Sei donne per l’assassino

Sei donne per l’assassino

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Sei donne per l’assassino, che all’epoca della sua uscita venne accusato di ogni nefandezza per la volontà di non rinunciare alla messa in scena della violenza, è il titolo più teorico dell’intera filmografia di Mario Bava. Riflessione sull’omicidio come estetica dimostrazione dell’arte visuale, e sulla serialità come sua unica possibilità espressiva, è anche il titolo che di fatto iniziò a codificare quel genere che sarebbe divenuto famoso come giallo all’italiana.

Omicidio à la page

Massimo Morlacchi e Cristiana sono rispettivamente il direttore e la proprietaria di un atelier di moda nel quale lavorano alcuni impiegati e numerose indossatrici. Allo scopo di coprire un delitto compiuto nel passato e noto ad una delle ragazze, la uccidono in circostanze che inducono la polizia a sospettare di un presunto maniaco sessuale. [sinossi]
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Il 27 aprile del 2020 ricorrerà il quarantennale della scomparsa di Mario Bava. Per quanto con il passare del tempo, anche grazie al paziente lavoro dei suoi appassionati cultori (italiani ma anche stranieri, visto che all’estero il cineasta nato a Sanremo può contare su schiere di fan, da Martin Scorsese a Joe Dante, da Tim Burton all’onnipresente Quentin Tarantino: perfino David Lynch, piuttosto refrattario alle citazioni, l’ha omaggiato nell’ultimo episodio della seconda stagione di Twin Peaks, quando Dale Cooper si trova a inseguire nei meandri della Loggia Nera il proprio doppelgänger, chiara ripresa di Operazione paura) il nome Bava non sia più pronunciato con sufficienza, la speranza è che si colga l’occasione per una completa e compiuta riscoperta e rivalutazione del suo lavoro, senza ridurre sempre tutto alle innate capacità tecniche e fotografiche e alla perizia nello sfruttare al meglio budget esigui, le uniche doti che gli vengono universalmente riconosciute. Mario Bava è stato un autore di prima grandezza, tra i pochissimi registi italiani a evitare le secche del reale non per vagheggiare la superiorità del soprannaturale ma bensì per perdersi nel fantasmatico, in quel punto oscuro in cui le ombre non fingono di essere altro eppure mantengono al proprio interno il riflesso di mondi e vite sconosciute. In una cinematografia, come quella italiana, che ha fatto del materiale il suo punto di riferimento non si può smarrire il contatto con chi – e Bava non è stato secondo a nessuno in questo – ha fatto del momento onirico il centro d’interesse, la scaturigine naturale della narrazione.
Questo senso di smarrimento nei confronti del reale non va inteso come deliquio puro e semplice, o come leggiadro perdersi nel visionario, alla maniera di un fumatore d’oppio che abbia intenzione di dimenticare la realtà, e la gravità asfissiante del suo peso. Fin da La maschera del demonio, il film con cui esordì alla regia già quarantaseienne dopo quasi vent’anni di direzione della fotografia (ma spesso c’è il suo tocco anche dietro la messa in scena: i casi più eclatanti sono La battaglia di Maratona di Bruno Vailati e soprattutto Caltiki, il mostro immortale di Riccardo Freda, per il quale cura anche gli eccellenti effetti speciali) l’atto di evadere dal reale per confrontarsi con forze innate, magiche o infernali che siano, assume oltre alla valenza spettacolare una riflessione sul cinema, sull’immagine e sulla sua costruzione, sulla percezione collettiva. Ne è un caso evidente, nonché uno dei parti creativi più compiuti e raffinati della sua intera filmografia, Sei donne per l’assassino.

Sulla carta questo film, che esce nelle sale italiane nell’aprile del 1964, non ha nessun riflesso soprannaturale: parla di una serie di omicidi in un atelier di moda, e lo spettatore ha netta la percezione di un serial killer in carne e ossa. Eppure fin dalla primissima inquadratura, con il vento che fa staccare l’insegna dell’atelier Christian, si respira un’aria tardo-gotica. Come può però un genere come il gotico far parte di un mondo moderno come la Roma della dolce vita, quella già cantata da Fellini e che – almeno restando a via Veneto – attira le personalità più illustri da mezzo mondo, capitale di un rinnovamento dei costumi che getta in soffitta proprio superstizioni, riti magici e via discorrendo? Ecco dunque che appare inevitabile la scelta di concentrare l’attenzione su un luogo, l’atelier, che per sua natura esula dalla concezione materiale della realtà: le modelle sono oggetto del desiderio, si ergono al di sopra della media della popolazione, eppure allo stesso tempo è come se fossero tutte uguali. Estremizzando il discorso Bava fa in modo che tutti i personaggi si somiglino, al punto che perfino gli abiti dell’assassino e quelli dell’ispettore di polizia sembrino identici. Un mondo replicato all’infinito che non ha più distinzioni, né tra esseri umani, né tra questi ultimi e i manichini utilizzati per provare i tessuti e gli orditi. Nell’apparenza di un gioco vacuo e sterile Mario Bava in realtà propone già una messa in mostra delle atrocità – e del nitore – dell’avant pop, anticipando perfino l’esplosione della Pop Art che arriverà di lì a pochi mesi alla Biennale di Venezia. Per quanto all’epoca venne accusato delle peggiori nefandezze per aver osato mettere in scena la morte con piglio creativo, con processi virtuali al sadismo della pellicola e al connubio considerato malsano tra eros e tanathos – Bava mette in scena gli omicidi puntando su una forte componente sessuale, trasformando il gesto dell’assassino in una funzione quasi orgasmica, per quanto poi smentita dall’intreccio: nulla di così nuovo, perché è uno dei tratti distintivi anche dell’immediatamente precedente La frusta e il corpo, dove però era stato più facile farlo accettare per via del carattere dichiaratamente fantastico della pellicola – Sei donne per l’assassino propone una riflessione teorica sulla visualizzazione cinematografica della violenza: le vittime sono già manichini, il sangue è una mistura evidente di vernice collocata sui corpi. Dichiara la sua falsità, Bava, e ne fa un eccezionale punto di forza per scardinare le regole ferree – e castranti – del genere, della morale pubblica, delle attese degli spettatori.

