“Io c’avevo un avvenire. Io ero un combattente nato. Io potevo diventare qualcuno. M’hai fatto diventare un povero disgraziato, questa è la verità. Sei stato tu, Charlie”.

Solitamente, nel panorama dei biopic la storia tipica prevede che il protagonista, una volta assurto alla fama dopo molti sacrifici e sofferenze, venga trascinato all’interno di un circuito vizioso e viziato, scoprendo il marcio dell’industria che rappresenta. Ciò ne corrompe l’anima innocente e lo conduce, infine, alla decadenza psicofisica, decadenza dalla quale questi inevitabilmente si riscatterà comunque in un momento di finale e trionfante catarsi (per sé stesso ed il pubblico). Ciò, ovviamente, prima che i titoli finali scorrano rivelandoci in quale maniera tragica la sua vita sia terminata.

Toro scatenato (Martin Scorsese, 1980), riportato in sala da Lucky Red dall’8 al 10 maggio, occupa un posto interessante in questo panorama di narrazioni in fondo ottimistiche. Questo a causa della particolarità del suo protagonista e della sua vicenda personale.

Un finale già scritto

Jake LaMotta è il rinomato pugile interpretato da un Robert De Niro da Oscar. Il biopic a lui dedicato racconta la sua ascesa, culminante con la vittoria del titolo di campione mondiale dei pesi medi. Il film passa poi al suo colossale (ed inevitabile) tracollo, che lo porterà ad abbandonare lo sport, a fare da cabarettista in locali di terz’ordine ma, soprattutto, a perdere tutti i suoi cari.

Tuttavia, al contrario di tanti altri protagonisti del genere, Jake non è mai una figura che vuole fungere da ispirazione, o descritta come positiva, neppure all’inizio della narrazione. Non per niente, le sue prime immagini che vediamo dopo gli evocativi titoli di testa sono quelle successive al tracollo, mentre è intento a recitare un monologo che presenterà durante il suo prossimo spettacolo. Sin da subito, Toro scatenato ci mostra quale sarà il destino dell’ “eroe”, senza illuderci, senza prometterci un finale positivo: questo è l’unico esito possibile, ed è già in preparazione da molto.

Infatti, tornati indietro nel tempo, al primo incontro professionale di Jake e a ciò che ad esso segue, abbiamo modo di inquadrare il protagonista. LaMotta è sicuro di sé e delle sue abilità in quanto pugile e le vanta con fare tronfio (afferma addirittura di sapere di essere meglio dei pesi massimi). Dove altrove la determinazione e la consapevolezza del proprio valore sarebbero elementi di vantaggio per il personaggio principale, col trascorrere del film l’ego di Jake, nutrito dalle proprie vittorie, lo porterà ad assumere un atteggiamento di onnipotenza che lo condurrà alla disfatta.

È anche irascibile nei confronti dei suoi cari e prono a scatti d’ira, altro elemento che, nel corso del film, andrà soltanto esacerbandosi. Il trattamento che riserva alla prima moglie, infatti, con cui le cose sono già in crisi ad inizio film, non è in fondo diverso da quello che poi spetterà alla seconda, Vicky (Cathy Moriarty). Una volta terminato l’idillio iniziale, infatti, Jake diverrà geloso a livello patologico ed a causa di tale gelosia arriverà a picchiare (ripetutamente) non solo Vicky ma anche suo fratello Joey (Joe Pesci), credendo che abbia dormito con lei.

Altro elemento “preparato” dall’inizio del film è poi la sua propensione a sedurre ragazze molto più giovani di lui, sfruttando la sua posizione di potere per favori sessuali. Verso la fine del film, infatti, Jake viene accusato da una ragazza quattordicenne di averla introdotta al giro della prostituzione, accusa che lo porterà ad un periodo in carcere. Va ricordato che Jake ha conosciuto e cominciato a frequentare Vicky quanto questa aveva 15 anni e lui 23. 

Il finale, da questo punto di vista, non lascia margini di interpretazione né per quanto riguarda la situazione estremamente critica in cui il protagonista riversa, né su chi sia il colpevole di tutto ciò che di negativo gli è accaduto. Preparandosi per il suo show, LaMotta ripete ad alta voce un monologo (di cui un estratto è presente in apertura di articolo) recitato da Marlon Brando nel film Fronte del porto, in cui l’attore interpreta proprio un pugile. Nel provare questo dialogo, in cui Brando accusa un amico di avergli stroncato la carriera, LaMotta si guarda allo specchio del proprio camerino e indica la sua immagine riflessa. Il messaggio non potrebbe essere più chiaro di così: l’unico colpevole del K.O. di Jake LaMotta è Jake LaMotta stesso.

