Da più di vent'anni, in Arabia Saudita, quattro donne sono tenute imprigionate. Il motivo non si conosce, ma non c'è nessuna sentenza del tribunale ad averle condannate, e non si sa nemmeno se due decenni abbondanti siano il calcolo corretto della loro sospensione dal mondo. Il mistero delle principesse Sahar, Maha, Hala e Jawaher, le quattro figlie del re saudita Abdullah bin Abdulaziz Al Saud (morto nel 2015) e della nobildonna di origine giordana Alanoud Al Fayez, delle quali non si hanno foto recenti e non si sa più nulla da anni, è uno dei grandi non detti del regno dell'Arabia Saudita. Il paese è guidato oggi da re Salman, fratellastro del defunto re Abdullah, ma di fatto il potere è concentrato sempre di più nelle mani del controverso principe ereditario Mohammed bin Salman, che con la nomina a primo ministro nel 2022 è diventato la principale autorità del paese. C'è stata qualche timida mossa di allentamento delle strettissime norme del governo saudita, basate sulla sharia, come la legge del 2018 che permette alle donne di guidare da sole. Ma al centro dei racconti internazionali, sempre più di frequente, si trovano le testimonianze sugli scandali della monarchia saudita: il trattamento disumano riservato alla sua servitù da una principessa (rimasta non identificata) riportato da una sua ex dama di compagnia, o le detenzioni ingiuste comminate alle royals dissidenti, come nel caso della principessa Basma bint Saud incarcerata con la figlia Suhoud a Riyad. Il caso di Sahar, Maha, Hala e Jawaher, tenute prigioniere ormai dall'inizio del millennio, ricorda tristemente quanto accaduto, tra fughe rocambolesche e rimpatri forzati al limite del rapimento, alle sorelle principesse Shamsa e Latifa, figlie dell'emiro di Dubai, emerso sulla stampa con le rivelazioni delle loro amiche sulla condizione femminile negli Emirati Arabi e con il divorzio milionario dell'ultima moglie dell'emiro, la principessa Haya di Giordania, scappata in Inghilterra.

Il mistero attorno alle figlie del defunto re Abdullah bin Abdulaziz Al Saud inizia indicativamente con il terzo millennio. Le quattro ragazze sono nate dal matrimonio del re con la nobildonna di origine giordana Alanoud al Fayez, avvenuto quando il sovrano ha già cinquant'anni e la sua giovane sposa ne ha appena 15. In rapida successione nascono le quattro figlie e per un lungo periodo di tempo la situazione appare serena, paradossalmente ricca di libertà per la madre e le bambine: non mancano viaggi in Europa, sciate sulle Alpi, studi e sport per forgiare la crescita delle quattro figlie. Un primo peggioramento comincia quando il re incolpa Alanoud al Fayez di non essere in grado di dargli un erede maschio. Appena le figlie diventano maggiorenni, la madre decide di divorziare dal tirannico marito che si sta svelando ben più sinistro di quanto non credesse, sperando che le quattro principesse possano presto raggiungerla a Londra, dove si trasferisce a vivere. Invece Sahar, Maha, Hala e Jawaher vengono imprigionate, probabilmente nel palazzo di Jeddah. Fino al 2013 la loro sorte sembra essere dimenticata, ma alcuni messaggi a dissidenti che vivono all'estero rivelano la storia e il regime di privazione cui sono costrette, ormai diventate adulte.

La voce filtrata che arriva da Jeddah è quella della principessa Sahar, ex sciatrice e appassionata di immersioni, tre lingue parlate, pittrice e scultrice: via Twitter fa sapere allo studioso saudita di Washington Ali al Ahmed, con cui è entrata in confidenza, che lei e la sorella minore Jawaher sono recluse nello stesso palazzo. Le altre due sorelle Maha e Hala sono separate e non hanno modo di farsi vive con loro. Ali al Ahmed contatta anche la madre delle principesse e si offre di fare da megafono per la loro situazione, mentre la donna presenta una denuncia alle Nazioni Unite: riporta che le figlie vengono ripetutamente sedate, sono sorvegliate a vista da guardie armate in ogni loro movimento, seppur relegate all'interno del palazzo. Alla principessa Hala, gravemente anoressica, sarebbero state negate anche le cure mediche. L'ONU nicchia, le interviste e le proteste di Alanoud al Fayez si moltiplicano, infine Sahar e Jawaher riescono a collegarsi in video a Channel 4 News e raccontare di persona: "Siamo in ostaggio. Nostro padre, il re, è il responsabile. È orribile, sei tagliata fuori da tutto, isolata, ti senti sola. È tortura psicologica". La repressione si fa ancora più stringente: le scorte di cibo vengono ridotte, l'elettricità e l'acqua staccate anche per giorni, le stanze vengono invase da topi e insetti. Sahar continua a denunciare via telefono la loro condizione, riportando anche le minacce che il suo stesso padre le avrebbe rivolto: "Quando morirò le cose andranno peggio per voi". E nel 2015, alla morte del sovrano, con re Salman che sale al trono, l'ipotesi si avvera su serio: nessuna delle persone in contatto con le principesse riesce a mantenere i contatti. Gli account Twitter vengono cancellati, l'indirizzo mail di Alanuod al Fayez è inattivo. Alcuni osservatori riportano che potrebbero aver raggiunto un accordo che preveda il loro silenzio pubblico in cambio di un po' di libertà, ma assomiglia più una speranza che ad una possibilità. La giornalista del New Yorker Heidi Blake scrive all'Alto commissariato per i diritti umani delle Nazioni Unite per riportare l'attenzione sul caso, ma anche loro non possono agire legalmente. Quel che resta sono i numeri: a vent'anni dall'inizio della storia, e a otto dagli ultimi contatti, ci sono ancora quattro donne, quattro principesse saudite imprigionate, delle quali non si sa (più) niente.