SILLA, Lucio Cornelio in "Enciclopedia Italiana" - Treccani - Treccani

SILLA, Lucio Cornelio

Enciclopedia Italiana (1936)

SILLA, Lucio Cornelio (L. Cornelius L. f. P. n. Sulla)

Mario Attilio Levi

Dittatore romano reipublicae constituendae. Nacque nel 138. Appartenente a una famiglia patrizia finanziariamente assai decaduta, iniziò e svolse con lentezza la sua carriera, prima come questore di G. Mario durante la guerra giugurtina (107 a. C.), nella quale si deve a lui la cattura per sorpresa e inganno di Giugurta (105 a. C.); fu poi legato di G. Mario nella guerra cimbrica. Nella guerra sociale, dopo essere stato pretore nel 93 a. C. e propretore per la Cilicia nel 92, fu dapprima (90 a. C.) legato del console L. Cesare; poi fu legato del console L. Catone, e in tale anno (89 a. C.) diresse la conquista e la distruzione di Stabia e l'assedio di Nola ed ebbe altri successi in diverse operazioni. Nell'88, a cinquant'anni, fu eletto console con Q. Pompeo Rufo.

Durante il suo consolato, il tribuno P. Sulpicio Rufo riprese la consueta battaglia contro l'autorità del senato, e gli fu facile trarre nuovamente nella lotta Gaio Mario, al quale egli proponeva di dare, per decisione popolare, il comando contro Mitridate, che già era stato attribuito a S. dal senato; proponeva inoltre di dividere i nuovi cittadini nelle trentacinque tribù, e di colpire il senato destituendone molti dei membri con una legge che limitasse i debiti che i senatori potevano contrarre, e che erano divenuti una necessità per le tristi condizioni economiche delle proprietà fondiarie in cui erano investiti tutti i patrimonî della nobiltà. Le tre leggi di Sulpicio, fra gravi tumulti, furono approvate.

Ciò persuase il console S. della necessità di ricorrere a mezzi estremi e rivoluzionarî per rovesciare la situazione e ridare al Senato l'autorità dello stato. Nell'ambiente romano tre erano le forze in contrasto: la nobiltà senatoria, i gruppi politici delle assemblee capeggiate dal ceto equestre, forti delle rispettive ampie sfere di interessi e di rapporti, delle clientele e del seguito di masse; e, in mezzo alle due, le legioni, divenute forza politica in seguito alla riforma che ammetteva nelle loro file il volontarismo professionale, e non soltanto di forza materiale poiché, più che mai dopo i nuovi sistemi di reclutamento introdotti con la guerra civile degli alleati, le masse militari erano elementi vivi di un'estensione imperiale del concetto di popolo. Erano quindi una forza nuova, i cui difficili interventi nella vita politica, se diretti da una volontà realmente consapevole delle esigenze dello stato, avrebbero potuto un giorno rinnovare totalmente la vita pubblica trasformando la concezione stessa dello stato.

L'esercito, che aveva operato a Nola per la guerra civile degli alleati e che continuava ad essere attribuito a S. per il comando in Oriente, fu fatto marciare su Roma. Dal punto di vista formale un console poteva, contro la ribellione dei cittadini, mantenere l'ordine ricorrendo alla forza armata anche entro il pomerio: ma in realtà con l'iniziativa gravissima di S. l'esercito per la prima volta veniva chiamato a parteggiare in armi in una lotta di fazioni. Silla ebbe un trionfo relativamente facile: G. Mario fuggì, Sulpicio restò ucciso, furono rapidamente approvate leggi che revocavano gli ordinamenti comiziali vigenti, ristabilivano l'approvazione preventiva delle leggi e aumentavano di trecento il numero dei senatori, verosimilmente riprendendo il programma di Druso per togliere ogni ingerenza ai cavalieri nell'amministrazione delle provincie, chiamando invece i rappresentanti di quell'ordine a far parte del senato. Queste tre leggi dell'88 a. C. riassumono già la sostanza del programma politico sillano, e non si sarebbero potute far approvare che in un momento di assoluto sopravvento della nobiltà senatoria; significavano, infatti, un ritorno di circa mezzo secolo indietro nella storia costituzionale di Roma. Nuovamente sicura dei comizî, dato il ristabilito predominio delle prime classi del censo, nuovamente arbitra delle amministrazioni provinciali, ridotta l'attività dei tribuni all'esteriorità del diritto originario di recare aiuto alla plebe, la nobiltà senatoria poteva credere di avere vinto, con S., la sua battaglia.

