RIVISTA MILITARE 2006 N.2 by Biblioteca Militare - Issuu

RIVISTA MILITARE 2006 N.2

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in copertina Kabul. Ranger del 4° Reggimento alpini paracadutisti «Montecervino» mentre effettua il controllo pre-missione dei materiali. Dedizione alla missione, spirito di Corpo, capacità di adattamento, grandi doti umane e professionali fanno dei nostri soldati professionisti conosciuti e stimati in tutto il mondo.

Direttore Responsabile Marco Centritto Coordinatore redazionale Omero Rampa Capi Redattori Gianpaolo Romoli, Francesco Coscia Redazione Roberto Zeppilli, Domenico Spoliti, Lorenzo Nacca, Annarita Laurenzi, Marcello Ciriminna, Lia Nardella Grafica Antonio Dosa, Ubaldo Russo Segreteria e diffusione Responsabile: Riccardo De Santis Addetti: Carlo Spedicato, Franco De Santis, Carlo Livoli, Gabriele Giommetti, Sergio Gabriele De Rosa

La traduzione dei testi della rubrica “Summary, Sommaire, Inhalt, Resumen, Sumario” è curata da Nicola Petrucci, Livia Pettinau, Angela Gesmundo e Carla Tavares Direzione e Redazione Via di S. Marco, 8 00186 Roma Tel. 06.47357373 Fax 06.47358139

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EDITORIALE Lo scenario di riferimento, che vede un modello egemonico su scala mondiale e un balance of power a livello regionale, è foriero di sempre nuovi nuclei di instabilità locale che tendono ad acuire le problematiche irrisolte fino a sfociare in inevitabili crisi. Così è per l’IRAN, nuova cerniera energetica tra il lontano oriente, in sempre più tumultuoso sviluppo economico, e la vecchia Europa in perenne inseguimento di una possibile ripresa. Un Paese collocato, dopo la democratizzazione dell’IRAQ, sulla faglia di contatto tra Islam integralista e occidente, limitrofo a roventi aree dove la comunità internazionale ha dovuto prendere atto di un’avvenuta proliferazione nucleare. La ricerca di un equilibrio stabile passa, quindi, attraverso un adeguamento di quelle organizzazioni di livello mondiale e regionale che, sempre più in futuro, dovranno farsi carico della gestione delle crisi. Qualunque ruolo il nostro Paese voglia assumere sulla scena internazionale, esso sarà quindi strettamente correlato al contributo che sapremo e potremo dare alla sicurezza regionale e globale, nel quadro di tali organizzazioni. Di conseguenza la spesa militare dovrà necessariamente trovare validi criteri di sostenibilità, ragionando in termini di dimensioni e di capacità dello strumento militare. Oggi l’Italia, e in particolare l’Esercito Italiano che, come di consueto, sopporta la grandissima parte dello sforzo militare, è fortemente impegnata nelle cosiddette post conflict operations, di grande importanza per il consolidamento strategico dei risultati raggiunti sul campo, attraverso la ricostruzione economica e la stabilizzazione dei sistemi democratici in vari paesi. E questo grazie alla grandissima flessibilità che caratterizza le Unità della nostra Forza Armata, ognuna delle quali è capace operare in un ampissimo spettro che spazia dalle azioni combat ad alta intensità (vera ragion d’essere di ogni Unità) fino al soccorso e alla sicurezza, in rinforzo o in sostituzione di forze di polizia o di protezione civile, nei teatri operativi come nella homeland security. Pertanto il conseguimento e il mantenimento di una supremazia tecnologica è oggi indispensabile per conformarsi alle attuali aspettative post-eroiche delle democrazie occidentali, le quali vorrebbero che si neutralizzasse il nemico, sempre più agguerrito e determinato a distruggerci, ma ... senza fargli troppo male. Il ricorso all’information tecnology e il perseguimento di concetti quali la network centric warfare, l’information e la full spectrum dominance diventano di grande attualità, pur nella convinzione che la tecnologia, nelle operazioni militari, può supportare e potenziare ma non sostituire l’Uomo. Così i Reggimenti dell’Esercito, opportunamente aggiornati e specializzati, sono e saranno, ancora per lunghissimo tempo, il perno attorno cui ruota uno strumento militare sempre più sofisticato. E il perno dei Reggimenti (arma base o supporto che siano) è e sarà sempre il combattente, con la sua Etica e la sue regole che ascendono fino alla «Repubblica» di Platone. È un’Etica di predisposizione al sacrificio, di solidarietà, di difesa dei deboli e di completa dedizione alla missione. Dunque un’Etica nobile e pura che esalta il combattente e lo rende di grande utilità anche in operazioni diverse dalla guerra. Per un soldato il dovere di assolvere la propria missione assume un valore assoluto, che si tratti di conquistare una posizione nemica o che si debba stabilizzare e ricostruire un Paese dopo un conflitto. Per questo dovunque e ogni volta che un problema assume i toni dell’emergenza tutti invocano a gran voce: «si faccia intervenire l’ESERCITO!». Dalle carestie Somale alle pulizie etniche Balcaniche, dalle minacce terroristiche alle emergenze ambientali. Quando un pericolo si concretizza, allora tutti cercano i soldati. Una risorsa da non sprecare, ma da mantenere sempre efficiente e pronta, materialmente e moralmente. E sul patrimonio morale del nostro Esercito non possono esserci dubbi, come tante e indimenticate vicende belliche del passato testimoniano. Come non ricordare coloro che non esitarono, nel deserto di El-Alamein, ad affrontare frotte di carri Sherman da bordo di un M13/40, o a sfidare un brutale alleato per tener fede ai propri principi di umanità, arrivando a condividere le proprie razioni con i prigionieri russi? Prima di concludere è necessaria una precisazione. Purtroppo la realtà odierna, sempre più ricca di novità e sfaccettature, impone un linguaggio ricco di neologismi e anglicismi (internet, sms e tanti altri ancora). Tale fenomeno risulta ancora più marcato nell’odierno lessico militare. Cercheremo, ogni volta che sarà possibile, di spiegare sigle e acronimi, ma eviteremo quelle acrobazie linguistiche che qualcuno ci ha suggerito. Buona lettura.

IL DIRETTORE Tenente Colonnello Marco Centritto



2006: UN ANNO DIFFICILE. GLI ORIENTAMENTI DEL CAPO DI SME Negli ultimi anni, nonostante i profondi cambiamenti dello scenario internazionale abbiano comportato un forte aumento della domanda di sicurezza, sia interna che esterna, unito ad un crescente impegno dello strumento militare, il bilancio italiano della difesa ha subito una graduale, sensibile contrazione. Tale fenomeno, certamente da ascrivere ad una congiuntura economica particolarmente sfavorevole, che ha interessato parte del mondo occidentale, ed alla conseguente necessità di attuare politiche economiche restrittive tese a mantenere sotto controllo la spesa pubblica, ha inciso profondamente sulle risorse delle Forze Armate. Malgrado ciò, ricorrendo ad ogni sorta di alchimia ragionieristica e rinunciando inevitabilmente ad alcuni programmi, soprattutto nel settore dell’ammodernamento, l’Esercito è riuscito a mantenere un accettabile livello di coerenza organizzativa ed a garantire una buona capacità operativa, grazie alla quale è ancora in grado di onorare i molteplici impegni assunti dal Paese. Il motivo di questo mio intervento, tuttavia, non è quello di ricordare ad un pubblico di addetti ai lavori i nostri meriti nell’aver saputo superare, ancora una volta, congiunture sfavorevoli. Desidero piuttosto gettare uno sguardo sul presente e sul futuro. Non credo sia sfuggito a molti che quello attuale è, a partire dal secondo dopoguerra, uno dei periodi più difficili che la Forza Armata abbia mai vissuto, almeno per ciò che concerne la disponibilità di risorse finanziarie. I problemi di bilancio si sono talmente acuiti da riproporre con forza quesiti importanti e improcrastinabili ai quali è necessario dare risposta: quale sarà l’Esercito che consegneremo ai nostri successori e, soprattutto, quali capacità saprà esprimere? E ancora, saremo in grado di onorare gli impegni assunti e di rispondere alle sfide che, già oggi, si profilano all’orizzonte? E che tipo di vita e di prospettive assicureremo ai nostri giovani? Sono solo alcune delle domande più ricorrenti che, esattamente come ad ognuno di voi, passano per la testa del Capo di Stato Maggiore dell’Esercito. Ecco, dunque, che pur non potendo dare risposta a tutti i dubbi che affiorano, ritengo doveroso che un Comandante parli ai suoi uomini e donne, di ogni ordine e grado, per dire esattamente come stanno le cose, siano esse positive o negative, piacevoli o spiacevoli. L’origine del nostro ragionamento, naturalmente, non può che essere la legge di Bilancio del 2006. Essa, com’è noto, non solo non ha interrotto la tendenza negativa a cui accennavo poc’anzi ma, al contrario, ha aggravato una situazione non brillante andando ad erodere ulteriormente le risorse destinate al funzionamento dello strumento. La criticità del quadro finanziario delineatosi è così sintetizzabile: i 17 782 M€ assegnati all’intero comparto Difesa rappresentano, in termini monetari, il volume più basso degli ultimi 5 anni e, in termini reali, addirittura lo stanziamento più basso degli ultimi 11 anni. Se poi si considera la sola Funzione Difesa (ovvero ciò che è assegnato complessivamente all’Esercito, alla Marina e all’Aeronautica senza considerare la Sicurezza Pubblica – Carabinieri –, le Funzioni Esterne e le Pensioni Provvisorie), il suo ammontare complessivo, pari a 12 106 M€, rappresenta lo 0,843% del PIL, valore fra i più bassi in Europa e il minimo storico dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Una situazione estremamente difficile giunta, peraltro, in coincidenza del massimo impegno operativo e del pieno sviluppo del processo di professionalizzazione, conseguente al provvedimento di sospensione della leva. Se la concomitanza di tali aspetti ha fatto emergere elementi di criticità in tutto il comparto della Difesa, essa è stata assai più penalizzante per la componente terrestre. L’Esercito, infatti, per ragioni strutturali, connesse da un lato con la massiccia introduzione della componente di truppa professionale (al volontario, oltre che uno stipendio, occorre garantire anche formazione, addestramento, equipaggiamenti, infrastrutture e prospettive degni della sua professionalità), dall’altro con la forte usura di sistemi e mezzi utilizzati nei vari ambienti operativi, è quello che ha risentito maggiormente degli effetti di tale trasformazione. Al riguardo, vi è anche chi afferma che il vero problema sia quello della lievitazione delle 2


spese obbligatorie – cosiddette incomprimibili – relative al personale (per lo più, destinate al pagamento degli stipendi), che assorbono percentuali crescenti di budget. Ebbene, una simile interpretazione rischia di distorcere la realtà se non si spiega che, se in termini percentuali (in rapporto al bilancio complessivo della Difesa) tali spese sono certamente aumentate, ciò è avvenuto soprattutto perchè è diminuito il finanziamento complessivo dello strumento militare. Come dire che da un bacino sempre più piccolo (quello cioè del bilancio della difesa) si è continuato a sottrarre risorse (e non si poteva fare altrimenti), a fronte di un aumento percentuale delle spese incomprimibili, rendendo, di conseguenza, disponibili per l’esercizio e l’investimento quote sempre più esigue e inadeguate ai molteplici e prolungati impegni. Resta il fatto che, in termini assoluti, la spesa pro-capite per il soldato italiano è ben lontana da quella destinata al soldato americano, britannico, francese o tedesco. In tale situazione è stata irrinunciabile l’adozione di provvedimenti di urgenza per contenere, almeno nell’immediato, l’inevitabile decadimento delle capacità esprimibili e consentire lo svolgimento di quelle attività senza le quali sarebbe stata messa in discussione la stessa ragion d’essere della Forza Armata. Provvedimenti che scaturiscono da una definizione attenta delle priorità e da un esame rigoroso e dettagliato di ciascun settore funzionale, per individuare ulteriori possibilità di economia e razionalizzazione. Più concretamente, sono state salvaguardate, per evidenti obblighi di legge, le spese vincolate, orientando le risorse residuali principalmente all’approntamento e all’addestramento delle sole Unità di previsto impiego nei Teatri Operativi, al fine di mantenere gli impegni assunti senza inficiare il livello di sicurezza e la protezione del personale, che rimane un elemento irrinunciabile e priorità assoluta per la Forza Armata. Conseguentemente, sarà sospesa gran parte delle esercitazioni presso poligoni esteri, pur nella consapevolezza dell’insostituibile valore formativo oltre che «politico» di tali scambi, mantenendo in vita le attività addestrative sul territorio nazionale, ritenute indispensabili a garantire la capacità operativa delle unità almeno fino al livello di Reggimento. La mobilità del personale verrà limitata ai soli trasferimenti imposti dalle esigenze di comando o da altre simili ed ineludibili finalità istituzionali, riducendo quell’osmosi di esperienze e conoscenze, pur utile, assicurata in passato soprattutto dai trasferimenti di personale tra Enti e Reparti diversi. Nel settore del supporto logistico, saranno ridotti drasticamente gli approvvigionamenti di beni e servizi (quali ricambistica, materiali informatici, equipaggiamenti, vestiario, carburanti, ecc.) non strettamente correlati alla preparazione delle forze precettate per l’impiego, limitando inoltre il ricorso al «privato» per gli interventi manutentivi e correttivi, specie dei materiali e dei mezzi ad elevato contenuto tecnologico. Sempre in tale ambito, 3


sarà verificata la sussistenza delle condizioni necessarie a mantenere in vita le attività esternalizzate. Va da sé che, in mancanza di sufficienti risorse, occorrerà riacquisire all’interno parte della gestione diretta di alcuni servizi oggi assicurati con «out sourcing» (catering, vigilanza, trasporti, contratti di manutenzione, ecc.), pur consci che tale eventualità costringerà a distogliere preziose professionalità altrimenti più proficuamente utilizzabili. Per quanto attiene al settore delle infrastrutture, che incide direttamente sulla qualità della vita, sulle aspettative e sul morale del personale, altro «pilastro» fondamentale su cui poggia il «sistema Esercito», le risorse disponibili, davvero esigue, sono state sostanzialmente destinate a quegli interventi necessari ad assicurare, almeno a livelli di sufficienza, il mantenimento dei manufatti. Nel campo della formazione, consapevoli dell’importanza da essa rivestita, è stato fatto ogni sforzo per mantenere il livello raggiunto, adottando soluzioni di circostanza intese a ridurre i costi da imputare all’attuale esercizio finanziario. Ad esempio, nello sviluppo temporale dell’anno accademico, sarà posticipato l’inizio del Corso di Stato Maggiore, pure considerato di rilevanza strategica per la Forza Armata, al fine di contenere il numero dei frequentatori in rapporto all’Esercizio Finanziario corrente. Nel contempo, sarà necessario rinunciare alle attività sviluppate in collaborazione/convenzione con Atenei e Istituti, come pure all’incremento delle capacità linguistiche del personale previste dal progetto speak english, concentrandone la crescita nei soli periodi destinati alla formazione iniziale. Le decisioni prese impongono rinunce dolorose, anche in settori da sempre considerati prioritari nell’ambito della Forza Armata e richiedono, soprattutto nelle piccole attività quotidiane, uno sforzo continuo per conseguire ogni possibile risparmio. Su questo obiettivo deve convergere la consapevole unanime partecipazione di tutto il personale della Forza Armata, stimolata e sostenuta da un’attenta e capillare comunicazione. Sono convinto che la trasparenza sulla destinazione delle poche risorse disponibili, pur nella «brutalità» dei numeri, potrà evitare un’interpretazione semplicistica della realtà e contribuirà a mantenere saldo il morale e a compattare i «ranghi» nel perseguimento di un obiettivo comune e condiviso. Eppure, nonostante il quadro sinora delineato non lasci spazio a slanci di ottimismo, una prospettiva di sviluppo esiste e va individuata, prima di tutto, nel processo di ottimizzazione delle risorse comunque disponibili. Esistono, io credo, spazio, tempo e capacità per pensare in modo critico ma costruttivo alla realtà. Nel settore dell’ammodernamento dei mezzi e materiali, ad esempio, i programmi relativi all’elicottero NH 90 ed alla artiglieria semovente PZH 2000 stanno procedendo, sia pure con qualche ritardo, ed i primi esemplari saranno tra non molto introdotti in servizio. 4


Inoltre, entro i prossimi mesi, si concluderanno i test di collaudo operativo del VBC 8X8: un veicolo da combattimento, espressione dell’industria nazionale, di valore assoluto per livello di protezione, efficacia nel fuoco di accompagnamento, flessibilità d’impiego e mobilità tattica, che porrà le nostre unità di fanteria all’avanguardia nello scenario internazionale. L’introduzione dei primi 49 mezzi verrà avviata a partire dal 2008. Per quanto concerne, poi, il VTLM «Lince», il mezzo è già presente presso le unità con alcuni esemplari ed entro l’anno in corso si procederà al suo approvvigionamento sistematico. Infine, in una prospettiva di mediolungo termine, gli sforzi sono orientati all’avvio di programmi di ampio respiro necessari per consentire allo strumento terrestre di rimanere al passo con gli altri Eserciti europei. In proposito, la Forza Armata ha dato vita al progetto «Forza Integrata Terrestre», che costituisce l’elemento coagulante di molteplici iniziative già intraprese (programma Soldato Futuro, Forze Medie, SIACCON, SICCONA, ecc), e sul quale si incentra soprattutto il framework concettuale nel cui ambito dovrà essere sviluppata la futura Brigata Integrata Terrestre (B.I.T.). Dotata di spiccata attitudine all’integrazione in un contesto interforze e multinazionale, la B.I.T. costituirà la principale componente da combattimento dell’Esercito del futuro nella quale troveranno applicazione i principi delle operazioni net-centriche. Ma l’aspetto più confortante è rappresentato, come sempre, dal nostro potenziale umano. Dai continui contatti con le unità e gli enti della Forza Armata, sia in Patria che all’estero, traggo incoraggianti conferme della qualità e del rendimento dei nostri uomini e delle nostre donne, frutto di un valido processo formativo, di impegno costante, di maturità professionale e di intima motivazione. Proprio la fierezza dei loro sguardi ed i risultati che continuano a conseguire «sul campo» mi inducono a guardare al futuro con ottimismo, fiducioso dell’apporto di tale prezioso patrimonio. Un patrimonio che, a giudicare anche dall’eccellente andamento del reclutamento di Ufficiali, Sottufficiali e Volontari, continuerà a crescere ed a costituire il principale punto di forza della nostra istituzione. Concludo con l’auspicio che proprio l’attuale momento di difficoltà di bilancio possa essere stimolo per una riflessione approfondita a livello nazionale che porti a definire, concretamente e coerentemente con le risorse assegnate, il livello di ambizione del nostro Paese in termini di Difesa e Sicurezza e, quindi, a stabilire le capacità che le Forze Armate, e lo strumento terrestre in particolare, dovranno esprimere. Nel contempo, continueremo a concentrare ogni sforzo su un’attività di programmazione puntuale e lungimirante e su una gestione oculata e rigorosa che consentano di ottimizzare quanto al momento disponibile. Sono peraltro convinto che la necessità di superare l’attuale difficile congiuntura ci costringerà a pensare in modo innovativo, rifuggendo gli schemi precostituiti, e ci darà l’impulso per uscire vincitori anche da questa nuova sfida. Lo dobbiamo a noi stessi ed a chi si è sacrificato per l’Esercito e per il Paese.

IL CAPO DI SM DELL’ESERCITO Generale di Corpo d’Armata Filiberto CECCHI

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IL DILEMMA IRANIANO

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IL DILEMMA IRANIANO Una potenza economica che stenta a decollare Un Paese dalle enormi ricchezze materiali e umane che si candida a potenza di livello mondiale. Ma le controversie legate alle ambizioni nucleari, ai rapporti con Israele e alle aspirazioni di contrastare la politica economica americana rendono assai precari gli equilibri internazionali.

Dopo la rivoluzione del 1979 la Guida Suprema, il rahbar, viene scelta da un’assemblea di esponenti religiosi sulla base del curriculum e del grado di stima goduto presso la popolazione. La Guida Suprema nomina il Consiglio dei Guardiani, composto da 12 membri, che ha il compito di approvare le candidature alla Presidenza della Repubblica e certificarne la competenza insieme a quella del Parlamento, al pari delle più alte cariche giudiziarie. La Guida Suprema è anche Comandante in Capo delle Forze Armate. Alla guida dello Stato vi è il Presidente della Repubblica, eletto a maggioranza assoluta con suffragio universale. Il suo mandato ha durata quadriennale. Dopo la sua elezione, nomina e presiede il Consiglio dei Ministri, coordina l’azione del governo e seleziona le decisioni da sottoporre al parlamento. Il Majlis, il Parlamento monocamerale iraniano, denominato Assemblea Consultiva Islamica, è composto da 290 membri eletti con voto diretto e segreto, con mandato quadriennale. Tutta la legislazione deve essere vagliata, sin dal suo inizio, dal Consiglio dei Guardiani in base al principio della cosiddetta velayet-i-faqih , la «guardia dei giuristi islamici», per controllare che le leggi non siano in contrasto con il Corano e con la dottrina islamica nell’accezione propria dello sciismo duodecimano. I sei membri laici del Consiglio, giuristi nominati dal Parlamento, si pronunciano solo sulla costituzionalità delle leggi, mentre i sei membri religiosi esaminano la loro conformità ai dettami islamici (sha’ria). La ripartizione dei seggi nell’attuale Parlamento, eletto nel 2004, è la seguente: conservatori/islamici 190 seggi, riformatori 50, indipendenti 43, minoranze religiose 5, 2 non assegnati. DAL SECONDO CONFLITTO MONDIALE AL 1979 Allo scoppio della Seconda guerra mondiale, l’Iran (l’antico nome di Persia era stato sostituito

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solo a partire dal 1935) dichiarò la propria neutralità. Lo Scià Reza Pahlevi, che era riuscito a neutralizzare le interferenze russe e inglesi negli affari interni del Paese, aveva stipulato importanti accordi di aiuto commerciale con la Germania, che sembrava inizialmente destinata a trionfare nel conflitto, ma aveva mantenuto rapporti amichevoli con tutte le grandi potenze. Da una parte o dall’altra l’invasione del Paese appariva inevitabile: o immediatamente da parte dell’Unione Sovietica e della Gran Bretagna, desiderose di assicurarsi il controllo di una vitale direttrice per i rifornimenti dal Golfo Persico al Mar Caspio, o in un secondo tempo da parte dei tedeschi che, occupando il territorio iraniano dopo aver attraversato il Caucaso, si sarebbero ricongiunti alle truppe del Generale Rommel provenienti da ovest, minacciando così tutte le principali rotte strategiche nella regione. Inoltre, la forza belligerante che si fosse conquistata il controllo dei pozzi petroliferi dell’Iran e del confinante Iraq si sarebbe assicurata le maggiori forniture di carburante al mondo, dopo quelle degli Stati Uniti. Attraverso il corridoio strategico iraniano, inglesi e americani rifornirono di armamenti l’URSS, invasa dai nazisti in seguito all’operazione Barbarossa nel 1943. La capitale iraniana, Teheran, fu la sede, il 1° dicembre di quello stesso anno, del primo incontro al vertice tra i tre Capi


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di Stato delle Potenze alleate: Stalin, Churchill e Roosvelt. Il documento, diviso in tre parti fondamentali, prevedeva anche una dichiarazione congiunta sull’Iran, a cui si riconosceva la preziosa assistenza fornita per il sostegno all’Unione Sovietica e si garantiva una sufficiente assistenza economica per la ricostruzione, compatibilmente con le esigenze determinate dalle operazioni militari che si erano svolte sul suo territorio. Al termine del conflitto l’Armata Rossa rifiutò inizialmente di ritirarsi dal nord del Paese, favorendo la nascita di stati-satellite nell’Azerbaijan e nel Kurdistan. Nel 1946, avendo ottenuto la garanzia di poter partecipare allo sfruttamento dei giacimenti petroliferi iraniani, l’Unione Sovietica decise un progressivo ritiro dei propri militari. Durante la sua presenza, comunque, l’URSS e in particolare i suoi Servizi Segreti organizzarono in loco il loro insediamento più corposo a quella distanza dai propri confini. A partire dal 1949 nel Paese si fece sentire con sempre maggior forza il desiderio di nazionalizzare le risorse energetiche, i cui proventi venivano per la maggior parte gestiti dall’inglese Anglo-

Iranian Oil Company e che costituivano una ricchezza necessaria a finanziare l’attuazione dell’importante progetto di riforma agricola e industriale per lo sviluppo dell’Iran. Nel 1951 venne nominato Primo ministro Mohammed Mossadeq, esponente del Partito filo-comunista Tudeh, che optò per la nazionalizzazione del petrolio. Questa decisione sfociò nella «crisi di Abadan», dal nome di quella che dal 1950 era diventata la più grande raffineria del mondo: a seguito di tale crisi le principali potenze straniere bloccarono i propri acquisti di petrolio iraniano. Fu a questo punto che gli Stati Uniti decisero un controllo massiccio sulla politica di Teheran, diventata una delle sue priorità strategiche nella regione. La CIA e il SIS organizzarono nel 1953 un’operazione congiunta, denominata AJAX, che portò all’estromissione di Mossadeq e al rafforzamento della monarchia dello Scià, Mohammed Reza Pahlavi. Entrarono senza dubbio nel conto di questa nuova strategia americana i timori di vedere al potere il partita filo-comunista Tudeh, anche in considerazione delle naturali frontiere in comune tra l’Iran e l’Unione Sovietica.

