San Michele, fa’ tornare a Ottaviano i reperti archeologici che il diavolo ha fatto scomparire

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Ottaviano è città di archeologi sommi e di storici ornati con corona d’alloro. Io non sono né archeologo, né storico, ma so che Il Vesuvio distrugge e nasconde. Perciò mi chiedo perché nei paesi vicini il Vesuvio ha coperto, nascosto e conservato i segni del passato, mentre a Ottaviano avrebbe distrutto tutto. Per esempio, che fine ha fatto la statua del togato romano che insieme ad altre almeno fino al 1969 si ergeva maestosa sulle mura del Palazzo Medici?

 

Il culto di San Michele nell’Italia meridionale ha origini antiche. Nel Mezzogiorno Giuseppe Galasso individua due importanti aree “patronali”: quella di San Nicola, che comprende la Calabria, il Molise, e, in Campania, le province di Avellino, Salerno e Benevento, e l’area di San Michele che, ai “confini della Longobardia meridionale”, si incunea nelle terre consacrate a San Nicola fino ad occupare quasi tutto il Gargano. Ritiene lo studioso che il culto di San Michele discenda la penisola, e che quello di San Nicola la risalga, ma è probabile che la distinzione abbia un segno meno netto e marcato, poiché l’Arcangelo è caro non solo ai Longobardi, ma anche ai Bizantini. E forse proprio ai Bizantini si deve l’assegnazione dei “campi” specifici: alla taumaturgia di Michele la protezione dalle forze naturali, a quella di San Nicola la tutela contro le minacce della violenza politica e sociale.  A Ottajano i due culti coesistono a lungo: nel 1576, quando Pietro Feulo di Ottati, confessore e padre spirituale di Bernardetto e di Giulia de’ Medici, decide di far venire nel feudo altri Domenicani, Giulia riscatta da Filippo Spinola, vescovo di Nola, la cappella di San Nicola ”in loco ubi dicitur a tre case et fuerat derelicta et spinosa” e vi costituisce il convento del Rosario. Nella Chiesa Madre di San Michele il vescovo Lancellotti trova conservate, nel 1615, anche reliquie di San Nicola, e a San Nicola è consacrata una cappella della chiesa. Il culto di San Michele mette radici in Ottajano nei tempi bui dell’Alto Medioevo, quando Bizantini prima e Longobardi poi curano la costruzione del castello, destinato a controllare, dalla sua forte posizione, le strade che si incrociano nella pianura tra Nola e Sarno. Non è peregrina l’ipotesi che il castello e la Chiesa di San Michele siano stati costruiti su rovine di edifici romani: la Chiesa sui resti di un tempio di Castore e Polluce, o forse su una chiesa antichissima, come Adolfo Ranieri era indotto a credere dalla decorazione e dai medaglioni a figure classiche dell’ipogeo. Del resto la nostra città era al centro del “praedium” degli Ottavii e non si può credere che fosse un luogo disabitato. Non ci sono state cesure nella storia millenaria del territorio ottavianese, che, per la posizione strategica e per la fertilità delle pendici montane, fu sempre densamente popolato: lo avrebbero potuto dimostrare le ricche collezioni di monete antiche che, a dire del Ranieri, erano conservate nella Casa Comunale prima che, nel 1906, scomparissero nel nulla di quei buchi neri che di tanto in tanto si aprono nel corredo dei documenti della nostra città, e dove si sono  dissolti gli ornamenti del palazzo Medici  lo stemma della famiglia-, alcune tele delle Chiese, i paramenti sacri, gli atti di proprietà di beni pubblici. Nel 1924 il Cola che fu primo podestà fascista di Ottajano dichiarò in una seduta del consiglio comunale che a lui toccava risolvere un mistero: perché la Montagna, che agli inizi del secolo era quasi tutta demanio dello Stato, nel 1910 risultava quasi tutta proprietà dei privati. Le eruzioni e i terremoti servono pure a qualcosa, e a qualcuno, e quando, dopo un disastro, si rimettono a posto i termini di confine, può capitare che i proprietari si distraggano e li spostino in avanti. Il culto di San Michele fu poi consolidato dagli Orsini, che tennero a lungo il dominio del feudo e che dell’Arcangelo erano devoti: anche Nicola Orsini, il Pitigliano, condottiero prudentissimo, abile più che a sconfiggere i nemici, a fuggir dalle loro mani. E il culto, consolidandosi contemporaneamente in tutta l’area su cui la potente famiglia esercitava la sua influenza, Nola, Saviano, Palma, Sarno, si arricchì, ancor prima del 1631, di valori “vesuviani”.