Il 12 maggio 1974, cinquant’anni fa, più del 59% degli italiani si pronunciò a favore del mantenimento del divorzio. Il referendum per abrogare la legge Fortuna-Baslini, approvata dal Parlamento 1° dicembre 1970, vide la netta sconfitta dei partiti antidivorzisti, Dc e Msi, e dei vertici della Chiesa cattolica. L’era dei pubblici concubini e dei figli adulterini è finita, si è aperta quella dei movimenti per i diritti civili. Ma la battaglia per introdurre il divorzio nel nostro Paese era stata una lunga marcia cominciata addirittura nel 1878, col progetto del senatore liberale Salvatore Morelli, scandita poi da altri nove tentativi durante il Regno d’Italia, tutti falliti, e quindi ancora da due, naufragati negli anni Cinquanta (il primo del socialista Luigi Renato Sansone, il secondo ancora di Sansone insieme alla socialista Giuliana Nenni). La tredicesima volta sarebbe stata quella buona.

Non che non si divorziasse in Italia, i cittadini più facoltosi e intraprendenti trovavano comunque il modo di farlo: è il caso, tra tanti, di Guglielmo Marconi e, più avanti, di Luigi Longo, Giorgio De Chirico, Elio Vittorini, Peppino De Filippo, Anna Magnani, Carlo Ponti, Giorgio Almirante…; si divorziava all’estero, rispolverando vecchie convenzioni con Paesi divorzisti, oppure ci si rivolgeva alla Sacra Rota. Per gli altri, per i comuni cittadini, ci pensavano i Patti lateranensi e il diritto canonico: De separatione manente viculo, così, anche se ci si separava con sentenza civile, rimaneva l’obbligo di fedeltà e per i figli illegittimi nessun diritto. Il punto di svolta arriva nel 1965, quando il socialista Loris Fortuna presenta alla Camera quella che poi, con il contributo del liberale Antonio Baslini, diventerà la legge Fortuna-Baslini.

La ricostruzione del paese dopo le devastazioni della guerra, è completata, le masse contadi ne stanno cedendo il passo a quelle urbane; le Olimpiadi di Roma del 1960 sono state la rutilante vetrina del boom; dal 1962 l’autostrada del Sole collega Milano a Roma; elettrodomestici, automobili e televisione hanno trasformato le abitudini di milioni di italiani. La nuova ricchezza per alcuni, l’uscita dall’indigenza per molti, il modello anglosassone, il coraggio di chi lotta per i diritti propri e altrui – come Franca Viola di Alcamo, rapita e violentata a 17 anni proprio nel 1965, che rifiuta il matrimonio riparatore col suo violentatore – hanno fatto sì che ora i tempi per affrontare il tema siano maturi.

Il 1° dicembre 1970, dopo cinque anni di un travagliatissimo iter parlamentare e con lo strenuo impegno dei Radicali e della Lega italiana per il divorzio (che sfodereranno nuovi, per l’Italia, strumenti di lotta, come sit-in, banchetti per la raccolta delle firme, incatenamenti, occupazioni delle sedi Rai e scioperi della fame) la Fortuna Baslini diventa legge. Sembrava fatta, ma non era così. Anzi, la battaglia più dura sarebbe cominciata subito dopo, praticamente negli stessi giorni di dicembre, quando, con un appello di autorevoli esponenti cattolici, tra i quali Giorgio La Pira, Augusto del Noce, Felice Battaglia, parte la raccolta delle firme per indire un referendum che abroghi la nuova legge. In Parlamento si cercano compromessi per evitarlo: il Pci non lo vuole per non inimicarsi le masse cattoliche, il Psi e i laici lo temono per gli equilibri di governo, la Dc è divisa, mentre la Curia si schiera per la “crociata”: infine, la situazione precipita e il referendum diventa inevitabile.

Amintore Fanfani (che ha fatto piazza pulita di dubbi e indecisioni presenti nella sinistra del suo partito) si pone alla testa della “crociata”, affiancato dal Movimento sociale di Giorgio Almirante. I più strenui difensori del divorzio sono invece i Radicali, seguiti dai partiti laici (Psdi, Pli, Pri); dal Partito socialista; dal Pci (che dopo le prime titubanze volte a non rompere col mondo cattolico, si getta con la forza della sua organizzazione nella campagna per il No all’abrogazione); e poi dal Movimento dei cattolici per il No; dai gruppi della nuova sinistra e, infine, ma non certo per ultimo, dal movimento femminista. Le piazze dei comizi si riempiono di sostenitori di entrambi gli schieramenti, le strade si affollano di striscioni e manifesti, mentre il 18 aprile, a pochi giorni dalla prova referendaria, viene sequestrato dalla Brigate Rosse il magistrato Mario Sossi.

Opposte sono le strategie di propaganda adottate per conquistare il voto degli italiani: quella degli antidivorzisti tesa ad alimentare la paura, quella divorzista che cerca di evitare i toni da guerra di religione. Nei manifesti della Dc si denuncia la propensione al crimine dei figli dei divorziati, le ragazze si dichiarano, con sguardi preoccupati, in cerca di mariti che credano nel matrimonio e non nel divorzio. Il Movimento sociale rispolvera il desueto termine “plebiscito”, riproponendo un Sì contro divorzio e comunismo, come nei plebisciti fascisti del ‘29 e del ‘34; i manifesti mostrano minacciosi militanti del Pci, avvolti in bandiere rosse, che sfilano con i pugni alzati: «Loro vogliono il divorzio».

I Partiti Laici e il Pci affrontano in maniera più asciutta la questione, «Il divorzio è un tuo diritto, difendilo», si legge su un manifesto del Partito socialista; «Se credi nell’indissolubilità del matrimonio nessuno ti impone il divorzio», fa eco uno del Pci. La sinistra extra parlamentare punta più sullo sberleffo: il Pdup-Manifesto presenta un Amintore Fanfani in abito bianco da sposa e bouquet a braccetto di Almirante in divisa nera: «Contro questo matrimonio vota No!»; Lotta Continua, anch’essa riferendosi al sodalizio Dc-Msi conia il neologismo Fanfascismo, che avrà notevole risonanza nel popolo della sinistra. Le diverse scelte di lessico e di argomenti si riproporranno fino agli ultimi appelli al voto trasmessi tv.

Enrico Berlinguer, calmo ma indignato, denuncia le minacce utilizzate dagli antidivorzisti anche nei confronti di «fanciulli innocenti» spaventati con bigliettini messi di nascosto nelle tasche dei grembiulini. Amintore Fanfani, paternalistico e un poco arcigno, tratteggia un’Italia popolata da «babbi, mamme e figliuoli», con la famiglia «che accudisce i suoi componenti dalla culla alla bara», tutti «raccolti intorno al focolare domestico» per votare Sì all’abrogazione della legge. Ben diverse, le argomentazioni di Giorgio Almirante, che invita gli elettori a non votare No «come le Brigate rosse», addirittura esortando tout court a non votare «per le Brigate rosse». Non basterà: la sconfitta della crociata antidivorzista è inequivocabile, con il 59,26% di No e il 40,74% di Sì; ha votato quasi l’88% degli aventi diritto. Quel 12 maggio 1974 è finita un’Italia e ne è cominciata un’altra, quella dei diritti.

Gianandrea Turi

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