla produzione: il film nasce infatti da un romanzo dato alle stampe da Howard Fast nel 1951, ennesimo racconto di liberazione dalla schiavitù dello scrittore newyorchese dopo L’ultima frontiera (1941), dedicato alle popolazioni cheyenne che tentarono di riprendere possesso delle terre che gli erano state sottratte, La via della libertà (1944), incentrato sulla dura vita degli ex schiavi nelle piantagioni di cotone del Sud al termine della Guerra di Secessione, e prima di Gli emigranti, che nel 1977 si muoverà attorno al peregrinare disperato delle famiglie italiane ed ebree dopo il crollo di Wall Street nel 1929. Coinvolto in un primo momento per collaborare alla sceneggiatura, Fast in realtà si defila in fretta e furia, non riuscendo a lavorare nel contesto produttivo hollywoodiano. La seconda testa è ovviamente quella di Kirk Douglas, che dopo aver subito lo smacco di non essere stato scelto da William Wyler come protagonista di Ben-Hur (al suo posto ottenne la parte Charlton Heston), acquistò i diritti del romanzo di Fast con l’intenzione di cucire il film facendolo aderire al proprio fisico. Lo produsse, con piglio da dominatore assoluto, licenziando ad esempio in tronco Anthony Mann, primo regista messo sotto contratto, dopo solo una settimana di riprese. La terza testa appartiene a Dalton Trumbo, contrattualizzato come sceneggiatore nonostante il suo nome figurasse tra i reietti delle liste nere maccartiste: inizialmente intenzionato a firmare il film con uno pseudonimo, Trumbo trovò il suo nome sui titoli di testa per volere diretto di Douglas, un atto che contribuì a sgonfiare l’insostenibile clima d’odio verso i simpatizzanti comunisti. La quarta testa è proprio quella di Stanley Kubrick, assoldato dopo l’interruzione del rapporto con Mann e all’epoca neofita per quel che riguardava i film a budget sostenuto: il trentenne regista era abituato a lavorare su cifre inferiori al milione di dollari, come era valso anche per Orizzonti di gloria, sul cui set Douglas aveva potuto saggiare le sue qualità artistiche.

Le quattro teste entrarono ben presto in contrasto tra di loro, e questo conflitto perenne in qualche modo attraversa Spartacus, e non necessariamente in veste negativa. Il fremito della lotta è l’anima portante del film, un film che contrariamente all’epos uniforme che di solito contraddistingue il genere vive altresì di contrasti: contrasti tra i personaggi, contrasti interiori, contrasti di luce e di scelte di campo. Se Kubrick mal sopportava il decisionismo di Douglas, che di fatto pensava di manovrare il regista a suo piacimento – e questa diatriba porterà Kubrick a disconoscere il lavoro finale, per quanto sia possibile riscontrare con una certa evidenza la sua mano nella tessitura cinematografica dell’opera –, e allo stesso tempo non comprendeva fino in fondo la scelta manichea di Trumbo nella rappresentazione dei personaggi (è forse utile notare come lo stesso Howard Fast fosse un comunista, inviso alle autorità statunitensi al punto da vedersi riconoscere nel 1953 il Premio Stalin per la Pace), tutto questo appare solo casualmente sullo schermo. Certo, si avverte come si scriveva dianzi la presenza di più cervelli pensanti, ognuno teso verso la propria direzione, ma proprio la sequenza conclusiva permette di cogliere un’unità d’intenti magari neanche dichiarata ma persistente, e fruttifera. A partire dalle sue origini letterarie fino a giungere alla sua compiutezza espressiva attraverso l’immagine, Spartacus è l’epitome di un mondo in sommovimento. I comunisti Fast e Trumbo scrivono un testo – dapprima puramente romanzato, quindi cadenzato nel ritmo del racconto cinematografico – che l’anarchico Kubrick trasforma in immagine e il progressista Douglas incarna. La storia di schiavi in rivolta nella cosiddetta “terza guerra servile” diventa immediatamente la metafora di una Hollywood in subbuglio, che sfruttando l’epica classica del racconto eroico cela in realtà la volontà di riflettere sul futuro della macchina industriale, e sulla necessità di democratizzarla. Douglas/Spartaco diventa dunque la metafora di un’America che ha bisogno di trovare una nuova dimensione, elevando lo schiavo al livello del padrone e di fatto annullando le distanze tra le classi.

