Secondo pannello del trittico neobarocco ideato da Peter Greenaway negli anni 90, Il bambino di Mâcon [The Baby of Mâcon, 1993] abbandona gli sperimentalismi digitali e la manipolazione tecnologica dell’immagine che avevano costituito la cifra de L’ultima tempesta [Prospero’s Books, 1991] per tornare all’apparenza ad un cinema più tradizionale e dal solido impianto narrativo. La storia della miracolosa nascita di un bambino dotato di facoltà taumaturgiche messa in scena nl 1659 di fronte alla corte di Cosimo III de’ Medici da una compagnia di commedianti si risolve però ancora una volta in una complessa riflessione sull’ambiguità dei rapporti tra realtà rappresentata e artificio mimetico, in modo quanto mai esplicito data l’ambientazione teatrale e con un grado di elaborazione tale da aver indotto a parlare di un vero e proprio «transhistorical trompe l’oeil that reflects on itself from diverse perspectives – theater within the theater within the cinema»1. Tra i dispositivi scopici che compongono l’armamentario figurativo del barocco storico è in effetti tale stratagemma illusionistico, che si propone di perpetrare un inganno percettivo ai danni dell’occhio dotando della tridimensionalità propria del referente ciò che è solo un insieme di forme pittoriche, a condensare al meglio il senso di un’operazione basata sul continuo scavalcamento dei piani di realtà come quella de Il bambino di Mâcon. Con la precisazione che nel caso del film di Greenaway tali livelli si moltiplicano a dismisura dando origine ad una ancor più cerebrale e concettosa messa in abisso in cui il gioco di specchi ontologico contempla ibridazioni e contaminazioni in entrambe le direzioni, con l’espandersi della finzione nel dominio del reale ma anche l’incunearsi della realtà in seno al fittizio.

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the baby of macon il bambino di macon greenawayLa compagnia teatrale introduce il primo atto dello spettacolo al pubblico eterogeneo e suddiviso per classi sociali – aristocrazia e clero in abiti dorati, alta borghesia in rosso e contadini sullo sfondo – che ha preso posto alla corte di Cosimo III de’ Medici.

Settata su di un registro stilistico che fa uso sistematico – ancorché irreggimentato da un rigoroso controllo razionale, come vedremo più avanti – di un’opulenta sovrabbondanza formale e di continue digressioni visive, di strutture diegetiche labirintiche e stratificate, di processi di significazione all’insegna del traslato e meccanismi di esibizione autoriflessiva, nonché dell’intersecarsi enciclopedico di pletore di riferimenti iconografici e citazioni che attingono all’intera storia di tutte le arti, l’opera del regista gallese risulta emblematica di quella direttrice del postmoderno che, rintracciando una serie di evidenti similitudini con la stagione seicentesca dell’arte, la semiologia ha definito con la felice formula di neobarocco elaborata da Omar Calabrese nel 1987. Nel suo tematizzare la rappresentazione di uno spettacolo assimilabile al genere del masque di epoca elisabettiana, dramma allegorico dalle forti valenze morali e politiche, Il bambino di Mâcon letteralizza tale ascendenza ricollegandola proprio a quel periodo storico e mette «per la prima volta […] il cinema baroccheggiante e grandguignolesco [di Greenaway] al servizio di una tesi, una denuncia contro ogni forma di sfruttamento e di finzione»2. La vicenda narrata sul palco è infatti un apologo medievale sulle conseguenze nefaste della sete di potere e ricchezza, perseguita con l’impostura e l’abuso degli innocenti: in una comunità flagellata dalla sterilità la nascita di un bambino in salute da una donna anziana e deforme è accolta come un segno divino e sfruttata prima dalla sorella, che cavalca la superstizione del popolo spacciandosi per una madre vergine senza esitare a brutalizzare la sua famiglia pur di soddisfare le proprie ambizioni, e poi dalla Chiesa, che eliminata la giovane e preso il bambino sotto la sua ala ne fa mercimonio dei fluidi corporei come sacre reliquie facendo infine ripiombare Mâcon tra carestie e pestilenze.

