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GLI ITALIANI IN VENEZUELA: UN PATRIMONIO DA DIFENDERE

Due secoli di immigrazione hanno lasciato tracce profonde nel tessuto sociale, economico e culturale del paese caraibico. Artigiani, imprenditori, artisti, militari: chi sono gli emigrati che hanno fatto onore all’Italia. Roma deve appropriarsi di questa eredità.

di Michele Castelli
Pubblicato il Aggiornato il
Pubblicato in: Venezuela, la notte dell'Alba - n°3 - 2019
Carta di Laura Canali - 2019
Carta di Laura Canali - 2019 

1. Quando negli anni Cinquanta del Novecento gli italiani cominciano a emigrare in Venezuela percepiscono immediatamente un ambiente cordiale che contribuisce a minimizzare le diffidenze reciproche, favorendo una rapida integrazione dei nuovi venuti ai modelli di vita e ai costumi dei nativi. La comune origine latina consente di superare con relativa facilità l’ostacolo della lingua.


Gli italiani iniziano a sposare i creoli e ad acquisire in massa la cittadinanza venezuelana. Le conseguenze di tale empatia sono particolarmente evidenti nell’aumento del numero degli oriundi, che nel periodo d’oro della presenza italiana in Venezuela – tra gli anni Settanta e gli anni Novanta – superano i due milioni.


La laboriosità e lo spirito d’intraprendenza degli immigrati vengono apprezzati tanto dalla popolazione locale quanto dai governanti, che individuano negli italiani – così come negli spagnoli e nei portoghesi, protagonisti in quegli anni di analoghi flussi migratori – un elemento di stabilità e ne incentivano l’integrazione nel paese con opportune politiche economiche, sociali e culturali.


Questo processo d’integrazione nella nuova patria ha fatto sì che le seconde generazioni non abbiano mantenuto un forte legame con l’Italia, che ha corrisposto questo sentimento di relativa indifferenza. Fatta eccezione per il primo periodo dell’emigrazione italiana in Venezuela, quando le rimesse degli emigrati costituivano uno strumento necessario e fondamentale per la ripresa economica, le autorità del Belpaese non hanno dato la dovuta importanza alla diffusione della lingua e della cultura italiane.


Né hanno saputo sfruttare le opportunità offerte al made in Italy dalla seconda generazione degli italiani di Venezuela, in larga parte composta da apprezzati professionisti e da piccoli e grandi imprenditori che avrebbero potuto ricorrere alle tecnologie italiane anziché a quelle di altri paesi.


L’assenza di una strategia è emersa con particolare intensità in occasione dell’attuale crisi politica. A differenza di altri paesi dell’Unione Europea, infatti, Roma ha negato persino la solidarietà al popolo venezuelano, in lotta per riconquistare la libertà sequestrata da un regime che negli ultimi anni ha ridotto il paese in miseria. Ovviamente, coinvolgendo gran parte della comunità italiana.


2. I primi contatti significativi tra Italia e Venezuela risalgono al XIX secolo, quando in entrambi i paesi erano in atto le guerre d’indipendenza per liberare i rispettivi territori dall’occupazione straniera. Erano anni in cui uomini d’arme e di spiccata cultura venivano attratti dall’avventura patriottica di Simón Bolívar. Il patriota venezuelano conosceva e amava la nostra civiltà, tanto che nel 1805, durante un viaggio a Roma, fece lo storico giuramento sul Monte Sacro, promettendo che non avrebbe dato riposo al suo braccio né pace alla sua anima fino a quando non avesse spezzato le catene spagnole che opprimevano la sua patria.


Carta di Francesca Canali
Carta di Francesca Canali 

Uno dei primi combattenti italiani a raggiungere il Venezuela fu Carlo Luigi Castelli, partito da Torino nel 1815. Castelli combatté al fianco del Libertador ed ebbe modo di dimostrare le sue virtù di stratega militare soprattutto nella decisiva battaglia di Carabobo (1821), in seguito alla quale Bolívar lo insignì del grado di tenente colonnello. Castelli morì a Caracas nel 1860 e sedici anni dopo la sua morte, per decreto del presidente Guzmán Blanco, i suoi resti vennero collocati nel Pantheon nazionale.