Questo grido di battaglia risulterà a conti fatti ben presto soffocato, al punto che Fast continuerà a essere guardato di sbieco, Trumbo verrà assoldato solo su progetti saltuari (una decina di sceneggiature nei successivi sedici anni, prima del colpo apoplettico che lo condurrà alla morte nel 1976), e Kubrick dopo il pessimo clima creatosi attorno al suo successivo film, il Lolita desunto da Nabokov, espatrierà in Inghilterra. Un po’ come la rivolta capitanata da Spartaco, a ben vedere, anche il grido di libertà del film troverà una risposta dura e incontrovertibile nei grandi hangar di Los Angeles. Trumbo, che ricevette un plauso unanime dalla critica per la qualità della sua scrittura, vede nel protagonista della pellicola un eroe senza macchia e senza paura, un incorruttibile, così santo da meritare perfino la morte in Croce. La sua pena capitale è in qualche modo una sacralizzazione della lotta svolta fino a quel momento. In questo senso, e in questa chiave di lettura, è difficile trovare in Spartacus riflessi kubrickiani: mancano le zone d’ombre, manca lo struggimento e il senso di colpa atavico dell’eroe, la sua fallacia, l’ambiguità del Tempo e della Storia. Così Kubrick è “costretto” a riversare questi chiaroscuri dapprima sulla messa in scena – le sequenze di battaglia sono così cruente da apparire aliene in un contesto come quello della Hollywood ancora lontana dalla rivoluzione new del 1960 –, e quindi sui due rapporti amorosi del protagonista, quello con la bella Varinia e quello con il figlioccio Antonino, suo fedele sodale la cui relazione con Spartaco nasconde solo in modo superficiale una profonda tensione omoerotica. Ciò che viene negato nella sfera pubblica, dove Trumbo e Douglas pretendono la tonitruante potenza dell’eroe fatto e finito, Kubrick se lo riprende – almeno in parte – nell’intimo, nel privato, nella riduzione di un atto collettivo alle pieghe dell’individuale, passaggio filosofico e antropologico ineludibile per il regista, da Orizzonti di gloria a Full Metal Jacket, passando per il picaresco attraversamento del Diciottesimo Secolo compiuto in Barry Lyndon. Nel suo testo cinematografico più strettamente connesso all’universo hollywoodiano, e dunque intessuto nel cuore pulsante dell’industria, Kubrick testimonia in ogni sua scelta di messa in quadro la distanza con l’ideologia hollywoodiana in primis e di conseguenza statunitense: nell’ennesimo racconto della conquista della wilderness Kubrick si tiene a distanza, troppo scettico nei confronti del progresso dell’umano in grado di superare le proprie ataviche debolezze. Questa perenne opposizione tra l’immagine kubrickiana e le volontà di Douglas si dimostra una volta di più terreno fertile per un’opera che nelle sue tre ore di durata non assomiglia a niente, né sotto il profilo dell’imponenza pittorica – appena trentenne Kubrick dimostra di saper gestire senza eccessivi patimenti il faraonico budget di 12 milioni, al punto da mettere in riga il ben più esperto direttore della fotografia Russell Metty (Susanna! di Howard Hawks, L’orgoglio degli Amberson, Lo straniero,e L’infernale Quinlan di Orson Welles, I forzati della gloria di William A. Wellman, molto cinema di Douglas Sirk, Gli spostati di John Huston) costringendolo ad assecondare i propri desideri: Metty, restio e borbottante, si ritroverà qualche mese dopo con un Oscar in mano, l’unico della sua carriera –, né nelle sue ambizioni politiche. A riverberare è anche e forse soprattutto Kirk Douglas, la cui figura di paladino delle giuste cause assume dopo questo film contorni quasi monumentali. Mentre lo spettacolo annichilente di Douglas/Spartacus si erge all’orizzonte, quasi in una dimensione prospettica da realismo socialista, in alcuni dei primi piani di Kubrick sembra già di udire qualcuno bisbigliare “Lolita, luce della mia vita, fuoco dei miei lombi. Mio peccato, anima mia. Lo-li-ta: la punta della lingua compie un breve viaggio di tre passi sul palato per andare a bussare, al terzo, contro i denti. Lo-li-ta”. Ma questa è un’altra storia.

