Il mio amico Francesco l’altro giorno mi ha confessato che pensa ancora al suo primo amore. Non è che vuole tornare con lei, è che lei gli viene in mente, sempre. Dice che a una certa ora, con una determinata luce, il pensiero – come una specie di materializzazione – arriva inevitabile, velocissimo. E, con altrettanta velocità, se ne va. Dice anche che ne è convinto: chi lo incontra, chi lo guarda e gli vuole bene vede per forza anche lei, Laura.

Io ho molti amici romantici, soprattutto uomini. Cuccioloni contemplativi votati all’introspezione, teneroni che inseguono l’eternità, l’altra metà della mela, e amano crogiolarsi nella nostalgia. Dev’essere che noi donne, a un dato punto, abbiamo pensato di doverci sbarazzare di certe zavorre antiche, ma questo è un altro discorso. Fatto sta che quando mi sono ritrovata a leggere Innamorato di Marco Drago (uscito per Bollati Boringhieri), romanzo-memoir tutto incentrato sul ricordo intatto e quasi ossessivo del primo amore, mi è subito venuta in mente una frase cruciale del mio amico dal cuore tenero e dalla mente lucidissima: mia moglie è la donna della mia vita, Laura è l’amore della mia vita. Ho pensato che tutti – forse, e con esiti a volte sublimi, a volte disastrosi – abbiamo una persona così da qualche parte, nel cuore. Un fantasma d’amore che è come la nota di fondo della nostra esistenza, sulla quale tutto, alla fine e in qualche misura, si modula. Ho anche pensato che questa indubbiamente può rivelarsi una grande seccatura, ma è anche una cosa bellissima. Dopotutto, il romanticismo non può essere solo una faccenda di maschi.

Innamorato

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"In quarant’anni non me la sono mai dimenticata. Non è passato giorno che non l’abbia pensata almeno un minuto. Ho avuto altri innamoramenti, storie coinvolgenti nelle quali ho anche compiuto gesti clamorosi. Ma poi queste donne, una volta conclusa la relazione, sono sparite. Lei no. Per questo ho voluto scriverne. Per cercare di analizzare qualcosa che non ho mai capito bene cosa fosse", ci racconta Marco Drago. E l’hai capito? "No", confessa ridendo. Della ex compagna di liceo (dopo un preludio inconcludente di quattro anni tra i banchi di scuola, nella provincia piemontese degli anni ’80, e l’amore esploso compiutamente nei tre successivi) dice di averla del tutto persa di vista. "Si è sposata. Suo marito ha imposto che non avessimo più contatti. Io mi sono trasferito. Dopo diciotto anni l’ho rivista quando è morto mio padre. Poi più nulla. Lei non è nemmeno sui social, né nella chat degli ex compagni di classe", racconta. "Ma è stato bene così. È con questa distanza che col tempo, attraversando varie fasi, è diventata una cosa che tengo dentro. Che sta lì, cristallizzata, e per questo non può finire. E che ha intimamente a che fare col periodo dell’adolescenza".

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H. Armstrong Roberts/ClassicStock//Getty Images

Quella è la stagione, dice Drago, dove succede tutto. Dove vengono impresse impronte indelebili: il primo amore è fondante, come le canzoni dei Cure e dei Joy Divison. Una specie di inprinting. E le storie che vengono dopo? "Sono sincero: ho rovinato l’umore di molte mie compagne con questa storia", racconta Drago. "Mia moglie invece ha capito, mi ha spronato a scrivere. Sa che per me è come se ci fosse una casa familiare e disabitata, dove tutto è rimasto intatto, anche se polveroso. E che ogni tanto, col pensiero, mi piace tornarci".

Cosa e chi cerchiamo veramente quando entriamo nella casa abbandonata del primo amore è la domanda vera. "Abbiamo nostalgia di noi stessi, di come ci sentivamo, di chi eravamo allora", spiega Nicoletta Suppa, sessuologa e psicoterapeuta. "L’altro è importante, perché è con lui che ci sentivamo così. Ma focalizzare che stiamo rincorrendo anche ciò che noi stessi eravamo aiuta a non costruire un’ossessione “cattiva”, che poi ci blocca". C’è un’età aurea, e per qualcuno non è nemmeno l’adolescenza. Un primo (vero) amore che può persino collocarsi temporalmente più avanti. Il risultato non cambia. "Se a distanza di tempo si fanno continuamente confronti o si pensa che ogni nuovo investimento sentimentale sia inutile, vuol dire che siamo rimasti inchiodati", continua Suppa. Sapere che certe cose passano e non tornano perché noi stessi siamo diversi è, al contrario, vivere. La consapevolezza di averle avute diventa una specie di centro interiore.

È un po’ quella che Massimo Recalcati (La luce delle stelle morte, Feltrinelli) chiama nostalgia-gratitudine, alimentata positivamente da qualcosa che non è più qui ma non smette di illuminare – come il corpo celeste di una stella morta – la nostra vita e il suo divenire. Con un paio di accortezze. Limitare i contatti: "Se ci si vede o sente continuamente, non si parla più di un fantasma d’amore ma di un pasticcio dove è facile fare confusione, confondere i piani, imbattersi in ricadute e, sostanzialmente, rimanere impantanati", avverte Suppa.

La luce delle stelle morte. Saggio su lutto e nostalgia

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Meglio tacere, poi. Cose come queste vivono bene nella lontananza e anche nel silenzio. Raccontare a quelli che vengono dopo il nostro primo mitologico amore non è una grande idea. Anche con le migliori intenzioni si innescano nell’altro confronti e insicurezze. E noi perdiamo qualcosa: "A parlarne i ricordi diventano più piccoli, perdono forza", conclude Suppa. "Dunque se sentiamo il bisogno di raccontare, chiediamoci se forse non vogliamo ridimensionarne i contorni e liberarcene". A una certa età può essere che vogliamo accomiatarci, insomma. Un desiderio latente che, forse non lo sappiamo, ci muove ogni volta che andiamo a spiare sui social l’amore della nostra vita e lo troviamo ovviamente invecchiato, con improbabili gusti musicali, o con nuove discutibili convinzioni politiche. È un altro. Si chiama bagno di realtà. Una mazzata, per qualunque fantasma.

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