LA REPUBBLICA ISLAMICA DELL’IRAN Superficie: 1 636 000 di kmq. Confini: lunghezza totale dei confini: 5 440 km ; Paesi confinanti: Afghanistan 936 km, Armenia 35 km, Azerbaijan 432 km, Azerbaijan-enclave di Nakhichevan 179 km, Iraq 1 458 km, Pakistan 909 km, Turchia 499 km, Turkmenistan 992 km. Clima: prevalentemente arido o semiarido, subtropicale lungo le coste del Mar Caspio. Territorio: aspro e con catene montuose elevate; presenza di un bacino centrale desertico e montagnoso; presenza discontinua di pianure lungo le coste. La vetta principale è il Kuh-e-Damavan (5 671 m). Risorse naturali: petrolio, gas naturale, carbone, cromo, rame, minerale di ferro, manganese, zinco, zolfo. Utilizzo delle terre: terra coltivabile 8,72%; a coltura 1,39%. Popolazione: circa 68 000 000 (luglio 2005). 0-14 anni: 27,1%; 15-64 anni: 68%; 65 anni e oltre: 4 9% (età media popolazione 24 anni). Crescita demografica: 0,86% (2005). Attese di vita alla nascita: 69,96 anni (maschi: 68,58; femmine: 71,4). Gruppi etnici presenti nel Paese: Persiani 51%, Azeri 24%, Gilaki e Mazandarani 8%, Curdi 7%, Arabi 3%, Lur 2%, Baloch 2%, Turkmeni 2%, altro 1%. Religioni: Sciiti 89%, Sunniti 9%, Zoroastriani, Ebrei, Cristiani e Baha’i 2%. Lingue: Persiano (Farsi) e suoi dialetti 58%, Turkic e suoi dialetti 26%, Curdo 9%, Luri 2%, Bloch 1%, Arabo 1%, Turco 1%, altro 2%. Forma di governo: Repubblica teocratica. Capitale: Teheran. Divisione amministrativa: 30 province (ostanha): Ardabil, Azarbayjan-e Gharbi, Azarbayjan-e Sharqi, Bushehr, Chahar Mahall va Bakhtiari, Esfahan, Fars, Gilan, Golestan, Hamadan, Hormozgan, Ilam, Kerman, Kermanshah, Khorasan-e Janubi, Khorasan-e Razavi, Khorasan-e Shemali, Khuzestan, Kohgiluyeh va Buyer Ahmad, Kordestan, Lorestan, Markazi, Mazandaran, Qazvin, Qom, Semnan, Sistan va Baluchestan, Tehran, Yazd, Zanjan. Indipendenza: 1° aprile 1979 (proclamazione della Repubblica Islamica dell’Iran). Costituzione: 2-3 dicembre 1979; rivista nel 1989. Suffragio universale: a 15 anni.

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LA R IVOLUZIONE I SLAMICA E L A G UERRA C ON L’IRAQ La gestione del potere da parte della Monarchia iraniana si rivelò «particolarmente attenta» agli interessi americani. Lo Scià attuò una «rivoluzione bianca» per occidentalizzare il Paese; gli Stati Uniti aumentarono gli aiuti economici e militari e parvero considerare ormai la partnership conTeheran e con l’Arabia Saudita come la chiave essenziale per garantirsi l’accesso alle risorse petrolifere del Golfo Persico. Contemporaneamente, l’Unione Sovietica vedeva nel confinante Iraq il suo più importante e affidabile alleato regionale. Tra il 1965 e il 1977, gli anni del governo del Primo ministro Amir Abbas Hoveyda, la situazione interna iraniana si evolveva verso forme di protesta popolare sempre più aspre e insistenti. Non erano soltanto il ceto sociale più liberale e quello degli studenti a guidare il malcontento; o meglio, a questa base storica si intrecciava fortemente una rivolta di stampo religioso, ispirata ai precetti dell’islam sciita, maggioritario all’interno dell’Iran. Leader dell’opposizione divenne, sin dall’inizio degli anni 60, l’ayatollah Ruhollah Khomeini, fatto arrestare nel 1963 dallo Scià e costretto a recarsi in esilio in Iraq, a Najaf, da dove venne espulso nel 1978 riparando in Francia, a Neauphle-le-Château. Dal suo esilio nella periferia parigina l’ayatollah inviava in patria audiocassette con la registrazione di infuocati discorsi contro il regime dello Scià. Molti membri della stessa opposizione iraniana tesero a sottovalutare il potere e il consenso che questo leader religioso avrebbe saputo raccogliere intorno a sé. Il malcontento alimentato dalla crisi economica, dalla continua lievitazione dei prezzi, dai quasi quoti-

diani black-out nella Capitale e il contemporaneo aumento della ricchezza accumulata dal Sovrano e da una ristretta classe dirigente, sfociarono dapprima nelle dimissioni di Hoveyda e successivamente portarono al rovesciamento dello Scià, costretto ad abdicare il 31 dicembre del 1978. Soltanto poche settimane dopo, nel febbraio del 1979, rientrava dalla Francia, acclamato da milioni di fedeli, l’ayatollah (segno di Dio) Khomeini. Forse nessuno considerava davvero la possibilità dell’instaurarsi nel Paese di una Repubblica islamica, ma tale l’Iran divenne a partire dal 1° aprile 1979. Il progetto politico di Khomeini, enunciato in un testo da lui scritto all’epoca dell’esilio di Parigi (il Velayet-i-faqih, «La guardia dei giuristi islamici»), prevedeva che alla guida della repubblica vi fosse un faqih, ossia un giurista islamico, nominato da un gruppo di religiosi, il Consiglio dei Guardiani, votati dagli stessi cittadini e ai quali spettava la scelta dei candidati alla presidenza. I rapporti con le potenze occidentali e in particolare con gli Stati Uniti si complicarono. Il 4 novembre del 1979 un gruppo di studenti prese in ostaggio nell’Ambasciata americana di Teheran 63 cittadini statunitensi: 52 di essi vennero tenuti in ostaggio per 444 giorni, prima di essere rilasciati, dopo il fallito tentativo dell’Amministrazione Carter di un piano di liberazione da parte di un commando, bloccato da incidenti meccanici e dalle avverse condizioni climatiche presso Tabas, nel deserto iraniano. A partire da tale avvenimento, la connotazione spirituale del potere di Teheran determinò nuovi equilibri in tutta la regione mediorientale, influenzando le decisioni politiche all’interno di molti Paesi arabi e potenze esterne (in particolare gli Stati Uniti). Al riguardo è da consi-

fonte www.bbc.co.uk

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FORZE ARMATE Per quanto riguarda le Forze Armate, sono alle armi ben 350 000 uomini. L’influenza esterna nel settore militare è stata generalmente forte e controversa. A partire dal 1955, l’Iran ha fatto parte della CENTO (Central Treaty Organization), insieme a Pakistan, Turchia e Gran Bretagna. Gli Stati Uniti hanno assistito il Paese con ingenti forniture militari fino alla fine degli anni 60. Dopo la rottura delle relazioni diplomatiche tra Teheran e Washington nel 1980 il ruolo degli Stati Uniti è stato sostituito dall’Unione Sovietica e in seguito dalla Russia, dalla Cina e dalla Corea del Nord. Anche dopo la rivoluzione islamica del 1979, la vendita di armi all’Iran da parte degli Stati Uniti, soprattutto con il tramite di Israele, è comunque proseguita, a dispetto dell’embargo imposto a livello internazionale. Secondo l’articolo 110 della Costituzione della Repubblica Islamica dell’Iran, risalente al 1979, Comandante in Capo delle Forze Armate è lo stesso faqih, che ricordiamo essere oggi l’ayatollah Khamenei. Egli ha potere di destituire il Capo dello staff congiunto delle diverse Forze Armate, il Comandante in Capo dei Pasdaran, i due consiglieri del Consiglio Supremo della Difesa, e i Comandanti in Capo delle forze terrestri, navali ed aeree su raccomandazione di detto Consiglio. Il Presidente dirige il Consiglio Supremo della Sicurezza Nazionale, ma non ha funzioni operative nella struttura di comando delle Forze Armate. Il Ministro dell’Interno è Comandante in Capo delle Forze dell’Ordine e risponde direttamente alla Guida Suprema. La parte più interessante per quanto riguarda la struttura dell’Esercito iraniano è quella relativa ai corpi para-militari, Pasdaran e Basij. I primi, le Guardie Rivoluzionarie Iraniane, sono più di 120 000. La loro formazione è alquanto complessa sia a livello politico che militare: sono costituite da forze di terra, aeree e navali autonome. I Pasdaran, come pure i Basij, dipendono da comandi territoriali. I Basij, con ogni probabilità, sono sottoposti allo stesso Comandante in Capo dei Pasdaran e quindi, attraverso lui, alla Guida Suprema della Rivoluzione Islamica. La componente di intelligence che si occupa di operazioni di guerra non convenzionali, all’interno delle Guardie Rivoluzionarie Iraniane, è formata da circa 5 000 unità, molto ben addestrate ed equipaggiate. In particolare, le cosiddette Forze al-Quds svolgono un importante ruolo nella conduzione di operazioni al di fuori del territorio nazionale, appoggiandosi ad una serie di movimenti combattenti ritenuti alleati (per esempio in Libano e in Sudan). Questa Forza è attualmente comandata dal Generale Ahmed Wahidi, già a capo delle Guardie Rivoluzionarie che hanno il preciso compito di esportare la rivoluzione. Infine, il Basij, ossia l’Esercito di Mobilitazione Popolare, è composto da circa 90 000 uomini, che possono arrivare a 300 000 con le riserve e a quasi 1 000 000 come capacità complessiva di mobilitazione. Vi sono 740 battaglioni regionali, ciascuno con una forza di 300-500 unità, su 3 compagnie. I Basiji sono in genere giovani, che hanno completato il servizio militare o anziani, con un addestramento e una preparazione al combattimento di scarso livello. Alle dipendenze del Ministero dell’Interno ci sono altresì le Forze di Polizia e le Guardie di frontiera, per complessivi 45 000-50 000 effettivi. Gli assetti militari e strategici nonché i programmi di armamento sono sotto il controllo dei Guardiani della Rivoluzione Islamica. Sotto la direzione di questi ultimi hanno avuto inizio, nel 2003, lo schieramento e le prove per l’entrata in servizio dei missili balistici SHAHAB 3 (1 000-1 300 km di raggio d’azione). Il programma missilistico prevede, oltre alla produzione annuale di circa 20 di questi vettori, anche la sperimentazione di missili con maggiore portata (3 000-5 000 km).

derare che la forza di un movimento quale quello sciita risiede indubbiamente nella sua profonda capacità di penetrare la società e di minare le basi del potere che intende combattere, grazie a un’ideologia che mantiene una presa fortissima sulla popolazione, muovendola alla lotta e al cambiamento attraverso un forte credo religioso, che rifiuta le ingerenze straniere considerandole portatrici di corruzione e degenerazione morale. È innanzitutto la straordinaria ricchezza dell’Iran in termini di riserve di gas e petrolio, nonché la sua posizione strategica, che hanno determinato sin dall’inizio del XX secolo la sua storia, divenendone il fattore chiave dagli anni 80 in poi. Immediatamente dopo l’ascesa al potere degli ayatollah, il dittatore iracheno Saddam Hussein cercò di approfittare della caotica situazione seguita alla rivoluzione khomeinista per rivendicare alcuni dei principali territori petroliferi iraniani e per avere accesso diretto allo sbocco sul Golfo costituito dallo Shatt al-Arab. L’invasione dell’Iran da parte dell’Iraq fu determinata allo stesso tem-

po dal desiderio di controllare un vicino economicamente molto più ricco e dalla paura che la rivoluzione khomeinista potesse ripetersi nel proprio Paese, dove la maggioranza sciita era di fatto tenuta sotto controllo dal Partito sunnita Baath. La guerra che ne seguì, la Prima Guerra del Golfo, venne dichiarata ufficialmente il 24 settembre 1980. Gli aiuti che l’Occidente concesse a Saddam Hussein, in termini di armamenti e di denaro, furono consistenti, ma una cosa apparve subito evidente: si trattava senza ombra di dubbio di una guerra per il controllo del petrolio iraniano. I bombardamenti dei giacimenti petroliferi e gli attacchi alle petroliere si susseguirono in particolare nel corso del 1983 e del 1984. Tuttavia, anche grazie all’inettitudine militare di Saddam Hussein, oltre che alla strenua resistenza opposta dalle Forze Armate e dalla popolazione iraniana, una guerra che nelle previsioni del dittatore iracheno avrebbe dovuto essere breve e senza dubbio vittoriosa si protrasse per quasi un decennio. La conclusione, che non vide in sostanza alcun vinci-

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PRINCIPALI GIACIMENTI PETROLIFERI (produzione stimata in barili/giorno, inizio 2005) ONSHORE

OFFSHORE

Agha Jari (200 000)

Abuzar (125 000)

Ahwaz-A Asmari (700 000)

D orud (130 000)

Bangestan (circa 245 000)

Salman (130 000)

Bibi Hakimeh (130 000)

Sirri A&E (95 000)

Gachsaran (560 000)

Soruch/Nowruz (60 000)

Karanj-P Parsi (200 000) Marun (520 000) Pazanan (70 000) Rag-e e-S Safid (180 000)

tore, giunse solo l’8 agosto del 1988, dopo che il 18 luglio l’Iran accettava, senza porre condizioni, una risoluzione delle Nazioni Unite per ristabilire la pace con l’Iraq, in precedenza rifiutata. L’Iran iniziò immediatamente la ricostruzione dell’economia, soprattutto dell’industria petrolifera che era stata pesantemente colpita dal conflitto, mentre la situazione migliorava anche in seguito al concludersi dell’occupazione sovietica dell’Afghanistan e del rientro in patria di quasi tre milioni di profughi dall’Iran. All’epoca dell’invasione irachena del Kuwait (Seconda guerra del Golfo) l’Iran si schierò a favore delle sanzioni internazionali contro Baghdad, ma condannò gli attacchi militari e permise all’aviazione di Saddam Hussein di atterrare sul proprio territorio. Hashemi Rafsanjani venne eletto per un secondo mandato alla Presidenza della Repubblica nel 1993, aprendo una parentesi politica importante in un Paese alla ricerca di una svolta moderata, in particolare dopo la morte dello storico leader della Rivoluzione islamica, l’ayatollah Khomeini, avvenuta nel 1989 e in seguito all’elezione del nuovo leader spirituale, Ali Hussein Khamenei. L’IRAN OGGI L’economia iraniana si basa in prevalenza sui proventi delle esportazioni di petrolio greggio (la percentuale scende al 20 se parliamo del petrolio raffinato), che costituisce circa l’80% dell’export totale del Paese e il 40-50% del Prodotto Interno Lordo. I prezzi elevati raggiunti dal petrolio nel corso degli ultimi anni hanno decisamente favorito l’economia dell’Iran, che nel 2004-2005 è cresciuta quasi del 5%, anche se il tasso di inflazione rimane sempre elevato, 15% circa. La riserva petrolifera dell’Iran si aggira sui 125,8 miliardi di

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Fonte: Energy Information Administration (Country Analysis Briefs)

barili, circa il 10% del totale mondiale. La compagnia petrolifera nazionale, la National Iranian Oil Company, gestisce la produzione di greggio. È importante sottolineare che l’Iran possiede anche notevoli riserve di gas, in gran parte ancora inutilizzate (circa il 62% del potenziale del Paese) e che ne farebbero il secondo produttore mondiale dopo la Russia. I giacimenti maggiori si trovano a South Pars, North Pars, Kangan, Nar e Khangiran. Il deficit pubblico iraniano resta alto, anche a causa del sistema diffuso di sussidi pubblici, soprattutto sui rifornimenti alimentari e sui prezzi del carburante, poiché l’Iran è un forte esportatore di greggio ma è costretto a importare il petrolio lavorato a causa della carenza di infrastrutture e di industrie di trasformazione. La Dirigenza iraniana ha cercato di promuovere lo sviluppo di altre tipologie di industrie, anche per evitare la dipendenza dell’economia dalle fluttuazioni del mercato energetico internazionale. La mancanza di un buon livello tecnologico penalizza molto la capacità di crescita complessiva del Paese. Sul modello del Norwegian Petroleum Fund è stato costituito, alla fine degli anni 90, l’ Oil Surplus Fund (OSF), conosciuto anche come Oil Stabilization Fund, per gestire gli enormi disavanzi che derivano dalla gestione delle vendite di greggio, indirizzandoli nei settori economici che necessitano di un rapido miglioramento. Il Fondo è diventato un utile strumento di sviluppo, ma costituisce anche una fonte di controversia politica, di scontri al vertice e appare ancora troppo poco regolamentato per fungere davvero da forza stabilizzatrice dell’economia. Una delle problematiche maggiori che i governi iraniani devono affrontare resta tuttora la disoccupazione, particolarmente diffusa tra i giovani (quasi il 15%). Tuttavia, questa enorme ricchezza


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fonte www.globalsecurity.org

in termini di «forza lavoro» ha spinto il governo a guardare al futuro pensando in grande: lo stato intende usare le proprie risorse per fare dell’Iran la principale potenza nella regione del Golfo Persico anche a livello tecnologico. In particolare, il gas diventerà uno degli strumenti privilegiati di tale disegno: esso dovrebbe progressivamente sostituire il petrolio come prima fonte nei consumi interni e potrebbe essere la chiave di una diplomazia positiva con gli stati regionali. Le vie aperte all’esportazione sono molte, e l’Iran è naturalmente collocato in una posizione geografica assai favorevole. I principali gasdotti collegano il Paese alla Turchia e al Turkmenistan, ma altri sono in fase di costruzione con l’Armenia, con la Repubblica autonoma del Nakhichevan (un’encla-

ve dell’Azerbaijan) e con gli Emirati Arabi Uniti. Il progetto più ambizioso resta comunque il gasdotto Iran-India-Cina, che permetterebbe tra l’altro di ammorbidire la posizione della Cina rispetto all’ambizioso progetto indiano della cosiddetta «Autostrada dell’Energia»: si tratta di un gasdotto tra Russia, Cina e India, attraverso Turkmenistan, Uzbekistan, Kazakhstan e Xinjiang cinese, che entrerà in India via Ladakh attraversando i ghiacciai dello Siachen e la fascia militarizzata della linea di controllo sino-indiana per rifornire di gas l’India settentrionale. Una sapiente gestione politica delle risorse di idrocarburi permetterebbe all’Iran di costruire un sistema di incentivi notevole per il mantenimento di buone relazioni con e da parte dei Paesi interessati ai suoi giacimenti di gas e petrolio. Si tratterebbe di una vera e propria cooperazione energetica. Preoccupati dallo sviluppo nucleare iraniano Stati Uniti e Unione Europea esercitano forti pressioni su Teheran, e l’Iran ha cercato una via d’uscita a questo stato di cose rivolgendosi naturalmente verso est, in particolare a India e Cina. L’Iran sta cercando di diversificare la propria economia, soprattutto nel settore petrolchimico e in quello ad alta tecnologia, ma bisogna constatare che gli sforzi intrapresi si scontrano con la precaria situazione politica interna, in particolare con il difficile rapporto di equilibrio tra riformatori e conservatori. Gli investimenti stranieri stentano a decollare anche perchè il futuro dell’Iran appare instabile, specie per le conseguenze della gestione del programma di ricerca sul nucleare, di cui il Paese vorrebbe dotarsi per scopi civili. È chiaro tuttavia che questa opzione convince poco e che il confine tra questo tipo di utilizzo e le finalità militari è molto labile. Lo scorso anno è stato approvato, con l’avallo finale della Guida Suprema, un documento di programmazione ventennale, che intende liberare dalla dipendenza dal petrolio la crescita del Paese, giocando la carta della posizione geo-strategica e degli investimenti sulle risorse umane. Il Presidente Mahmud Ahmadinejad, eletto nell’estate del 2005, ha fatto leva sul voto popolare, basando la propria campagna elettorale sulla lotta alla povertà, alle disuguaglianze sociali, alla diffusa corruzione e sulla creazione di nuovi posti di lavoro. Dalla sua elezione molte alte cariche dello Stato sono state rimpiazzate, ma non bisogna dimenticare che per ben tre volte di fila il candidato da lui proposto per il potentissimo Ministero del Petrolio è stato respinto dal Majlis (il Parlamento iraniano), nonostante la maggioranza sia in mano agli stessi conservatori di cui Ahmadinejad è espressione. Solo agli inizi di dicembre 2005 il Majlis ha infine espresso parere favorevole alla designazione

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di Kazem Vaziri, ma quanto avvenuto è sintomatico delle difficoltà incontrate dal Presidente in una questione così delicata. Ricordiamo che l’Iran continua a essere sottoposto a embargo economico da parte degli Stati Uniti. Le sanzioni inizialmente imposte nel 1995 dal Presidente Clinton sono state confermate nel marzo 2004 anche da George W. Bush, in considerazione della minaccia che l’Iran costituirebbe per gli attuali equilibri geo-politici internazionali e della scarsa trasparenza del regime di Teheran. La situazione politica interna, come già accennato, ha subito nel corso degli ultimi due anni le conseguenze della deludente performance del governo dei riformatori guidati dal presidente Khatami, che non è stato capace di dare al Paese quel grado di apertura e di liberalizzazione della società atteso in particolare dai giovani. La causa di quanto avvenuto va ricercata anche nel costante ostruzionismo praticato dal potentissimo Consiglio dei Guardiani, l’organo composto da dodici personalità religiose che in Iran ha la facoltà di bloccare ogni iter legislativo e che si è opposto al processo di modernizzazione del Paese anche attraverso una pesante censura, la chiusura di alcuni quotidiani e il rifiuto di approvare la candidatura della maggior parte dei riformisti che intendevano presentarsi alle elezioni presidenziali (ben 2 500, tra cui molti di coloro che al voto del 2000 avevano ottenuto la maggioranza delle preferenze). A trarre vantaggio dalla stretta vigilanza del clero sciita, ma anche dalla diffusa disaffezione dell’elettorato, sono stati i conservatori, sia in occasione del rinnovo del Parlamento nel febbraio del 2004, sia in occasione del voto che ha sancito l’elezione di Ahmadinejad (giugno 2005). I moderati sono stati puniti per una mediocre gestione del potere, per la mancata svolta in chiave moderna del Paese, anche se la domanda di secolarizzazione dello Stato rimane tuttora elevata. Purtroppo, la politica di Bush e dei neoconservatori americani all’indomani degli attacchi terroristici del 2001 e l’inclusione dell’Iran tra le potenze inserite nell’«Asse del Male» hanno favorito una reazione positiva per il riaffermarsi degli elementi conservatori alla guida del governo. È auspicabile che l’estromissione dalla gestione diretta del potere permetta allo schieramento riformatore di ricondurre in seno alla società un vivace dibattito sull’esigenza di una rapida democratizzazione. Lo stretto confronto che nel corso degli ultimi anni ha visto opporsi i due schieramenti potrebbe concentrarsi ora in seno al campo conservatore indebolendolo, come avvenuto in occasione della nomina del Ministro del Petrolio. La campagna di Ahmadinejad per il progresso e per un maggior benessere nel Paese si scontrerà