Un’altra figura di spicco del bolivarismo italiano fu Giovanni Battista Agostino Codazzi, nativo di Lugo (Ravenna) e giunto in Venezuela nel 1817. Oltre che per la sincera amicizia che lo legava a Bolívar, al quale dimostrò indiscutibile fedeltà in battaglia, è ricordato per aver disegnato la prima mappa fisica del paese e fondato una notevole scuola geografica e cartografica che ha lasciato tracce indelebili.


Terminate le campagne militari, dopo la morte di Bolívar continuò a collaborare con i patrioti che si succedettero al potere. Capì subito che il paese, liberato dal colonialismo spagnolo, avrebbe avuto bisogno di mano d’opera qualificata per accelerare il suo progresso. Fu così che nel 1843 ottenne dall’allora presidente José Antonio Páez l’autorizzazione per il reclutamento in Germania di circa 400 agricoltori, con i quali fondò in una fertile collina non lontana da Caracas l’attuale Colonia Tovar, divenuta nel tempo un prospero centro agricolo e turistico.


3. All’inizio del XX secolo il Venezuela – la cui superficie è superiore ai 900 mila chilometri quadrati – conta appena quattro milioni di abitanti ed è ancora un  paese prevalentemente rurale. Solo la morte del dittatore Juan Vicente Gómez (17 dicembre 1935) e l’avvento al potere del generale Eleazar López Contreras apre uno spiraglio di modernizzazione.


Alle presidenziali del 1947 viene eletto il noto scrittore Rómulo Gallegos, che nel suo messaggio di insediamento – oltre ad annunciare fondamentali misure volte a riscattare i diritti dei diseredati – convoca le «braccia straniere, il sangue straniero, che coadiuvi a rafforzare il deficitario materiale umano locale». Lo scopo è evidentemente quello di accelerare il progresso di un paese potenzialmente ricco di risorse naturali ma carente di mano d’opera.


Comincia così una vera e propria politica di Stato orientata a favorire l’arrivo massiccio di italiani, spagnoli, portoghesi e cittadini di altre nazionalità, vittime in patria della desolazione materiale e spirituale causata dalle conseguenze dirette o indirette della guerra.


All’inizio degli anni Cinquanta si insedia al potere il generale Marcos Pérez Jiménez, che ignora i risultati delle elezioni convocate dal triumvirato militare di cui faceva parte e che aveva deposto Rómulo Gallegos. Jiménez avvia una vasta politica edilizia, favorito anche dagli introiti derivanti dalle concessioni petrolifere. Iniziano così a spuntare grattacieli dappertutto, anche in quei quartieri dove il buon senso avrebbe suggerito la preservazione della memoria storica del passato coloniale.


Il Venezuela inizia a prosperare e a rivaleggiare economicamente con Argentina e Brasile. Gli agenti di viaggio del Vecchio Continente si adoperano per organizzare, in forma sempre più massiccia, le spedizioni di braccia robuste verso le sconosciute terre tropicali.


Italiani e lavoratori provenienti da altri paesi devastati dalla guerra rispondono all’appello con entusiasmo e cominciano a prendere d’assalto le vecchie navi da guerra, ancora poco equipaggiate per il trasporto di persone. Un flusso favorito dalla lucida visione di Jiménez, che comprende l’importanza di importare manodopera laboriosa e qualificata in un paese in cui l’analfabetismo è ancora predominante.


In poco tempo, non solo la capitale Caracas ma anche alcuni centri rurali periferici si riempiono di italiani in cerca di fortuna. Nel solo 1955, anno di maggiore flusso migratorio secondo i dati dell’Istat, entrano in territorio venezuelano 29.541 italiani. Tra il 1950 e il 1958 il totale è di 181.320 persone. Il flusso migratorio tra Italia e Venezuela comincia a scemare proprio a partire dal 1958 poiché si diffonde la credenza, non del tutto veritiera, che gli immigrati italiani fossero fautori del regime di Jiménez e che lo stesso governo di Roma lo sostenesse in virtù dei benefici che la collettività ne riceveva.


