Quando esce American Graffiti nel 1973 George Lucas è misconosciuto e ha girato un solo lungometraggio di fantascienza. Questo rimarrà il suo unico film fuori dal genere, almeno se si guarda solo alla sua (esigua) attività registica. Eppure Lucas, Palma d’Oro alla carriera alla 77ª edizione del Festival di Cannes, è destinato a passare alla Storia, sia della Settima Arte che della cultura pop in genere, come un vero pioniere e innovatore, o meglio un rinnovatore, che dà nuova linfa vitale a universi narrativi e produttivi fino a quel momento prevalentemente di nicchia.
Il fenomeno Lucas è impossibile da riassumere qui, ma mi interessa concentrarmi sul finale di questo suo film anomalo (almeno rispetto alla produzione per cui è noto) perché aiuta a illuminare un aspetto spesso ritenuto secondario del regista di Modesto: il suo radicale pessimismo.

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American Graffiti

Curt, Steve, Terry e John sono quattro amici adolescenti (John è in realtà un po’ più grande) che vivono in una cittadina della California e sembrano decidere i propri destini nel corso di una notte folle nell’estate del 1962. Imperversa il primo rock e dietro l’angolo c’è la guerra nel Vietnam ma Curt e Steve si preoccupano di dove andare al college e soprattutto se andarci: alla fine del film si scambieranno le scelte. Steve, più convinto dell’amico a partire, accompagna Curt all’aeroporto con la sua ragazza (vera causa del cambio di opinione) e lo guarda andare verso un destino diverso, lontano dalla asfissiante provincia.

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American Graffiti

Un cartello poco dopo ci informa degli avvenimenti successivi: Curt è uno scrittore e non vive più in America, Steve è un impiegato di provincia, Terry è morto in Vietnam e John in un incidente d’auto pochi anni dopo. Lapidario, secco, granitico, ferale, definitivo. E un po’ posticcio. La didascalia di chiusura di American Graffiti sottolinea quell’elemento malinconico e amaro che percorre tutto il film (dovuto anche all’effetto nostalgia: in fondo si parla di un tempo che fu, vestiti moda abitudini musica visioni ingenue della vita) rimasto fino a quel momento in attesa sull’uscio. La vaghezza diventa precisione, tetragona e massiva, senza che ci venga mostrato null’altro dei personaggi, con un semplice e telegrafico messaggio finale.

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American Graffiti

Il destino “a chiasmo” di Curt e Steve e quello tragico di Terry e John, oltre a farci riflettere sulla malleabilità dei desideri giovanili che letteralmente cambiano nel giro di una notte per un nonnulla, sono anche un implicito saggio della inutilità delle decisioni personali. Il loro destino è segnato altrove, nelle scelte collettive o dei centri di potere, nella guerra nella violenza nella immobilità di una provincia mai rinnegata davvero. Considerato il pervasivo nichilismo di L’uomo che fuggì dal futuro (1971) e come Lucas conclude la sua trilogia di Star Wars (La vendetta dei Sith (2005)), cioè con il passaggio dell’eroe al Lato Oscuro della Forza, verrebbe da dire che ci troviamo dinanzi al regista più radicalmente pessimista del mainstream hollywoodiano, lontano dai suoi epigoni, imitatori, modelli etc.

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American Graffiti

Il suo film più nostalgico (chiave ermeneutica fondamentale, secondo il vecchio Castoro di Sergio Arecco) è anche quello dove la nostalgia, che è sempre un ibrido tra afflato positivo e tensione negativa, si stempera in un anonimo, mesto e rassegnato epilogo. Quanto di meno accomodante e ‘lineare’ (nel senso di coerente con la diegesi) si possa immaginare: quel cartello cosa cambia nella filosofia del film? Tutto. Ma anche nulla, perché non sembra imparentato col resto, se non tangenzialmente. Eppure è di quanto più normale potesse accadere a giovani americani degli anni ‘60, a prescindere dalle decisioni prese quella notte, anche se parte dei loro destini vi si può ritrovare in nuce. Una notte quindi non così decisiva, in fondo. La normale non-narratività della vita.

Autore

Dario Denta

Nato a Bari nel 1994, ha studiato Matematica e Filosofia tra Perugia e Firenze, caporedattore de Lo Specchio Scuro, è uno dei conduttori del podcast di cinema Salotto Monogatari. Ha scritto su Shiva Produzioni, L’inutile, Ghinea, La Chiave di Sophia, agit-porn e Immoderati e ha dato un piccolo contribuito al Dizionario Mereghetti 2022. Si interessa di estetica del cinema e della videoarte.

Il film

locandina American Graffiti

American Graffiti

Commedia - USA 1973 - durata 110’

Titolo originale: American Graffiti

Regia: George Lucas

Con Richard Dreyfuss, Ron Howard, Paul Le Mat, Charles Martin Smith, Cindy Williams, Candy Clark

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