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senza dubbio con l’oggettiva difficoltà di risanare l’economia e di affrontare il rischio di sanzioni economiche da parte dell’Occidente, in un momento in cui la creazione di lavoro e gli investimenti stranieri appaiono quanto mai necessari. Purtroppo, Mahmud Ahmadinejad sembra eccessivamente esposto alle influenze del clero più estremista, di cui è un esponente anche l’ayatollah ultra-conservatore Mesbah Yazdi, colui che potremmo definire la «guida spirituale» del neoeletto Presidente. Alla luce dell’influenza che Yazdi esercita su Ahmadinejad è anche possibile comprendere alcune delle sue recenti dichiarazioni in particolare contro Israele, nonché la linea adottata nel delicato dossier sul nucleare che monopolizza da alcuni mesi l’attenzione dei media e del mondo politico internazionale. In questo senso, è comunque indispensabile pensare al ruolo che l’Iran intende giocare nella regione e al suo desiderio di proiettarsi al di fuori del Medio Oriente, in particolare in virtù del suo status di potenza energetica mondiale. L’IRAN: UNA MINACCIA NUCLEARE O UN PARTNER PER UN FUTURO DI PACE? L’Iran è una grande potenza a livello globale. Il suo desiderio di diventare un attore di primo piano negli equilibri geo-strategici internazionali presuppone la volontà di contrastare la presenza americana, anche a livello economico, e la vicina minaccia costituita da Israele e dalla sua partnership privilegiata con Washington. Ricordiamo che se l’Iran, come temono gli americani e gli organi di controllo internazionali – in primis l’AIEA, l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica – potrebbe procedere nelle ricerche sul nucleare per scopi militari oltre che civili, e quindi incidere in maniera decisiva sugli equilibri futuri di questa area fondamentale del pianeta. L’Iran ha ratificato il Trattato di Non-Proliferazione Nucleare nel 1970 e dal 1992 ha permesso all’AIEA di ispezionare i suoi impianti nucleari. Le prime segnalazioni di violazione del Trattato da parte di Teheran risalgono al 2003. A partire dalla fine degli anni 80, e in particolare tra il 1994 e il 1996, secondo quanto dichiarato dal padre del programma nucleare pachistano, Abdul Qader Khan, l’Iran avrebbe acquistato progetti per la costruzione di testate nucleari e successivamente per la realizzazione di centrifughe e di sistemi avanzati per l’arricchimento dell’uranio. All’AIEA, l’Iran ha mostrato copia di un documento che proverebbe come nel 1987 un «intermediario straniero» avrebbe procurato al Paese parti e disegni per la realiz-


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Fonte: Energy Information Administration (Country Analysis Briefs

zazione di centrifughe, il cui possesso sarebbe del resto stato dichiarato agli organi internazionali di controllo nel corso del 2003. I contatti con gli intermediari stranieri sarebbero proseguiti anche durante gli anni 90, ma l’Iran sostiene di non avere mai preso l’iniziativa e di avere sempre dato accesso al materiale in suo possesso ai funzionari dell’ONU. Secondo la CIA, al contrario, l’Iran avrebbe abbondantemente finanziato gli aiuti esterni ricevuti nel settore nucleare, proseguendo nelle attività di arricchimento dell’uranio in misura molto superiore a quanto dichiarato. Dopo un richiamo nel corso del 2004 da parte dell’AIEA per la reticente collaborazione delle autorità iraniane, nel corso del 2005 all’Agenzia delle Nazioni Unite è stato dato accesso agli impianti di Parchin e Arak, dove sono state visitate installazioni esclusivamente di tipo civile. Mentre l’AIEA proseguiva nei controlli per accertare che, in particolare nel periodo 1995-2002, l’Iran non avesse proseguito nel suo progetto di ricerca sul nucleare, la decisione presa da Teheran lo scorso 9 gennaio di rompere i sigilli posti dall’AIEA al sito di Natanz, ha scatenato una crisi a livello internazionale. L’Iran sembrerebbe non avere né

gli impianti e la tecnologia indispensabile, né la necessità di produrre energia nucleare a scopi civili e si teme quindi che l’arricchimento dell’uranio sia finalizzato a scopi militari. È soprattutto l’impianto di Bushehr, costruito grazie all’expertise e agli aiuti forniti dalla Russia dal 1995, a preoccupare maggiormente. Ciò che si teme è che il combustibile utilizzato nella centrale, di cui si ignora il processo di smaltimento finale, possa venire riutilizzato per condurre esperimenti segreti sull’arricchimento di uranio. Nelle centrali nucleari per uso civile l’uranio è sottoposto a un arricchimento del 2-3%. Le barre di uranio «utilizzate» vengono processate ottenendo uranio (96%), rifiuti radioattivi (3%) e plutonio (1%), 4 chili di plutonio sono sufficienti per produrre un ordigno atomico. Il passo dall’uso civile a quello militare appare davvero breve. La Russia ha offerto una possibile soluzione alla crisi garantendo che i processi di arricchimento si svolgano sul proprio territorio, sotto il pieno controllo degli organi internazionali. L’Iran ha fino a oggi rifiutato la proposta perché ritiene che le attività di ricerca siano del tutto legittime e assolutamente legate al pieno rispetto dei diritti di uno Stato sovrano.

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L’unica centrale nucleare attualmente in funzione resta quella di Bushehr, mentre sono in costruzione quella di Ahwaz e le installazioni nucleari, per le attività di arricchimento dell’uranio, di Karaj, Arak, Natanz e Isfahan; l’uranio da trasformare proviene dalle miniere di Savand e Yazd. I toni mantenuti dal Presidente Ahmadinejad nel suo «faccia a faccia» con i tecnici dell’AIEA, ma soprattutto con gli Stati Uniti, non sono confortanti. Anche il deferimento dinanzi alle Nazioni Unite e le sanzioni economiche che ne sono seguite, non sono state sufficienti a riportare il leader radicale a più miti consigli: per l’Iran sembra essere divenuta una questione di prestigio internazionale proseguire nel completamento del proprio programma nucleare. L’AIEA, riunitasi agli inizi di febbraio nel quartier generale di Vienna, dice che la possibilità di un negoziato resta aperta e che la situazione non è irrecuperabile, ma la posizione assunta dal suo interlocutore rimarrà fondamentale per far sì che le cose non si complichino ulteriormente. Lo stesso ex-Presidente iraniano, Hashemi Rafsanjani, ha denunciato l’atteggiamento di Ahmadinejad, dichiarando pubblicamente la necessità di una maggiore riflessione, di una più sapiente diplomazia nella gestione del dossier nucleare. Anche in Iran, dunque, nonostante la posizione dura di Stati Uniti, Europa, Russia e Cina, la virulenza verbale dell’attuale Presidente non viene percepita come la via migliore per uscire dalla crisi. CONCLUSIONI Cercheremo di concentrare le nostre conclusioni sulle scelte geo-politiche iraniane: il senso di accerchiamento di cui Teheran si sente vittima è rafforzato da alcuni dati oggettivi, in primo luogo l’instabile situazione di alcuni Paesi confinanti, insieme alla massiccia presenza americana in Afghanistan e in Iraq e all’influenza di Washington sulla politica del Pakistan. In particolare Israele, teme la minaccia di un Iran Denominazione Mushak-120 Mushak-160 Mushak-300 Shahab-1 Shahab-2 Shahab-3 Shahab-4 IRIS X-55 LACM Shahab-5 Shahab-6

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Stadio 1 1 1 1 1 1 2 1 1 3 3

Propellente Solido Liquido Liquido Liquido Liquido Liquido Liquido Solido Motore a reazione Liquido Liquido

«nucleare» dopo che una operazione di intelligence ha classificato il Paese come una top priority già nel 2005. Una serie di siti sconosciuti alle autorità internazionali e dove proseguirebbero le attività di arricchimento dell’uranio sarebbero stati individuati da tempo e l’Esercito israeliano potrebbe decidere di colpire queste strutture, come già avvenne nel 1981 per il reattore nucleare iracheno di Osirak. Il Ministro della Difesa, Shaul Mofaz, ha commentato le recenti dichiarazioni del Presidente Ahmadinejad contro Israele, sottolineando il pericolo costituito da un Iran dotato di nucleare, ma facendo al contempo appello alla società civile iraniana perché dall’interno contrasti la deriva estremista costituita dal gruppo conservatore attualmente al potere (VI Conferenza di Herzliya, gennaio 2006). Se quindi gli Stati Uniti e l’alleato israeliano si sentono minacciati da una possibile politica aggressiva della Repubblica islamica, non bisogna dimenticare che in primo piano, in questa delicata questione, si muovono anche due altre grandi potenze: la Cina e la Russia. Le sfide e le opportunità che la crescita economica e militare dell’Iran pongono, fanno sorgere, anche all’interno dell’ONU, posizioni diverse rispetto alla proposta di sanzioni, in caso di proseguimento del programma nucleare senza un accordo con l’AIEA. Cina e Russia hanno potere di veto nel Consiglio di Sicurezza e hanno molti interessi da tutelare e alleanze reciproche da consolidare nella regione. Il Governo cinese ha investito milioni di dollari per assicurarsi approvvigionamenti di gas dall’Iran, in particolare dai giacimenti di Yadavaran. Alla fine del 2004 l’import cinese delle compagnie petrolifere statali proveniva in gran parte dai giacimenti iraniani, contravvenendo all’US Iran-Lybia Sanctions Act, che penalizza le compagnie straniere che investano nei due Paesi cifre superiori ai 20 milioni di dollari. Inoltre, Cina e Russia vendono missili e tecnologia militare all’Iran e questa tendenza è destinata ad aumentare. Non dimentichiamo, del resto, che l’intero mondo sciita ha sempre guardato all’Iran come a un punto di riferimento. E del resto l’Iran reagisce con Raggio d'Azione 130 Km 160 Km 200 Km 300 Km 500 Km 1 300 Km 2 000 Km 3 000 Km 3 000 Km 5 500 Km 10 000 Km

Altra denominazione Iran-130, Nazeat 10 Fateh 110/NP-110 Zelzal-2 Scud-B Scud-C Zelzal-3 Shahab 3D fonte www.globalsecurity.org


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preoccupazione alla presenza americana in Iraq, sia in termini numerici sia per la richiesta di un sostegno politico fatta agli Stati Uniti dagli sciiti iracheni nell’attuale congiuntura del Paese. Teheran percepisce la minaccia di una possibile spaccatura all’interno del fronte sciita. Anche l’Hezbollah libanese, i gruppi sciiti attivi in Siria e in Iraq, i sunniti della Jihad palestinese e del Partito Hamas seguono con attenzione quanto avviene a Teheran. Dopo la vittoria elettorale riportata da Hamas alle legislative del 25 gennaio, nel corso dei prossimi mesi il processo di pacificazione del conflitto israelo-arabo e pertanto la stessa posizione dell’Iran potrebbe evolversi in termini positivi o negativi. Molto dipenderà dalla lungimiranza dei leader politici e dalla capacità di mediazione che dimostreranno i principali organi internazionali. Sarà soprattutto in ambito economico che le carte migliori potranno essere giocate. La posizione più morbida dimostrata finora dall’Unione Europea nei confronti dell’Iran è in primo luogo conseguenza della larga dipendenza che Paesi come Germania, Francia e Gran Bretagna hanno dai rifornimenti energetici iraniani e dalla forte penetrazione finanziaria in diversi settori dell’economia iraniana. L’Italia è il primo partner commerciale della Repubblica islamica all’interno dell’UE. Solo nel 2002 le esportazioni italiane hanno avuto un incremento di oltre il 53% rispetto all’anno precedente. Tra le aziende che operano in Iran figurano l’Eni, Ansaldo Energia, Danieli, Technipetrol, Snam Progetti, Technip Italia, Sondel, Alstom Power Italia, il consorzio Sms Dasmag, Edison, Nuovo Pignone, Fata Engineering. A livello europeo, durante il periodo della presidenza Khatami venne costituito un High-level Working Group on Trade and Investment che puntava alla conclusione di un Trade and Co-operation Agreement (TCA) i cui negoziati hanno avuto inizio nel dicembre 2002. Il sorpasso dei conservatori nel 2004 ha portato a uno stallo nelle relazioni diplomatiche, aggravato nei mesi scorsi dalle dichiarazioni di Ahmadinejad contro Israele e dalla ripresa dei test nucleari. Attualmente, l’UE risulta il primo partner dell’import iraniano (44% del totale), seguito da Cina (7,8%), Emirati Arabi Uniti (6,4%) e Corea del Sud (6,3%). È improbabile che la possibilità di un embargo anche da parte dell’ONU riguardi le importazioni petrolifere, troppo importanti per il mercato occidentale, ma potrebbe focalizzarsi piuttosto sulle forniture di equipaggiamenti elettronici, di tecnologia e di armi. L’Iran ha estremo bisogno di sostenere gli investimenti stranieri nella propria economia e non trarrà alcun tipo di vantaggio dall’isolamento politico verso il quale sembra muoversi oggi. L’evidente tentativo in atto da parte di Teheran per ridefinire il quadro delle proprie alleanze, la

lista degli amici e dei nemici, è senza dubbio espressione della sua forte volontà di affermazione internazionale. A questo proposito, è chiaro che i suoi interessi contrastano decisamente con quelli della super-potenza americana e in particolare con il progetto del Greater Middle East. È importante che Teheran sia capace di condurre la sua azione politica in maniera sapiente e equilibrata, per non isolarsi e per fare in modo che le fondamentali carte a sua disposizione, costituite da un’invidiabile posizione geo-strategica e dalla notevole ricchezza di risorse naturali, possano essere giocate per portare al Paese una serie di innegabili benefici. Tra questi restano prioritari la liberalizzazione e la democratizzazione della società. La lotta per il rispetto dei diritti umani e per tutelare le principali libertà ancora frequentemente calpestate dal regime degli ayatollah (libertà di stampa, di espressione, di manifestazione del dissenso politico) è altrettanto importante quanto la battaglia per il progresso economico e per la redistribuzione della ricchezza interna. Stati Uniti e Unione Europea devono fare in modo di non abbandonare le forze progressiste e la forte spinta riformatrice che esiste nel Paese, e devono fare dell’Iran un partner affidabile sul piano economico e politico, in grado di favorire un clima più disteso e di cooperazione effettiva nell’intera regione mediorientale e dell’Asia Centrale. Andrea Margelletti Presidente del Centro Studi Internazionali

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IL DILEMMA IRANIAN0 Tre buone ragioni per evitare l’intervento militare Ne spiega i motivi, per «Rivista Militare», Edward N. Luttwak. Proponiamo ai nostri lettori il suo punto di vista nella certezza che l’illustre politologo, l’insigne studioso di problemi militari, lo scrittore di successo e, soprattutto, il Consulente dei Dipartimenti di Stato e della Difesa degli Stati Uniti possa offrire un valido contributo alla comprensione di ciò che sta accadendo e potrà accadere in quelle lontane latitudini.

L’ultima volta che il Pentagono ha seriamente considerato di bombardare l’Iran, le operazioni previste erano ben più rilevanti di quelle intese a colpire qualche installazione per l’arricchimento dell’uranio. La missione era così impegnativa che un’intera Divisione di fanteria leggera sarebbe stata appena sufficiente come avanguardia, per proteggere il concentramento delle forze, perché il terreno montagnoso giocava moltissimo a favore della difesa. L’intero complesso delle forze in azione superava il totale di quelle che sarebbero state poi messe in campo in Iraq dagli Stati Uniti e dai loro alleati nel 2003. La maggior parte di queste era composta di reparti iraniani equipaggiati e addestrati dagli Stati Uniti poiché la missione era di difendere il Paese da un’invasione sovietica verso il Golfo Persico, dove Divisioni di fanteria motorizzata sarebbero discese dalle Repubbliche Socialiste Sovietiche dell’Armenia e dell’Azerbajan per congiungersi con quelle aerotrasportate mandate avanti ad impadronirsi dei porti petroliferi. Anche se quello scampolo di pianificazione d’emergenza del 1978 rispecchiava una buona intelligence circa la trasformazione dell’Esercito sovietico da massiccio ariete ad agile forza di manovra, il bersaglio non era l’Iran, bensì l’Afghanistan. E per un’ottima ragione. Nel confronto con l’avventurismo di un’Unione Sovietica molto ben armata, ma allo stadio finale del suo declino militare, l’Iran poteva contare sulla protezione offerta dall’America, in atto dal 1946, quando l’Amministrazione Truman aveva bloccato il tentativo staliniano di dividere il Paese. Da quel momento, e anche nelle pericolose circostanze previste nel 1978, gli Stati Uniti sono stati pronti a rischiare la vita delle proprie truppe per difendere l’Iran: tale era la sua importanza nel quadro della strategia americana. La ragione di ciò non era solo il petrolio, anche se nel 1946 esso contava molto più di quanto non

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conti attualmente, poichè all’epoca non vi era ancora alcuna produzione degna di nota né in Arabia Saudita, né in Kuwait, né ad Abu Dhabi, e l’Iraq era l’unico Paese esportatore della regione. In realtà la geografia dell’Iran è molto più importante della sua geologia. Durante la Guerra Fredda, è stato il suo confine settentrionale, da entrambi i lati del Mar Caspio, comprese le sue acque, ad essere di grande rilievo per un segmento essenziale del perimetro di contenimento della Guerra Fredda. Adesso l’importanza strategica si è spostata principalmente sulla sua lunga linea costiera meridionale. Essa domina l’intero Golfo Persico, dallo stretto passaggio tra l’Oman e l’Iran nello Stretto di Hormuz fino alla sottile fetta di territorio iracheno sulla sua punta. Tutta la produzione di gas e petrolio delle piattaforme offshore nel Golfo Persico e tutto il traffico delle petroliere e navi cisterna in partenza dai moli della Penisola Arabica e dell’Iraq sono facilmente raggiungibili dalla costa iraniana. Immutabili realtà geografiche sono perciò a favore dell’alleanza strategica tra Stati Uniti e Iran, con grandi vantaggi per ambo le parti. Solo le capacità strategiche dei lontani Stati Uniti possono salvaguardare l’Iran dalla vicina potenza russa, che nemmeno adesso è decaduta, come dimostra la recente diplomazia nucleare, ed è molto probabile che nel futuro si rinvigorisca anziché declinare. Solo un Iran amico può tenere i facinorosi lontano dalle installazioni petrolifere sul lato arabo del Golfo, dove a proteggerle vi sono soltanto le deboli e corrotte dinastie del deserto. Il veemente rifiuto dell’alleanza americana da parte degli estremisti religiosi che hanno governato l’Iran dopo la caduta dello Scià nel 1979, viola perciò l’ordine naturale delle cose, ad un costo cumulativamente enorme per i cittadini, a cominciare dai 600 000 morti ed incalcolabili invalidi della guerra con l’Iraq del 1980-1988, che la protezione americana avrebbe sicuramente evita-


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to, e che continua ancora adesso con i costi ed i disagi dell’embargo americano. Naturalmente questo è solo uno dei modi con cui gli estremisti al governo si oppongono all’ordine naturale delle cose, costretti ad atteggiamenti fanatici, non per far avanzare la causa rivoluzionaria, ma per conservare il potere. Questo radicalismo paradossale, che cerca di conservare piuttosto che cambiare, alla lunga non può durare, poiché i cittadini dell’Iran sono bipedi come tutti noi, ai quali si possono imporre regole estremistiche solo con la forza bruta. Le prova più evidente dell’opinione iraniana sul regime è la spinta ad emigrare che ha formato una vasta e crescente diaspora, composta da un piccolo numero di esuli politici e da milioni di persone normali che avrebbero potuto restare in Iran, rendendolo prospero, se non avessero rifiutato di vivere sotto il regime dei fanatici religiosi. Il regime deve resistere giorno per giorno non solo contro la natura umana, ma anche contro le culture dell’Iran. Quasi la metà della popolazione non è persiana e, tuttavia, in base a un nazionalismo ufficiale persiano che risale agli anni Venti, che è il solo avanzo del regime imperiale dello Scià che l’Ayatollah Khomeini ed i suoi successori hanno lasciato totalmente intatto, tutte le altre nazionalità sono state soppresse. Innanzitutto per quanto riguarda l’istruzione, perché l’unico insegnamento permesso è quello in lingua persiana, tranne l’istruzione religiosa cristiana-armena e quella ebraica. Questo imperialismo linguistico condanna tutti i non-Persiani dell’Iran all’analfabetismo della propria lingua. Ciò non era molto

L’Ayatollah Seyyed Ali Khamenei, Seyyed Mohammad Khatami e il Presidente Mahmoud Ahmedinejad. sentito quando era la norma, ma adesso irrita un numero sempre più crescente di persone. I curdi sono circa il 9% della popolazione ed i loro sentimenti nazionali sono stati certamente rafforzati dall’esempio di virtuale indipendenza curda del vicino Iraq. Mentre le istanze di autonomia culturale si intensificano, nelle zone curde nord-occidentali dell’Iran sembra che vi siano stati inizi di rivolta. Le altre nazionalità minori, della cui ostilità si è venuti a conoscenza a causa di recenti atti di resistenza violenta, includono gli arabi, che sono il 3% della popolazione iraniana e i beluci del sud-est, che sono il 2%. Si sa poco dell’intensità dei sentimenti nazionali dei popoli turkmeni e lurs, ciascuno dei quali costituisce circa il 2% della popolazione. I gilaki ed i mazandarani, che sono quattro volte più numerosi, sono probabilmente assimilati culturalmente, non fosse altro per il fatto che le loro lingue sono dialetti persiani. Assieme ai curdi, tutte le nazionalità minori, in rivolta o meno, formano soltanto un quarto della popolazione dell’Iran, ma gli azeri di lingua turca, da soli, aggiungono almeno un altro quarto. Specialmente molte famiglie azere di Teheran sono considerate totalmente assimilate, avendo solamente un interesse folcloristico per le loro origini, ammesso che lo abbiano, ma un numero crescente di azeri afferma la propria identità nazionale turkic e, tra questi, vi sono gruppi, sempre più attivi, che reclamano l’autonomia cul-

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turale o addirittura la separazione. Poiché l’Azerbajan, appena oltre il confine, ha avuto l’indipendenza dall’Unione Sovietica, gli azeri hanno ottenuto una loro patria... ma non è l’Iran. L’estremismo religioso dei padroni dell’Iran ha ulteriormente spaccato l’unità del Paese. Le loro pratiche discriminatorie non destano solo il risentimento di bahais (non mussulmani), cristiani, ebrei e zoroastriani, che insieme formano meno del 2% della popolazione, ma anche quella dei sunniti, che sono il 9%. A Teheran, dove sono più di un milione, i sunniti non possono avere la loro moschea come a Roma, Tel Aviv e Washington DC. L’ultimo tentativo di costruirne una è stato bloccato dall’ex Sindaco di Teheran ed attuale Presidente dell’Iran, Mahmoud Ahmedinejad, il cui avvento segna un chiaro spostamento dall’estremismo istituzionalizzato esistente dalla caduta dello Scià, nel 1979, all’ultra-estremismo più stridente che impaurisce molta gente in Iran e, allo stesso tempo, in molti genera speranza perché denota un regime che sta degenerando. È vero che, sotto la costituzione iraniana, teocratica e non democratica, il Presidente eletto deve ubbidire al « Leader » non eletto, un religioso avente almeno il rango di ayatollah, esattamente come il Parlamento Majilis è subordinato al non eletto «Consiglio dei Guardiani». Motivo per cui le opinioni del Presidente precedente, l’elegante, erudito ma inetto Seyyed Mohammad Khatami non hanno mai avuto la minima rilevanza (anche se gli sciocchi continuano a citare le sue solenni dichiarazioni impeccabilmente liberali ed interreligiose), come hanno ben presto scoperto i funzionari occidentali che hanno perso tempo negoziando con lui. Ma l’impotenza di Kathami era dovuta alla sua incapacità di tenere il passo con un regime che reagiva alla crescente impopolarità diventando sempre più estremo. Al contrario, Ahmedinejad impersona proprio l’esempio di questa tendenza. Anche se il mondo lo conosce per la sua persistente negazione dell’olocausto e per i suoi strepiti quotidiani contro Israele ed il sionismo – incolpati generalmente di tutto quello che non gli piace, dalle vignette danesi al terrorismo in Iraq – non risulta che Ahmedinejad abbia agito in nessun modo contro gli ebrei di Teheran quando era Sindaco, né contro l’intera comunità ebraica iraniana quando è diventato Presidente, non aggiungendo alcuna imposizione o restrizione a quelle precedenti. Non ha nemmeno reagito alla lettera che Haroun Yashayaei, capo della comunità ebraica iraniana, ha fatto circolare sui giornali, denunciando le sue dichiarazioni sull’olocausto. Per contro, Ahmedinejad è stato attivamente ostile verso i sunniti iraniani, e la dimensione religiosa del suo ultraestremismo provoca persino

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Un bombardiere statunitense B-2 «Spirith».

