The House Of Love - She Paints Words In Red - Recensioni - SENTIREASCOLTARE

Recensioni

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Metti che hai esordito nella seconda metà degli anni ’80 per la Creation. Metti che hai forgiato un suono unico. Metti che sei esploso da te, prima di esplodere a livello commerciale e non solo, ma comunque hai radunato un culto devoto che nel tempo non fa che crescere, anche se tu di fatto (quasi) sei scomparso. Metti che ritorni dopo vent’anni con un disco. Metti che no, non sei i My Bloody Valentine, perché il tuo comeback non fa notizia. Metti che però tu le belle canzoni le hai sempre sapute scrivere, perché ti chiami Guy Chadwick e ora al tuo fianco c’è di nuovo compare Terry Bickers con la sua magica sei corde (è tornato con te dal 2005 in realtà, da quel bel Days Run Away che aveva segnato l’effettivo ritorno discografico della premiata ditta – ebbene sì, abbiamo un po’ barato, ma la sostanza cambia poco). Metti che, insomma, sono (ri)tornati gli House Of Love, e lo hanno fatto con un disco di quelli semplici, diretti, che sembrano dir poco e invece dicono tante cose, su chi li ha fatti, sulle loro storie (personali e artistiche), sulla musica che hanno amato, che suonano e – si spera per loro – continueranno a suonare.

Ma le nostalgie per i cari tempi andati non sono propriamente di casa: i seducenti viluppi shoegaze delle incisioni storiche (ristampate di recente, peraltro) hanno ceduto il passo a un folk-rock quieto ma non privo di sottili inquietudini (la title track, o meglio ancora l’incipit da manuale di A Baby Got Back On His Feet, con la chitarra jangly di Bickers sugli scudi); e quindi una vecchia b side del ’91, Purple Killer Rose, si trasforma in una ballata semiacustica (PKR) che all’inizio cita Paint It, Black e tiene alta la tensione per esplodere solo nel finale. Metamorfosi che restituisce già sulla carta l’idea della cifra odierna della band di Camberwell, sospesa tra il mood meditabondo e melodico del Butterfly Album, infatuazioni ’60 comprese (Money Man, Hemingway), e l’esigenza di esprimere sentimenti più grandi, come nell’ariosa Holy River (tra Echo & The Bunnymen e James, con un pizzico di Big Star). Per farla breve, canzoni buone (anzi: belle), scritte bene e suonate con gusto. Cose per cui hype e febbre da streaming, iperboli e classifiche di fine anno possono anche attendere.

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