«A lungo ho avuto l'acquetta alle caviglie. Era uno stagno, ci sguazzavo. Ancora non sapevo che avrei visto l'oceano». Anna Foglietta parla al telefono, e «di là» Nora si dispera. Ha nove mesi, e forse fame. Lei l'allatta ancora. «Ho ormai delle "microtette", ma finché ce n'è non smetto. Otto/nove poppate al giorno a margine di un set non sono uno scherzo, ma io me ne sono fregata di chi pensava fossi “sbagliata” e me lo sono sempre presa, il tempo che ci voleva». Il suo «oceano» è questo: l'ultima arrivata di casa, urlante, il marito Paolo, solo un amico ai tempi della scuola poi ritrovato da grande su Facebook, e l'altro figlio che da lui ha avuto, Lorenzo, che adesso di anni ne ha invece tre, e inizia a riconoscerla in video: «Quella è la mia mamma! Mamma, ma sei doppia?».
Al cinema in Tutta colpa di Freud, il film di Paolo Genovese (dal 23 gennaio nelle sale) l'«oceano» fatica invece a trovarlo: interpreta Sara, una ragazza lesbica con padre analista che, «ormai risolta, senza doversi più nascondere né giustificare, è delusa dalle donne, e tenta la felicità con un uomo». È il quinto ruolo omosessuale della carriera, se si conta anche quello che avrà nella serie Tv Ragion di stato. «Mi sono interrogata sul perché, e credo sia perché il mio fisico si presta: non incarno la sensualità italiana tipica, non sono femminile alla maniera mediterranea. Anche se Sara stessa sovverte ogni luogo comune sulle lesbiche: ha i capelli lunghi, e se li taglia quando si mette in testa di diventare etero». Lei ha mai avuto dubbi sulla sua identità? «La mia prima volta con una donna è stata nell'Amore imperfetto di Francesca Muci. Ho pensato: "C'è il rischio succeda come quando prendi in mano una pistola per una scena d'azione e poi ti piace così tanto che finisci ogni domenica al poligono da tiro". Invece ho trovato quel fare l'amore così difficile. Mi sembrava di essere più nuda di quanto già lo fossi, di baciare me stessa, di sapere quello che stava pensando l'altra perché lo stavo pensando io. Troppo complicato». Nelle scene d'amore di Tutta colpa di Freud com'è andata? «L'attrice americana con cui avrei dovuto “perdermi” era stata trovata pochi giorni prima dal regista per caso in un bar di New York. Faceva la figa, quella che "aveva avuto esperienze in quel senso", dava lezioni. Non si aspettava potessi essere così tranquilla e scafata, ribaltando tutto». Competizione femminile? «Aiutata da un'assenza totale di sintonia umana. Siamo andate subito al sodo, e veloci». È una «pratica», nella vita? «Dopo un anno di analisi, lo sono diventata: aiuta a vivere bene». Perché iniziò la terapia? «Attacchi di panico in teatro, cui seguì un esaurimento nervoso dovuto alla grande stanchezza di volere sempre provvedere a tutto, anche quando non ce la si fa più». Ne soffre ancora? «Ogni tanto. Ma ho imparato a riconoscerlo: la tachicardia, poi il sudare freddo, la paura di avere paura, quella di morire, il desiderarlo. Adesso quando capita respiro, e respirando razionalizzo, e razionalizzando, lo sconfiggo. Da macigno che era è diventato un sassolino piccolissimo, da portare in tasca». Com'è, essere madre? «Mamma è la parola più bella che ci sia, insieme a pane. Ricordo che la mattina mi svegliavo prima di tutti, in casa, per andarmene in cucina con le ginocchia sulla sedia e i pugni sotto al mento solo per guardarla lavare i piatti della sera prima. Lei mi diceva: "Torna a letto". La mia è stata, la mia è, una famiglia del Mulino Bianco. E per i figli fai le cose che non faresti mai per nessuno. Neanche per te».