l’ostilità di molti suoi colleghi sciiti, perché è un seguace entusiasta dell’ayatollah Muhammad Taqi Misbah Yazdi, secondo il quale tutte le attuali proibizioni sono insufficienti e vorrebbe imporre il puritanesimo più rigido del culto Mahdivat, messianico, da giudizio finale, che fa capo alla moschea di Jamkaran, presso Qum. I credenti più tradizionalisti sono preoccupati per le invocazioni isteriche dei pellegrini di Jamkaran per il ritorno del 12° Imam nascosto – essi hanno la sensazione che, come il Mahdi, il messia sciita, egli dovrebbe avere la prerogativa di stabilire la data del suo ritorno – e ancor più essi temono che Ahmadinejad possa «forzare» il ritorno del 12° Imam provocando deliberatamente un attacco catastrofico all’Iran, che l’Imam dovrebbe scongiurare. La transizione dall’estremismo normale ad un ultraestremismo più attivo si manifesta anche nella persecuzione degli sciiti eterodossi, gli Ahlel Haqq dell’Iran occidentale, di gran lunga la più numerosa confraternita Sufi, che era stata lasciata in pace anche dal rigoroso e fanatico Ayatollah Khomeini (che ha scritto il suo testamento finale in forma di tipica allegoria Sufi). Adesso, invece, i luoghi di raduno dei Sufi sono assaliti e chiusi con la forza, e un centro importante della capitale teologica di Qum è stato demolito, mentre venivano arrestate centinaia di dervisci Sufi che protestavano. Le religioni e le sette perseguitate non possono essere aggiunte alle nazionalità oppresse senza effettuare un calcolo doppio (per esempio molti sunniti sono anche curdi). In ogni caso il regime è anche contro la cultura della maggioranza persiana, e favorisce con insistenza una cultura essenzialmente arabo-islamica. Pertanto condanna l’abitudine molto diffusa dei «salti nel fuoco», che precede le celebrazioni primaverili di Nowruz, che si svolgono ogni nuovo anno zoroastriano. In linea generale essa eleva una piccola religione al di sopra di una delle maggiori culture del mondo, molto influente dai Balcani al Bengala. Ben conosciuti in Occidente fin dal XIX secolo, la poesia


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epica e i canti d’amore persiani riecheggiano ampiamente nella letteratura e nella musica della Turchia, di tutta l’Asia Centrale e in gran parte del sub continente indiano. Le particolari arti persiane della miniatura e dei tappeti sono imitate coscientemente, e ben pochi arabi, turchi, pakistani o indiani del Nord sanno fino a che punto la loro cultura materiale è di fatto persiana e comprende anche molti dei migliori piatti delle loro cucine. Per esempio, il comunissimo tandoor non è altro che il forno a legna persiano ed ebraico. La dimensione culturale è molto significativa per i persiani della diaspora iraniana, in quanto fornisce loro un forte e ben radicato senso di identità, indipendentemente dall’Islam. Solo pochi si sono convertiti al cristianesimo o sono seriamente impegnati nella rinascita zoroastriana sostenuta da esuli; ma la maggior parte di essi ha reagito all’Islam fanatico degli attuali leader dell’Iran e sono divenuti «post-islamici», cioè essenzialmente laici, a prescindere da un attaccamento sentimentale ad alcuni riti e preghiere. In ciò, gli esuli lasciano prevedere il futuro dello stesso Iran. Considerando un’azione militare contro l’Iran, è importante ricordare queste importanti realtà, che, attualmente sommerse, riemergeranno come sempre avviene con i fondamentalismi. Una perfetta analogia può essere fatta con il collasso del comunismo nell’Europa Orientale e in Russia, nonché nella ritirata del comunismo cinese entro un ambito puramente politico. In entrambi i casi, nonostante i grandi inganni, i saccheggi, i massacri e le distruzioni compiuti dal governanti comunisti, le culture locali e le identità storiche sono riemerse praticamente identiche, con l’eccezione, naturalmente, di un rifiuto di principio, e senza compromessi, dell’oppressione politica. Lo stesso avverrà in Iran, quando i fanatici che attualmente opprimono la maggioranza non fanatica perderanno inevitabilmente il potere. Insieme al riemergere della occidentalizzazione del Paese, ora soppressa, e con il ristabilimento della cultura laica persiana che i religiosi hanno cercato di «arabizzare» senza riuscirci, gli Stati Uniti ritorneranno certamente sulla scena come alleati, come senza dubbio farà Israele. Non tutto però resterà come prima, dato che i lunghi e duri anni di oppressione religiosa avranno generato la prima società post-islamica del mondo, con un gran numero di distacchi e conversioni verso forme di Islam più tolleranti o altre religioni più blande. In ogni caso, però, tutti i religiosi si occuperanno soltanto di liturgie apolitiche e non avranno più alcun potere politico e giudiziario. Pertanto non è possibile ignorare le conseguenze a lungo termine di un’eventuale azione militare americana. La massa degli iraniani – che sono stati e saranno nostri alleati – non si considerano

nemici degli Stati Uniti, ma piuttosto il contrario, e non si deve permettere che essi si sentano attaccati dalla Nazione che ammirano di più, in cui tanti loro amici e parenti hanno prosperato così bene. Questo è un eccellente motivo per non bombardare le installazioni nucleari dell’Iran, anche se gli edifici essenziali potrebbero essere distrutti in una sola notte, impiegando meno di quattrocento armi di precisione, senza colpire i civili, a meno che non si verifichino grossi errori tecnici che però, di questi tempi, avvengono ben raramente. Nel frattempo, aspettando l’emergere del futuro Iran post-islamico, gli Stati Uniti devono occuparsi del regime attualmente al potere, che ha avuto inizio nel 1979 con l’immensa autorità morale dell’Ayatollah Ruhollah Khomeini, che fin dal principio è stato il più grande e più seguito leader di tutto il popolo dell’Iran, con l’eccezione degli intimi dello Scià: i comunisti Tudeh della vecchia scuola, radicali violenti e assortiti, liberali occidentalizzanti, tradizionali mercanti dei bazar, classi medie moderniste, poveri delle città, proprietari terrieri, mussulmani di tutti i tipi, dai quieti moderati ai religiosi fanatici appartenenti alle più estreme scuole teologiche. Con l’eccezione di questi ultimi, tutti i membri di questa grande coalizione di delusi sono stati esclusi poco a poco da ogni potere e poi messi fuori legge, imprigionati, giustiziati, oppressi o almeno marginalizzati e ignorati, lasciando ai religiosi più fanatici il pieno controllo. In principio essi potevano giustificare il loro potere con il prestigio di Khomeini e godevano ancora del rispetto tradizionale che molti iraniani sentivano nei confronti dei religiosi dell’Islam sciita. Ciò è sparito quasi del tutto, ed è stato sostituito da rancore e disprezzo. Troppi religiosi hanno usato i loro incarichi governativi ufficiali e il controllo sulle proprietà confiscate e collocate in fondi islamici, allo scopo di arricchire se stessi e le proprie famiglie. Troppi hanno commesso truffe per stornare le tasse relative al petrolio o per far pagare troppo al Governo, non soltanto per finanziare le scuole teologiche, già sovrabbondanti, le cui orde di pii nullafacenti dovevano essere nutrite e vestite, ma anche a loro personale vantaggio. Il più conosciuto di tutti, Ali Akbar Ashemi Rafsanjani, di mestiere «religioso di basso livello», due volte Presidente della Repubblica Islamica, dal 1989 al 1997, eterno candidato per un’altra legislazione, presidente del non eletto – ma potente – «Consiglio dell’Opportunità e del Discernimento», nonché consigliere di alto rango del leader Ayatollah Seyyed Ali Khamenei, è divenuto, si dice, il più ricco uomo dell’Iran. Nato Hashemi Bahramani, ha assunto il nome di Rafsanjani, cioè «della provincia di Rafsanjan», il che è giusto, dato che possiede un

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Una porzione della piazza di Isfahan.

gran numero delle famose piantagioni di pistacchio della provincia. Ai tempi dello Scià, la ben nota corruzione legata ai contratti governativi faceva lievitare di circa il 15% il costo di tutti gli acquisti, dai fertilizzanti per il Ministero dell’Agricoltura agli elicotteri. Ora si arriva quasi al 30% e si nota che la famiglia e gli amici dello Scià erano esempi di autocontrollo in paragone ai religiosi, siano essi ayatollah ozmas o grandi ayatollah, ayatollah semplici, hojjat ul islams (il grado di Rafsanjani) o umili thaqqat ul islams. Essi formano un’intera classe di sfruttatori clericali, che non hanno nemmeno l’autorità derivante da un’origine antica: i persiani si sono convertiti allo sciismo nel XVI secolo – per lo più per obbligo – ma la gerarchia sciita e i suoi membri sono molto più recenti, meno di un secolo. Quindi non esiste un’accettazione radicata dei gradi e dei privilegi religiosi, paragonabile a quella dei cattolici, i cui vescovi vivono in palazzi assegnati ufficialmente e i cui cardinali vivono da aristocratici. La Chiesa cattolica, infatti, ha degli ordini mendicanti separati, riservati a coloro che preferiscono una versione più austera della fede. Un forte anticlericalismo è attualmente diffuso in Iran come non mai. Le sartorie di Qum, specializzate a trasformare le migliori lane nel ricco vestiario degli ayatollah e degli altri capi religiosi, adesso fanno ottimi affari con i normali abiti da uomo, dato che i religiosi che si recano a Teheran con indosso i copricapi e gli abiti tradizionali sono insultati dai passanti, spinti fuori dalla strada da mani invisibili e percossi dalla folla. Spesso, se cercano un taxi, sono lasciati a piedi, dato che molti conducenti si sono specializzati nella tecnica di rallentare come se volessero prendere a bordo il religioso, per poi ripartire a tutta velocità. Avendo perduto tutta la sua autorità morale, il regime deve sopravvivere basandosi solo sul suo potere diretto di coercizione, che gli deriva dalla milizia volontaria Basij, composta da analfabeti poveri che hanno veramente bisogno della mode-

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sta mercede che viene loro corrisposta, e dai Pasdaran Inqilab, guardie rivoluzionarie, forza regolare che comprende formazioni armate terrestri, aeree e navali. I suoi membri però possono essere anche impiegati contro civili che protestano. Un altro sintomo della degenerazione del regime è che, benché i Pasdaran siano ben pagati in relazione agli standard locali, molti di essi integrano i salari con un gran numero di affari legali e illegali, che vanno dalle piccole manifatture al contrabbando attraverso il Golfo Persico. La componente navale dei Pasdaran opera da navi pattuglia dislocate in sette porti e dalla piattaforma petrolifera di Halul, ed è spesso usata per contrabbandare, dal porto di Dubai (!), sia prodotti soggetti all’embargo, per scopi nazionali, sia profumi e altri prodotti di lusso per i loro affari privati. Con l’avvento di Ahmadinejad, il primo non-religioso ad assurgere alla presidenza dell’Iran, e precedentemente ingegnere dei Pasdaran, questi ultimi sono diventati un’importante fazione politica, una forza militare, una gendarmeria politica e un conglomerato di affari. Ahmadinejad non è infastidito da questa confusione di ruoli, che di per sé è sintomatica di un regime in rapida decadenza, e continua ad affermare la sua fedeltà ai Pasdaran, che sono evidentemente la base del suo potere. Infatti l’aspetto fisico disordinato di Ahmadinejad non è soltanto il risultato di un modo di fare trasandato ma del vero stile Pasdaran, cioè del look del soldato appena tornato dal campo di battaglia, e ciò da parte di uomini che non sono stati in combattimento dai tempi della guerra tra Iran e Iraq, terminata nel 1988. A questo punto arriviamo alla seconda buona ragione per non bombardare le installazioni nucleari iraniane, e addirittura per non sollevare un grande polverone intorno ad esse. In breve, non dobbiamo bombardare l’Iran perché i suoi capi peggiori desiderano ardentemente essere bombardati, e stanno facendo del loro meglio affinché ciò avvenga. Quando un regime che una volta era largamente popolare si riduce a fare affidamento soltanto sulla repressione, quando la sua leadership degenera, andando da un’icona come Khomeini fino ad arrivare ad Ahmadinejad, esso può trarre vantaggio soltanto dall’essere preso di mira o addirittura minacciato dalle grandi potenze del mondo, la cui sprezzante indifferenza sarebbe molto più dannosa. L’estremismo frenetico di Ahmadinejad e del suo regime riflette un senso di insicurezza che è pienamente giustificato dall’ostilità e dal disgusto della popolazione in generale. In una manovra politica che dovrebbe essere più visibile di quanto non appaia a molti, egli continua ad invocare un sostegno nazionalista in patria provocando reazioni ostili all’estero e proferendo minacce sem-


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Un tipico villaggio persiano.

pre più stravaganti, come la dichiarazione, ripetuta più volte, che l’Iran sta per denunciare il Trattato di Non-Proliferazione Nucleare ratificato nel 1970, le sue invocazioni riguardo alla distruzione di Israele e la sua maldestra negazione dell’Olocausto, che chiaramente imbarazza anche gli altri regimi estremisti. Questo è anche il modo di interpretare la presentazione iraniana del programma nucleare, un tentativo deliberato di sollevare l’opposizione straniera, allo scopo di guadagnare sostegno all’interno. L’obbiettivo è quello di provocare un forte senso di tensione riguardo ai lenti sforzi, spesso interrotti, cominciati più di trenta anni fa e ancora lontani molti anni dalla produzione di una bomba. Era nel lontano agosto 1974 che lo Scià, a seguito dell’improvvisa triplicazione degli introiti del petrolio, che sembravano offrire sconfinate opportunità, annunciava l’intenzione di finanziare la costruzione di 23 reattori nucleari con la capacità produttiva di 1000 megawatt ciascuno, una cifra enorme, sufficiente a coprire l’intero fabbisogno dell’Iran. Lo scopo dichiarato era di preservare il petrolio, materia prima nobile, per estrarne i preziosi prodotti petrolchimici, anziché bruciarlo

come combustibile da fornace. A quel tempo ciò poteva considerarsi conveniente. Molti però ritenevano che il vero scopo dello Scià fosse di dotarsi di armi nucleari. Come sappiamo ora avevano ragione, dato che lo Scià cercava anche di acquistare missili balistici, ma almeno aveva una spiegazione plausibile dato che la consistenza totale del potenziale in gas naturale non era ancora conosciuta. Ma questa storia, presentata dallo Scià nel 1974, nel 2006 non convince più, dato che con i suoi circa 30 bilioni di metri cubi di riserve sicure, 15% del totale mondiale, secondo soltanto a quello della Russia – molto maggiori, in proporzione, di quelle dell’Iran, che sono meno delle riserve di Iraq, Kuwait, Arabia Saudita e perfino Abu Dhabi – l’Iran può produrre a buon mercato, con l’impiego di turbine, tutta l’energia che vuole. Nel 1975 lo Scià firmava con la Francia un contratto di un miliardo di dollari, pronta cassa, per la fornitura di uranio arricchito e, con il consorzio Kraftwerk Union (Siemens e AEG Telefunken) e l’AG Thyssen Krupp, un accordo per la costruzione dei primi due reattori pressurizzati ad acqua leggera con i relativi generatori, nei pressi del grande porto iraniano di Bushehr, per un totale di più di quattro miliardi di dollari. Il lavoro è andato avanti rapidamente fina alla caduta dello Scià, ma nel luglio 1979, dopo che erano stati spesi circa

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due miliardi e mezzo di dollari, i tedeschi abbandonavano Bushehr perché i nuovi dirigenti rivoluzionari rifiutavano di pagare un arretrato di 450 milioni di dollari. A quanto pare, l’ayatollah Khomeini era contrario alle diavolerie nucleari – certamente non citate nel Corano – e, inoltre, qualunque cosa fatta dallo Scià era vista con grande sospetto. A quel punto, un reattore (Bushehr I) veniva dichiarato dai tedeschi completo all’85% e l’altro (Bushehr II) al 50%. Entrambi però sono stati danneggiati dai bombardamenti iracheni durante la guerra durata fino al 1988 (In particolare, da una serie di attacchi aerei condotti quasi certamente da piloti della Marina francese distaccati per l’occasione). Quando fu chiesto alla Siemens di finire il lavoro essa rifiutò, sapendo che il Governo tedesco non avrebbe mai permesso di rispettare il contratto. Ben presto cominciarono dei negoziati con la Russia ma, a causa delle dispute interne all’Iran e delle lunghe discussioni con il Ministero dell’Energia Atomica (Minatom), diretto da Evgeny Adamov (che sarà arrestato per truffa nel 2005 a Berna), discussioni che non venivano fatte solo nell’interesse dei rispettivi Governi, dato che i negoziatori di ambo le parti dovevano anche far fronte a spese personali urgenti, non si raggiunse alcun accordo fino al 1995, quando l’allora Presidente russo Boris Yeltzin, ignorando le obiezioni americane, approvò la consegna di un reattore pressurizzato ad acqua leggera VVER-1000, alimentato da verghe di uranio leggermente arricchito. Consegnato con una sola voluminosa spedizione (i VVER alimentano i sottomarini), il reattore doveva essere installato all’interno dell’edificio del Bushehr I, che era quindi da riparare, adattare e completare da parte di ingegneri civili iraniani e russi, con la supervisione di Minatom. Ma vi furono difficoltà, più o meno della stessa natura di quelle che si possono riscontrare ristrutturando la cucina di casa, naturalmente in scala molto più grande. Fino a questo momento, cioè undici anni dopo la firma del contratto per il completamento di un edificio già realizzato all’85%, installandovi un reattore già pronto, circa 2 500 tecnici russi stanno lavorando alacremente nella caldissima Bushehr, ma il reattore non è ancora in funzione. All’inizio gli Stati Uniti si erano opposti al contratto con Minatom, ma ora accettano il fatto che tutto sta procedendo con grandi misure di sicurezza: solo i russi maneggeranno le verghe di uranio. Inoltre l’onestà, l’efficienza e la rapidità di Minatom come imprenditore è già di per sé una garanzia. Si conosce molto di più dei reattori di Bushehr che del programma segreto iraniano volto a produrre uranio per armamenti mediante un processo di centrifugazione, ma non c’è alcuna ragione

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per ritenere che alla direzione di questa attività vi sia un gruppo di iraniani completamente diverso, composto da esperti incorruttibili e veri mostri di efficienza. Una cosa che si sa con certezza è che, nel 1995, Abdul Qadeer Khan, un pachistano ritenuto un «mago» della scienza, a cui sono stati intitolati ospedali e scuole, esperto metallurgico di professione, ma che non ha mai inventato o sviluppato nulla, ha accettato di vendere all’Iran un pacchetto completo di tecnologia per la centrifugazione, che egli aveva sottratto al consorzio europeo dell’URENCO mentre lavorava, con un incarico modesto, per un sub-appaltatore olandese. Inoltre Khan avrebbe fornito all’Iran esemplari di centrifughe prodotte in Pakistan, piani completi per la costruzione di un reattore ad acqua pesante e plutonio e un impianto di separazione, oltre ai disegni e ai calcoli relativi a una bomba all’uranio per cannone, che il Pakistan aveva originariamente ricevuto dalla Cina. A quanto pare Khan non ha venduto i primi stadi dell’intero processo di separazione, relativi alla frantumazione e lisciviazione necessarie per estrarre l’uranio naturale concentrato (yellow cake) dal minerale di uranio e il meno semplice, ma non molto sofisticato, impianto chimico necessario per convertire lo «yellow cake» nel gas di esafluoruro di uranio che alimenta le centrifughe, ma la Cina vi ha provveduto nel 1996, con la vendita di piani e disegni completi quando gli Stati Uniti si sono opposti con successo alla vendita dell’impianto vero e proprio, che ora è stato completato ed è ben visibile nei pressi di Isfahan, gia collaudato e pronto per essere usato. A quanto appare dalle fotografie, potrebbe essere reso inoffensivo con meno di 12 bombe da mille libbre, anche se, naturalmente, quel tipo di obbiettivo deve essere «rivisitato» periodicamente, perché gli impianti chimici possono essere riparati facilmente, anche dopo distruzioni spettacolari. Ma il nucleo della tecnologia dell’intero pacchetto era costituito dalle centrifughe stesse. Non i complessi ultraveloci, altamente efficienti, a fibra di carbonio, impiegati ora dall’URENCO, bensì due modelli dei primi anni Settanta. Uno costruito con alluminio compatto, più facile da lavorare con l’apposito macchinario che il fornitore tedesco vende tranquillamente a chiunque («come possiamo mai sapere... ecc.»), l’altro è un modello più efficiente di acciaio «maraging», che è un materiale di più difficile lavorazione. Entrambi provengono da un progetto tedesco del 1957, in realtà una versione migliorata delle originali centrifughe di alluminio sviluppate nell’Unione Sovietica dalla solita squadra di scienziati tedeschi prigionieri. Il von Braun del caso era Gernot Zippe, che dopo la liberazione emigrò in America, nell’Università del-


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Il mausoleo di shah Safi nelle vicinanze di Ardabil.

la Virginia, per tornare in seguito in Germania a produrre i suoi aggeggi su scala industriale. Poiché il necessario isotopo di uranio U-235, che, in grandi quantità serve per le bombe e, in minori proporzioni, rappresenta il combustibile dei reattori, è solo l’1,26% più leggero della massa di U-238 che forma il 99,3% dell’uranio naturale. Praticamente si possono impiegare solo centrifughe molto veloci, che fanno 1500 giri al secondo, cento volte una normale lavatrice. Gli apparecchi che girano così velocemente si guastano anche molto facilmente e la loro progettazione dettagliata è tutt’altro che semplice: per ridurre l’attrito, che altrimenti genererebbe tanto calore da fondere l’intero arnese il rotore alimentato elettricamente, deve girare nel vuoto su cuscinetto magnetico. I giapponesi, che in questa materia sono generalmente considerati un po’ più all’avanguardia degli

iraniani, hanno incontrato notevoli difficoltà nella produzione delle centrifughe. Inoltre Khan non poteva in alcun modo vendere all’Iran un numero sufficiente di centrifughe: per non impiegare molti anni per separare l’U-235 per una bomba, bisogna mettere in funzione contemporaneamente molte centrifughe, collegate da una rete di tubazioni che formano una cosiddetta «cascata», e, considerando le centrifughe di cui l’Iran dispone, ce ne vorrebbero almeno 1 000 che girano 24 ore su 24 per almeno un anno per produrre abbastanza U-235 per una sola bomba all’uranio per cannone. Ma, prima di tutto, queste 1 000 centrifughe devono essere fabbricate e collegate in cascate – e non devono guastarsi, come accade con quelle scadenti. Delle 164 centrifughe, che l’Iran aveva già in funzione quando gli ispettori dell’International Atomic Energy Authority hanno chiuso la cascata nel novembre del 2003, un terzo è andato fuori uso quando è stata tolta l’energia elettrica. Inoltre non è facile far si che la cascata funzioni correttamente perché l’esafluoruro di uranio diventa molto corrosivo e può facilmente perforare i tubi non perfetti. Qualsiasi perdita danneggerebbe immediatamente altre parti dell’impianto. Vi era però un altro ostacolo potenziale alla ricerca dell’U-235, da parte dell’Iran, che si dimostrò totalmente insignificante. Le ditte europee, principalmente tedesche e svizzere, non solo vendevano entusiasticamente alluminio ad alta potenza, acciaio «maraging» speciale, saldatrici a fascio elettronico, equilibratrici, pompe per vuoto, macchine utensili a controllo numerico e macchine altamente specializzate per la formazione del flusso dell’alluminio e dell’acciaio «maraging», ma si occupavano anche dell’addestramento degli iraniani all’impiego delle apparecchiature e – stranamente – ma forse non troppo, erano anche disposti ad addestrare gli iraniani nei procedimenti specifici per la fabbricazione di centrifughe il cui uso può essere solo quello di arricchire l’uranio U-235. Gli ispettori dell’International Atomic Energy Authority, durante le loro visite, hanno potuto leggere e fotografare tutte le etichette delle attrezzature che né i fabbricanti né gli iraniani si erano presi il disturbo di togliere. Rimane da vedere se ciò avrà qualche conseguenza. Eppure, nonostante l’assistenza industriale venduta con tanta buona volontà, non è sicuro che l’organizzazione nucleare iraniana sia in grado di produrre cascate di centrifughe di sufficiente grandezza e affidabilità. Ci sono moltissimi ingegneri di talento tra gli esuli iraniani negli Stati Uniti e in tutto il mondo, ma probabilmente non molti in Iran; inoltre, impegnativi sforzi tecnologici richiedono laboratori e impianti industriali ben organizzati e non solo talenti indivi-

