Troy (Denzel Washington) è un ex carcerato e promessa tardiva del baseball. Vive nella Pittsburgh degli anni con la moglie Rose (Viola Davis) e il figlio Cory (Jovan Adepo) e fa il netturbino. Gli fa compagnia tutti i giorni il fidato amico Bono (Stephen Henderson), con cui passa le serate del venerdì dopo aver ricevuto la paga settimanale. Troy, però, ha anche un altro figlio, Lyons (Russell Hornsby), avuto da una precedente relazione, un fratello, Gabe (Mykelti Williamson), tornato dalla Seconda Guerra Mondiale con un serio handicap mentale, e un’amante, Alberta (che non si vede mai) da cui aspetta un figlio. Quando lo confessa alla moglie, tutto il mondo che la coppia si è costruito in diciotto anni di matrimonio, crolla…

Denzel Washington è alla sua terza regia dopo Antwone Fisher (2002) e The Great Debaters – Il potere della parola (2007). Questa volta sceglie di portare sul grande schermo l’opera teatrale Fences (che vuol dire appunto recinto, barriera) di August Wilson che si è aggiudicato il premio Pulitzer nel 1983. Un film intenso, con una grande prova di attori sia di Washington che di Viola Davis che è valsa a entrambi la nomination all’Oscar come interpreti (Barriere è candidato anche come film e per la sceneggiatura di Wilson, morto nel 2005).

Nel titolo, c’è molto del significato del film. La barriera è il recinto che Rose chiede a Troy di costruire attorno alla casa ma è soprattutto il recinto che Troy ha costruito attorno alla sua famiglia per proteggerla dalle ingiustizie che lui stesso ha subito in quanto uomo di colore. Più volte nel film Troy si scaglia contro i bianchi che gli hanno impedito di diventare giocatore professionista di baseball. Per questo non vuole che il figlio Cory giochi a football americano, per evitare che soffra come lui. O forse per la paura che il figlio riesca dove lui ha fallito. Il personaggio di Washington non capisce la “barriera” che così facendo mette tra lui e Cory, così come una barriera c’è anche con il figlio Lyons che viene ogni venerdì a chiedergli soldi per assecondare la sua passione per la musica. E ogni occasione, ogni incontro è motivo di confronto e sfida con i due figli. Perché, si chiede Troy, Lyons non si cerca un lavoro serio per mantenere la fidanzata? Perché Cory ha lasciato il lavoro al supermercato per inseguire stupidi sogni di gloria? Il suo è amore di un padre verso i figli, ma è indirizzato nel modo giusto? Interessante anche il rapporto con Gabe, cui lo lega un sincero legame ma anche un forte senso di colpa.

Washington con la sua fisicità, la sua parlata secca e rapida, quasi rap verrebbe da dire, i suoi sguardi anche cattivi, riempie la scena. Cory dice del padre che è un’ombra fissa che accompagna la vita di tutti loro. E ha ragione. Troy è una sorta di padre-padrone, pensa di avere tutto sotto controllo ma molte cose gli sfuggono. La moglie glielo dice: i tempi stanno cambiando e lui non li capisce. È proprio Rose/Viola Davis, infatti, a fare da contraltare a quell’uomo cui ha dedicato tutta la vita anche quando si troverà di fronte a una decisione molto difficile da prendere. Ma Rose è la figura e la concretizzazione dell’Amore e di questo Troy le è grato.

Oltre alle dinamiche familiari, fanno da sfondo al film anche le rivendicazioni sociali di una comunità nera che era sfruttata e messa ai margini dai bianchi. Troy ottiene un’importante promozione, da raccoglitore di immondizia diventa autista di camion. Peccato, però, che quella conquista lo porterà a separarsi dall’amico Bone. Un’altra barriera? Il film mantiene un alto livello di intensità salvo nell’ultima parte, un po’ troppo tirata in lungo e un po’ troppo moralisteggiante che toglie un po’ di pathos e nella quale si vede che tutti i tasselli della storia devono tornare al loro posto in modo un po’ troppo costruito. Barriere, comunque, rimane un film molto interessante nel quale Washington ha dimostrato tutta la sua bravura alle prese con un testo teatrale non semplice.

Stefano Radice