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greenaway the baby of maconIn un moto di violento fervore religioso, il popolo convenuto alla veglia funebre del bambino in cerca di reliquie ne lacera il corpo in tredici parti perpetrando così l’ultimo e più atroce atto di appropriazione e sfruttamento nei suoi confronti.

Per Hotchkiss3 tale parabola di sopraffazione e violenza è atta a veicolare un monito sulle turpi ripercussioni materiali che sconvolgono la concretezza dei significanti quando il potere esercitato attraverso i simboli privilegia l’astrattezza dei significati al punto di dimenticarsi dei corpi che li incarnano. In questo senso, sotto le spoglie magniloquenti e sontuose di un dramma in costume in cui i corpi – violentati, smembrati, oltraggiati, umiliati – sono oggetto di continue prevaricazioni per tornaconto personale, il film di Greenaway ha in ultima analisi l’ambizione di offrirsi come affresco critico e spaventoso di una contemporaneità percorsa da dinamiche analoghe a quelle dell’epoca che mette in scena. Una contemporaneità dove regnano indisturbate metafore parassitarie che vampirizzano i significanti a cui sono applicate (Barthes), dove la teatralità dello spettacolo diffuso permea del suo alone di artefazione posticcia ogni aspetto della vita quotidiana (Debord), dove la distinzione tra copia e modello si è persa nel reiterato cortocircuito di riproduzioni e simulazioni sempre più abili nel sostituirsi alla loro matrice (Baudrillard): un’età per l’appunto neobarocca. Non è un caso che, benché come di consueto Greenaway componga i suoi tableaux vivants altamente pittorici imbevendoli di riferimenti ai maestri della pittura rinascimentale, manierista e barocca (qui per la precisione Degli Esposti-Reinert4 individua Vittore Carpaccio, Giovanni Bellini, Caravaggio e Artemisia Gentileschi quali fonti iconografiche fondamentali), le immagini che per stessa ammissione del regista hanno ispirato la genesi de Il bambino di Mâcon sono due fotografie di Oliviero Toscani scattate per le provocatorie campagne pubblicitarie della Benetton: una raffigurante un neonato nei suoi primi istanti di vita e già utilizzata da Greenaway in apertura alla mostra The Physical Self da lui allestita a Rotterdam nel 1991 sul tema della nudità del corpo come condizione umana e l’altra apparsa sulla copertina di Elle e ritraente una giovane modella con un bambino stretto al seno, in una sorta di rilettura blasfema del motivo religioso della natività di Cristo.

oliviero toscana greenaway baby maconUno dei controversi scatti pubblicitari di Oliviero Toscani che hanno ispirato Il bambino di Mâcon.

Sulla scia della lezione formalista e puro-visibilista di teorici dell’arte come Alois Riegl e Heinrich Wölfflin, ne L’età neobarocca Calabrese dava gli estremi di un gusto estetico e di una temperie culturale soggiacenti ai fenomeni più disparati della società postmoderna degli anni 80, tutti accomunati dalla ricerca e dalla valorizzazione di forme «in cui assistiamo alla perdita dell’interezza, della globalità, della sistematicità organizzata in cambio dell’instabilità, della polidimensionalità, della mutevolezza»5. In linea con gran parte della filmografia del regista, Il bambino di Mâcon aderisce appieno nella propria morfosintassi visiva alle marche formali enucleate da Calabrese per il neobarocco, nella misura in cui vi si ritrova la stessa tendenza ad eccedere i limiti dell’immagine piuttosto che rinsaldarli, a stipare il quadro di dettagli e frammenti sovraccarichi di molteplici significati con conseguente dissoluzione dell’insieme6, a privilegiare un’estetica dell’informe e il continuo fluire dinamico di figurazioni mutevoli: in breve vi agisce quella funzione operativa metamorfica di infinita torsione ed increspamento per la quale Deleuze vedeva nel barocco un processo che «ne cesse de faire des plis […] courbe et recourbe les plis, les pousse à l’infini, pli sur pli, pli selon pli»7. Pieghe che non investono solo la dimensione stilistica ma lo statuto ontologico stesso delle immagini presentate allo spettatore, la cui natura risulta perennemente indecidibile e sospesa nel cumulo di livelli di realtà racchiusi dalla struttura a scatole cinesi de Il bambino di Mâcon e squarciati dalle stranianti invasioni di campo metalettiche di cui si diceva poc’anzi.