Ma l'arma usata da S. era troppo rivoluzionaria per essere usata a scopi che non fossero quelli di una revisione totale dello stato nella linea direttiva d'una nuova politica imperiale. In quella massa militare, in cui ragioni di sentimento e d' interesse già tanto agitavano passioni politiche, venne suscitata, con l'iniziativa sillana, la coscienza della forza e del positivo valore rivoluzionario. La riforma sillana dell'88 non considerava il profondo mutamento avvenuto nei rapporti dello stesso antico popolo romano-italico; non teneva nel debito conto il fatto che l'economia generale del nuovo stato imperiale aveva creato, accanto alla declinante potenza finanziaria degli agrarî latifondisti della nobiltà, pubblicani e ricchissimi uomini d'affari d'ogni maniera; trascurava la considerazione della nuova composizione delle legioni, non più formate da agricoltori proprietarî e, in genere, da un medio ceto di ottimi soldati cittadini sempre desiderosi di riprendere la vita normale, ma bensì da proletarî disoccupati, da elementi di origine varia e non omogenea, soldati per bisogno e sempre aspiranti ad avere una sistemazione che aprisse loro, o riaprisse, le porte del medio ceto.

La potenza espansiva di Mitridate Eupatore aveva trovato facile compenso nell'ostilità delle popolazioni ellenistiche contro i Romani. Nell'87 S. cominciava una guerra che doveva durare oltre vent'anni: la guerra in cui un'intera generazione lottò non solo per conservarsi, ma per riconquistarsi il più ricco frutto delle vittorie mediterranee, e per mantenere a Roma la funzione di centro unitario di tutta la civiltà del mondo antico. In tre anni, e con successive vittorie in Grecia e in Asia, S. riuscì ad obbligare Mitridate a una pace che in realtà era un armistizio; e lo fu soprattutto perché, mentre il re del Ponto era ridotto ai suoi territorî originarî e, quantunque oppresso da una grave indennità di guerra aveva agio di ricostituire le sue forze e prepararsi alla rivincita, non solo non era stato fatto nulla per abbattere la barriera d'odio che si elevava fra Roma e il mondo ellenistico, greco ed asiatico, ma in realtà la situazione era peggiorata per un altissimo tributo straordinario, che rappresentava, è vero, il compenso delle annualità tributarie non pagate e il prezzo del sangue versato nella strage, ma che gravava l'economia orientale d'un peso che doveva incidere gravemente, e per molti anni, sulle possibilità di prosperità di tutta la parte orientale del mondo mediterraneo. Come nella politica interna dell'88, così nei rapporti provinciali ed esterni nell'85 S. si era limitato a essere campione della politica di estremo particolarismo della nobiltà e della tendenza egemonica dei ceti cittadini privilegiati.

Durante l'assenza di S. da Roma si era avuto un nuovo sopravvento delle tendenze politiche antisenatorie; la restaurazione sillana era durata pochi mesi. Morto Gaio Mario quando questi aveva creduto di poter assaporare il frutto della vendetta nella sua lunga rivalità con S., Lucio Cornelio Cinna, console nell'86 a. C., ebbe momentaneamente un potere quasi monarchico; solo console, in seguito alla guerra civile dell'87 fra lui e Gneo Ottavio, dopo la morte di Gaio Mario ebbe il potere di prorogarsi la magistratura e di scegliere un collega senza ricorrere ai comizî. Non occorreva che un passo perché un capo militare lavorasse per sé anziché per una fazione della repubblica egemone: bastava che un generale sapesse dare un programma politico, cioè una volontà e una consapevolezza rivoluzionaria alla forza reagente del popolo inquadrato nelle legioni. E, poiché si era praticata la monarchia in servizio provvisorio di una parte repubblicana, le stesse vere forze rivoluzionarie, se divenute capaci di una volontà politica, cioè di una coscienza statale, avrebbero potuto dare l'avviamento alla monarchia non più come ripiego temporaneo benché indispensabile, ma come soluzione necessaria della crisi di regime.

La gravità storica dell'esperimento di Cinna consistette appunto nel fatto che l'esperimento appare corrispondente allo scopo, e diede un pacifico e sereno periodo di vita allo stato e alla penisola, anche se si era dichiarato S. nemico pubblico e si erano mandate nuove legioni e nuovi comandanti per cercare di togliergli il comando in Asia. Cinna cercò di organizzare la difesa di Roma contro S. vincitore di Mitridate; tentò di organizzare la solidarietà degl'Italici per il suo governo contro S. e contro il senato, riuscì ad arruolare delle legioni per passare in Asia e precludere a S. la via del ritorno. Come i capi delle truppe già inviate in Asia, anche Cinna, mentre stava preparandosi alla partenza fu vittima della indisciplina che la situazione politica aveva diffuso nelle truppe.

