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I Pearl Jam tornano alle origini: come suona “Dark matter”

Il nuovo album della band, ascoltato in anteprima: il racconto canzone per canzone
I Pearl Jam tornano alle origini: come suona “Dark matter”
Credits: Danny Clinch

Le storie delle band sono spesso come una serie TV: si sviluppano seguendo un arco narrativo che rispetta alcune forme di racconto ricorrenti, una struttura in stagioni ed episodi che spesso segue un canovaccio consolidato. La nuova stagione della storia dei Pearl Jam si intitola "Dark matter", ma potrebbe essere sottotitolata “Ritorno alle origini”. Un classico, il ritorno, dopo avere percorso nuove strade e cercato nuovi suoni, come era successo con “Gigaton”, l'album di 4 anni fa. “Dark matter” è sia la logica continuazione dell’album precedente, sia parecchio diverso.

C’è un nuovo personaggio, nella storia di questa nuova stagione: Andrew Watt, giovanissimo e quotatissimo produttore che ha lavorato al disco solista di Eddie Vedder “Earthling”. Qua però ha applicato la formula che ha usato per produrre "Hackney diamonds", l'ultimo album dei Rolling Stones: riportare una band storica alla sua essenza. Watt è nato quando i Pearl Jam stavano iniziando a lavorare a “Ten”, è cresciuto da fan e da fan ha ragionato, chiedendosi cosa si vorrebbe sentire dalla band. Ed eccolo lì il ritorno alle origini: brani che citano gli assoli di “Ten”, provano a ricreare l’intensità del loro repertorio classico, che ricordano le sonorità di band e artisti di riferimento come Soundgarden, R.E.M., Tom Petty, i Pink Floyd, gli U2, il punk, gli Who.

“Dark matter” è un disco che, a differenza del precedente, è stato inciso con tutta la band assieme, e si sente. Non a caso non ci sono crediti di scrittura per le singole canzoni, ma queste sono accreditate a tutta la band (e pure a Josh Klinghoffer e allo stesso Watt, che vi suonano pure diversi strumenti). Vedder è invece accreditato come autore di tutti i testi.
Dopo un paio di ascolti per i fan a Los Angeles e Londra, “Dark matter” è stato mandato in anteprima alla stampa: lo abbiamo ascoltato, ed ecco le prime impressioni, canzone per canzone. 

Scared Of Fear

Dopo il suono di palle da biliardo, un riff che potrebbe uscire dai primi album della band: una dichiarazione di intenti che riflette sul tempo che passa (“We used to laugh/we used to sing/we used to dance/we were our own scene”), che parte dall’ammissione delle proprie fragilità per lasciarsi andare: quello che i Pearl Jam provano a fare nel disco ("I ’m not saying i know/it’s all feeling unclear/we all like control/(surrender to you dear").
La canzone cita “Setting sun”, il brano finale del disco ("Is this what we’ve become?/one last setting sun/I’ll give, but I can’t give up/I’ll live, not long enough"). Contiene un rallentamento/ripartenza e un gran assolo di McCready: tutti marchi di fabbrica dei Pearl Jam.

React, Respond 

Una canzone ancora più veloce, con chitarra e basso distorto che duettano: altro brano che suona come classicamente Pearl Jam: “When what you get is what you don’t want/don’t react, respond”. Si chiude su un assolo di McCready.

Wreckage

Un classico midtempo con la voce davanti e una chitarra arpeggiata tra R.E.M. e Tom Petty, due grandi amori di Vedder e della band: un’impressione rinforzata dalla presenza di cori e armonie vocali. “I’ve only ever wanted/for it not to be this way
but you’re now like the water/and the water will find its way/combing through the wreckage/holding out, holding on”.

Dark Matter

La canzone più “alla Soundgarden”: si apre con un giro di batteria in cui Matt Cameron fa Matt Cameron, ovvero uno dei migliori batteristi rock in circolazione, un riff granitico di chitarra alla Kim Thayil, un assolo di Mike McCready, mentre la voce di Eddie Vedder è un po' indietro nel mix. Il biglietto da visita del ritorno.

Won't tell 

Altro midtempo, che parte con un ritmo che ricorda “Crazy mary” (una delle cover più amate della band), per aprirsi su un finale quasi alla U2, con le chitarre che si intrecciano con la voce di Vedder: “You can find me here / waiting for your message to come/can you heal, can you feel/the chains in my heart”.

Upper Hand

Un breve inizio con un synth che ricorda gli Who, poi sembra citare ancora gli U2, quelli di “Where the streets have no name”, per poi aprirsi ancora diventando un classic rock tra Beatles e Pink Floyd, soprattutto nelle chitarre “liquide” della prima parte dell’assolo alla Gilmour: “I apologize, so sorry ‘bout the timing/but you know, something that I never had/was the upper hand”. ll finale è invece più classicamente PJ con Vedder che declama “Carry me” su una melodia che richiama “Porch”.
Con i suoi 6 minuti è la canzone più ambiziosa del disco.

Waiting for Stevie

Un riff che ricorda certe atmosfere di “Superunknown” dei Soundgarden, con una melodia molto aperta (“You can be loved by everyone/ and still not feel, not feel love") e un altro grande assolo finale di McCready. Secondo Vedder racconta la storia di una ragazza che trova conforto nella musica più che nelle sue coetanee (“Words follow her down/needs to shake em off now/this godforsaken town/don’t deserve her anyhow”) mentre il titolo si riferisce al fatto che la prima idea è stata scritta da Vedder e Watt mentre aspettavano Stevie Wonder per le sessioni di “Earthling”, il suo disco solista.
Segue una dolce coda strumentale di 45 secondi che in realtà è un’altra micro-canzone, un frammento di un brano non terminato.

Running

Due minuti di punk-rock, un altro classico dei dischi dei Pearl Jam, che finisce in maniera rabbiosa, quasi alla “Lukin”: è stato il secondo singolo e sembra raccontare della corsa della vita che non finisce mai: “You got me running, got me running/but the race it never ends/I’m feeling done in, it’s rather stunning”.

Something special

Un mid tempo su chitarre acustiche un po’ alla “Off he goes”, ma con la voce che a differenza di altri brani, è molto davanti nel mix. Poi entrano elettriche con una presenza della batteria  e cori sul ritornello. Una canzone motivazionale: “Aint it the truth/ we believe in you/we all got something, we all got something to prove/out of everyone you’re not just anyone/you’re the one and only you”.

Got to give

Breve intro chitarra acustica, poi un’elettrica in bella evidenza - con un ritornello con una linea melodica alla “Light Years” (“I’ll be the last one standing/I’ll be the last to forgive you”). “If you can see/ Something’s got to give”, declama Eddie Vedder sul crescendo finale alla Who, fatto di chitarre e piano.

Setting sun

Percussioni, chitarra acustica, basso fretless per un brano che ricorda un po’ “Long road”, nella parte iniziale. Un finale che inizia in modo malinconico che riflette sul tempo che passa: (“I dreamt to you I would belong/held the dream you would stay with me/til kingdom come/turns out it was more like hit and run/am i the only one hanging on?). Poi si apre in maniera più epica quando entrano chitarra elettrica e batteria: “May your days be long til kingdom come/ we can become  one last setting sun/am I the only one hanging on/we could become,... one last setting sun or be the sun at the break of dawn/let us not fade”.

Scheda artista:   
Pearl Jam
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