John Updike, lo scrittore e il suo specchio - la Repubblica

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John Updike, lo scrittore e il suo specchio

John Updike (1932-2009) (Jack Mitchell/Getty Images)
John Updike (1932-2009) (Jack Mitchell/Getty Images
Protagonista di una saga oggi pubblicata in Italia, Henry Bechè l’alter ego dell’autore americano. Che lo creò per raccontare con humour se stesso e i colleghi. Illustri
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Henry Bech appare a Mosca nel 1964, invitato dallo Stato sovietico negli anni del disgelo post-Krusciov. Ha già pubblicato, a metà anni Cinquanta, il suo libro di maggior successo, Viaggiare leggeri. Le prove successive non sono andate come sperato e Bech, perseguitato dal blocco dello scrittore, vive grazie a conferenze universitarie e viaggi organizzati dal Dipartimento di Stato. In Russia, tra visite alla tenuta di Tolstoj e cene con Evtušenko, il suo principale problema è come liberarsi dei rubli che l’Unione degli Scrittori gli ha fornito per le spese personali. Una valigia in cartone, zeppa di pellicce, esploderà all’aeroporto di Mosca.


Henry Bech si congeda a fine anni Novanta. È rimasto uno scrittore di nicchia; il “grande romanzo” non è mai arrivato. I lunatici membri dell’Accademia svedese gli conferiscono, a sorpresa e tra le polemiche (il New York Times lo definisce «il superato fautore della scrittura elegante»), il Nobel per la letteratura. Bech è costretto a preparare il discorso di accettazione e non sa esattamente cosa dire. Del resto, a settantasei anni, è quello di sempre: perseguitato dalle occasioni perdute, dalla modesta fortuna, dai fallimenti amorosi, dal senso della propria mortalità. Si sente «una sanguisuga viscida e vanesia che si era aggrappata a una gamba della letteratura mentre attraversava quei tempi paludosi».


Henry Bech non è mai esistito, se non nella mente di John Updike, che per tre decenni ne ha fatto il suo alter ego letterario. A Henry Bech, Updike ha dedicato tre raccolte di racconti, raccolti nel 2001 in un unico volume che l’editore Sur propone ora in italiano con il titolo Vita e avventure di Henry Bech, scrittore, utilizzando le vecchie traduzioni dei primi due (di Attilio Veraldi e Stefania Bertola) e traducendo per la prima volta l’ultimo della serie, Bech at Bay (a cura di Lorenzo Medici). Il risultato è uno sguardo – comico, amaro, ricco di acume e dettagli – su una tra le forme più elitarie della vita americana: quella letteraria, descritta dai tranquilli anni Cinquanta ai turbolenti Settanta fino agli Ottanta e Novanta, segnati da marketing, pubblicità e vuoto culturale.

Harold Bloom (1930-2019) (Alamy/Ipa)
Harold Bloom (1930-2019) (Alamy/Ipa) 

È un’impresa che forse nessun romanziere americano – se non, per l’appunto, John Updike – avrebbe potuto sostenere. Classe 1932, Updike è stato infatti il più prolifico, leggibile, gargantuesco scrittore che gli Stati Uniti abbiano avuto nella seconda metà del Novecento. Ha attraversato tutti i generi, dal romanzo sociale al realismo magico al racconto alla poesia alla critica letteraria e d’arte, sino a scrivere persino di golf. Sulla scia di Hawthorne e Melville, ha ripreso i grandi temi della letteratura americana: la religione, il rapporto con il sesso, la caduta. La sua più indimenticabile creatura letteraria, Harry “Rabbit” Angstrom, attraversa quarant’anni di middle class americana. Questo approccio così “onnivoro” gli ha guadagnato critici feroci e fan incalliti. Gore Vidal ne criticava il conservatorismo politico e la prosa scialba. Per Philip Roth, spesso considerato suo rivale letterario, Updike era «il nostro maggiore uomo di lettere». Probabilmente più vicino alla realtà fu Harold Bloom, che inserì Updike nel suo canone, definendolo «un romanziere minore con uno stile maggiore». Comunque sia, Updike è stato un writer’s writer, uno scrittore degli scrittori, capace di rendere autobiografia e letteratura una sola, inscindibile cosa.


Henry Bech, l’alter ego di Updike, si trova esattamente a questo incrocio tra autobiografia e letteratura. Solo che, sin dalla lettera introduttiva che Henry (Bech) scrive a John (Updike), emerge un elemento. Bech è ebreo. Bech si modella sulle gesta, gli scritti, i corpi di Norman Mailer, Saul Bellow, Philip Roth, I.B. Singer, Bernard Malamud, Henry Roth, Daniel Fuchs, J. D. Salinger. Tutti, per l’appunto, ebrei, di cui Bech non raggiunge la grandezza ma di cui eredita i tratti. John Updike, forse il maggiore romanziere WASP della sua generazione, nato nella protestante Pennsylvania, cantore della Middle America, sceglie dunque un romanziere ebreo come suo doppio. È un gioco di specchi che funziona a vari livelli. Consente a Updike di mettersi nella testa di quei narratori che, ai suoi esordi, monopolizzavano la scena letteraria americana. E gli dà modo di guardare se stesso, un gentile, attraverso gli occhi di chi ha contribuito a inventare l’America dei Gentili, soprattutto «con i film degli anni Trenta, quelle colossali e rozze invenzioni con cui cervelli ebraici avevano proiettato astri gentili su una nazione gentile, e con la semplice gioia degli immigrati donato sogni e offerto una specie di coscienza a una terra informe».


La nuova edizione Sur permette di leggere ogni racconto come una prova racchiusa in sé, e al tempo stesso collocarlo in un cammino trentennale. Non tutto ha la stessa qualità. I racconti della prima raccolta, in particolare La poetessa bulgara e Bech si accontenta, mantengono una vis comica, un pathos, un controllo che ha pochi eguali nella produzione di Updike, e che manca alle cose più tarde – Bech noir, in cui lo scrittore si trasforma in una sorta di angelo vendicatore letterario, appare artificioso. Ma, per l’appunto, a dominare alla fine è il percorso, le avventure sessuali, le peregrinazioni in quanto rappresentante, spesso improbabile, delle lettere americane, fino all’uscita tardiva di un romanzo, Pensare in grande, che trionfa non per il valore letterario ma per il contenuto erotico, facile da pubblicizzare.


Quella è l’America, nota Bech, in cui «la lingua va degenerando sulle labbra degli annunciatori televisivi e degli urlatori pop, mentre le nostre architetture formali crollano come castelli di sabbia». E contro cui, nel discorso di accettazione del Nobel, Bech lancia un ultimo, disperato, inutile attacco, dichiarandosi per una letteratura che trasformi la vita «in qualcosa di leggermente più alto, più luminoso, diverso». Tra le braccia, mentre pronuncia il discorso, Bech ha Golda, la figlia di dieci mesi. Con la mano, la bimba fa ciao ciao a dignitari e personalità svedesi. «La vera creatura del futuro», commenta Bech, unico approdo sicuro mentre intorno tutto crolla.

 

Sul Venerdì del 12 agosto 2022