  • spartacus-1960-stanley-kubrick-03.jpg
  • spartacus-1960-stanley-kubrick-02.jpg
  • spartacus-1960-stanley-kubrick-01.jpg

Articoli correlati

Array
  • Buone feste!

    Il dottor Stranamore recensioneIl dottor Stranamore – Ovvero: come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare la bomba

    di Stanley Kubrick entra in conflitto con il suo Paese raccontando la Guerra Fredda ne Il dottor Stranamore, il cui sottotitolo Ovvero: come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare la bomba traccia in profondità l'approccio ludico al contesto.
  • Buone feste!

    arancia meccanica recensioneArancia meccanica

    di Arancia meccanica, il più ipercinetico, delirante e lisergico dei film diretti da Stanley Kubrick, è anche forse il più tetro, quello maggiormente privo di speranza. L'individuo umano è vittima dalla società perfino quando ne è il carnefice.
  • Buone feste!

    barry lyndon recensioneBarry Lyndon

    di Barry Lyndon, che trae la sua ispirazione dal romanzo picaresco di William Makepeace Thackeray, è il modo con cui l'uomo del 2001 Stanley Kubrick sceglie di entrare in connessione con il Secolo dei Lumi, rappresentandolo ben poco illuminato e già-morto, immobile come i paesaggi ritratti dai pittori dell'epoca.
  • #tuttiacasa

    full metal jacket recensioneFull Metal Jacket

    di Dodicesimo e penultimo lungometraggio diretto da Stanley Kubrick, Full Metal Jacket riporta a uno dei temi portanti della filosofia del regista statunitense, la guerra intesa non come atto bellico tra Stati ma come immersione del singolo nella dialettica fra realtà ed elemento allucinatorio.
  • Venezia 2019

    Eyes Wide Shut

    di A venti anni dalla sua realizzazione tornare a guardare, a occhi chiusi/aperti, Eyes Wide Shut significa anche cercare di rintracciare l'essenza dell'esperienza cinematografica di Stanley Kubrick, il lascito ereditario di un cinema oltre lo spazio e il tempo, immortale in ogni suo dettaglio. Alla Mostra di Venezia.
  • Cult

    Shining RecensioneShining

    di L'incursione di Kubrick nell'horror parte da una rilettura a dir poco personale del romanzo di King, che infatti disconobbe l'adattamento. Un'opera fondamentale per comprendere il senso dell'essere cinematografico di Kubrick, riflessione sullo spazio che diventa reinterpretazione del tempo.
  • Saggi

    Il concetto di Spazio e Tempo nel cinema di Stanley Kubrick

    Dall'osso che si trasforma in astronave in 2001 fino alla New York irreale di Eyes Wide Shut, un'analisi del rapporto tra Spazio e Tempo nel cinema di Stanley Kubrick.
  • DVD

    Fear and Desire RecensioneFear and Desire

    di quella che abbiamo tra le mani non è un’edizione extralusso ricca di contenuti speciali, ma mai come ora ci sentiamo di dire che è meglio così. In questo caso l'extra è il film stesso, una chicca mai vista in Italia, se non in circuiti clandestini.