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duali. L’organizzazione è certamente il punto debole dell’Iran e ha grosse conseguenze: dopo un secolo di trivellazioni, la compagnia statale del petrolio non è in grado di scavare pozzi di esplorazione senza assistenza straniera (in un’occasione fornita da tecnici rumeni e la Romania non è certo all’avanguardia nell’estrazione del petrolio); benché l’embargo statunitense sia stato imposto quasi 25 anni fa, l’industria locale non è in grado di produrre parti meccaniche di ricambio adatte ad essere impiegate su aerei prodotti in America, che, pertanto, devono rimanere a terra o volare con grande rischio. Infatti, si sono verificati molti incidenti aerei. Al contrario, in Israele, dopo cinque anni dall’embargo francese del 1967 sulla vendita di caccia Mirage V, le copie prodotte localmente erano già pienamente operative. Dopo più di sessant’anni di esperienza nella raffinazione del petrolio ad Abadan, le capacità esistenti non possono essere incrementate senza l’aiuto di subappaltatori tecnici stranieri, mentre la costruzione di nuove raffinerie, con il solo impiego di personale specializzato locale è considerato impossibile. Quindi l’Iran deve importare un terzo del suo fabbisogno di benzina perché non può raffinarla al suo interno. Questa è la terza buona ragione per cui non si devono bombardare le installazioni nucleari iraniane: l’Iran certamente non può produrre armi nucleari prima di tre anni e potrebbe non essere in grado neanche allora, a causa delle difficoltà tecniche non ancora superate. Come possono persone incapaci di tagliare il metallo per produrre parti di ricambio per aerei fabbricati negli Stati Uniti, con una precisione sufficiente a renderli idonei al volo, fabbricare centrifughe efficienti a centinaia e montarle in cascate funzionanti? È vero, nel caso del programma nucleare, le cose potrebbero essere diverse, dato che esso ha una chiara priorità su tutto il resto e riceve enormi finanziamenti in un Paese poverissimo, nonostante gli ultimi grandi aumenti degli introiti petroliferi: con una popolazione di quasi 70 milioni, gli introiti petroliferi (40 miliardi) arrivano a poco meno di 6 000 dollari a testa, mentre la misera economia non petrolifera non è produttiva e arriva al massimo a 2 000 dollari a testa. Non ci sono cifre affidabili riguardo alle spese per il programma nucleare, ma non sono necessari i numeri per capire che sono altissime. Quando le installazioni e le attività del programma segreto iraniano sono state aggiunte, nell’agosto 2002, a quelle già rese pubbliche, il totale comprendeva: lo stabilimento di Saghand per la lavorazione del minerale presso la miniera di uranio; il Centro di Ricerche Nucleari di Teheran con il suo vecchissimo reattore di ricerca da cinque megawatt, fornito dagli Stati Uniti; il Centro

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di Tecnologia Nucleare di Isfahan, con quattro piccoli reattori di ricerca; l’impianto di produzione di Zirconio di Isfahan; il Centro di Ricerca Energia Atomica di Bonab; il deposito di scorie nucleari di Anarak, nei pressi di Yazd; l’impianto per combustibile nucleare di Ardekan; l’impianto laser di separazione isotopi di Lashkar Ab’ad (ora chiuso); le installazioni non ben definite di Parchim, Lavizan II e Chalus ed il Centro Trattamento Radiazioni di Yazd. Insieme alle installazioni più importanti già citate, il reattore di Bushehr, l’impianto di conversione dell’esafluoruro di uranio di Isfahan, il reattore ad acqua pesante e plutonio e l’impianto di separazione di Arak presso il fiume Kara-Chai, circa 150 miglia a sud di Teheran, l’enorme complesso centrifughe di Natanz, tra Isfahan a Kashan (33-43’24, 43” N, 5143’37, 55” E, in caso un pilota amico dovesse chiedervelo). Esso contiene più di due dozzine di edifici, con un perimetro di non meno di 4,7 miglia, ma le costruzioni più interessanti sono i due grandi saloni sotterranei di 250 000 piedi quadrati ciascuno. Costruiti con muri dello spessore di sei metri e protetti da due tetti di cemento con un’intercapedine di sabbia e pietre, con una gettata di cemento al di sopra – impressionanti a vedersi, ma inefficaci contro la penetrazione delle munizioni moderne – questi saloni sono grandi abbastanza da contenere tutte le centrifughe che gli iraniani potrebbero volere per costruire qualsiasi numero di bombe all’uranio o per alimentare un gran numero di reattori – presupponendo naturalmente che essi siano capaci di fabbricare, montare e operare con successo le cascate di centrifughe. Questo è quanto affermano gli stessi portavoce iraniani, specialmente il Presidente Ahmadinejad, che insiste nel dire che l’Iran è già in grado di padroneggiare tutti i procedimenti e le tecniche necessarie, sottintendendo così la capacità di produrre rapidamente l’uranio altamente arricchito necessario per le bombe. Le dichiarazioni di Ahmadinejad contraddicono la nostra più ottimistica opinione, ma devono essere prese molto, ma molto seriamente, specialmente se si pensa alla sua laurea in ingegneria, anche se si tratta di un diploma acquisito in un programma speciale per veterani Pasdaran, e riguarda la direzione del traffico urbano, non l’ingegneria nucleare. Ciò che indebolisce la fiducia nel pensiero del Presidente è la sua abitudine ad ingrandire i fatti. In particolare, continua ad insistere che la tecnologia relativa alle centrifughe è stata sviluppata da iraniani in Iran, e che essa è un’«orgogliosa conquista della nazione iraniana», trascurando che il 99.99% di essa è stata acquistata dal ladro-contrabbandiere pachistano. Il Presidente fa anche dichiarazioni più roboanti: recentemente, per esempio, il 14


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marzo di quest’anno, in un discorso pubblico tenuto nella bella città di montagna di Gorgan, nella provincia del Golestan, dopo avere nuovamente descritto la tecnologia dell’arricchimento come una conquista scientifica completamente iraniana, ha aggiunto, come riporta la traduzione ufficiale: gli iraniani hanno avuto un ruolo dominante lungo tutta la storia... facendo la parte del leone in tutte le scienze mediche, nella matematica, nell’astrologia, nelle arti, nell’ingegneria. Si potrebbe pensare che il traduttore abbia confuso l’astrologia con una scienza dal nome molto simile, nella quale l’Iran è stato in effetti senza rivali fino alla fine del XIV secolo. Anche gli osservatori poco attenti non possono ignorare che il programma nucleare iraniano, che in passato era segreto, è ora conosciuto nel mondo fin nei minimi dettagli, al contrario di quanto si sa del programma nord coreano e di quanto sia mai risultato, in qualsiasi momento, riguardo al programma iracheno. Solo una piccola parte di quanto è noto delle installazioni e delle lavorazioni di Arak, Isfahan, Natanz e delle altre località è stato scoperto dalle ispezioni, molto reclamizzate, effettuate dall’Autorità Internazionale per l’Energia Atomica, il cui recente Premio Nobel deve essere stato un riconoscimento degli sforzi piuttosto che dei risultati. La fotografia satellitare è solo una parte della storia, perché per essere utile è necessario che si sappia dove guardare. Si deve concludere che tra gli scienziati, ingegneri e dirigenti impegnati nel programma nucleare iraniano – la maggior parte dei quali certamente ha un’opinione dei suoi dirigenti uguale a quella di quasi tutti gli iraniani istruiti – ce ne sono alcuni che sentono ed agiscono per una superiore lealtà verso l’umanità, e non verso il nazionalismo, che il regime ha screditato, fornendo quindi un flusso continuo di informazioni dettagliate. Il regime dell’Iran è estremista ma non totalitario e non può controllare i movimenti delle persone e le comunicazioni dentro e fuori del Paese, come invece fa quasi completamente la Corea del Nord, e l’Iraq faceva in scala minore. Grazie a questo flusso di informazioni dettagliate e tempestive è possibile fissare gli obbiettivi degli attacchi aerei abbastanza accuratamente da ritardare seriamente la produzione iraniana di armi nucleari in una sola notte di operazioni – specialmente se si possono impedire nuove importazione dall’Europa Occidentale – e, allo stesso tempo, non c’è motivo di colpire prematuramente, perché ci sarà molto tempo per agire prima che sia troppo tardi, cioè prima che sia stato prodotto abbastanza materiale fissile. Ciò che rende importante il fattore tempo è naturalmente lo stadio avanzato di degenerazione del regime, con la

sua banda litigiosa di religiosi corrotti, Pasdaran carrieristi e ultraestremisti fanatici, le stramberie dei quali fanno presagire l’inevitabile fine. L’alto prezzo del petrolio, e i regali, per ora sostengono il regime, che potrebbe durare anche senza di essi, a causa dell’inerzia che hanno tutte le dittature che non sono state sconfitte in guerra. Certamente non ci sono prove che giustifichino la speranza che il regime cada prima di venire in possesso di armi nucleari, ma dato che c’è ancora tempo non è irresponsabile sperarlo. Per la stessa ragione, nessuno degli argomenti presentati per giustificare la coesistenza con un futuro Iran armato di nucleare è persuasivo, nemmeno come esercizio puramente accademico: come può funzionare la dissuasione contro gente che crede nel ritorno del 12° Imam nelle vesti del Mahdi, e che pensa che questo redentore possa essere indotto a rivelarsi in caso di catastrofe nucleare? Ma non è neanche necessario farsi questa domanda per rifiutare la coesistenza nucleare con un Iran dominato dall’attuale regime, visto quanto si può osservare nella sua condotta quotidiana: attualmente, nel 2006, con forze terrestri ed aeree americane schierate ai lati, in Afghanistan e Iraq, insieme a elementi alleati, con potenti forze navali statunitensi a sud, con le Forze Armate a pezzi e naturalmente sprovviste di armi nucleari, i dirigenti iraniani finanziano, armano, addestrano e incitano apertamente organizzazioni antiamericane e milizie terroristiche in genere, e fanno la stessa cosa, in maniera non troppo occulta, all’interno dell’Iraq, dove essi seguono una loro logica, aiutando i ribelli sunniti che uccidono gli sciiti, nonché le milizie sciite che si combattono tra di loro. Questo è quanto i dirigenti estremisti iraniani stanno facendo attualmente, anche senza la protezione dello scudo nucleare. Che cosa farebbero se lo avessero? L’unica risposta ragionevole è: ancora più aggressioni, cominciando con il sovvertimento dei loro vicini i quali, opportunamente, hanno al loro interno popolazioni sciite che opprimono in vari modi. Questi sono quindi i chiari confini di un’azione prudente in risposta al vasto, costoso e pericolosissimo programma nucleare dell’Iran. Un attacco prematuro, e quindi non necessario, non si giustifica mentre c’è ancora tempo, misurabile in anni, per aspettare in assoluta sicurezza una soluzione migliore. Allo stesso modo, agli attuali fanatici dirigenti iraniani non deve essere permesso di acquisire, alla fine, armi nucleari, perché essi non inaugurerebbero certamente una coesistenza nella reciproca dissuasione, ma farebbero sorgere pericoli incontrollabili. Edward N. Luttwak Politologo

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IL MILITARY STAFF DELL’UNIONE EUROPEA


IL MILITARY STAFF DELL’UNIONE EUROPEA Un elemento chiave nella politica di difesa e sicurezza Il «Militarry Staff» dell’Unione Europea si occupa, ormai da quattro anni, della pianificazione strategica «Earrly Warrnin ng». Elemento cardine dello sviluppo della Politica Europea di Difesa e Sicurezza, lo Staff sta divenendo più funzionale, più attivo e più coerente nella ricerca di una migliore integrazione con i partner civili.

L’articolo, pubblicato anche su alcune delle maggiori testate militari estere, ha lo scopo di far conoscere l’importanza dell’Eums nell’ambito della politica europea di difesa e sicurezza. A quattro anni dalla sua costituzione, lo Stato Maggiore dell’Unione Europea (European Military Staff - EUMS) è sempre più impegnato nel dinamico sviluppo della Politica Europea di Difesa e Sicurezza (European Security and Defence Policy ESDP). Tale andamento è in linea con la Strategia Europea di Sicurezza ed è correlato alla manifesta volontà dello Staff EUMS di migliorare la propria funzionalità, l’iniziativa, la coerenza negli intenti ed il livello di integrazione con i partner civili. In vista delle future esigenze, è previsto che lo Staff incrementi il proprio personale militare e civile passando dalle attuali 148 unità a circa 200 nel corso del 2005. Tale crescita organica è il risultato del rapido aumento delle attività operative dell’UE e della costituzione, nel gennaio 2005, di una Cellula di Pianificazione Civile/Militare nell’ambito dello staff. Allo scopo di fornire controllo politico e direzione strategica in caso di crisi, il Consiglio Europeo ha sancito a Nizza, nel dicembre 2000, la costituzione, al suo interno, di nuove strutture politiche e militari. Tra queste vi sono: il Comitato Politico e di Sicurezza (Political and Security Commitee - PSC); il Comitato Militare dell’Unione Europea (European Union Military Committee - EUMC); lo Stato Maggiore dell’Unione Europea, composto da esperti militari assegnati al Segretariato del

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Consiglio da parte degli Stati Membri. Il Comitato Politico e di Sicurezza realizza incontri, a livello Ambasciatori, attività propedeutiche per il Consiglio dell’Unione. Le principali funzioni del Comitato consistono nel monitorare la situazione internazionale, aiutare a definire le policy da perseguire nell’ambito della politica estera e di sicurezza comune (Common Foreign and Security Policy - CFSP) includendo la Politica Europea di Difesa e Sicurezza. Inoltre predispone, in vista di possibili crisi, coerenti risposte dell’Unione ed esercita la sua funzione di controllo politico e direzione strategica. Il Comitato Militare dell’Unione Europea è il massimo organismo militare del Consiglio. Si compone dei Capi di Stato Maggiore della Difesa degli Stati Membri, che sono normalmente rappresentati da delegazioni militari permanenti. Esso fornisce al Comitato Politico e di Sicurezza consigli e indicazioni sugli argomenti militari. In parallelo con il Comitato Militare dell’Unione Europea, il Comitato Politico e di Sicurezza è assistito da un Comitato per gli Aspetti Civili inerenti la Gestione delle Crisi (Committee for Civilian Aspects of Crisis Management - CIVCOM). Tale consesso fornisce informazioni, sommarie raccomandazioni ed esprime, a beneficio del Comitato Politico e di Sicurezza, un parere sugli aspetti civili della gestione delle crisi. lo Stato Maggiore dell’Unione Europea svolge attività di preavviso, valutazione della situazione e pianificazione strategica nell’ambito della gestione delle crisi al di fuori del territorio dell’Unione (1). Ricadono sotto la sua responsabilità sia le attività di peacekeeping sia quelle inerenti l’impiego di forze da combattimento (includendo il peacemaking) nonché altri compiti specificati nella «Strategia Europea di Sicurezza» come le opera-


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zioni di disarmo congiunto, quelle svolte a sostegno di Paesi terzi nella lotta al terrorismo e nella riforma del comparto sicurezza. La missione dello staff comprende anche l’individuazione delle forze europee e multinazionali, nonché l’implementazione delle policy e delle decisioni secondo le disposizioni del Comitato Militare dell’Unione Europea. Il ruolo e i compiti assegnati allo staff hanno alcune caratteristiche peculiari. Da un lato esso è parte integrante del Segretariato Generale del Consiglio, collegato direttamente al Segretario Generale/Alto Rappresentante, Javier Solana. In seno al Segretariato Generale vi sono anche due direzioni civili che si occupano di argomenti relativi alla Politica Europea di Difesa e Sicurezza (VIII Direzione per gli aspetti relativi alla difesa; IX Direzione per la gestione civile delle crisi e il coordinamento). D’altro canto, lo staff opera alle dipendenze militari del Comitato Militare dell’Unione Europea, con cui collabora e a cui riferisce. Questa organizzazione, che può apparire complessa, assicura un essenziale collegamento tra le Forze Armate degli Stati Membri e il Consiglio. Lo staff assicura, poi, le conoscenze militari necessarie per il lavoro interno all’Unione, fornendo a tale scopo la sua capacità di preavviso. Esso pianifica, valuta e formula raccomandazioni concettuali relative alla gestione delle crisi e alla strategia militare in generale, implementando le decisioni e le direttive del Comitato Militare dell’Unione Europea. Inoltre, collabora con esso nella valutazione della situazione e degli aspetti militari della pianificazione strategica, su tutta la gamma delle operazioni ad ampio raggio guidate dall’Unione, indipendentemente dal fatto che si faccia ricorso o meno ai mezzi e alle capacità comuni della NATO. LE OPERAZIONI La Politica Europea di Difesa e Sicurezza si è sviluppata con un ritmo sorprendente. Senza contare le diverse missioni civili e le operazioni di supporto, dal 2003 l’Unione Europea ha già portato avanti tre operazioni militari in tale ambito: • «Concordia», nel 2003, in Macedonia (350 soldati); • «Artemis», sotto la guida dell’Unione, nel 2003, nella Repubblica Democratica del Congo (1 800 soldati); • «Althea», dal dicembre 2004, con circa 7 000 soldati, in Bosnia-Erzegovina. Pianificare e monitorare queste operazioni ha richiesto una notevole sforzo ma al tempo stesso

Il Tenente Generale Jean-Paul Perruche, Direttore dello Stato Maggiore dell’Unione Europea.

ha procurato una preziosa esperienza al neocosituito staff. Esso ha fornito la sua consulenza militare per la preparazione del concetto di gestione della crisi nelle operazioni militari; ha sviluppato e assegnato le priorità alle necessarie opzioni strategiche; ha approntato le Direttive Militari Iniziali, fornendo consulenza militare relativa ai documenti di pianificazione operativa preparati dai rispettivi comandanti d’operazioni (Concetto Operativo CONOPS, dichiarazione iniziale delle esigenze, Piano Operativo (OPLAN), Richiesta di Regole di Ingaggio (ROE). Oltre che in compiti di pianificazione, il personale delle EUMS è anche stato impiegato per la sua esperienza e capacità di collegamento. LE CAPACITÀ Lo staff elabora, valuta e revisiona gli obiettivi che gli stati membri intendono conseguire ricercando al massimo la coerenza con il Processo di Pianificazione di Difesa della NATO (DPP) da parte dei Paesi interessati e tenendo conto del

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Processo di Pianificazione e Revisione (PARP) della Partnership for Peace (PfP), in conformità alle procedure concordate. Per quanto riguarda le capacità, lavora anche in stretto contatto con la European Defence Agency (EDA), di recente costituzione. Un altro compito è quello di stabilire relazioni appropriate con le Nazioni Unite e altre organizzazioni internazionali (in particolare con l’Unione Africana). Tramite la Cellula Civile/Militare, lo staff svolge la pianificazione strategica su mandato del Segretario Generale/Alto Rappresentante o del Comitato Politico e di Sicurezza. La cellula collabora nell’elaborazione di dottrine concernenti le operazioni civili/militari e prepara i concetti e le procedure per il Centro Operativo dell’Unione. Benché sia ancora nella fase costitutiva, la Cellula Civile/Militare ha già collaborato con successo alla pianificazione della missione, in ambito Politica Europea di Difesa e Sicurezza, nell’ACEH (2), mettendo in luce le possibilità offerte da una stretta cooperazione civile/militare. Con l’accordo del dicembre 2003 sulla Strategia di Sicurezza dell’Unione (ESS) è cominciata una seconda fase di sviluppo, sia per la Politica Europea di Difesa e Sicurezza sia per lo staff. Dopo la definizione delle minacce alla sicurezza, degli obiettivi strategici e delle implicazioni politiche, si sono visti chiaramente gli scopi e la direzione intrapresa dalla Politica Europea di Difesa e Sicurezza. Per avere una maggiore efficienza nella gestione delle crisi, l’Unione Europea deve essere più capace, più attiva e più coerente, e deve lavorare di più insieme ai partner. Per dare una risposta al bisogno di maggiore capacità, sono stati definiti i nuovi obiettivi delle capacità militari. L’Headline Goal iniziale, fissato a Helsinki nel dicembre 1999, è stato il logico risultato delle lezioni apprese durante i conflitti balcanici degli anni Novanta. Gli obiettivi, per quanto riguarda la quantità, hanno mirato a raggiungere una capacità di intervento fino a livello Corpo d’Armata (60 000 uomini), schierabili entro 60 giorni per un periodo massimo di un anno. L’Headline Goal è stato accompagnato da un European Capabilities Action Plan (ECAP), allo scopo di soddisfare le esigenze identificate nei quattro scenari militari sviluppati dallo staff e approvati dagli Stati Membri (che allora erano quindici), e cioè: prevenzione dei conflitti, evacuazione dei propri cittadini, separazione forzata dei belligeranti e aiuto umanitario. Lo Helsinki Headline Goal 2003 iniziale ha dato luogo allo Headline Goal 2010, introducendo una nuova fase che aggiunge criteri qualitativi

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per il potenziamento delle capacità. Nel quadro dello «HG 2010», le forze assegnate dagli Stati Membri devono essere in grado di schierarsi insieme, con una maggiore interoperabilità nei Teatri d’Operazione e più sostenibili per quanto riguarda materiali e logistica del personale. Attualmente lo staff sta lavorando per acquisire le esigenze di capacità militare in base ai differenti scenari che illustrano lo «HG 2010». Di conseguenza, le esigenze devono corrispondere ai contributi degli Stati Membri e dovranno essere prese misure specifiche per porre rimedio alle manchevolezze già identificate. Nel campo dello sviluppo delle capacità, la costituzione della European Defence Agency (EDA) fornisce un importante elemento per una maggiore efficienza. La già esistente collaborazione tra staff ed EDA aumenterà certamente di intensità e di valore. Per avere maggiori capacità è anche necessario considerare una gamma più ampia di missioni. Per questo motivo i compiti militari fissati nel Trattato dell’Unione Europea sono stati allargati, e ora includono le operazioni congiunte di disarmo, il sostegno a Paesi terzi nella lotta contro il terrorismo e la riforma dei settori di sicurezza. Si dovrà lavorare ancora per definire la conduzione di tali operazioni. LE ATTIVITÀ L’ambizione di divenire un’Organizzazione più attiva va oltre l’aumento del numero delle attività operative. L’Unione Europea deve essere in grado di intraprendere interventi tempestivi, rapidi e, quando necessario, robusti, nonché di sostenere varie operazioni contemporaneamente. Lo sviluppo dei gruppi di combattimento di reazione rapida si inserisce bene in questa esigenza. L’integrazione delle forze prevista dall’«HG 2010» si basa su battaglioni di fanteria rinforzati (circa 1 500 uomini), in grado di iniziare un’operazione sul terreno entro 10 giorni dalla decisione dell’Unione. I Gruppi di Combattimento possono essere schierati a diverse migliaia di chilometri di distanza ed essere sostenibili per trenta giorni, che possono essere portati a 120. Essi si basano sul principio della multinazionalità. Attualmente sono in fase di costituzione 13 Gruppi, che comprendono elementi di quasi tutti gli Stati Membri, con l’aggiunta di almeno uno Stato non facente parte dell’Unione. Lo staff continuerà ad avere un ruolo molto importante nel perfezionamento dei concetti relativi alle forze. Dal gennaio 2005 l’Unione ha tenuto in stand by almeno un Gruppo di Combattimento europeo. I periodi di stand by durano per lo più sei mesi. Lo scopo è di avere due Gruppi in stand by a partire dal


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2007, con la capacità di partecipare a due operazioni, separatamente o contemporaneamente. I Gruppi di Combattimento e le altre forze di reazione rapida schieratI in base all’«HG 2010» possono divenire un importante elemento per l’interoperabilità degli Stati Membri e per la creazione di un trasporto strategico. Per far fronte alle sfide che le operazioni di reazione rapida devono affrontare, l’Unione deve snellire la pianificazione e il processo decisionale. Per quanto riguarda questo aspetto, il ruolo dell’EUMS risulta particolarmente importante e decisivo. COERENZA DELLO STRUMENTO L’ampia gamma di strumenti per la gestione della crisi a disposizione differenzia l’Unione da tutte le altre organizzazioni internazionali. Dal punto di vista militare vale la pena sottolineare che tutte le minacce identificate nel quadro della strategia di sicurezza hanno componenti civili. L’approccio integrato dell’Unione si è evoluto gradualmente. La cooperazione civile-militare in Bosnia-Erzegovina ne è un esempio. Inoltre il Civilian Headline Goal 2008 si sta sviluppando in stretta correlazione con le attività volte a soddisfare le esigenze militari indicate dall’«HG 2010». Tuttavia, per ottenere una maggiore coerenza ci sarà ancora da fare. Un significativo passo avanti è stato fatto quest’anno con la costituzione di una Cellula Civile/Militare in ambito staff, con lo scopo di incrementare le capacità europee di pianificazione nella gestione delle crisi. Pertanto, il compito della Politica Europea di Difesa e Sicurezza, durante l’attuale presidenza britannica, include tra l’altro la continuazione del lavoro per il miglioramento della coerenza delle attività dell’Unione con l’acquisizione di capacità operative civili/militari. Per quanto riguarda la condotta di operazioni militari da parte dell’Unione, si ricorrerà principalmente ai comandi nazionali, che possono essere «multinazionalizzati» per la condotta di tali operazioni. Tuttavia in alcune circostanze, e in particolare quando è necessaria una risposta civile/militare e non viene identificato un Comando nazionale, la Cellula Civile/Militare dello staff può acquisire la capacità di pianificare e condurre l’operazione. Ciò comporterebbe la costituzione di una Centrale Operativa. LA COLLABORAZIONE CON I PARTNER Fino ad ora l’Unione Europea e la NATO hanno cooperato nel settore operativo e in quello delle

capacità. L’Unione ha preso il posto della NATO due volte: la prima nel 2003 quando l’operazione «Concordia» è subentrata all’operazione «Allied Harmony» in Macedonia e all’inizio di dicembre 2004, quando l’Unione ha dato inizio all’operazione «Althea» in Bosnia-Erzegovina, sostituendosi alla SFOR della NATO. Riguardo a tale operazione, l’Unione continua a fare affidamento sui mezzi e sulle capacità della NATO, particolarmente per quanto attiene alla catena di comando operativa. Una Cellula dell’Unione è stata provvisoriamente costituita presso SHAPE, e un Nucleo di Collegamento di questo Comando è attualmente dislocato presso lo staff a palazzo Kortenbergh. I termini di riferimento per la costituzione di un Nucleo di Collegamento NATO permanente presso lo staff e una Cellula Permanente dell’Unione presso SHAPE saranno definiti dal Comitato Politico e di Sicurezza dell’Unione e dal Consiglio Nord Atlantico. Per alcuni mesi i pianificatori dello staff e quelli degli Stati membri hanno collaborato con l’Unione Africana in relazione alla missione militare nella provincia sudanese del Darfur. Queste attività mettono in risalto le possibilità della Politica Europea di Difesa e Sicurezza, in linea con gli obiettivi di sicurezza fissati nella Strategia Europea di Sicurezza. Come componente del Segretariato Generale, lo staff ha instaurato relazioni con il «Dipartimento per le Operazioni di Peacekeeping» (DPKO) delle Nazioni Unite. Un comitato pilota congiunto (UE/ONU) si riunisce due volte all’anno a New York o a Bruxelles per discutere argomenti di comune interesse e per prendere decisioni sulle future attività in cooperazione. Un Ufficiale di collegamento dello staff è stato distaccato a New York, presso le Nazioni Unite, allo scopo di incrementare ulteriormente la cooperazione tra le componenti militari delle due organizzazioni. Lo Stato Maggiore dell’Unione Europea è la sola struttura militare integrata permanente dell’Unione Europea. Jean-P Paul Perruche Generale, Direttore del «Military Staff» dell’Unione Europea

NOTE (1) Art. 1712 del Trattato di Nizza. (2) L’ACEH Monitoring Mission ha avuto inizio il 15 settembre 2005, preceduta dall’Initial Monitoring Presence dal 15 agosto 2005.