S. - il "Romolo crudele" - portò la tendenza al potere monarchico a estremi di assoluto potere personale, e usò delle armi rivoluzionarie con un'energia che non aveva ancora paragone, ma non uscì dalla limitazione del contrasto repubblicano fra senato e assemblee. Nell'83, il ritorno di S. segnava l'inizio di una nuova guerra civile, che fu accompagnata da stragi, proscrizioni, confische e distruzioni tali da lasciare una traccia durevole nella situazione italica. Appoggiato da gran parte degli uomini più influenti del ceto senatorio, S. ritornava dall'Asia circondato da un prestigio semidivino, nel quale la concezione ellenistica, per cui il potere statale ha un fondamento divino, si univa e si rafforzava nella concezione romana per cui la virtus è correlativa della pietas. Le truppe di S. lo seguivano con venerazione e con la fiducia assoluta nella sua sovrumana capacità che gli avrebbe dato la vittoria su tutti i nemici e gli avrebbe consentito di dare, a chi con lui aveva combattuto, tutto il compenso e tutti i premî che aveva promessi. Contro di lui si rinnovava la guerra degli alleati italici, che temevano le conseguenze d'una restaurazione senatoria fatta dal generale che già aveva fatto pesare su di loro la severità della punizione romana per i traditori dello stato. Organizzati da Cinna sotto i continuatori dell'opera dello scomparso capo della parte antisenatoria, gli Italici ripresero una guerra che era la conseguenza della loro piena partecipazione alla lotta politica dello stato romano. Il 1° novembre dell'82, alla Porta Collina S. vinceva gli avversarî in una battaglia campale in cui il loro esercito restava annientato.

Padrone dello stato, e con ben altra potenza di quanta ne avesse avuta L. Cornelio Cinna alcuni anni prima, Silla Felix era arbitro della situazione con un prestigio i cui limiti non erano soltanto umani: ma se la sua posizione poteva essere quella di un monarca, la sua volontà fu soltanto quella di un capoparte. Come Mario e Cinna avevano sospeso temporaneamente la normalità degli ordinamenti repubblicani per poter determinare uno stato di cose favorevole alle loro soluzioni dei problemi politici romani, così S. usava di un potere da tiranno o da re per procedere alla restaurazione del governo senatorio, nel quale egli avrebbe avuta quella posizione di predominio e prestigio civile che già avevano raggiunto, prima di lui, altri Romani.

Le leggi dell'88 si erano dimostrate insufficienti. S. ricorse alla repressione più sanguinosa uccidendo o mettendo al bando migliaia e migliaia di nemici armati, di avversarî civili, distruggendo intere città italiane, sempre in nome di una giustizia fondata su una volontà e una legge di governo che identificava arbitrariamente lo stato con la fazione. S. considerava la strage e la desolazione come diritti conseguenti al compito che si era imposto: ma questi diritti, e la necessità in cui S. si trovava di versare tanto sangue per raggiungere il suo scopo, rivelavano che la restaurazione governativa per cui egli si batteva era pura e semplice reazione, il cui scopo era negare la realtà dei bisogni delle masse e dello stato, sopprimendo forze che erano pure elementi attivi dello stato stesso, per giungere alla restaurazione di un governo inferiore alle esigenze statali e ai mezzi stessi impiegati per restaurarlo.

Investito di una dittatura politica e legislativa, reipublicae constituendae, magistratura straordinaria il cui unico precedente era il decemvirato, e che restò come un detestato ricordo di arbitrio tirannico nella tradizione romana, sistemati i suoi veterani nelle moltissime terre italiche confiscate, S. pose mano a un totale ripristino del governo senatorio. Le riforme sillane, in sostanza, significavano l'accentramento nel senato di tutti i poteri: portarono a 600 il numero dei senatori, ogni ingerenza politica del ceto equestre restava annullata con l'ammissione dei cavalieri in senato; vincolarono la carriera dei magistrati per impedire ogni potere personale, rimisero ogni potere giudiziario e tutto il controllo provinciale nel senato, umiliarono il potere dei tribuni della plebe sino a togliere qualsiasi significato a questa magistratura. I comizî sacerdotali ritornavano a essere chiusi a chiunque non appartenesse alla nobiltà; le stesse truppe, il cui valore rivoluzionario S. aveva sperimentato e fatto sperimentare, tenute lontane dall'Italia da una legge che estendeva a tutta la penisola appenninica la zona sacra interdetta agli armati.