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baby macon recensioneLa sequenza in cui la sorella – artefice di un culto materialista che in cambio di denaro promette di dare i piaceri e il benessere terreno che la Chiesa non ha saputo elargire – veste i panni aurei della Madonna col bambino e benedice i popolani accorsi a venerarlo dà un’idea dell’horror vacui che domina nell’inquadratura greenawayana. Vi si trova inoltre un chiaro esempio dell’ambivalenza tra finzione e realtà tipica de Il bambino di Mâcon nel momento in cui, dopo che un effetto teatrale ha simulato una pioggia di petali evidentemente posticcia, un temporale bagna la scena costringendo gli attori alla fuga, il tutto sotto gli occhi di una platea posizionata alle spalle della pala d’altare che incornicia l’azione e dunque impossibilitata a seguirne gli sviluppi.

Allo stesso tempo tuttavia quello di Greenaway è un cinema che come rileva De Gaetano8, affondando le sue radici più profonde nell’avanguardia strutturalista inglese degli anni 70 (tra i cui esponenti possiamo citare Peter Gidal, Malcolm Le Grice e David Crosswaite), rifugge dall’assenza caotica di principi organizzativi ed esprime invece un’esigenza catalogatoria ed ordinatrice che si traduce nella costruzione di rigorose intelaiature fondate sulla ripetizione modulare di unità minimali. Si pensi alla serie di vedute paesaggistiche de I misteri del giardino di Compton House [The Draughtsman’s Contract, 1982], alla struttura alfabetica de Lo zoo di Venere [A Zed and Two Noughts, 1985] e a quella numerica di Giochi nell’acqua [Drowning by Numbers, 1988], alla lista di menu giornalieri de Il cuoco, il ladro, sua moglie e l’amante [The Cook, the Thief, His Wife and Her Lover, 1989]. Qui tale ossatura razionale è assicurata dal succedersi dei tre atti dello spettacolo, ma la modularità sorveglia in realtà quasi tutte le scene del film – la vestizione dell’infante, l’impartizione delle benedizioni, la compravendita delle reliquie, lo smembramento del suo cadavere e così via. Ad un’analoga funzione strutturante rispondono inoltre le scelte cromatiche adoperate in chiave simbolica, che ne Il bambino di Mâcon sono giocate principalmente sull’accostamento dei toni violenti del rosso, di quelli divini dell’oro e di quelli funerei del nero, nonché la gestione controllatissima della mdp, che – quando non opta per riprese statiche di derivazione teatrale e pittorica – si produce in movimenti di macchina spesso assai elaborati e dalla durata notevole ma sempre votati ad una lenta e accurata scansione ortogonale del profilmico, mediante carrellate laterali o frontali che «stand in contrast with the abundance of minutiae and ‘folds’ that create the narrative»9.

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the baby of macon greenawayStagliandosi contro uno sfondo nero pece, la sgradevole allegoria della Fame si rivolge al pubblico in controcampo e gli descrive le misere condizioni in cui versa Mâcon. Lavorando per sottrazione e riducendo l’immagine ai minimi termini, il prologo e l’epilogo del dramma morale non solo contribuiscono a dare struttura al film ma si pongono come eccezioni figurative alla sua debordante ricchezza di dettagli.

