"La debolezza dell'America rafforza i regimi autoritari". Intervista a Marta Dassù - HuffPost Italia

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"La debolezza dell'America rafforza i regimi autoritari". Intervista a Marta Dassù

ansa/getty
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“Non c’è dubbio che l’assalto a Capitol Hill abbia leso l’immagine internazionale degli Stati Uniti: un attacco al cuore dei valori democratici del mondo moderno, non dall’esterno ma dall’interno, e in qualche modo avallato dal presidente americano”. Marta Dassù, direttrice di Aspenia e senior director of European Affairs presso The Aspen Institute, commenta con HuffPost l’impatto internazionale del giorno più buio della democrazia americana. Una notte che ancora non è finita, come dimostra la cronaca di queste ore, con la speaker della Camera Nancy Pelosi che fa sapere di aver parlato con i vertici militari “per discutere le precauzioni disponibili per impedire a un presidente instabile di avviare ostilità militari o accedere ai codici di lancio e ordinare un attacco nucleare”.

Le immagini dell’assalto dei sostenitori di Trump a Capitol Hill hanno scioccato il mondo. In che misura questi eventi segnano la credibilità dell’immagine degli Stati Uniti come ‘faro’ della democrazia?

“Per i regimi autoritari, l’insurrezione contro il Congresso dimostra che l’America non è più in grado di dare lezioni di democrazia a nessuno. Per le democrazie europee, la preoccupazione è che l’amministrazione Biden sia costretta a occuparsi solo dell’America stessa, per risanare le sue fratture sociali e politiche, e che ciò ne danneggi la proiezione internazionale. Dopo lo shock di Capitol Hill, si potrà rafforzare il ripiegamento interno dell’America, prospettiva che per i rivali autoritari degli Stati Uniti è benvenuta e che per i loro alleati democratici è invece preoccupante. Il danno di immagine internazionale c’è stato. Ma va aggiunto un punto fondamentale: le istituzioni americane hanno reagito, anche con un contributo rilevante dei Repubblicani. È decisivo che il Congresso abbia deciso di ratificare i risultati elettorali nella notte stessa degli incidenti di Washington. E che Donald Trump abbia dovuto finalmente accettare la transizione “ordinata” del potere a una nuova amministrazione. La salute di una democrazia non si misura dai rischi che corre ma dalla capacità di risposta. La democrazia ferita di oggi può anche diventare più solida dopo una prova del genere”.

Dalla Cina alla Russia, passando per la Turchia, l’assedio del Campidoglio è stato condannato con una malcelata soddisfazione dai rispettivi governi. Sono state risposte identiche o diverse?

“Non sono state risposte identiche, al di là della comune soddisfazione che lei ricordava. La Cina ha comparato l’assalto a Capitol Hill alle proteste di Hong Kong del 2019. Per Pechino, si tratta sempre e comunque di una sfida diretta fra superpotenze. E ogni crisi degli Stati Uniti, a cominciare dalla crisi finanziaria del 2008, ha aumentato la fiducia della Cina in se stessa. Il rischio è un eccesso di “confidenza”, che significa poi una spirale nazionalista. La Russia è stata forse più sottile: la portavoce del Ministro degli esteri ha messo in dubbio gli standard democratici degli Stati Uniti, sottolineando che il sistema elettorale è “arcaico” e invitando l’America, “nazione amica”, a “vivere con dignità questo momento drammatico della propria storia”. Mosca ha insomma usato la crisi americana per rivolgere un messaggio implicito di apertura a Joe Biden”.

E la Turchia?

“La Turchia, paese alleato della NATO, ha utilizzato la crisi per consumare una sorta di vendetta fredda rispetto ai molti moniti venuti in questi anni da Washington. Il Ministero degli esteri turco ha infatti utilizzato, parafrasandole, le stesse parole che l’America ha rivolto più volte ad Ankara: “Invitiamo tutte le parti negli Stati Uniti ad agire con moderazione e senso comune.