Il fallimento del machismo

Tutti (o quasi tutti) i comportamenti negativi di Jake scaturiscono da una visione del mondo radicata in valori patriarcali. Tale visione è certamente derivante dal periodo storico di riferimento (tra gli anni ’40 e‘60), ma anche dall’educazione che i fratelli LaMotta hanno ricevuto nel quartiere malfamato in cui vivono. 

Sia la prima moglie di Jake sia Vicky vengono trattate come serve, costrette ad occuparsi delle faccende domestiche secondo i desideri del marito e subendone ogni volta i rimproveri, quando non la violenza, in caso di errore. Entrambe le donne, poi, non esistono nella visione dei protagonisti se non come estensioni del proprio coniuge, della figura maschile di riferimento. Di Vicky, ad esempio, non scopriremo mai il cognome da nubile: la conosceremo sempre e solo come “signora LaMotta”. 

La gelosia paranoica nei confronti della donna scaturisce in Jake da comportamenti totalmente innocenti (ad esempio un’uscita di casa), che però sia il protagonista sia Joey rileggono in maniera distorta. Entrambi i fratelli LaMotta, inoltre, tendono ad addossare su di lei la colpa per il declino della vita personale e della carriera di pugile (Joey dice apertamente e più volte che Vicky ha rovinato Jake) e le addossano tradimenti inesistenti. Atteggiamento tanto più ipocrita se si tiene conto che quello che vediamo chiaramente essere infedele, nella coppia, è Jake.

Ma il problema più grande di Jake è l’idea che egli ha di sé stesso in quanto uomo e degli atteggiamenti che in quanto tale dovrebbe assumere. Figlio di una società che richiede dimostrazioni della propria mascolinità e di coraggio, in Toro Scatenato il protagonista sente di dover riaffermare ripetutamente la sua virilità attraverso una serie di espressioni fisiche o verbali: apprezzamenti via via più spinti nei confronti delle donne, parole volgari, scatti d’ira e violenza diretti verso persone o cose.

Tale elemento di affermazione di sé attraverso l’aggressività emerge soprattutto durante gli incontri di pugilato. Questi, come buona parte degli eventi rappresentati in Toro scatenato, non sono mai occasioni gioiose o idealizzate, nonostante la fama e il successo che portano al protagonista. Anzi, il più delle volte la brutalità in essi contenuta viene amplificata dalla messa in scena di Scorsese (si pensi solo all’ultimo match Robison-LaMotta, nella realtà meno violento di quanto mostrato nel film).

Negli incontri, Jake è libero di attaccare nella maniera estremamente aggressiva che gli fa guadagnare il titolo di “Toro Scatenato”, dando sfogo in maniera socialmente accettabile al suo carattere irascibile. Tuttavia, l’elemento più interessante di tali eventi è il fatto che sembra che il protagonista li viva come occasioni di riaffermazione del proprio sé e del proprio valore di uomo. È così che l’incontro con Janiro, che la moglie aveva innocentemente complimentato per il suo bell’aspetto, diventa un’occasione per Jake di massacrarlo di botte, rovinandole per sempre la bellezza e riaffermando il proprio dominio e possesso su Vicky. Ed è anche per questo che anche l’ultimo incontro con l’avversario storico Robinson, che termina con una sconfitta lampante e sanguinolenta, diventa occasione di vittoria personale perché è riuscito a restare in piedi fino alla fine nonostante la raffica di colpi dell’avversario. Il simbolo e l’atto, che funge da dimostrazione del proprio essere “un uomo vero”, diventa più importante del risultato.

Infine, questa necessità di mantenere sempre una facciata di resistenza e di sprezzo delle avversità lo porta anche a problemi affettivi. Dopo un litigio feroce col fratello, che sancisce la loro rottura, non è capace neppure di chiamarlo per fare pace. Tocca a Vicky fare il numero di telefono e, anche allora, per Jake risulta impossibile parlargli per ammettere il proprio errore, la propria debolezza.

Jake LaMotta occupa dunque un ruolo interessante all’interno del pantheon dei grandi personaggi della storia del cinema e, soprattutto, del genere biopic. Questo perché non è una vittima innocente trasformata da un sistema marcio. Al contrario, non è estraneo ai meccanismi corrotti del sistema stesso (dopo un’iniziale reticenza, accetta di perdere un match per accedere alla competizione per il titolo di campione mondiale). Jake è una rappresentazione, estremamente realistica di ciò che accadrebbe se ad una persona figlia di certi valori fossero dati soldi, validazione personale e copertura mediatica, ma nessuna possibilità di migliorarsi personalmente e di “disinnescare” i meccanismi tossici che ha acriticamente assorbito dalla cultura circostante. 

La sua parabola discendente è quella, insomma, di una mascolinità fragile (e tossica) a cui è dato possibilità di fare radici e di germogliare uccidendo con la propria presenza tutto ciò che di buono la circonda.

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Silvia Strambi,
Redattrice.