Tutto ciò contribuisce a plasmare un testo in cui la rete di nodi liberamente interconnessi tipica del rizoma di Deleuze e Guattari si rapprende e cristallizza a originare qualcosa di simile ad un frattale in evoluzione, figura della complessità citata da Calabrese come esemplificativa dello Zeitgeist neobarocco in quanto generatrice di «mostri dotati di ritmo e ripetitività scalare nonostante l’irregolarità, e mostri la cui forma è dovuta al caso, ma solo come variabile equiprobabile di un sistema ordinato»10. Tale orizzonte metrico e iterativo dell’artificiosità neobarocca ci riporta peraltro ad un elemento cardine del nucleo tematico de Il bambino di Mâcon, ossia quello della ritualità cerimoniale che accompagna e sostiene il percorso di santificazione coatta cui è sottoposto il bambino dapprima dalla sorella e poi dalla Chiesa, la sua trasformazione in simbolo a discapito del suo corpo. Con un evidente pervertimento della narrazione evangelica, Greenaway allestisce una «messa nera» che fa di tutto per sottolineare i punti di convergenza tra gli atti performativi propri della liturgia religiosa e il complesso di recitazione, scenografia ed effetti di luce che dà vita alle trame fittizie messe in scena a teatro, «creando paralleli […] tra il palcoscenico e l’altare della Chiesa, tra gli attori e gli officianti della messa, tra il pubblico e i fedeli»11. Da un lato i riti rappresentati sul palco subiscono una teatralizzazione – diremmo per ora secondaria – che ne enfatizza la natura mistificatrice e ne identifica lo scopo nel mantenimento dell’autorità sulle masse mediante l’inganno e la propaganda, dall’altro la corte di Cosimo partecipa con passione e assoluta devozione al dramma di Mâcon conferendo allo spettacolo una funzione se non sacrale per lo meno di rito sociale.

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peter greenaway maconIl montaggio del rito della vestizione intercala una serie di piani ravvicinati che presentano i miracolosi oggetti in procinto di essere indossati dal puer divino, mentre la voce dell’anziano suggeritore ne declama le stupefacenti caratteristiche, la provenienza e il valore. Impossibile non notare le ironiche e sacrileghe analogie che una scena solenne ed enfatica come questa intrattiene con il linguaggio ben più prosaico della pubblicità o addirittura delle televendite di paccottiglia.

Il parallelismo tra rito e illusione teatrale si rivela fruttuoso anche in relazione alla chiave di lettura contemporanea, se è vero che l’affermarsi di un’estetica dello sfarzo e dello stupore scaturisce nel neobarocco da quell’inopinato recupero della dimensione del magico e dell’invisibile che sociologi come George Ritzer hanno chiamato reincanto del mondo. Un riaffacciarsi del meraviglioso che non ha più nulla di ingenuo, ma si realizza all’interno delle dinamiche consumistiche del tardo capitalismo assumendo le fattezze di una vera e propria religione con appositi idoli, rituali e luoghi di culto – cattedrali del consumo come centri commerciali, fast food e casinò, «structured […] to have an enchanted, sometimes even sacred, religious character»12 ottenuto per lo più grazie alla spettacolarità degli artifici di simulazione. In tutto ciò ovviamente gioca un ruolo da protagonista anche il cinema, data la sua particolare propensione a produrre simulacri della realtà, e Il bambino di Mâcon in effetti lega strettamente il discorso sui confini della rappresentazione alla dicotomia cinema vs teatro in quanto media che si pongono in rapporto diverso con il reale. Sostenitore di una concezione integrata dell’arte che si esprime nel tentativo di far confluire tutte le sue possibili declinazioni – pittura, letteratura, teatro, musica, tecnologie digitali – in esperienze cinematografiche totali, Greenaway si concentra qui sulla costruzione di un dialogo ravvicinato tra queste due forme imparentate eppure nettamente distinte di messinscena, portandole spesso a confliggere con esiti che si ripercuotono sullo statuto ondivago e incerto di ciò che vediamo.

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ralph fiennes the baby of macon Spazi in bilico tra finzione e realtà: svincolati dallo sguardo spettatoriale – l’audience è costretta a seguire fisicamente le peregrinazioni degli interpreti mescolandosi ad essi – e collocati al di fuori del perimetro scenico – in vertiginosa profondità, accanto o al di sotto di esso – spazi come quello del mercato cittadino, del banchetto celebrativo, della prigione sotterranea e della stalla pseudo-natalizia vedono aumentare il loro coefficiente ontologico. Allo stesso tempo però gli effetti di luce, la qualità pittorica che caratterizza sempre l’immagine greenawayana e gli ambienti chiusi che li sovrastano come in un teatro di posa li restituiscono ad un orizzonte chiaramente fittizio.