Come si vede sono state risposte diverse: competizione fra pari nel caso di Pechino, gesto distensivo da Mosca e monito “rovesciato” da Ankara. Nell’insieme, la debolezza della principale democrazia occidentale è un rischio per le sorti del sistema internazionale perché rafforza in un modo o nell’altro le alternative autoritarie”.

Mercoledì, durante l’assedio, il presidente eletto Joe Biden ha dichiarato: “il mondo ci sta guardando”. In realtà, il mondo stava guardando da molto prima. Un sondaggio realizzato a luglio dal Pew Research Center - nel mezzo della pandemia, delle proteste per la giustizia razziale e della campagna elettorale - ha rilevato che in 13 paesi alleati una media di appena il 34% considerava positivamente gli Stati Uniti. Biden ha centrato la sua agenda di politica estera sulla promessa di risanare l’immagine globale degli Usa mettendo l’America al centro di una rete di Alleanze. Quanto è in salita la strada che lo attende?

“La strada è sicuramente in salita. Faccio solo un esempio. Joe Biden ha dichiarato che l’America intende organizzare un “summit delle democrazie”. La tesi è che, in epoca di “recessione democratica”, le democrazie liberali vadano rafforzate da una sorta di vincolo esterno e non solo dall’interno. Bruxelles ha accettato. Ma uno schema ideologico troppo rigido “democrazie contro autoritarismo” non convince particolarmente la Germania, che vuole difendere i propri interessi economici globali e teme che questo impianto favorisca per contrasto un’alleanza stabile fra Cina e Russia. La maggioranza dell’opinione pubblica europea ha ormai scarsa fiducia nel modello di democrazia degli Stati Uniti, e tanto più dopo Capitol Hill. Ricostruire una leadership americana su questo, come Joe Biden vorrebbe, richiederà tempo e non è detto che riesca. Gli europei dovranno assumere maggiori responsabilità che in passato e diventare pro-attivi su un tema così delicato”.

Cosa cambierà per la Cina con la nuova amministrazione? Xi avrà ‘nostalgia’ di Trump?

“Il contenimento della Cina, la superpotenza sfidante, è l’unico vero punto di accordo nell’America di oggi. Joe Biden lo terrà comunque al centro della sua agenda di politica estera; e cercherà su questo appoggi in Europa e nelle democrazie asiatiche. Dal punto di vista di Pechino, Biden sarà un interlocutore più prevedibile di Donald Trump, cosa che potrebbe essere un vantaggio; ma se il nuovo presidente americano riuscirà a costruire una coalizione internazionale per contenere la Cina, le pressioni sulla Repubblica popolare cinese aumenteranno. In qualunque scenario, la “guerra fredda hi-tech” fra Cina e Stati Uniti, largamente giocata sulla competizione tecnologica, dominerà i prossimi decenni. Obbligando l’Europa a scelte non facili”.

La crisi della democrazia americana consegna una lezione a noi europei? Se sì, quale?

“La crisi interna degli Stati Uniti dimostra che la salute di una democrazia non è fatta solo del rispetto di regole formali ma anche dell’accettazione di regole informali, in questo caso l’accettazione di una sconfitta elettorale. Quando questo equilibrio si rompe, l’edificio democratico si incrina. L’Unione europea ha già le sue tendenze illiberali, come dimostrano i casi di Polonia e Ungheria. Lo shock americano dimostra inoltre che la difesa della democrazia comincia a casa, ed è un esercizio continuo rispetto a cui non esistono facili scorciatoie. Il Partito repubblicano ha cercato di utilizzare Donald Trump per rafforzarsi; per un po’ ha funzionato ma alla fine il Grand Old Party ne è rimasto schiacciato. Ed oggi è drammaticamente diviso. Sono insomma ricette che non possono funzionare. Infine, e certo non in ultimo, la forza che manterrà negli Stati Uniti il “trumpismo senza Trump”, indica il rischio politico che si apre quando una parte importante della società si sente emarginata e penalizzata; e quando i paesi si spaccano a metà, perdendo un terreno di incontro comune”.

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