Ma il prezzo a cui era stato ottenuto questo trionfo del senato, i mezzi che avevano servito a raggiungerlo lo infirmavano. L'opera di S. dimostrava chiaramente che non era possibile dare autorità e legittimità di imperio allo stato senza giungere a una forma di governo che consentisse la perduta aderenza fra il ceto politico dominante e la realtà popolare. S. con direttive e forze di popolo aveva ridato fittizia vita al governo insufficiente e inadeguato dei ceti privilegiati: ma era evidente che lo stato di polizia creato dall'arbitrio sillano non aveva nessuna possibilità di vita feconda, se per crearlo si era fatto ricorso alle stesse forze e agli stessi mezzi che costituivano il reagente rivoluzionario per cui lo stato di polizia avrebbe potuto e dovuto ritornare a essere stato imperiale di popolo.

L'enorme arbitrio della sua politica rese fragile l'opera di S e creò l'odio attorno alla sua memoria. Ma l'odio prova quanto ampio fosse il significato della sua azione, non per la restaurazione senatoria, che già ai politici maggiori della generazione successiva alla sua sembrava una ingenuità politica. La grandezza storica dell'opera sillana è tutta nel significato imperiale che discende da dieci anni di una attività che ha del sovrumano, non solo per la costante felicitas che lo accompagnò in un continuo successo, tanto da far ravvisare nella sua azione crudele e spietata il segno di una volontà superiore che lo guidava nelle vie della storia, essenzialmente verso risultati e conseguenze che erano estranei ai suoi particolari scopi.

Con la fine dell'anno 81 a. C. era, si può supporre, ultimata la riforma costituzionale sillana; nell'anno 80 si ebbe un tentativo - il primo - per annullarla, ad opera di Q. Lucrezio Ofella, che chiedeva con la violenza il consolato senza aver percorso la carriera prescritta dalle leggi restrittive di S. Il tentativo fu troncato dalla morte, ma, benché fallito, poteva essere il segno della precarietà della costruzione politica di S. Il consolato fu chiesto e ottenuto da S. e da Q. Cecilio Metello Pio: era il secondo consolato di S. In virtù di questa carica iniziò i lavori per la ricostruzione del tempio di Giove Capitolino e procedette all'attuazione delle sue riforme. Alla fine dell'anno rifiutò il consolato che gli si voleva rinnovare, e abdicò anche la dittatura: licenziati i littori ritornò privato cittadino e, considerando conclusa la sua opera, non volle attendere ad altro che alla ricostruzione del tempio capitolino, opera che considerava coronamento e simbolo della sua attività. Nell'occuparsi di questo la sua fibra, sciupata da una vita troppo intensa, cedette ad un impeto di collera provocato dalla renitenza dei Puteolani a fornire la loro parte di fondi per la ricostruzione del tempio: uno sbocco di sangue determinò la sua morte (78 a. C.).

La figura di S. ha un fascino singolare che è stato inteso e sentito, con più odio che amore, dagli antichi e dai moderni. Giustamente si può dire che in lui si assommano molte delle caratteristiche dell'antico patrizio romano, ma tuttavia la parte più vera e reale di lul non è nel suo fermo volere di restaurazione dell'antico e di continuazione delle glorie e del potere senatorio: già in lui, nella personale sua energia, nella superiorità che sapeva d'avere e di cui sapeva servirsi, si presenta il Romano dei tempi nuovi, dalla personalità rivoluzionaria ed eroica.

S. ha lasciato un'autobiografia, ora smarrita, i Commentarii rerum gestarum, in 22 libri, completata dopo la sua morte dal liberto Epicadio. Questi commentarî hanno avuto larga influenza sulla tradizione storiografica posteriore. Persona di larga cultura e gusto, S. ha determinato un movimento notevole nel campo letterario e storiografico, nettamente dominato dalla sua figura e dalle sue tendenze. Di lui si ricorda anche un epigramma ad Afrodite scritto in greco.

Bibl.: Drumann-Groebe, Geschichte Roms, II, Berlino 1902, p. 364 segg.; H. Last e R. Gardner, in Cambridge Ancient History, IX (1932), p. 261 segg.; M. A. Levi, S., Milano 1924; C. Lanzani, in Historia, 1931, p. 353 segg.; H. Berve, in Neue Jahrbücher, 1931, p. 673 segg.; J. Carcopino, Sylla ou la monarchie manquée, Parigi 1931. I frammenti dell'autobiografia in Peter, Histor. roman. relliquiae, I, 2ª ediz., Lipsia 1914, p. 195. La bibliografia sulla medesima in Schanz-Hosius, Röm. iter., I, 4ª ed., Monaco 1927, p. 328.

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