Arrivato all’ultimo anno di liceo, a Pittsburgh, Greg sembra avere come unica preoccupazione quella di scansare i problemi, soprattutto ambientali: la sua capacità di “navigare” tra i gruppi scolastici gli fa evitare ogni tipo di scontro passando di volta in volta da uno o all’altro. Soprattutto, Greg evita coinvolgimenti con chiunque: l’amico di infanzia Earl, per lui è solo un “collaboratore” (insieme realizzano filmini amatoriali in cui rifanno in modo comico i classici del cinema). A cercare di scuoterlo dall’apatia, la madre gli chiede di star vicino a una compagna di classe – per lui una perfetta estranea – malata di leucemia. Ma Greg non è per nulla capace di slanci umani, e l’iniziativa prende subito direzioni goffe, quasi catastrofiche. Anche se poi, insieme a Earl iniziano a stringere una possibile amicizia a tre con la dolce Rachel, che intanto si sottopone a continui cicli di cure. Si salverà?
Raccontata così, sembra una delicata storia di formazione adolescenziale, resa più drammatica dallo spettro di una brutta malattia. In realtà Quel fantastico peggior anno della mia vita, premio del pubblico al prestigioso Sundance Film Festival – creato oltre trent’anni fa da Robert Redford e vera istituzione del cinema indipendente o “arthouse” – è un curioso mix di commedia per teen ager, con un inizio quasi demenziale, e “cancer movie” (genere, peraltro, percorso a Hollywood in modo più apprezzabile con operazioni convincenti e per giovani o per teen ager come 50 e 50 e Colpa delle stelle). Un mix che evita una serie di trappole, dai toni melodrammatici alla facile strada della storia d’amore, e in cui invece il dramma si stempera sempre in un’ironia che blocca sul nascere la retorica. Greg e Earl – che ha l’onore della citazione nel titolo originale, davvero originale: Me And Earl And The Dying Girl, ovvero la ragazza morente – sono ancora due ragazzini, alle prese con problemi più grandi di loro. E pur senza smettere di esserlo, soprattutto negli sbalzi di umore che connotano l’età, riescono a far compagnia a Rachel in un frangente difficile, tra chemioterapia, disagi fisici e autostima a zero.
Tanti i pregi del film diretto da Alfonso Gómez-Rejón, a cominciare proprio dalla rischiosa declinazione di questi temi dentro una confezione brillante ma non stupida, che abbonda di soluzioni cinematografiche convincenti. La voce fuori campo è usata in modo frizzante e non scontato, ci sono situazioni originali come i numerosi inserti animati e tocchi “alla Wes Anderson”, e abbondano anche le gag, che coinvolgono oltre ai protagonisti alcuni strampalati personaggi della scuola o delle rispettive famiglie. Il cinema è al centro dell’opera, visivamente e linguisticamente: per i cinefili sono una gioia le tante citazioni sparse qua e là, i cimeli (videocassette, dvd, locandine storiche), i classici rifatti dai due amici con filmini amatoriali – ricordano il divertente e poco conosciuto Be kind Rewind – tra la parodia, l’omaggio e la goffa voglia di esprimersi (come non ridere di fronte ai due che rifanno, tra i tanti, Un uomo da marciapiede?). E se molto del risultato dipende da un terzetto di giovani attori davvero molto bravi (il protagonista curiosamente si chiama Thomas Mann: inevitabile che uno dei film rifatti da lui e dal suo compare sia Morte a Venezia…), alla fine Quel fantastico peggior anno della mia vita non abbandona mai il tracciato coraggioso di commedia anche sopra le righe ma senza evitare di guardare fino in fondo il dramma. Ne consegue un finale commovente ma non ricattatorio, che non risulta “appiccicato” bensì coerente e venato di tenerezza.

Antonio Autieri