Così, quando il 23 gennaio di quell’anno il popolo venezuelano scaccia dal potere il dittatore, non poche aziende gestite dai nostri connazionali sono vittime di saccheggi e incendi. Molti, spaventati dalle minacce di ulteriori vendette, cominciano un tumultuoso ritorno. Alcuni con le ingenti ricchezze accumulate grazie alla costruzione di interi nuovi quartieri nelle principali città del Venezuela. Altri con appena l’indispensabile per iniziare una nuova vita nel paese d’origine. Chi non fa ritorno in Italia si dirige verso mete d’emigrazione più sicure, come Australia, Canada, Stati Uniti e Argentina, dove si erano già create consistenti comunità italiane.


Gli italiani che rimangono in Venezuela si concentrano negli stessi centri urbani in cui avevano mosso i primi passi. Vale a dire Caracas, Maracay, Valencia, Barquisimeto, Maracaibo, Punto Fijo, Puerto La Cruz, Puerto Ordaz, El Tigre e Maturín. Alcuni si avventurano verso Turén, Acarigua, Araure e San Felipe dove creano con il tempo prestigiose aziende agricole che fino a qualche anno fa, prima di essere espropriate dalla cosiddetta «rivoluzione» bolivariana di Hugo Chávez, costituivano l’orgoglio del paese.


4. Gli italiani emigrati in Venezuela provengono soprattutto da Sicilia, Campania, Abruzzo, Molise, Puglia e Veneto, anche se non mancano rappresentanti delle altre regioni italiane. All’inizio i nuovi venuti tendono a essere impiegati nelle occupazioni che svolgevano nel paese d’origine: i braccianti e i manovali si destreggiano come aiutanti d’opera nei cantieri edilizi, gli artigiani (soprattutto falegnami, calzolai, barbieri e meccanici) lavorano alle dipendenze dei locali o aprono in miseri scantinati delle botteghe che provvedono a malapena ai loro bisogni essenziali.


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Il tratto peculiare dell’emigrazione italiana in Venezuela è però la scomparsa della figura del contadino, nonostante la politica migratoria di Caracas fosse orientata proprio a sopperire all’immenso deficit di manodopera nel settore agricolo. Solo un numero insignificante di italiani si trasferisce nelle zone quasi spopolate degli Stati di Portuguesa e Apure, dove senza alcuna assistenza tecnica o logistica – con la sola caparbia volontà di progredire – riescono nel giro di pochi anni a trasformare in moderne aziende agricole e/o di allevamento di bestiame quelle terre vergini.


Terre che continuarono a essere abitate da animali domestici o selvatici di ogni genere, rispettati nel loro habitat naturale. Alcuni anni fa chi scrive ha avuto modo di sperimentare sul campo questa realtà, soprattutto nelle zone di Turén: qui l’intraprendenza di un immigrato molisano è riuscita a trasformare in un immenso giardino di piante e di colture una vasta area prima tappezzata di cespugli spinosi, sterpeti e alberi aggrovigliati.


I pochissimi tecnici e operai specializzati giungono invece alla fine degli anni Sessanta, quando i flussi migratori perdono il carattere massiccio del decennio precedente e in Venezuela arrivano quasi esclusivamente persone con contratti di lavoro a tempo determinato. Alcuni ottengono un’occupazione fissa e decidono dunque di sistemarsi nel paese.


In quegli stessi anni arriva in Venezuela anche un buon numero di artisti, letterati, architetti e scienziati, che con la loro opera contribuiscono ad arricchire il patrimonio culturale della nazione.


Carta di Laura Canali
Carta di Laura Canali 

Fra i letterati il primo ad arrivare è Edoardo Crema (1892-1974), giunto in Venezuela nel 1927 dal paese di Montagnana (Padova). Nel 1939 Crema inizia la carriera di docente presso l’Istituto pedagogico nazionale e l’Università centrale del Venezuela. È autore di una ricca produzione letteraria che va dalla diffusione in lingua spagnola di alcuni classici italiani come la Divina Commedia, il Canzoniere, l’Orlando Innamorato e altri fino a opere critiche che danno una nuova dimensione alla letteratura venezuelana perché basate sui valori dell’estetica come essenza della creazione artistica. L’opera crociana, d’altra parte, non era ancora conosciuta nel paese.


