Flee Recensione

Flee, la recensione del documentario animato, caso unico nella storia degli Oscar

07 marzo 2022
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Ecco la recensione del Flee di Jonas Poher Rasmussen, caso unico negli Oscar, nominato allo stesso tempo come miglior film internazionale, miglior film di animazione e miglior documentario.

Flee, la recensione del documentario animato, caso unico nella storia degli Oscar

Flee (lett. "fuggi") è la storia narrata in prima persona, per l'amico documentarista Jonas Poher Rasmussen, del quasi quarantenne Amin: per sfuggire al regime dei Mujahedeen, fu costretto da ragazzino a lasciare l'Afghanistan negli anni Novanta, con sua madre, suo fratello e le sue sorelle, dopo aver perso il padre ancora prima per mano sovietica. Alla fine riparò da solo in Danimarca, per alterne vicende dolorosamente raccontate, ma prima di riuscirci visse clandestinamente in Russia un'esistenza impossibile, senza identità. Quanto è difficile recuperarne una, quando ti sei abituato a non esistere?

Flee è uno di quei casi in cui, dietro un banale gioco di curiosità sugli Oscar ai quali il film è candidato, si cela la forza di un progetto al quale Rasmussen ha dato vita, distruggendo i confini linguistici del mezzo, quasi come reazione alle logiche di nazioni, stati e confini che hanno quasi annullato Amin (nome di fantasia). Flee è stato infatti candidato allo stesso tempo, caso unico nella storia dell'Academy, come miglior film di animazione, miglior documentario e miglior film internazionale. E la sua identità, forte perché triplicata, è davvero un omaggio al coraggio di Amin, che si è liberato tramite il cinema del peso di una storia molto privata ma simbolo di traumi frequenti universali (e sempre troppo contemporanei).
Nella versione originale di Flee, la voce fuori campo che racconta le vicende, messe in scena con sobrietà dall'animazione, è proprio quella reale di Amin, che si confida alla camera. La sua stessa vita attuale, nel presente, viene ugualmente tradotta in animazione, con il disegno a creare un distacco rispettoso dalla reale sofferta rievocazione di Amin: la stilizzazione visiva mantiene il pathos, protegge la testimonianza ed evita le accuse di sciacallaggio per lasciare solo "idee con intorno una linea", come Bruno Bozzetto ha sempre definito i disegni. Questo asciutto stile visivo diventa quasi astratto quanto più il racconto si fa insostenibile, come nella rievocazione del primo tentativo di fuga dalla Russia via mare verso la Svezia, un fallimento nelle viscere di una buia stiva, dove vite precarie emergono in silhouette contrite. Una delle tante sequenze che non si dimenticano, come quella della camionetta della corrotta polizia russa accanto all'appena aperto MacDonald. Filmati di repertorio dal vero sono collocati brevemente in punti strategici del racconto, ma quel che conta è la fusione totale di documentario e cartoon: un passo che un altro recente lungometraggio come Ancora un giorno per esempio scelse di non compiere, alternando più semplicemente interviste canoniche e fiction animata.

Nell'anima quindi Flee rimane un documentario, talmente intimo da usare l'animazione per pudore, correggendo la realtà con una drammatizzazione necessaria all'insostenibilità di quello che racconta. Anche omosessuale, Amin ha incontrato doppie difficoltà nel definire se stesso, e la conquista finale della sua identità è stata così sofferta da aver messo a repentaglio anche le sue prospettive in un mondo molto più libero, che in teoria, dal nostro più sereno punto di vista, dovrebbe abbattere ogni barriera. Non importa quanto sia libera la società danese nella quale Amin avrebbe trovato pace: Flee illustra, con rara nitidezza, non solo l'odissea immediata di chi viene estirpato dalle sue origini, ma anche la cicatrici psicologiche (quando non anche fisiche) a lunghissimo termine, quelle che segnano i senza patria.
Con il non trascurabile risultato di farci realmente comprendere cosa significhi vivere in democrazia, in società che mantengono un rispetto per la vita umana: orientato per troppi anni sulla sua pura sopravvivenza fisica, Amin ha messo in secondo piano tutto ciò che psicologicamente rende la vita degna di essere vissuta. Flee ha un lieto fine, ma Rasmussen ci fa temere il peggio: segue Amin mentre sta per cedere, per rinunciare alla prospettiva di una casa, di una dimora fissa col suo compagno Casper. Dentro di sé non sa più cosa sia una "casa", non è abituato al concetto stesso di appartenenza.
È più che giusto che Flee venga riconosciuto dall'Academy come film "internazionale" e non "straniero", come si diceva fino a qualche anno fa: non è semplicemente un'opera di produzione danese, perché attraversa le nazioni, trascende le radici, s'impone di capire cosa succede quando queste vengono meno e mondi distanti devono toccarsi.
Nell'ultima inquadratura, Rasmussen "spegne" il disegno animato appena poco dopo che il vero Amin è uscito fuori campo, affinché il pudico distacco dell'animazione non diventi mai alienazione, ma solo un'occasione per avvicinarci a una migliore comprensione del prossimo.



  • Giornalista specializzato in audiovisivi
  • Autore di "La stirpe di Topolino"
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