Non c’è nulla da capire, in Sei donne per l’assassino. L’intreccio è beota – della sceneggiatura si occupa anche Marcello Fondato, futuro regista tra gli altri di …altrimenti ci arrabbiamo! –, il colpo di scena così difficile da comprendere che lascia il tempo che trova, per quanto si dimostri a sua volta seminale per gli sviluppi futuri del genere, su cui si tornerà fra poco. Debolezze enormi, per chiunque ma non per Bava. Che ancora una volta dimostra di non sentire il peso di una pessima sceneggiatura, ma di saperne valorizzare le parole non scritte, i dialoghi non detti, i passaggi obliati. Bava ha tra le mani la macchina da presa, e sa di poter ancora dominare il mondo. Si trova nel mezzo di un thriller sanguinolento, e lavora su quello. Come un discepolo attento e curioso di Thomas De Quincey costruisce la sua trama visiva ricorrendo al principio secondo il quale l’assassinio non sia altro se non una delle belle arti. Così facendo mette lo spettatore con le spalle al muro: l’interesse di chi assiste al film, e perde nozione dei personaggi finendo per confondere una modella con l’altra, non risiede più nel desiderio di scoprire chi sia il colpevole, ma solo nella brama di poter assistere a un altro atto di violenza, di poter prendere parte da posizione privilegiata a un altro svilimento del corpo femminile, reso in maniera talmente evidente oggetto da scoperchiare l’ipocrisia di una società che ancora lo sfrutta fingendo di essersi emancipata, e di volerle donare il giusto rilievo. Bava utilizza la macchina da presa con una leggerezza sorprendente, fingendo che sia una volta la punta di un coltello e un’altra volta parte del décor della moda; lo stesso fa con le luci, che non hanno alcuna velleità di apparire credibili ma al contrario devono sviare una volta di più il pubblico, convincerlo di stare assistendo a uno spettacolo di marionette per far sì che la violenza possa irrompere con ancora maggior crudeltà sullo schermo, senza lasciare scampo a nessuno. La stessa funzione, a ben vedere, che nel cinema gotico svolge la nebbia artificiale. Un modo per sospendere il tempo, e ridefinire il concetto di “vero”.

Non esiste nulla, nel cinema italiano e mondiale, che abbia il furore ghignante e il coraggio leonino nel ribadire il potere dell’immagine-senso su quello del senso della narrazione trasmesso da Sei donne per l’assassino. In modo pressoché inconsapevole Bava sta creando un vero e proprio canone espressivo, che influenzerà completamente il cinema di genere. Già nel sublime La ragazza che sapeva troppo, uscito in sala poco più di un anno prima, Bava aveva gettato le basi per la costruzione di quello che a livello industriale e critico sarebbe divenuto poi noto – un decennio più tardi – come “giallo all’italiana”: vi era lì l’indagine di un comune cittadino (meglio se straniero: la lezione dimostrerà di averla imparata Dario Argento in Profondo rosso) su un misterioso fatto di cronaca, il ruolo della colonna sonora e dell’illuminazione. Ma è con Sei donne per l’assassino che la codifica del genere compie il passo in avanti decisivo: c’è la perversione portata all’eccesso delle sequenze di omicidio (con tanto di donna ustionata a morta su una stufa con inquadratura soggettiva dell’assassino che le tiene una mano sulla collottola), il numero plurimo di morti, l’assassino coperto da una maschera e con le mani guantate, la creatività degli omicidi, con la brutalità che flirta in maniera fertile con il concetto di estetica. Tutto è già qui, anni prima che il genere prenda davvero piede. Dopotutto Bava, con il suo approccio sornione e bonario, ha nei fatti anticipato buona parte dei sottogeneri divenuti poi celebri in mezzo mondo, dal gotico allo slasher (Reazione a catena), facendosi beffe allo stesso tempo sia dell’arte pura che dell’intrattenimento.

Info
Il trailer di Sei donne per l’assassino.

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