Tra i tanti suoi discepoli spicca la toscana Marisa Vannini (1928-2016), che gli succede come docente presso l’Università Centrale. Tra le altre opere, Vannini è autrice di un volume di grande valore storico intitolato Italia y los italianos en la historia y en la cultura de Venezuela. Pubblicato nel 1966, non comprende però la parte relativa al XX secolo. Tra gli scrittori è d’obbligo menzionare anche Gaetano Bafile, leggendario direttore e fondatore del giornale La Voce d’Italia, le cui inchieste in difesa degli interessi italo-venezuelani, poi raccolte in volume, sono note in Venezuela e non solo.


I musicisti, dal canto loro, hanno dato un contributo notevole alla diffusione della musica lirica e della musica da camera. Merita di essere ricordato, in particolare, il pianista Corrado Galzio, nativo di Noto (Siracusa). Galzio arriva in Venezuela nel 1947 in compagnia del suo inseparabile amico e violinista romano Alberto Flamini. Fanno parlare immediatamente di sé negli ambienti colti di Caracas, Maracaibo e San Cristóbal perché insieme al violoncellista Luigi Fusilli e al violista Guglielmo Morelli costituiscono il primo quartetto di musica da camera del Venezuela.


Per espressa richiesta dell’esimio maestro Pedro Antonio Ríos Reyna, direttore dell’Orchestra sinfonica venezuelana, l’anno seguente all’arrivo di Galzio, nel 1948, da Verrua Po (Pavia) giunge anche il violinista, compositore e direttore Primo Casale (1904-81). Quindi, se oggi il Venezuela può vantare una scuola musicale di formazione classica fra le più importanti del mondo (orchestre sinfoniche infantili, giovanili, municipali eccetera) un merito speciale deve essere riconosciuto ai maestri italiani che si sono succeduti durante la seconda metà del secolo scorso, come Alberto Flamini, Luigi Fusilli, Guglielmo Morelli, Luigi Casale, Salvatore Licari, Mario Mescoli, Antonuccio De Paolis e molti altri. E in particolare Corrado Galzio e Primo Casale, forgiatori di talenti che oggi brillano di luce propria nel firmamento della musica universale.


I pionieri italiani si sono distinti anche nei campi della pittura, della scultura e dell’architettura, lasciando in retaggio scuole rinomate nell’intero continente americano. In campo pittorico merita di essere ricordato Giovanni Di Munno, nativo di Monopoli (Bari). Già dal suo arrivo a Caracas nel 1948 viene colpito dagli intensi colori tropicali della città e sperimenta le diverse possibilità della luce creando vedute meravigliose del monte Ávila. Tanto che alcune sue opere – insieme a quelle di Manuel Cabré, anche lui immigrato dalla Spagna negli anni Cinquanta – vengono scelte per illustrare le pubblicazioni dei più bei sonetti dedicati alla montagna che si innalza sulla popolosa vallata caraqueña dai poeti venezuelani Manuel Díaz Rodríguez, Andrés Eloy Blanco, Jacinto Fombona Pachano e altri. Va poi ricordato anche Giorgio Gori (1910-90), francese di nascita ma fiorentino d’adozione. Ha lasciato un’ampia opera pittorica e scultorea che gli è valsa il premio nazionale in entrambe le discipline artistiche.


Quanto agli scultori, è doveroso menzionare almeno il nome del romano Hugo Daini (1919-76). Giunto in Venezuela nel 1949, porta con sé le tecniche della scultura italiana del periodo tra le due guerre e le combina con quelle locali. Lo stile che ne risulta è unico e inconfondibile. Lo si può apprezzare nelle molteplici piazze e musei dove le sue opere spiccano per bellezza e concettualità. Tra i suoi lavori più quotati figurano la facciata della Casa d’Italia di Caracas, il monumento a Bolívar nell’immensa Belgrave Square di Londra e il Monumento alegórico a la Fundación de Cumaná nella capitale dello Stato venezuelano di Sucre.