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LA NATO DEL XXI SECOLO


LA NATO DEL XXI SECOLO A 57 anni dalla costituzione, oggi la NATO non è solo il baluardo dei principi democratici, della libertà e della legalità. Essa deve affrontare, in modo efficace e innovativo, le sfide del nuovo secolo, che impongono un processo di revisione del proprio ruolo e delle proprie responsabilità per conseguire tre obiettivi fondamentali: nuove capacità, nuovi Paesi membri, nuove relazioni e aperture a Est.

L’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO) rappresenta il vincolo politico-militare che lega, in un’unica alleanza, l’Europa e il Nord America al fine di garantire la difesa collettiva del territorio e costituisce un efficace forum di consultazione per le problematiche relative alla sicurezza. Infatti, pur non disponendo di un «proprio» Esercito, ha contribuito, per 57 anni, alla stabilità e alla sicurezza dell’area transatlantica sostenendone i principi di democrazia, legalità e libertà individuale consacrati nel Trattato di Washington. Oggi l’Alleanza è una istituzione profondamente diversa da quella definita dal Trattato del NordAtlantico del 1949, che ha rappresentato la roccaforte della integrità territoriale degli Stati membri per tutto il periodo della Guerra Fredda fino al 1989, come pure dalla struttura che ha vigilato sul delicato periodo di transizione del post-bipolarismo. Il nuovo orizzonte internazionale, apertosi con l’attentato terroristico dell’11 settembre 2001 contro gli Stati Uniti, ha fatto comprendere il modo in cui è mutato il contesto geo-politico di riferimento dopo la fine della Guerra Fredda e la vulnerabilità della società contemporanea alla nuove minacce alla sicurezza, accelerando, di fatto, il processo di trasformazione sancito durante il Summit di Washington del 1999 con il nuovo Concetto Strategico. In tal senso, l’organizzazione ha assunto una serie di iniziative volte a migliorare le capacità militari e a rafforzare la cooperazione sia fra gli Stati membri sia con i Paesi partners. Da organizzazione unidirezionale, contro le minacce provenienti dall’Est, l’Alleanza si è trasformata in una struttura «multidirezionale», in grado di proiettare le proprie forze anche al di fuori dei propri confini. In questo scenario, la NATO ha avviato un processo di trasformazione del proprio ruolo e delle proprie responsabilità, dando corso a una serie di revisioni politico-strutturali volte a conseguire tre obiettivi fondamentali, sintetizzabili nelle three news: nuove capacità, nuovi Paesi membri, nuove relazioni e aperture a Est.

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L’EVOLUZIONE DELLA NATO La genesi del Trattato del Nord Atlantico vede la sua origine nel dopoguerra, con la proposta di alcuni Paesi dell’Europa Occidentale (1) di rinsaldare i reciproci legami per la definizione di un sistema di difesa comune, al fine di fronteggiare i rischi di natura ideologica, politica e militare presenti in Europa. L’accordo venne formalizzato con la ratifica del Trattato di Bruxelles, che nel 1948 diede vita a un patto di autodifesa collettiva tra gli Stati contraenti pur non prevedendo ancora la costituzione di una organizzazione internazionale. Nel corso dei mesi, gli Stati firmatari ravvisarono la necessità di ampliare questa forma di «primordiale» Alleanza e avviarono negoziati con gli Stati Uniti e il Canada allo scopo di creare, tra Europa e America, un’Alleanza del «Nord Atlantico» fondata su garanzie di sicurezza e impegni reciproci di protezione. La Danimarca, l’Islanda, l’Italia, la Norvegia e il Portogallo furono successivamente invitati dalle potenze firmatarie a partecipare a tale processo. I negoziati si conclusero nell’aprile 1949 con la firma del Trattato di Washington, che sanciva la nascita di un sistema di difesa collettiva tra i dodici Paesi. La ratifica del Trattato da parte di tutti i membri determinò la nascita dell’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO). I Paesi membri si impegnavano a condividere i rischi, le responsabilità e i vantaggi della sicurezza comune, affermando, coerentemente con l’articolo 51 della carta delle Nazioni Unite, il principio del «diritto naturale» degli Stati alla legittima difesa individuale e collettiva. Per garantirsi tale diritto, l’Alleanza si è dotata, così, di una struttura politica e di una organizzazione militare che, per tutto il dopoguerra, hanno rappresentato la principale forma di deterrenza nel confronto bipolare est-ovest. Con il fine di attuare una politica di sicurezza, la NATO si è dotata di una struttura militare credibile ed efficace per la gestione delle crisi, adottando, al contempo, una politica favorevole al dialogo.


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La stabilità assicurata dalla NATO durante questo periodo ha consentito all’Europa occidentale di concentrare le proprie energie sulla ricostruzione e lo sviluppo, dopo le distruzioni causate dalla Seconda guerra mondiale. Oggi la NATO è una realtà consolidata, evoluta e profondamente trasformata. Ne fanno parte 26 Paesi: Italia, Belgio, Canada, Danimarca, Francia, Germania, Grecia, Islanda, Lussemburgo, Norvegia, Olanda, Polonia, Portogallo, Repubblica Ceca, Spagna, Regno Unito, Turchia, Ungheria, Stati Uniti e, dal 2 aprile 2004, anche Bulgaria, Estonia, Lettonia, Lituania, Romania, Slovenia e Slovacchia. L’Alleanza si è continuamente trasformata anche in virtù dei radicali mutamenti del contesto strategico mondiale. I primi importanti cambiamenti risalgono agli anni 60 e 70, quando alcune iniziative politiche condizionarono fortemente i rapporti est-ovest: • prima tra tutte, l’adozione del rapporto Harmel (1967), che indicò una via innovativa da seguire, affermando la necessità, per la NATO, di perseguire il duplice obiettivo di incrementare le proprie capacità di difesa e di adottare una politica di distensione verso i Paesi considerati nemici; • l’avvio nel 1969 della «Ostpolitik» (2), da parte della Germania; • la ratifica dell’Atto finale della Conferenza sulla Sicurezza e la Cooperazione in Europa (CSCE), poi divenuta Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (OSCE) (3), con la quale si è dato avvio, dal 1990, a consistenti riduzioni delle forze convenzionali in Europa (4). A seguito di tale iniziativa, il Vertice di Bruxelles del 1994 delineò i nuovi obiettivi e principi che avrebbero guidato l’Alleanza nell’immediato futuro e le nuove linee guide in materia di controllo degli armamenti e disarmo. Gli eventi che, negli ultimi anni, hanno stravolto l’ordine che si era consolidato per circa 50 anni hanno permesso che si diffondesse, all’interno dell’Alleanza, la volontà di avviare un processo di revisione del pensiero e della struttura dell’organizzazione. In tale ambito, la definizione di un nuovo Concetto Strategico, approvato nel corso del Summit di Washington nel 1999 (evoluzione degli strumenti militari, cooperazione e allargamento sono le tematiche principali), ha costituito la più significativa risposta dell’Alleanza ai mutamenti intervenuti nello scenario euro-atlantico. La sicurezza dei Paesi membri non è più messa in discussione dal pericolo di un conflitto generalizzato fra formazioni regolari o da confronti simmetrici, ma da minacce più evanescenti – e non per questo meno pericolose – come il terrorismo, che proliferano a causa dell’instabilità e della debolezza politico-economica dei nuovi attori internazionali. Accanto al

nuovo Concetto Strategico teso a riaffermare la centralità della difesa collettiva dell’Alleanza, viene introdotto il ruolo di «difesa attiva» anche al di fuori della tradizionale area di responsabilità della NATO (cosiddetta «fuori area» di ACE) (5), ampliando le prerogative sia nei compiti che nella natura expeditionary dello strumento militare. Il summit di Washington può essere considerato sia come il punto di arrivo del delicato processo di adattamento, seguito alla disgregazione del confronto bipolare, sia come l’origine di un profondo processo di trasformazione dell’Alleanza, in termini di efficacia del suo strumento militare. Le colonne portanti del «sistema NATO» diventano ora l’allargamento e l’assistenza ai nuovi membri nei campi politico-economico, militare e di difesa, delle risorse e della sicurezza. Con questi presupposti, il concetto di sicurezza viene inteso in termini più globali rispetto al passato, comprendendo, nella sua elaborazione, rischi di diversa natura come, ad esempio, la proliferazione di armi di distruzione di massa e dei loro vettori, l’interruzione di flussi di risorse vitali, gli atti di terrorismo e di sabotaggio. Connessa con l’adozione del nuovo concetto di sicurezza è l’introduzione di altre due prerogative dell’Alleanza: la gestione delle crisi internazionali (crisis management), da effettuare «caso per caso con il consenso delle singole nazioni», e la cooperazione con gli altri Paesi dell’area euro-atlantica (partnership). Già dal Summit di Washington (1999) hanno preso le mosse i provvedimenti di riordino che stanno portando la NATO verso il pieno adattamento alle condizioni geo-politiche del XXI secolo. Gli eventi occorsi l’11 settembre 2001, infatti, hanno solo accelerato i tempi per la trasformazione degli strumenti militari in termini quantitativi e qualitativi, mediante la definizione della Defence Capabilities Initiative (DCI) (6), per migliorare e incrementare le capacità militari dell’Alleanza. L’incertezza delle nuove minacce ha spinto la direzione politico-militare ad accelerare il processo di trasformazione, come sancito dal Summit di Praga del novembre 2002. La creazione della NATO Responce Force (una forza di intervento rapido di 20 000 uomini impiegabile in tutto il mondo), l’adozione di una nuova struttura di Comando proiettabile, lo sviluppo e l’acquisizione delle capacità nell’ambito delle nuove forme di conflitto (Prague Capabilities Commitment - PCC quale prosieguo della DCI e che comporta per gli Stati Membri l’assegnazione di specifiche risorse), la spinta verso un più ampio allargamento (opendoor policy) e la lotta al terrorismo internazionale rappresentano alcune delle pietre miliari poste durante il summit di Praga. Basti pensare che l’iniziativa per l’acquisizione

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CRONOLOGIA ISTANBUL, 28-29 giugno 2004: rafforzamento dei contributi alla NATO nella lotta al terrorismo; supporto allo sviluppo del processo di stabilizzazione nei Balcani; incremento delle capacità, della «usabilità» delle forze e delle capacità di risposta per l’assolvimento delle nuove missioni dell’Alleanza; rafforzamento della cooperazione con i partner all’interno e al di fuori dell’Area euro-atlantica. PRAGA, 21-22 novembre 2002: partecipazione di Bulgaria, Estonia, Latria, Lituania, Romania, Slovacchia e Slovenia per l’inizio dei colloqui propedeutici per l’accesso all’Alleanza; riaffermazione della open door policy; definizione dell’incremento delle capacità dell’Alleanza (Praga Capabilities Commitment); creazione della NATO Responce Force; ridefinizione della Struttura di Comando e delle Forze della NATO; adozione del Concetto della lotta al terrorismo; supporto ai Paesi membri per la partecipazione alle operazioni in Afghanistan. ROMA, 28 Maggio 2002: creazione del Consiglio NATO-RUSSIA. WASHINGTON DC, 23-24 aprile 1999: commemorazione del 50° anniversario; adozione del Nuovo Concetto Strategico; sviluppo qualitativo e quantitativo di nuove capacità (Defence Capabilities Iniziative); sviluppo dell’Identità di sicurezza e di difesa europea nell’ambito dell’Alleanza (ESDI); rafforzare la dimensione operativa del PfP come pure la consultazione e la cooperazione nell’ambito dell’EAPC; perseguire il Dialogo Mediterraneo della NATO; aiuto ai Paesi che aspirano a divenire membri della NATO attraverso un Piano d’azione per l’adesione (MAP); volontà di esercitare una adeguata pressione politico-militare per la risoluzione delle controversie nella ex-Iugoslavia (Kosovo); rafforzamento del Partnership for Peace e dell’EuroAtlantic Partnership Council e del Mditerranean Dialogue. MADRID, 8-9 luglio 1997: partecipazione di Repubblica Ceca, Ungheria e Polonia per l’inizio dei colloqui propedeutici per l’accesso all’Alleanza; riaffermazione della open door policy; firma ufficiale di un accordo per uno specifico partenariato tra la NATO e l’Ucraina; dichiarazione speciale sulla Bosnia Erzegovina, riaffermando il loro impegno ad una piena attuazione dell’Accordo di pace e alla creazione della Bosnia Erzegovina come Stato unico, democratico e multietnico; riunione dei Capi di Stato e di Governo della NATO e dei partner nella cooperazione sotto l’egida del Consiglio di partenariato euro-atlantico (EAPC). La riunione si focalizza su come l’EAPC può essere usato più efficacemente per contribuire alla sicurezza e alla stabilità. PARIGI, 27 maggio 1997: riunione al vertice NATO-Russia, per la firma dell’Atto istitutivo sulle relazioni reciproche, la cooperazione e la sicurezza tra la NATO e la Federazione Russa. BRUXELLES, 10-11 gennaio 1994: inaugurazione del Partenariato per la Pace (PfP), con l’invito alla partecipazione ai lavori ai partecipanti del NACC e altri Paesi della CSCE in grado e desiderosi di contribuire a tale programma; diffusione del Documento quadro del PfP; approvazione del concetto del CJTF; approvazione delle misure di sostegno allo sviluppo di una Identità di Sicurezza e di Difesa Europea; manifestazione della disponibilità della NATO ad intraprendere attacchi aerei per evitare lo strangolamento di Sarajevo e di altre aree di sicurezza dichiarate dall’ONU in Bosnia Erzegovina. ROMA, 7-8 novembre 1991: i Capi di Stato e di Governo diffondono il nuovo Concetto strategico dell’Alleanza, come pure la Dichiarazione di Roma sulla pace e la cooperazione e gli sviluppi in Unione Sovietica e nella ex-Iugoslavia. LONDRA, 5-6 luglio 1990: pubblicazione della Dichiarazione di Londra con le proposte miranti a sviluppare la cooperazione con i Paesi dell’Europa centrale e orientale. BRUXELLES, 4 dicembre 1989: diffusione da parte dei Capi dei Paesi membri del Patto di Varsavia, in concomitanza con lo svolgimento del Consiglio Atlantico, di una dichiarazione comune denunciando l’invasione della Cecoslovacchia nel 1968 da parte delle forze del Patto di Varsavia e ripudiando la dottrina Brezhnev sulla sovranità limitata. BRUXELLES, 29-30 maggio 1989: il Presidente americano annuncia nuove importanti iniziative per la riduzione delle forze convenzionali in Europa; approvazione del Concetto globale per il controllo degli armamenti e il disarmo e pubblicazione di una dichiarazione del vertice. BRUXELLES, 2-3 marzo 1988 (Consiglio Atlantico): sottolinea l’unità degli Alleati e riafferma la loro comunanza di obiettivi e di ideali, come pure la perdurante validità dell’Alleanza; si chiede che misure significative siano prese per eliminare le disparità tra le forze convenzionali. BRUXELLES, 21 novembre 1985: consultazione tra il Presidente americano Reagan e il leader sovietico Gorbaciov sugli accordi USA-URSS sulla riduzione delle forze nucleari strategiche e a medio raggio.

delle capacità (PCC) non costituisce più un «orientamento», bensì un impegno formale da parte dei Paesi membri per lo sviluppo di capacità comuni in più di 400 settori 7. Per sostenere gli obiettivi delineati dal nuovo modello, la NATO si sta dotando di uno strumento militare di tipo expeditionary (8), tecnologicamente avanzato, flessibile e interoperabile, in grado di essere proiettato velocemente nelle dimensioni terrestre, marittima e aerea e capace di operare in un ampio spettro di missioni (dalla gestione delle crisi alla lotta al terrorismo). L’ADEGUAMENTO DELLA STRUTTURA MILITARE Con l’evoluzione dell’operational environment di riferimento, si è sviluppato anche un processo di «adattamento interno» (9), volto a rendere l’Alleanza più flessibile ed efficace nei confronti dei

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nuovi tipi di minaccia. Sono stati sviluppati nuovi strumenti operativi per assolvere con efficacia e credibilità sia alle tradizionali missioni di difesa dei Paesi membri (operazioni ex art. 5) sia ai nuovi compiti, con particolare riferimento alle missioni «non art. 5». Al contempo, sono stati ridefiniti: numero, tipologia, missione e dislocazione dei Comandi della struttura militare dell’organizzazione. La NATO ha, così, avviato la revisione della struttura di Comando, volta sia alla riduzione del numero dei Comandi e degli enti di natura statica, principalmente a livello intermedio, sia alla creazione di una nuova struttura delle Forze, sulla base delle decisioni prese nel summit di Washington del 1999. Struttura di Comando Alla luce del nuovo contesto di sicurezza e al fi-


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ne di sviluppare il dettato di Praga secondo un approccio basato sulla «funzionalità», la NATO ha dato luogo a una revisione dell’organizzazione di Comando che mantiene lo scopo strategico indirizzato principalmente all’esercizio del Comando e Controllo delle operazioni interforze dell’Alleanza. Nel meeting dei Ministri della Difesa del 12-13 giugno 2003 è stata approvata una struttura basata sui parametri di maggiore flessibilità e capacità. I due comandi strategici – SACEUR (10) e SACLANT (11) – sono stati riordinati con differenti funzioni. La direzione operativa della NATO è concentrata in un solo Comando strategico – Comando Alleato per le Operazioni - ACO (12) collocato vicino Mons (Belgio) – con competenza su tutta l’area di responsabilità della NATO. A questo Comando strategico è stato affiancato un Comando «funzionale» denominato Comando Alleato per la Trasformazione ACT (13), situato a Norfolk (USA), che svolge sostanzialmente un ruolo di guida delle attività connesse con la trasformazione delle capacità militari dell’Alleanza. Le capacità di entrambi i Comandi strategici sono integrate e intrinsecamente interdipendenti. Dai risultati di questa trasformazione emerge sia una distribuzione dei compiti più razionale tra i Comandi strategici e all’interno di questi

sia un’organizzazione più snella e integrata.

Allied Com mman nd Tran nsforrmation n Alle dipendenze dell’ACT, oltre al Quartier Generale, sono posti gli Enti e i Centri competenti in materia di trasformazione: • Joint Warfare Centre (JWC) (Stavanger - Norvegia), supporta le attività di sperimentazione, analisi e sviluppo della dottrina a livello operativo, al fine di ottimizzare il processo di trasformazione, di incrementare l’interoperabilità e le capacità dell’Alleanza e di garantire l’addestramento degli staff ; • Joint Force Training Centre (JFTC) (Bydgoszcz Polonia), assiste i Comandi ACT e ACO nel promuovere la dottrina NATO a livello tattico all’interno dei Paesi dell’Alleanza e di addestramento degli staff; • Joint Analysis & Lessons Learned Centre (JALLC) (Monsanto - Portogallo), assicura la raccolta, l’analisi e la distribuzione delle lezioni (identificate e apprese) delle operazioni condotte dalle forze NATO nei Teatri di Operazione; • Centri di Eccellenza (CoE), permettono lo sviluppo, la verifica e l’implementazione dei concetti

N ATO Command Structure

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dottrinali, attraverso la formazione e la sperimentazione a favore delle unità e del personale dei Paesi membri in settori di particolare interesse; • NATO School, orientate alla formazione «in ottica NATO» dei Comandanti ai vari livelli. Comprendono il NATO Defense College - NDC (Roma), la NATO Communications and Information Systems School - NCISS (Latina) e la NATO School - NS (Oberammergau - Germania); • NATO Undersea Research Centre (NURC) (La Spezia), orientato alla ricerca e allo sviluppo delle capacità dell’Alleanza in ambiente subacqueo. L’importanza crescente che l’ACT avrà in futuro è legata al fatto che il Comando per la trasformazione influenzerà le future decisioni di politica militare dei Paesi membri, con importantissimi risvolti nei settori dottrinale, dell’addestramento e dell’acquisizione dei materiali.

Allied Com mman nd Operration ns Il Comando alleato per le operazioni (ACO) ha il suo HQ (SHAPE) (14) ubicato a Mons (Belgio), comandato dal SACEUR (Comandante Supremo Alleato in Europa) (15), a «doppio cappello» Comandante delle forze americane in Europa (USEUCOM) (16). La riorganizzazione completa del Comando risponde alle sue nuove e più vaste responsabilità geografiche.

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Il Comandante dell’ACO (SACEUR) svolge attività di Comando sui tre nuovi quartieri generali «operativi» al secondo livello di Comando, che diventano responsabili della direzione delle operazioni dell’Alleanza dalla loro sede, ovvero costituire un comando CJTF (17). Si tratta di due Comandi interforze ubicati rispettivamente a Brunssum (Paesi Bassi) - JFC (18) Brunssum – e a Napoli (Italia) – JFC Naples – per la costituzione di un CJTF «terrestre» (CJTF land based), e del Comando con sede a Lisbona (Portogallo) – JHQ Lisbon – con «focus» sull’esercizio del Comando del CJTF da una piattaforma navale (CJTF sea based). Ogni Comando interforze deve essere in grado anche, a rotazione, di costituire un DJTF HQ (19) nell’ambito della NATO Response Force - NRF – per quanto concerne le operazioni in corso, il JFC Brunssum esercita il Comando e Controllo della missione ISAF (20) in Afghanistan e il JFC Naples comanda le operazioni NATO nei Balcani. Il principio di funzionalità è stato esteso, inoltre, a sei «Comandi di Componente» dell’ACO che si trovano al terzo livello di Comando, due ciascuno per le forze aeree, terrestri e navali, rispettivamente a Izmir (Turchia), Ramstein (Germania), Madrid (Spagna), Heidelberg (Germania), Napoli (Italia) e Northwood (Regno Unito). Questi Comandi forniscono una capacità di comando flessibile e idonea a operare in molteplici contesti operativi.


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Struttura delle Forze Nel luglio 2001, le Autorità della NATO hanno definito i parametri e i principi di una nuova struttura delle Forze (NATO Force Structure - NFS) volta a dotarsi di forze multinazionali e dei rispettivi Comandi. In tale ottica, è stato deciso di abbandonare la tradizionale struttura mission oriented a favore di un dispositivo capability oriented, costituito da pacchetti capacitivi di forze flessibili, modulari e altamente proiettabili capaci di integrarsi perfettamente in ambiente interforze e multinazionale. La NFS ha uno scopo a livello tattico e consente alla NATO di dotarsi di capacità addizionali di Comando e Controllo di componente per missioni anche all’esterno del territorio dell’Alleanza sulla base dell’esperienze condotte dall’ARRC (21), in Kosovo, nel 1999. La revisione della struttura ha portato alla creazione di una serie di Comandi a framework nazionale a «prontezza differenziata», Graduated Readiness Force HQs (GRF HQ) permanentemente assegnati alla NATO: • sei Comandi terrestri a elevata prontezza operativa, NATO High Readiness Force (HRF) (Land) HQ, con prontezza compresa tra 0 e 90 giorni, a livello Corpo d’Armata denominati NATO Rapid Deployable Corps HQ, tra cui il NRDC-ITA di Solbiate Olona; • un Comando di Corpo d’Armata (Force d’Action Terrestre), offerto dalla Francia alla NATO e paritetico a un NATO HRF (L); • tre Comandi terrestri a bassa prontezza Forces at Lower Readiness HQ (FLR (L) HQ), con prontezza compresa tra i 91 e i 180 giorni a livello Corpo d’Armata;

• tre Comandi Navali ad alta prontezza HRF (M) HQ, per il Comando delle operazioni navali, di cui uno offerto dall’Italia. Alla struttura delle forze si affianca ulteriormente una componente integrata composta da sei Combined Air Operation Center - CAOC, di cui 2 DCAOC proiettabili, per il Comando delle operazioni aeree, di cui 1 offerto dall’Italia.

