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La Cienega

Marco Gervasoni

La cucina italiana, che bella (recente) invenzione

Se aveste chiesto a Giuseppe Mazzini, al conte di Cavour, a Giuseppe Garibaldi, a Ciro Menotti, a Goffredo Mameli, se fossero disposti a morire (gli ultimi due lo furono davvero da martiri) per il patriottismo delle lasagne e della pizza, prima di rispondere sdegnati, avrebbero chiesto che cosa fossero. Allora, e anche dopo, durante la Grande guerra, morire per l’Italia significava sacrificarsi per Dante e Petrarca. Erano loro i portatori dell’ “identità italiana”: non il culatello.

Oggi invece, che in Europa le nazioni (fortunatamente) non esistono più, si è sviluppato non a caso quello che gli studiosi chiamano “gastro-nazionalismo”, cioè la ricostruzione fantasiosa di tradizioni culinarie “nazionali”, presupposte affondare nei secoli o addirittura nei millenni, e che costituirebbero l’identità di una “nazione”. Il gastro-nazionalismo deborda ovunque ma da noi è straripante e, per quanto ne abbiano abusato anche governi precedenti, quello attuale se ne fa grancassa in modo quasi auro-caricaturale, ovviamente inconsapevole. Se già pensare che Dante e Petrarca fossero all’origine dell'Italia era un’operazione (ottocentesca) di falsificazione storica, affermare che lo siano i ravioli è una barzelletta.

Se tutte le tradizioni sono inventate e recenti, quella della cucina italiana è la più inventata di tutte.

Finalmente vengono a dircelo chiaro e forte Alberto Grandi e Daniele Soffiati, il primo storico dell’economia e dell’alimentazione all’Università di Parma, il secondo giornalista e podcaster (La cucina italiana non esiste. Bugie e falsi miti sui prodotti e i piatti cosiddetti tipici, Mondadori, 18 euro). Un libro che dovrebbe essere reso di lettura obbligatoria nelle scuole, tanto distrugge luoghi comuni vetusti. A cominciare da quello dell’esistenza di una cucina italiana.

Fino agli anni Cinquanta, del secolo scorso, in Italia si mangiava poco e malissimo: poco, il 95% della popolazione, malissimo i “ricchi”, che, quando potevano, si permettevano le ricette francesi, quelle servite ancora nei pranzi ufficiali dei primi presidenti della Repubblica, quella italiana, ovviamente. Fino agli anni Settanta, all’arrivo di Gualtiero Marchesi, i ristoranti in Italia erano pochi e per lo più pessimi. Se una cucina italiana si formò, si dovette, all’inizio dei Novecento, agli immigrati italiani in America, settentrionale e meridionale, che, privi di identità (linguistica, nazionale, etnica), ne crearono una alimentare: la pizza, ad esempio, nacque negli Usa, così come la pasta. Poi furono importate in Italia, dagli immigrati di ritorno. 

La seconda protagonista della nascita della cucina italiana e della sua diffusione, fu l’industria alimentare, che fino agli anni Sessanta del Novecento però non esisteva. Solo grazie all’arricchimento, improvviso e per certi aspetti imprevisto, prodotto dal “miracolo economico", gli italiani poteranno incominciare a mangiare: e da allora partì la costruzione del mito della cucina italiana eterna, per lo più un’operazione di marketing, come quella che vuole il parmigiano reggiano prodotto da mille anni, quando in realtà sarebbe un’invenzione risalente a una sessantina di anni fa.

Attraverso la storia dell’alimentazione, Grandi e Soffiati ci ricordano anche altro. Che l’Italia, dal XVII secolo alla metà del Novecento, è stato uno dei paesi più poveri d’Europa. E che, quella del benessere, è una parentesi di soli settant’anni. Se, come ci mettono in guardia gli autori, ci si facesse trasportare dal mito della cucina italiana e del turismo, ritorneremmo ad essere, come nel Settecento e nell’Ottocento, una nazione di servi e di camerieri. Il formaggio di Pienza, scrivono, esiste perché l’Italia è (ancora ricca) ma non è il formaggio di Pienza ad avere reso ricco il paese. In secondo luogo, gli autori ci ribadiscono quanto l’immigrazione, quella verso gli altri paesi e quella assorbita per millenni, anche se forzata, con l’arrivo di eserciti stranieri, ci abbia reso più ricchi: siamo italiani perché siamo usciti, questo sì per secoli, dalla “espressione geografica” chiamata Italia e perché gli stranieri vi sono sempre entrati.

In terzo luogo, Grandi e Soffiati ci mettono in guardia dalla nostalgia e dal culto del passato, e ci ricordano come l’industria, anche quella alimentare, sia stata fondamentale: insomma, per citare il grande filosofo francese Michel Serres, bisogna sempre battersi contro il mito dei bei tempi andati. Infine, gli autori ci ricordano che le identità sono sempre plurali e che, come scriveva lo storico, anche dell’alimentazione, Massimo Montanari “le radici non sono ciò che eravamo, ma gli incroci che hanno trasformato ciò che eravamo in ciò che siamo…Le radici sono gli altri”. Con tanti auguri di buona digestione alla corporazione di Coldiretti e al suo ministro di riferimento.

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