5. Oltre che dalle manifestazioni artistiche, la presenza italiana in Venezuela traspare anche dalle attività giornaliere delle migliaia di immigrati e dei loro discendenti. Nonostante negli anni Cinquanta e Sessanta i governi venezuelani abbiano implementato politiche volte a preservare l’identità nazionale del paese dai massicci flussi migratori provenienti dall’Europa, dal Medio Oriente e dell’Asia continentale, sono stati conservati molti aspetti delle culture d’origine degli immigrati. In città come Caracas, Maracay e Valencia gli italiani continuano a commemorare i loro santi patroni. La tradizione del cenone natalizio è ancora viva. Prodotti tipici italiani come lo spumante, il torrone e il panettone sono ormai comuni anche sulle tavole dei nativi. La terminologia culinaria italiana abbonda non solo nei ristoranti italiani o nelle case degli oriundi, ma persino tra i locali.


Negli ultimi sessant’anni i governi venezuelani hanno conferito numerosi riconoscimenti agli immigrati italiani, decantandone le virtù. Con le dovute eccezioni, le schiere di manovali, braccianti e contadini si sono trasformati in pochi anni in commercianti di successo. Alcuni sono persino diventati grandi industriali, le cui produzioni hanno consentito al Venezuela di ridurre le importazioni.


L’elenco degli imprenditori italiani che hanno fatto fortuna in Venezuela è lungo. Spiccano i fratelli Filippo e Giuseppe Sindoni, di origini siciliane. Nel 1951 fondano uno dei primissimi pastifici del Venezuela (Pastas Sindoni), ancora oggi tra i più rinomati. Qualche anno più tardi aprono un mulino (Molvenca) per la produzione di farine speciali per la produzione della pasta e la panificazione. Nel 1988 diventano i principali azionisti di El Aragüeño, il primo quotidiano dello Stato di Aragua, mentre nel 1994 aprono un canale televisivo regionale (Tvs). Filippo è stato assassinato alcuni anni fa durante un sequestro che ha fatto molto scalpore.


Merita una menzione anche l’abruzzese Umberto Petricca, costruttore e attualmente proprietario unico della Universidad Santa María, che con oltre 24 mila studenti iscritti è la più grande università privata del Venezuela.


L’industria delle calzature, oggi alquanto decaduta a causa della situazione del paese, è inoltre quasi completamente dominata da imprenditori italiani.


La maggior parte degli artigiani che aveva iniziato con una modesta bottega può oggi esibire lussuosi locali nelle zone privilegiate delle principali città del paese. Nonostante la loro modesta formazione scolastica – oltre il 47% non era andato oltre la terza elementare – gli emigrati italiani hanno investito con lungimiranza sul riscatto sociale dei figli e dei nipoti. I quali oggi sono rinomati docenti universitari, medici, ingegneri, ricercatori, militari di vertice che portano con orgoglio i cognomi italiani. Nuovi venezuelani che nel corso degli anni si sono ritagliati un ruolo specifico e determinante nello sviluppo del paese.


Purtroppo, la grave crisi che negli ultimi anni ha prostrato la nazione non ha risparmiato neanche i giovani italo-venezuelani di terza generazione. Anch’essi hanno preso parte all’esodo di massa dal paese, che secondo le stime più credibili ha coinvolto circa tre milioni e mezzo di persone. Il calo della popolazione italo-venezuelana a partire soprattutto dalla scalata al potere di Hugo Chávez è dimostrato dai dati dell’Aire forniti dal consolato generale d’Italia a Caracas. Se nel 2005 i cittadini residenti con passaporto italiano ammontavano a 203.702 unità, oggi non superano i 140 mila, con una proiezione totale di circa 800 mila residenti che includono i nati in Venezuela e coloro che pur essendo nati in Italia non hanno mai recuperato la cittadinanza italiana, perduta con l’acquisizione di quella venezuelana.


L’Italia non ha mai manifestato una particolare vicinanza ai suoi figli residenti in Venezuela. È dunque auspicabile un intervento più deciso del governo italiano non solo per stimolare la preservazione degli usi e dei costumi caratteristici della nostra cultura – per fortuna già abbastanza radicata nella società venezuelana grazie all’esperienza dei pionieri – ma anche per promuovere un maggiore interesse nei confronti delle nuove generazioni di italo-venezuelani allo scopo di garantire la continuità della nostra presenza in un paese che ha accolto con amore e rispetto i nostri nonni in tempi difficili.