NATO Resspon nse Forrce (NRF) Oltre alla riorganizzazione dei Comandi ai vari livelli, la revisione della struttura delle forze della NATO comprende anche la costituzione della NRF. Si tratta di una forza a elevata prontezza, dotata di mezzi tecnologicamente avanzati e costituita

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TRATTATO NORD ATLANTICO Washington, DC, 4 aprile 1949

Gli Stati partecipanti al presente Trattato, nel riaffermare la loro fede negli scopi e nei principi dello Statuto delle Nazioni Unite e il loro desiderio di vivere in pace con tutti i popoli e con tutti i Governi, determinati a salvaguardare la libertà dei loro popoli, il loro comune retaggio e la loro civiltà, fondati sui principi della democrazia, sulle libertà individuali e sullo stato di diritto,desiderosi di favorire il benessere e la stabilità nella regione dell’Atlantico settentrionale, decisi a unire i loro sforzi per la difesa collettiva e il mantenimento della pace e della sicurezza, aderiscono al presente Trattato Nord Atlantico. ARTICOLO 1 Le parti si impegnano, come stabilito nello Statuto delle Nazioni Unite, a comporre con mezzi pacifici qualsiasi controversia internazionale in cui potrebbero essere coinvolte, in modo che la pace e la sicurezza internazionali e la giustizia non vengano messe in pericolo, e ad astenersi nei loro rapporti internazionali dal ricorrere alla minaccia o all’uso della forza assolutamente incompatibile con gli scopi delle Nazioni Unite. ARTICOLO 2 Le parti contribuiranno allo sviluppo di relazioni internazionali pacifiche e amichevoli, rafforzando le loro libere istituzioni, favorendo una migliore comprensione dei principi su cui tali istituzioni si fondano, e promuovendo condizioni di stabilità e di benessere. Esse si sforzeranno di eliminare ogni contrasto nelle loro politiche economiche internazionali e incoraggeranno la cooperazione economica reciproca. ARTICOLO 3 Allo scopo di conseguire con maggiore efficacia gli obiettivi del presente Trattato, le parti, agendo individualmente e congiuntamente, in modo continuo ed effettivo, mediante lo sviluppo delle loro risorse e prestandosi reciproca assistenza, manterranno e accresceranno la loro capacità individuale e collettiva di resistere ad un attacco armato. ARTICOLO 4 Le parti si consulteranno ogni volta che, nell’opinione di una di esse, l’integrità territoriale, l’indipendenza politica o la sicurezza di una delle parti fosse minacciata. ARTICOLO 5 Le parti convengono che un attacco armato contro una o più di esse in Europa o nell’America settentrionale sarà considerato come un attacco diretto contro tutte le parti, e di conseguenza convengono che se un tale attacco si producesse, ciascuna di esse, nell’esercizio del diritto di legittima difesa, individuale o collettiva, riconosciuto dall’articolo 51 dello Statuto delle Nazioni Unite, assisterà la parte o le parti attaccate, intraprendendo immediatamente, individualmente e di concerto con le altre parti, l’azione che giudicherà necessaria, compreso l’uso della forza armata, per ristabilire e mantenere la sicurezza nella regione dell’Atlantico settentrionale. Ogni attacco armato di questo genere e tutte le misure prese in conseguenza di esso saranno immediatamente portate a conoscenza del Consiglio di Sicurezza. Queste misure verranno sospese allorché il Consiglio di Sicurezza avrà adottato le misure necessarie per ristabilire e mantenere la pace e la sicurezza internazionali. ARTICOLO 6 (27) Agli effetti dell’articolo 5, per attacco armato contro una o più delle parti si intende un attacco armato: • contro il territorio di una di esse in Europa o nell’America settentrionale, contro i Dipartimenti francesi d’Algeria (28), contro il territorio della Turchia o contro le isole poste sotto la giurisdizione di una delle parti nella regione dell’Atlantico settentrionale a nord del Tropico del Cancro; • contro le forze, le navi o gli aeromobili di una delle parti, che si trovino su questi territori o in qualsiasi altra regione d’Europa nella quale, alla data di entrata in vigore del presente Trattato siano stazionate forze di occupazione di una delle parti, o che si trovino nel Mare Mediterraneo o nella regione dell’Atlantico settentrionale a nord del Tropico del Cancro, o al di sopra di essi. ARTICOLO 7 Il presente Trattato non pregiudica e non dovrà essere considerato in alcun modo lesivo dei diritti e degli obblighi derivanti dallo Statuto alle parti che sono membri delle Nazioni Unite o della competenza primaria del Consiglio di Sicurezza per il mantenimento della pace e della sicurezza internazionali. ARTICOLO 8 Ciascuna parte dichiara che nessuno degli impegni internazionali attualmente in vigore tra essa e un’altra parte o uno stato terzo è in contraddizione con le disposizioni del presente Trattato e si obbliga a non assumere alcun impegno internazionale in contrasto con questo Trattato. ARTICOLO 9 Con la presente disposizione le parti istituiscono un Consiglio, nel quale ciascuna di esse sarà rappresentata, con il compito di esaminare le questioni concernenti l’applicazione di questo Trattato. Il Consiglio sarà organizzato in modo tale da potersi riunire rapidamente in qualsiasi momento. Il Consiglio istituirà quegli organi sussidiari che potranno essere necessari; in particolare istituirà immediatamente un Comitato di difesa che raccomanderà le misure da adottare per l’applicazione degli articoli 3 e 5. ARTICOLO 10 Le parti possono, con accordo unanime, invitare ad aderire a questo Trattato ogni altro Stato europeo in grado di favorire lo sviluppo dei principi del presente Trattato e di contribuire alla sicurezza della regione dell’Atlantico settentrionale. Ogni Stato così invitato può divenire parte del Trattato depositando il proprio strumento di adesione presso il Governo degli Stati Uniti d’America. Il Governo degli Stati Uniti d’America informerà ciascuna delle parti dell’avvenuto deposito di ogni strumento di adesione. ARTICOLO 11 Questo Trattato sarà ratificato e le sue disposizioni saranno applicate dalle parti conformemente alle loro rispettive procedure costituzionali. Gli strumenti di ratifica saranno depositati appena possibile presso il Governo degli Stati Uniti d’America, che notificherà a tutti gli altri firmatari l’avvenuto deposito di ciascuno strumento di ratifica. Il Trattato entrerà in vigore tra gli Stati che lo avranno ratificato non appena le ratifiche della maggioranza dei firmatari, incluse le ratifiche di Belgio, Canada, Francia, Lussemburgo, Paesi Bassi, Regno Unito e Stati Uniti saranno state depositate ed avrà effetto nei confronti degli altri Stati dalla data del deposito delle loro ratifiche (29). ARTICOLO 12 Trascorsi dieci anni dall’entrata in vigore del Trattato, o in ogni momento successivo, le parti, su richiesta di una di esse, si consulteranno allo scopo di rivedere il Trattato, prendendo in considerazione i fattori che a quel momento potranno influire sulla pace e sulla sicurezza nella regione dell’Atlantico settentrionale, compreso lo sviluppo di accordi sia globali che regionali conclusi conformemente allo Statuto delle Nazioni Unite per il mantenimento della pace e della sicurezza internazionali. ARTICOLO 13 Trascorsi vent’anni dall’entrata in vigore del Trattato, ciascuna delle parti può cessare di esserne membro un anno dopo che la sua notifica di denuncia sia stata depositata presso il Governo degli Stati Uniti d’America, che informerà i Governi delle altre parti del deposito di ogni notifica di denuncia. ARTICOLO 14 Il presente Trattato, i cui testi in lingue inglese e francese fanno ugualmente fede, sarà depositato negli archivi del Governo degli Stati Uniti d’America. Copie debitamente autenticate saranno trasmesse da quel Governo ai Governi degli altri Stati firmatari.

dalle componenti terrestre, aerea, marittima e di forze speciali messe a disposizione, con rotazioni semestrali, dalle Forze Armate dei Paesi membri. Una volta raggiunta la Full Operational Capability (FOC) nel corso del 2006, l’NRF sarà costituita da circa 25 000 uomini, sarà in grado di iniziare il dispiegamento cinque giorni dopo la ricezione dell’ordine e potrà sostenere operazioni per tren-

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ta giorni, con possibilità di prolungare la durata con adeguati rifornimenti logistici. L’NRF rappresenta il principale strumento prontamente impiegabile dalla NATO per fronteggiare eventuali crisi in qualsiasi area del globo ed è stata studiata anche come progetto pilota, che dovrà guidare il futuro processo di trasformazione dello strumento militare dell’Alleanza.


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IL PROCESSO DI TRASFORMAZIONE La trasformazione della NATO è condotta, coordinata e armonizzata dall’Allied Command Transformation attraverso il continuo e pro-attivo processo di sviluppo e integrazione dei concetti innovativi, delle dottrine e delle capacità al fine di incrementare l’interoperabilità e l’efficacia delle forze messe a disposizione della NATO. I concetti principali allo studio tendono a garantire all’Alleanza la capacità di rispondere alle nuove minacce, su tutto lo spettro delle operazioni, con velocità, agilità, precisione e flessibilità e si riferiscono principalmente allo sviluppo capacitivo dell’Effect Based Approach to Operations (EBAO). In pratica, con carattere innovativo, la NATO si rifà al «Broad Approach to Security» contemplato nel Concetto Strategico e ribadito sia in occasione del vertice di Praga sia in quello di Istanbul (2004). Il concetto postula la necessità di svolgere un complesso di azioni coordinate e svolte da diversi attori (anche non militari) per influenzare la volontà dell’avversario. L’applicazione di questo concetto e delle conseguenti capacità favorisce l’integrazione interforze mediante un sistema di pianificazione secondo il principio della NATO Network Enabled Capability (NNEC) (22). La trasformazione dell’organizzazione militare dell’Alleanza dovrà affrontare molteplici sfide prima di diventare efficace, soprattutto per quanto concerne l’adeguatezza delle risorse e l’approccio culturale a citati principi. L’ACT, nell’ambito del Force Planning Process, ha già iniziato a coinvolgere i Paesi in questo processo, utilizzando la NRF come catalizzatore della Trasformazione. LE RELAZIONI NATO-U UE La caduta del blocco sovietico aveva insieme minato la ragion d’essere dell’Alleanza e accresciuto la consapevolezza dell’Europa della necessità di dotarsi di una propria capacità di sicurezza e difesa. Dopo lo scioglimento del Patto di Varsavia e del suo strumento militare, la NATO è rimasta un punto di riferimento per la difesa dei confini europei, sancita dall’Art 5 del Trattato del Nord Atlantico, ma ha anche sostenuto lo sviluppo di un’Identità Europea di Sicurezza e di Difesa (ESDI) (23). Con la firma del Trattato di Maastricht, nel 1992, l’Unione Europea ha deciso di sviluppare una Politica Estera e di Sicurezza Comune e di predisporre l’eventuale sviluppo di una capacità di «difesa» comune dell’Unione. La tappa fondamentale che sancisce l’inizio della mutua collaborazione e il pieno sostegno dell’Alleanza allo sviluppo di una Identità di Sicurezza e Difesa Europea è rappresentata dalle decisioni assunte dal Consiglio Atlantico di Berlino

nel 1996. L’accordo ha sancito la costituzione di un pilastro Europeo in seno alla NATO, adottando il principio delle capacità militari comuni «separabili ma non separate», impiegabili in operazioni a guida UE e in tutto lo spettro delle possibili missioni dell’Unione Europea (missioni di Petersberg) (24). Tuttavia, l’evolversi della situazione internazionale ha imposto alla NATO e all’UE una revisione degli accordi presi a Berlino nel 1996 (Berlin plus Arrangements). In particolare, l’UE si è dotata di una propria struttura politico-militare permanente, con lo scopo di garantire il controllo politico e la direzione strategica delle crisi e, contemporaneamente, sono state gettate le basi per la revisione del processo di pianificazione della difesa della NATO, in relazione alle nuove esigenze dell’Unione. Nel rispetto delle esigenze operative della NATO, e della sua struttura di Comando è stato, infatti, adottato un pacchetto di disposizioni volte a: • garantire l’accesso dell’UE alle capacità di pianificazione della NATO, per la pianificazione delle operazioni a guida UE; • pre-designare pacchetti di forze NATO, da impiegare nelle operazioni a guida UE; • individuare le opzioni di Comando EU per le citate operazioni. Grazie al citato accordo, l’Unione può disporre di un accesso alle risorse logistiche e di pianificazione dell’Alleanza atlantica, anche per quanto riguarda le informazioni militari. Inoltre, per assicurare la piena reciprocità e trasparenza dei flussi di informazioni tra le due organizzazioni, è stata attivata una cellula di collegamento della NATO presso l’EU Military Staff, un nucleo dell’UE (EUSG-EU Staff Group) presso SHAPE. Oggi si è giunti allo stadio di pianificazione congiunta per l’impiego di assetti NATO «pre-identificati« e utilizzabili da parte dell’UE nelle proprie operazioni; le relazioni NATO-UE hanno già dimostrato la propria efficacia in occasione delle missioni svolte dall’UE in FYROM (25) con l’Operazione Concordia e, attualmente, in Bosnia con l’Operazione Althea, alle quali anche l’Italia ha fornito il proprio contributo. In particolare, per le citate operazioni va sottolineato che, in linea con gli accordi Berlin plus, il NATO Deputy Supreme Allied Commander Europe (DSACEUR) riveste la carica di Comandante Operativo. CONCLUSIONI La NATO rappresenta, dopo 57 anni dalla sua costituzione, molto più di un’Alleanza difensiva, fondata sui principi della democrazia, della libertà individuale e della legalità previsti nel Trattato del Nord Atlantico. L’assunzione di nuovi compiti, la Transpa-

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rent Partnership con l’UE, il processo di allargamento ai nuovi Paesi e di adattamento interno continuano a garantire la sicurezza dell’area euro-atlantica. Il consenso e la cooperazione, all’interno dell’Alleanza di 26 Paesi, restano ancora oggi gli aspetti cardine sanciti dal Trattato di Washington. Il continuo processo di bilanciamento tra gli interessi europei e nord americani e, più in generale, di tutti i Paesi membri fa sì che la NATO si confermi come un’organizzazione capace di evolversi e adattarsi ai mutamenti strategici. Gli avversari del periodo della guerra fredda diventano ora partner nel NATO-Russia Council (NCR) per la lotta al terrorismo, a conferma della validità degli accordi raggiunti a Roma nel 2002. Le nuove minacce hanno scardinato i vecchi concetti di sicurezza. A differenza della Guerra Fredda, che richiedeva la preparazione di piani di contingenza per la difesa del territorio definito dall’Art. 4 del Trattato, la difesa contro le organizzazioni terroristiche assume una dimensione maggiore che, di fatto, postula la non adeguatezza della linea confinale In and Out of Area. Nel corso dell’ultimo vertice dei Ministri degli Esteri NATO (8 dicembre 2005), lo stesso Segretario Generale ha messo in luce la dimensione globale delle relazioni dell’organizzazione, che si estendono oramai dai Paesi nordafricani, attraverso il «Dialogo del Mediterraneo», sino al Pakistan con l’impiego della NRF nella missione umani-

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taria per l’assistenza alle popolazioni colpite dal terremoto (26), o l’addestramento delle forze militari in Iraq, o il supporto logistico della missione dell’African Union in Sudan. Inoltre, è stata assunta anche la decisione di estendere la missione in Afghanistan al Sud del Paese con un incremento del personale impegnato. L’anno in corso sarà fondamentale per il processo di trasformazione politico militare della NATO. Durante il Summit dei Capi di Stato e di Governo dell’Alleanza, che si terrà a Riga in Lettonia i prossimi 28-29 novembre, verranno decisi gli obiettivi che dovranno essere raggiunti entro il 2008 relativamente al nuovo ruolo, a una nuova struttura di Comando e a un nuovo processo di allargamento. Siamo vicini ai risultati politico-militari raggiunti a Washington nel 1999 o a Praga nel 2002? Il successo della NATO è la sommatoria delle volontà e capacità dei singoli Paesi di effettuare i cambiamenti necessari e di assegnare adeguate risorse per garantire efficacia al processo di trasformazione in corso. In ciò, l’Esercito Italiano continua a dare concretezza all’Alleanza Atlantica, in accordo con il concetto strategico del Capo di SMD, offrendo un congruo numero di Comandi e unità alla pianificazione delle forze, alle missioni operative e alla NRF, indispensabile strumento quale catalizzatore per focalizzare e promuovere i cambiamenti


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capacitivi dell’organizzazione. Il Comando NRDCITA di Solbiate Olona rappresenta un esempio del livello di impegno che l’Esercito ha affrontato nell’Alleanza e per l’Alleanza. Da una aspirazione della Forza Armata dei primi anni 2000 si è passati alla concretezza degli impegni assolti dal Comando di Corpo d’Armata, protagonista sia nel 2004, quale vertice della componente terrestre della NRF 3, sia dal 2005 quale Comando della operazione ISAF VIII, impegni che pongono l’Italia tra i principali contributori di forze della NATO. Pietro Serino Colonnello, Capo Ufficio Pianificazione dello Stato Maggiore dell’Esercito Stefano Del Col Tenente Colonnello, in servizio presso l’Ufficio Pianificazione dello Stato Maggiore dell’Esercito NOTE (1) Belgio, Francia, Lussemburgo, Paesi Bassi e Regno Unito. (2) Con lo scopo di creare un clima di distensione con i Paesi dell’Europa Orientale e del blocco sovietico, mediante l’adozione di una serie di provvedimenti mirati ad una definizione più precisa dei confini tracciati e della complessa situazione di Berlino. (3) La Conferenza sulla Sicurezza e la Cooperazione in Europa sanciva alcune nuove norme sui diritti umani, sull’inviolabilità delle frontiere, la soluzione pacifica delle controversie e la cooperazione tra gli Stati. (4) Il Trattato sulle Forze Armate Convenzionali in Europa (CFE) è stato firmato a Parigi nel 1990 ed è entrato in vigore nel 1992. È un accordo giuridico, il cui negoziato è stato condotto sulla base degli obiettivi e dai fini della CSCE, stipulato da 30 Paesi europei, gli Stati Uniti e il Canada per una consistente riduzione degli armamenti aeroterrestri a carattere offensivo e per l’accertamento reciproco del processo di riduzione, attraverso specifiche ispezioni e verifiche. L’area di applicazione degli accordi è il Continente europeo che si estende dall’Atlantico ai Monti Urali, incluse le isole viciniori appartenenti ai vari Stati, e una larga parte della Turchia asiatica. (5) ACE: Allied Command Europe. (6) La DCI è stata adottata in occasione del Vertice di Washington del 1999. Consiste in un iniziativa intesa a rafforzare il «pilastro europeo» dell’Alleanza con l’ammodernamento delle capacità operative attraverso il miglioramento/incremento delle capacità nei settori della mobilità e proiettabilità, sostenibilità logistica, capacità di ingaggio, sopravvivenza delle forze e delle infrastrutture e del Comando e Controllo. (7) I più importanti sono i seguenti: la difesa nucleare, chimica, radiologica e batteriologica, l’intelligence, sor-

veglianza e acquisizione obiettivi, C3 (Comando, Controllo e Comunicazioni), trasporto strategico, completa proiettabilità e sostenibilità dei pacchetti di forze. (8) Il termine expeditionary sintetizza la capacità degli strumenti militari di essere proiettati, anche a grande distanza dalle sedi stanziali, per la condotta di operazioni di lunga durata. (9) Cf. Libro Bianco 2002 del Ministero della Difesa, parte I, Cap. 1, para. 2 sottopara. 3. (10) SACEUR: Supreme Allied Commander Europe. (11) SACLANT: Supreme Allied Commander Atlantic. (12) ACO: Allied Command Operation. (13) ACT: Allied Command Transformation. (14) SHAPE: Supreme Headquarters Allied Powers Europe. (15) SACEUR: Supreme Allied Commander Europe. (16) USEUCOM: United States European Commander. (17) Il concetto del CJTF (Combined Joint Task Force) è stato riconosciuto dalla NATO durante il Summit di Bruxelles (gennaio 1994). Si tratta di un Comando di Task Force (generato da un Comando parent statico) multinazionale e interforze organizzato per una specifica missione. Il concetto è stato sperimentato durante la Esercitazione Allied Effort 1997 e Strong Resolve nel 1998. Successivamente, ha raggiunto la completa implementazione nel 1999. Il conseguente processo di acquisizione di specifiche capacità CIS e di supporto per l’esercizio del Comando e Controllo è stato validato alla fine del 2004. (18) JFC: Joint Force Command. (19) DJTF HQ: Deployable Joint Task Force Headquarters. (20) ISAF: International Security Assistance Force. (21) Allied Rapid Reaction Corps. (22) Questi concetti saranno descritti più approfonditamente in un prossimo articolo. (23) ESDI: European Security and Defence Indentity. (24) Le missioni di Petersberg sono state istituite nel giugno 1992 nel corso del Consiglio dei Ministri dell’Unione dell’Europa Occidentale (UEO). Oltre al contributo alla difesa collettiva, in applicazione dell’articolo 5 del trattato di Washington e dell’articolo 5 del trattato di Bruxelles modificato, le unità militari degli Stati membri dell’UEO possono essere impiegate per: missioni umanitarie o di evacuazione di cittadini, missioni di mantenimento della pace, missioni di combattimento ai fini della gestione delle crisi, ivi comprese le operazioni di ripristino della pace. (25) FYROM: Former Yugoslav Republic of Macedonia. (26) L’Esercito Italiano ha contribuito alla missione con l’invio di una task force tratta dalla Brigata Genio. (27) Modificato dall’articolo 2 del Protocollo di adesione di Grecia e Turchia al Trattato Nord Atlantico (22 ottobre 1951). (28) Il 16 gennaio 1963 il Consiglio Atlantico ha preso atto che tutte le disposizioni del Trattato Nord Atlantico, concernenti gli ex Dipartimenti francesi di Algeria, sono decadute a decorrere dal 3 luglio 1962. (29) Il Trattato è entrato in vigore il 24 agosto 1949, dopo che gli Stati firmatari ebbero depositato i loro strumenti di ratifica.

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LA SOSTENIBILITÀ DELLA SPESA MILITARE


LA SOSTENIBILITÀ DELLA SPESA MILITARE Una tematica di scottante attualità Professionalizzazione, trasformazione e innovazione sono le direttrici-g guida per la prosecuzione dell’ampio processo di riforma dello strumento militare. Ma ciò comporta la disponibilità di un coerente volume di risorse finanziarie che l’attuale situazione macroeconomica non lascia intravedere. È allora necessario reperire finanziamenti alternativi e nuove forme di cooperazione.