Si diceva all’inizio che le metalessi narrative attivate dal film possono consistere sia in un’intromissione della realtà esterna all’interno della finzione scenica che in un’espansione di quest’ultima al di fuori dei propri territori. Avviene così da un lato che al dramma rappresentato sul palco sia dato di proseguire per le strade della città di Mâcon, lungo le navate della cattedrale, in stalle e scantinati che – nonostante afferiscano ad un livello di realtà secondario – si presentano come spazi autonomi e svincolati dal perimetro adibito a circoscrivere la finzione. Gli attori continuano a recitare dietro le quinte e sotto il palcoscenico ed è solo il riapparire improvviso di elementi teatrali quali tendaggi, tagli di luce antinaturalistici e macchine sceniche – nonché l’affettata lettura delle battute del bambino da parte dell’anziano capocomico nella sua postazione – a rompere l’effetto di realtà assunto dallo spettacolo. Per altro verso eventi che dovrebbero essere confinati al piano della rappresentazione si verificano veramente e con risultati spesso tragici: quando il figlio del vescovo viene sventrato da un bovino imbizzarrito su ordine del bambino per proteggere la verginità della sorella – necessaria a provare la santità del suo concepimento e quindi la sua natura divina – non è solo il personaggio ma l’attore stesso a morire, così come è l’ambiziosa interprete a subire davvero la terribile condanna ad essere stuprata a morte da 208 uomini di fila per aver soffocato nel sonno il bambino che era stata comminata al suo personaggio. Si aggiungano poi gli ingenui interventi del principe Cosimo, figura centrale sia per il suo ruolo di spettatore attivo cui è data la possibilità di assistere alle vicende da una posizione privilegiata sul palco e persino di influenzarne il corso in maniera decisiva prendendovi parte ed interagendo coi personaggi nei panni di sé stesso – è lui ad esempio a proporre la pena da infliggere alla ragazza – sia per l’apparente difficoltà a separare l’illusione dalla realtà che tradiscono i suoi commenti meravigliati.

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the baby of macon stupro

the baby of macon finaleAnche la scena dello stupro deciso dalle autorità come pena per l’uccisione del bambino assume le forme di un rito scandito dalla conta impietosa delle violenze simboleggiate dai birilli che Cosimo fa cadere per ognuno dei 208 uomini, 13 più 13 e 13 più 13 volte 13 come il numero totale delle efferatezze compiute dalle più grandi peccatrici della storia. Il baldacchino dalle tende tirate può inoltre essere inteso quale metafora di un teatro che occulta anziché rivelare, dato che il pubblico del dramma è all’oscuro del fatto che quanto sta accadendo all’attrice è reale e non una rappresentazione e lo spettatore se ne rende conto soltanto in virtù della libertà di movimento concessa alla mdp.

Il punto da evidenziare è che tali compenetrazioni ontologiche tra i piani di realtà sono spesso la diretta conseguenza di interferenze tra le diverse tipologie di rappresentazione offerte dal medium teatrale e da quello cinematografico. Secondo Hotchkiss L’ultima tempesta e Il bambino di Mâcon si configurano come due testi essenzialmente complementari per il modo speculare in cui vi sono trattate la materialità e la corporeità: nel primo i corpi sono soggetti a fenomeni di smaterializzazione che li tramutano in istanze astratte e intangibili, nel secondo la concretezza della carne viene invece enfatizzata tramite l’esibizione delle deturpazioni che deve subire. Ciò che più importa però è che «these two materially different outcomes are symptomatic […] also of the two ways and interests in which the films internalize and represents theater»13. Laddove il primo considera in primis l’aspetto letterario, verbale e in ultima analisi mentale del fare teatro, il secondo si focalizza sulla sua componente performativa – ovvero sull’incarnazione della parola teatrale nelle espressioni, nei gesti e nei movimenti compiuti da un attore presente con il suo corpo davanti a una platea. Inoltre le modalità con cui il teatro viene internalizzato dai due film sono radicalmente opposte, consistendo in un processo che ne L’ultima tempesta si risolve in un’assimilazione completa dell’elemento inglobato e ne Il bambino di Mâcon lo mantiene invece come oggetto estraneo e fornito di tutte le proprie specificità14. Ne deriva dunque un’inevitabile conflittualità tra la materialità performativa, contigente e concreta adottata dal medium introiettato per imbastire le sue finzioni e l’impalpabilità ubiqua, fantasmatica e disincarnata che alimenta quelle del cinema, rendendole paradossalmente ancora più subdole e difficili da riconoscere anche se meno aderenti alla realtà: il teatro è più reale del cinema ma lo sembra di meno, il cinema è meno reale del teatro ma lo sembra di più.

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ralph fiennes the baby of macon

the baby of macon recensioneL’iconografia del presepe si tinge di sangue e interiora nella scena della morte del figlio del vescovo, al termine della quale irrompe una folla mista – composta sia dagli attori in costume medievale che dagli spettatori – dopo aver sfondato il portone che poco prima era stato aperto dal bambino senza che trasparisse alcun pubblico al di là di esso. Durante la preparazione del terzo atto il corpo dell’attore sarà rimosso e gettato in una cassa.

Se infatti è grazie a espedienti eminentemente cinematografici che Il bambino di Mâcon addita allo spettatore l’illusorietà di quanto sta venendo narrato – montando ad esempio inquadrature che mostrano gli attori prepararsi tra un atto e l’altro, descrivendo gli oggetti di scena prima che siano portati sul palco o svelando per mezzo della dialettica campo-controcampo la presenza di un pubblico – sono altrettanti gli espedienti che di converso operano nella direzione del conferimento di un’impressione di realtà all’illusione teatrale: restringimenti di campo che escludono dal quadro i limiti del proscenio, carrellate in profondità che spostano l’azione in spazi così distanti dalla platea da negarne la presenza, set allestiti in modo assai più credibile e realistico. In generale potremmo dire che ogni qual volta il rappresentato si sottrae allo sguardo del pubblico in sala (salvo poi ritrovarlo all’improvviso con precipitose irruzioni, come quando si rovescia sulla scena dell’omicidio del figlio del vescovo) esso assume uno spessore – ancorché mendace – di realtà e questo avviene proprio in virtù di strumenti precipui del medium cinematografico quali l’ubiquità del punto di vista, l’uso del fuori campo e il ricorso al montaggio, che concorrono a dotarlo di un potere d’inganno sconosciuto alla fissità e all’evidenza della messinscena teatrale. Il cinema insomma può presentarsi invero con una parvenza disvelatrice – può ad esempio farci penetrare con un sinuoso movimento di macchina oltre le cortine del baldacchino in cui si sta consumando lo stupro di massa di un personaggio che ha osato sfidare la Chiesa, per rivelarci l’ancor più agghiacciante verità di quello che sta accadendo – ma lo fa solo per sostituire le falsità del teatro con ulteriori e peggiori menzogne.

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julia ormond

the baby of maconIl monologo con cui la sorella dichiara le sue ambizioni sembra inizialmente rivolto allo spettatore del film, con tanto di sguardo in macchina, ma l’improvviso calare di un fiammeggiante sipario alle sue spalle e un campo lungo che reinserisce nell’inquadratura proscenio e platea spezzano l’effetto di realtà indotto dai mezzi cinematografici e riconducono il tutto alla finzione dello spettacolo teatrale.

La sequenza che chiude l’opera è emblematica in questo senso, nella misura in cui scopre finalmente le proporzioni del gioco autoriflessivo che fino a quel momento ci erano state precluse dalle scelte registiche. Con una lenta carrellata all’indietro che parte dal proscenio sul quale si sono radunati tutti gli attori del dramma per ricevere l’applauso conclusivo, Greenaway inquadra per la prima volta un secondo settore di spalti e mostra la corte di Cosimo inchinarsi verso un nuovo pubblico, introducendo così un altro grado di realtà in quella che era sembrata una struttura diegetica bipartita e riconducendo nuovamente alla finzione tutto ciò che era parso reale nel corso de Il bambino di Mâcon – morti comprese – per poi rompere definitivamente la quarta parete con un ultimo effetto a sorpresa e ribadire dunque la natura di messinscena dell’intera operazione in quanto film. Nella società dello spettacolo diffuso di Debord, in cui vige un regime di pervasiva mediazione iconica dei rapporti sociali che serve a enunciare il «discours ininterrompu que l’ordre présent tient sur lui-même, son monologue élogieux»15 e la moderna religione dei consumi si nutre di ritualità formulaiche ripetute allo sfinimento e dispositivi formali bulimici fondati sulla frammentazione, il disequilibrio e l’eccesso descritti dal paradigma neobarocco, il cinema si scopre un’arma capace di far credere ai miracoli e generare deliranti psicosi collettive, di propagare significati e metafore indebitamente coltivati dal potere sulla pelle di oggetti inermi fino ad annichilirne la concreta materia corporea sotto strati di ingannevoli simulacri.

baby of macon finale

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il bambino di macon recensioneCon un complesso movimento a mezz’aria la carrellata all’indietro dapprima sottolinea la finzione interna al dramma messo in scena – il padre e la madre ad esempio non sono davvero morti e quest’ultima non è in realtà una vecchia grassa e deforme ma una giovane attrice che indossava un travestimento – poi svela che anche il pubblico che stava assistendo è composto da attori e vi è un’ulteriore platea ad applaudire la loro performance, infine si appella allo spettatore del film con un inchino finale di tutto il cast.

NOTE

1 C. Degli Esposti-Reinert, Neo-Baroque Imaging in Peter Greenaway’s Cinema in P. Willoquet-Maricondi e M. Alemany-Galway (a cura di), Peter Greenaway’s Postmodern/Poststructuralist Cinema, Scarecrow Press, Plymouth, 2008, p. 67.

2. Il Morandini – Dizionario dei film 2012, Zanichelli, p. 145.

3 Cfr. L. M. Hotchkiss, Theater, Ritual and Materiality in Peter Greenaway’s The Baby of Mâcon in Willoquet-Maricondi e M. Alemany-Galway (a cura di), Op. cit., p. 233.

4 C. Degli Esposti-Reinert, Art. cit., p. 73.

5. O. Calabrese, Il Neobarocco. Forma e dinamiche della cultura contemporanea, La Casa Usher, Lucca, 2013, p. 50.

6. «Filled with an abundance of inferential clues charged with multiple meanings, each image is an example of this special […] emphasis on detail and/versus fragment, typical of many baroque artistic expressions» C. Degli Esposti-Reinert, Art. cit., p. 70.

7. G. Deleuze, Le pli. Leibniz et le baroque, Les Éditions de Minuit, Parigi, 1988, p. 5.

8. Cfr. D. De Gaetano, Peter Greenaway. Film, video, installazioni, Lindau, Torino, 2008, pp. 13-25.

9. C. Degli Esposti-Reinert, Art. cit., p. 65. L’autrice cita come principale modello registico l’uso che fa del movimento il cinema della memoria e dell’artificio di Alain Resnais, il cui direttore della fotografia Sacha Vierny avrebbe preso parte a quasi tutti i progetti di Greenaway.

10. O. Calabrese, Op. cit., p. 154.

11. D. De Gaetano, Op. cit., p. 196.

12. G. Ritzer, Enchanting a Disenchanted World, Pine Forge Press, 2005, p. 7.

13. L. M. Hotchkiss, Art. cit., p. 224.

14. Cfr. Ivi, p. 125, dove l’autrice parla di incorporazione per il primo caso e di introiezione per il secondo.

15. G. Debord, La Société du Spectacle, tesi 24.