La tematica relativa alla sostenibilità della spesa militare appare strettamente correlata alla trasformazione dello strumento le cui capacità operative, in linea con il più generale quadro macro economico e finanziario di riferimento, devono essere all’altezza dell’evoluzione degli scenari strategici e di sicurezza nazionali e internazionali. In tal senso le Forze Armate sono chiamate – con sempre maggiore frequenza – a operare in alleanze sia a carattere squisitamente politico (ONUOSCE), sia a carattere politico-economico (UE), sia – ancora – a carattere più propriamente militare (NATO e UE nell’ambito di iniziative della PESC e della PESD). L’ampiezza, la diversità e la complessità degli scenari d’impiego sopra tratteggiati richiedono la prosecuzione dell’ampio processo di riforma dello strumento militare, i cui lineamenti di riferimento poggiano sulle tre seguenti direttrici-guida: • professionalizzazione, quale corrente disponibilità di personale interamente volontario; • trasformazione, quale primaria necessità di adottare mezzi, strutture, organizzazione, addestramento, mentalità e approccio per corrispondere ai ridefiniti compiti operativi militari; • innovazione, quale tendenza e concreta percezione di precedere e governare i cambiamenti, ivi inclusi quelli tecnologici, che contraddistinguono il mondo militare. Le capacità operative da conseguire e consolidare costituiscono gli obiettivi strategici che la Difesa pone a riferimento attraverso un percorso graduale, ma coerente, di acquisizione, sul quale si rende necessario innestare una piena progettualità nel medio lungo termine. Essi sono sintetizzabili in: • Comando, Controllo, Comunicazioni, Comput-

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ering e ISTAR (Intelligence, Surveillance, Targeting Acquisition, Reconnaissance); • Schieramento e Mobilità; • Precisione ed efficacia dell’ingaggio, sopravvivenza e protezione delle forze; • Sostenibilità logistica e supporto generale; • Ricerca scientifica. Tali capacità corrispondono e sono funzionali all’adempimento delle missioni che lo strumento militare, nel presente e nel prevedibile futuro, è chiamato a svolgere; missioni che richiedono lo schieramento tempestivo di forze su base multinazionale, per periodi di tempo spesso prolungati e, quando necessario, l’applicazione consapevole di una forza controllata, selettiva, precisa ed efficace. Le operazioni moderne, basate sul dominio dell’informazione, presuppongono forze proiettabili, mobili, sostenibili nel tempo, caratterizzate da adeguata tecnologia e rispondenti a elevati standard di interoperabilità, capaci di agi-


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re in molteplici contesti operativi e in presenza di un avversario che utilizza prevalentemente azioni non convenzionali e asimmetriche, senza escludere forme di coinvolgimento a maggiore intensità. Tale linea programmatica di trasformazione dello strumento militare risponde agli indirizzi di pianificazione sviluppati sia dalla NATO sia dall’Unione Europea e alle esigenze di intervento richieste dalle Nazioni Unite. In tale ottica, occorre mantenere aggiornate e accrescere le capacità delle forze proiettabili, tenendo presente che le operazioni in teatri esterni comportano un logoramento dei mezzi e dei sistemi d’arma superiore al normale e riducono il potenziale complessivo esprimibile dallo strumento militare. Tale usura limita la capacità di sostenere le operazioni nel tempo e di generarne di nuove, qualora non si sviluppino idonei interventi di ripristino dell’efficienza e di sostituzione dei mezzi impiegati. L’esigenza di disporre di un siffatto strumento militare, che risulta comune ai principali Paesi europei, comporta – peraltro – la disponibilità di un coerente volume di risorse finanziarie.

UNO SGUARDO AL PASSATO Fatta questa doverosa premessa sull’esigenza di trasformazione dello strumento militare, si procederà, ora, a un breve excursus sulla dimensione e composizione della spesa militare dei Paesi europei, cercando di evidenziare le ragioni di natura storico-politica che hanno comportato un limitato sviluppo della medesima se rapportato al volume della spesa militare sostenuta dagli Stati Uniti. Al riguardo occorre evidenziare che la dimensione e composizione della spesa militare dei Paesi europei nella seconda metà del secolo scorso sono state il riflesso degli impulsi generati dalle logiche geopolitiche che hanno contraddistinto le fasi della «Guerra Fredda» e dello scioglimento del Patto di Varsavia. Nel corso della Guerra fredda, i Paesi europei hanno fondamentalmente eseguito una funzione di integrazione della presenza militare statunitense sul territorio europeo. Il ruolo da essi svolto, con le parziali eccezioni di Francia e Gran Bretagna, è stato sostanzialmente ininfluente nel resto dello scenario mondiale. Soprattutto nel

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momento in cui la sfida fra i due blocchi contrapposti si era andata sempre più configurando come contrapposizione fra arsenali nucleari, e quindi anche come sfida tecnologica e di capacità di investimento di enormi risorse finanziarie, l’Europa, di nuovo con la parziale eccezione di Gran Bretagna e Francia, ha iniziato ad accumulare un forte ritardo anche sul fronte non convenzionale. Nell’impossibilità oggettiva di provvedere autonomamente e, soprattutto, in modo coordinato, ha affidato di fatto la sua difesa all’ombrello nucleare americano, supportando le Forze Armate statunitensi nella protezione del proprio territorio con mezzi convenzionali. Ecco quindi che, quasi automaticamente, la spesa militare si è caratterizzata come una spesa legata soprattutto all’allestimento di armate terrestri e con capacità di azione di raggio limitato, con una attenzione comparativamente ridotta alla ricerca di avanzamenti significativi sul piano tecnologico e delle capacità da impiegare in missioni di ampio raggio. L’ottica prevalentemente nazionale in cui si sono mossi i governi europei, favorendo un atteg-

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giamento di sostanziale delega all’alleato principale della funzione di difesa dalle minacce provenienti dall’esterno dei confini dell’Europa occidentale, ha contributo a indirizzare le risorse finanziarie verso investimenti militari che, da un lato, rappresentavano in parte duplicazioni rispetto ai Paesi vicini – con conseguente rinuncia alle economie di scala dell’azione congiunta – dall’altro erano finalizzati prevalentemente a mantenere apparati utili soprattutto a garantire l’integrità del territorio nazionale, con caratteristiche quindi non idonee a una proiezione esterna. Lo scioglimento del Patto di Varsavia ha determinato l’inutilità del dispiegamento delle forze militari lungo il confine fra i due blocchi e la possibilità di ridurre drasticamente gli arsenali nucleari. La dissoluzione del blocco che minacciava militarmente l’integrità territoriale degli Stati europei e l’avvio di relazioni basate sulla distensione dei rapporti – politici e commerciali – fra membri dell’Alleanza Atlantica ed ex-membri del Patto di Varsavia ha determinato, a sua volta, la completa ridefinizione del ruolo della NATO e della politica


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di sicurezza. Quest’ultima non doveva più essere fondata prevalentemente sulla difesa, dato il ridimensionamento dei potenziali pericoli di attacchi esterni, quanto piuttosto su una concezione multidimensionale comprendente i diversi aspetti della sicurezza che veniva sempre più minacciata da entità non statuali, da fenomeni quali il terrorismo internazionale o l’insorgere di conflitti regionali capaci di diffondere tensioni e instabilità. In tal senso l’Alleanza Atlantica è andata modificando la sua natura di organizzazione di difesa in organizzazione per il controllo della stabilità e per la prevenzione di focolai di crisi. Di conseguenza, gli stessi Paesi europei hanno dovuto riconsiderare l’esigenza dello sviluppo di una capacità militare in ambito Unione Europea complementare e non antitetica con quanto sviluppato in ambito NATO, idonea a fronteggiare le nuove minacce e in grado intervenire attivamente nella gestione delle crisi. In tale contesto, l’Europa si è trovata a dover «ripensare» la spesa militare in una situazione macroeconomica caratterizzata, peraltro, da una non favorevole congiuntura inter-

nazionale. Il confronto tra Paesi europei e Stati Uniti relativo alle spese per la difesa sostenute nel periodo 1953-2003 dimostra come gli Stati Uniti abbiano costantemente destinato alla spesa militare una massa di risorse ben più elevata rispetto ai Paesi europei. Senza voler scendere troppo nel dettaglio si sottolinea come nel 1983 la spesa militare superava il 6% del P.I.L. americano a fronte di percentuali ben inferiori dei Paesi europei: quelli leader da un punto di vista militare – la Francia e la Gran Bretagna – mostravano percentuali intorno al 4 e al 5%, gli altri mediamente comprese fra il 2 e il 3%. Nel 2003 mentre l’Europa registra un ulteriore arretramento, con l’area dei Paesi aderenti all’Unione monetaria europea che si stabilizza all’1,8% e il Regno Unito al 2,4%, la spesa statunitense mostra nuovi impulsi espansivi (dal 3,4% nel 2002 al 4,1% nel 2003). Così, sempre con riferimento al 2003, la spesa militare americana ha rappresentato il triplo di quella dell’Unione Europea a 15 Stati e due volte e mezzo quella del-

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l’Unione Europea nella sua attuale configurazione allargata a 25 Paesi. In termini di valori medi pro-capite, le risorse spese per finalità militari ammontavano, sempre nel 2003, a 1 431 dollari per ogni cittadino americano mentre nell’Europa a 25 Paesi la spesa media pro-capite è stata di 364 dollari: esattamente un quarto di quella americana. Con riferimento, poi, alle spese per il personale e a quelle per attrezzature militari sostenute nel periodo 1993-2003 si rileva quanto segue: • negli Stati Uniti le spese di personale rappresentano una quota delle spese totali significativamente più bassa di quanto non accada in Europa e, di conseguenza, il contrario avviene per le spese per attrezzature militari. Nel 2003 le spese per dotazioni militari erano pari al 43,9% del totale in America e al 23,5% in Europa, dove la distanza più limitata si osserva con riferimento alla Gran Bretagna (37%) e quella più ampia – se si escludono i Paesi più piccoli – rispetto a Italia, Spagna e Germania (rispetti-

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vamente 14,7%, 16% e 18,8%); • le dinamiche osservate nel corso del decennio sottendono un ulteriore allargamento della forbice Europa – Stati Uniti: dal 1993 al 2003 le spese per attrezzature militari sono cresciute di importanza in America passando dal 36% al 44% del totale; quelle europee hanno invece mostrato una evoluzione opposta: sono scese dal 25% al 23% del totale, oscillando intorno a tale ultima quota nel corso degli anni successivi al 1993. Un ulteriore elemento di riflessione è costituito dal confronto tra le spese degli Stati Uniti e dell’Europa (rappresentata dai sei principali Paesi produttori di armamenti: Regno Unito, Francia, Germania, Italia, Spagna e Svezia) per la ricerca e lo sviluppo. A fronte di risorse dedicate alla ricerca e sviluppo pari a 51 miliardi di euro negli Stati Uniti (il 45% del totale delle spese diverse da quelle di personale), in Europa le risorse destinate a R/S ammontano a 6 miliardi di euro (il 16% del totale). Da nota-


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re il peso preponderante all’interno dell’Europa, di Regno Unito e Francia (che gestiscono il 57% della spesa complessiva sostenuta nel 2003 dal gruppo dei sei Paesi principali) e la notevole differenza tra le composizioni interne: quella inglese è caratterizzata da un livello relativo della R/S di gran lunga maggiore (50% della spesa totale europea) mentre gli altri Paesi dedicano alla predetta attività risorse ben più limitate. LA SPESA MILITARE IN EUROPA Occorre, quindi, prendere atto della limitatezza delle risorse finanziarie assegnate dai principali Paesi europei alla cosiddetta «Funzione Difesa» (espressione che comprende le risorse destinate alle esigenze proprie delle Forze Armate e, cioè, la spesa militare). Con riferimento al 2004 il rapporto percentuale P.I.L. Funzione Difesa risulta pari all’1,04% per l’Italia, all’1,73% per la Francia, all’1,17% per la Germania e al 2,50% per il Regno Unito. Nel 2005 tale rapporto si è consolidato per tutti i citati Paesi tranne per l’Italia ove è sceso allo 0,98%. Per il 2006, tale tendenza nazionale trova conferma nell’ulteriore riduzione allo 0,84%. Tenuto conto che nell’attuale contesto politico ed economico europeo l’incremento dei fondi disponibili per la difesa appare – nel breve periodo – di difficile realizzazione, si rende necessario individuare possibili soluzioni dirette al miglioramento della qualità della spesa. In tal senso si reputa opportuno: • migliorare la ripartizione interna della spesa militare nelle sue componenti; • inquadrare la sua programmazione in una logica di integrazione delle esigenze nazionali nell’ambito degli obiettivi della politica europea di sicurezza e difesa; • definire una strategia comune di sviluppo integrato dell’industria militare europea, anche in considerazione della recente istituzione dell’Agenzia Europea per lo sviluppo delle capacità per la difesa, la ricerca, le acquisizioni e gli armamenti; • provvedere alla messa in comune delle capacità già esistenti a livello nazionale (c.d. pooling). Quest’ultima attività costituisce una misura rapidamente attuabile per l’incremento dell’efficienza della spesa europea senza dover attendere i tempi più o meno lunghi legati all’industrializzazione di programmi comuni e, oltre a permettere di sfruttare appieno le economie di scala, verrebbe ad accrescere l’interoperabilità fra le capacità dei singoli Paesi europei aumentando, così, il grado di interdipendenza tra i medesimi. Risulta infatti evidente che diversi Paesi europei

hanno dotazioni comuni o compatibili; per esempio, alcuni impiegano gli stessi tipi di aeromobili da trasporto (provenienti dalla «famiglia» C-130), da combattimento (F-16, ma anche Tornado e da poco Eurofighter), sommergibili (modello Hdw U212), ma li gestiscono e impiegano in modo indipendente, creando, pertanto, diverse linee logistiche e di manutenzione. Talora, inoltre, si spinge l’adattamento del bene alle esigenze nazionali a tal punto da renderlo meno interoperabile con i modelli simili di altri Paesi, come per esempio nel caso dei Tornado inglesi, tedeschi e italiani, nati da un unico progetto ma successivamente modificati sino a rendere le loro linee di armamento e manutenzione non compatibili. La disponibilità di sistemi e piattaforme d’arma aventi caratteristiche comuni dovrebbe, inoltre, suggerire una gestione integrata del processo di addestramento, consentendo non solo risparmi considerevoli ma anche lo sviluppo di una cultura comune d’impiego operativo degli stessi. LO SVILUPPO DELL’INVESTIMENTO La limitatezza delle risorse finanziarie destinate dai Paesi europei alla spesa militare si riflette con notevole incidenza sul settore dell’investimento. In tale settore, che assume particolare rilevanza nell’attuale contesto internazionale caratterizzato dalla costante necessità dell’evoluzione tecnologica dell’impiego della forza e che ha subito negli ultimi anni consistenti compressioni, si manifesta con assoluta evidenza l’esigenza di incrementare lo sviluppo dei programmi d’investimento anche tramite una gestione congiunta a livello europeo. Al riguardo appare auspicabile che il predetto orientamento, che ha visto una sua prima attuazione con cooperazioni europee quali: l’OCCAR (Organismo Congiunto di Cooperazione in materia di Armamenti, istituito allo scopo di favorire una politica comune nel campo degli armamenti, accrescere il grado di interoperabilità fra le Forze Armate dei Paesi aderenti, favorire le economie di scala consentite da programmi di acquisizione comuni e contribuire al consolidamento dell’identità europea di sicurezza e difesa); la LoI (Letter of Intent - Framework Agreement, intesa rivolta a favorire la riorganizzazione dell’industria della difesa europea attraverso la semplificazione e l’armonizzazione delle attività in sei aree di primaria importanza quali la sicurezza degli approvvigionamenti, le procedure di esportazione, la sicurezza delle informazioni, la ricerca e sviluppo, lo scambio, l’utilizzazione e la proprietà delle informazioni tecniche e l’armonizzazione dei requisiti militari); il WEAG (Western European Armaments Group, forum politico europeo in cui discutere l’armonizzazione delle politiche

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degli armamenti e sviluppare attività di cooperazione nel settore dei materiali e sistemi per la difesa e nel campo della ricerca tecnologica), trovi pieno sviluppo con la recente istituzione della Agenzia Europea per la difesa. I compiti principali di questa Agenzia possono essere così riassunti: • provvedere al soddisfacimento delle esigenze operative dei Paesi membri e, più in generale, dell’Unione Europea; • promuovere una politica di acquisizioni armonizzata degli Stati membri; • sostenere la ricerca nel settore della tecnologia della difesa, anche in materia di sistemi spaziali militari; • potenziare la base industriale e tecnologica del settore della difesa. L’Agenzia Europea per la difesa, percepita come organizzazione intergovernativa di coordinamento, potrebbe, quindi, costituire l’elemento catalizzatore per le capacità richieste dal sistema di difesa europeo e rappresentare uno dei cardini per la riforma del settore difesa in Europa. Peraltro tale organismo

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potrebbe diventare un polo di aggregazione delle esigenze operative dello strumento militare dei Paesi membri diretto a indirizzare l’apparato industriale europeo verso lo sviluppo di tecnologie di punta. LE NUOVE METODOLOGIE DI FINANZIAMENTO In tale quadro di situazione, tenuto conto delle consistenti compressioni subite dalla spesa militare e, soprattutto, dall’investimento, si rende necessario ricercare forme alternative di finanziamento idonee ad assicurare, comunque, lo sviluppo di nuovi programmi acquisitivi. Ci si riferisce, ad esempio, a strumenti quali il leasing operativo e il project financing. Al riguardo, in forma assolutamente sintetica e senza voler anticipare i successivi e più qualificati interventi in materia, si sottolineano alcuni aspetti di tali strumenti di finanziamento. sin ng operativo per certi versi rappresenta Il leas una forma particolare di noleggio che consente all’utilizzatore di avere pieno godimento del bene pagandone un canone di locazione, senza peraltro


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poterne diventare proprietario al termine del contratto, e di ottenere, oltre alla disponibilità del bene, anche tutta una serie di servizi accessori; il leassin ng operativo, che viene anche qualificato «leas sin ng di godimento» in quanto i canoni sono ragguagliati al valore di utilizzazione del bene, risulta particolarmente adatto a finanziare beni caratterizzati da una elevata obsolescenza e che necessitano di frequenti interventi di manutenzione. nan ncin ng sostituisce al tradizionale fiIl prroject fin nanziamento a esclusivo carico e rischio del bilancio dello Stato, l’iniziativa di un soggetto privato il quale interviene, in tutto o in parte, nell’operazione di finanziamento, assumendosi il relativo rischio. Questi, in vista del proprio ritorno economico, fa affidamento sul futuro flusso di cassa e sugli utili dell’unità economica oggetto del project financing che consentiranno il rimborso graduale dei capitali impiegati. Sul piano economico, la caratteristica imprescindibile di un’operazione di project financing è dunque la finanziabilità del progetto, cioè la sua attitudine a produrre flussi di cassa (cash flow) di segno positivo, sufficienti a compensare i prestiti ottenuti per finanziare l’attività medesima, garantendo un congruo margine di profitto al promotore dell’operazione e, nel contempo, un’adeguata remunerazione del capitale investito dai finanziatori. Nell’attuale congiuntura economica il ricorso a nuove metodologie di finanziamento per lo sviluppo delle capacità militari dei Paesi europei può, quindi, costituire un possibile rimedio alla carenza di idonee risorse finanziarie, ferma restando la necessità della specifica analisi sulla loro rispondenza e adattabilità alle esigenze dello strumento militare, e la verifica, nel tempo, della loro compatibilità finanziaria.

bilità, idonee ad affrontare con successo le sfide poste dall’evolutivo scenario internazionale e, come tali, pienamente capaci di affrontare le nuove minacce di tipo asimmetrico e in grado di sviluppare notevoli capacità operative anche in contesti caratterizzati da elevata intensità. Il raggiungimento di un siffatto obiettivo deve essere, peraltro, supportato da adeguate risorse finanziarie. La sostenibilità dello strumento militare sotto il profilo della compatibilità finanziaria, stante la limitatezza delle risorse nazionali disponibili, comporta una sempre maggiore esigenza di: • effettuare una ponderata ed equilibrata programmazione della spesa militare in una logica di integrazione delle esigenze nazionali nell’ambito degli obiettivi della politica europea di sicurezza e difesa. Tale programmazione, finalizzata al mantenimento su livelli di qualità dello strumento militare secondo stringenti criteri di priorità, deve ricercare la progressiva ottimizzazione della ripartizione interna della spesa militare, assicurando un adeguato volume di risorse ai settori dell’esercizio e dell’investimento; • predisporre un’analisi sostanziale delle spese nei settori non direttamente collegati all’operatività dello strumento, in modo da qualificare più compiutamente gli interventi; • sviluppare forme di cooperazione ad ampio respiro nel campo della ricerca scientifica e tecnologica, degli approvvigionamenti di mezzi e sistemi d’arma, in special modo nell’ambito dell’Agenzia Europea per lo sviluppo delle capacità per la difesa, la ricerca, le acquisizioni e gli armamenti; • ricercare strumenti alternativi di finanziamento idonei ad assicurare lo sviluppo di nuovi programmi acquisitivi.

CONCLUSIONI

Le tematiche illustrate evidenziano, dunque, i problemi centrali della sostenibilità della spesa militare dei Paesi europei. Problemi complessi che si scontrano con scenari strategici e di sicurezza nazionali e internazionali in costante evoluzione e che necessitano dell’attuazione di interventi immediati pena l’affievolimento del ruolo dell’Unione Europea e dei Paesi membri nel contesto internazionale. Lo strumento militare dei Paesi europei richiede, pertanto, la massima attenzione e la massima attribuzione di risorse disponibili essendo chiamato – con sempre maggiore frequenza – «a fare di più e al meglio».

La problematica relativa alla sostenibilità della spesa militare europea appare, dunque, di indubbia complessità. Da un lato l’Europa intende porsi sullo scenario internazionale quale grande potenza civile, capace di esercitare una crescente influenza economica, di svolgere un più incisivo ruolo politico e di intervenire attivamente, anche sotto il profilo militare, nella gestione delle crisi. Dall’altro si trova ad affrontare una non facile congiuntura economica che rischia di limitare questa sua naturale vocazione. Tale congiuntura si ripercuote negativamente sulla pianificazione e predisposizione dello strumento militare. I Paesi europei, come inizialmente rilevato, hanno l’obiettivo di disporre di Forze Armate a elevata tecnologia, dotate di uno spiccato livello di interoperabilità, proiettabilità e sosteni-

Rocco Panunzi Generale di Corpo d’Armata, Capo Ufficio Generale Pianificazione Programmazione e Bilancio dello Stato Maggiore della Difesa

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OPERAZIONE «PRAESIDIUM»


OPERAZIONE «PRAESIDIUM» L’Esercito Italiano in prima linea nella ricostruzione dell’Afghanistan I PRT operano in Afghanistan in concorso con il Governo centrale per promuovere e rafforzare la sicurezza e facilitare il flusso di aiuti umanitari, assicurando il supporto alle attività di ricostruzione condotte dalle Organizzazioni nazionali e internazionali. Ogni PRT è strutturato in base al livello di rischio, alla posizione geografica e alle condizioni socio-e economiche della Regione in cui opera. In questo contesto l’Italia, con l’Operazione «Praesidium» ha la responsabilità di Herat.

Nell’aprile del 2002, il Presidente americano, George W. Bush, si rivolse alla Nazione auspicando un deciso impegno per aiutare il popolo afghano a sottrarsi al regime talebano. Riferendosi al successo del Piano «Marshall» per la ricostruzione dell’Europa e del Giappone, alla fine della Seconda guerra mondiale, prospettò la possibilità di una soluzione simile per l’Afghanistan. Nell’estate dello stesso anno la necessità di accelerare il processo di ricostruzione in Afghanistan, indusse gli Stati Uniti a individuare degli strumenti efficaci per accrescere gli effetti connessi con le attività ISAF attraverso l’impiego di un limitato numero di assetti specialistici a guida statunitense. In tale ottica, il Dipartimento di Stato e della Difesa e l’Agenzia Americana per lo Sviluppo Internazionale (US Agency for International Development) elaborarono un concetto per l’impiego, di «teams di cooperazione civile-militare». Il Comando Centrale Americano (USCENTCOM, con sede a Tampa, in Florida), la cui area di responsabilità va dal Corno d’Africa fino all’Asia Centrale, sviluppò un piano per mettere in pratica tale concetto. Vennero così costituiti i «Joint Regional Teams» (JRT). Uno dei maggiori sostenitori dell’idea, fin dall’avvio del progetto nel dicembre del 2002, fu lo stesso Hamid Karzai, il Presidente interinale dell’autorità di transizione afghana. Peraltro, anche su sua richiesta, al fine di fornire supporto al Governo (in opposizione al potere dei «signori delIn apertura.

Afghanistan. Il supporto dei nostri soldati è essenziale per l’attività di ricostruzione e la sicurezza del territorio.

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la guerra») e per sottolineare che l’attività principale delle neo costituite strutture fosse la ricostruzione, il nome dei JRT fu cambiato in PRT «Provincial Reconstruction Team». Precedentemente, le opere di assistenza umanitaria, soccorso, e ricostruzione erano supportate dalla Coalition Humanitarian Liaison Cells (CHLCs) e da U.S. Army Civil Affaire Teams-Afghanistan (CAT-As). Le attività civili di ricostruzione nelle regioni più isolate erano limitate dalla carenza e/o assenza di forze di sicurezza internazionali. L’operazione «Enduring Freedom» era concentrata sulle operazioni di antiterrorismo, mentre l’intervento della Forza Internazionale per l’Assistenza e la Sicurezza (International Security Assistance Force ISAF) era limitato alla zona di Kabul e dintorni sebbene l’intendimento fosse quello di estendersi nel breve termine. I PRT sono strutture miste composte da personale militare e civile con il compito di concorrere al processo di espansione dell’autorità del Governo centrale afghano, di promuovere e rafforzare la sicurezza e di facilitare il flusso di aiuti umanitari, assicurando il supporto alle attività di ricostruzione condotte dalle organizzazioni nazionali e internazionali operanti nella regione. Ciascuno di essi è strutturato in base al livello di rischio, alla posizione geografica e alle condizioni socio-economiche della regione in cui opera. Il primo fu costituito a Gardez nel gennaio del 2003. Attualmente, i PRT operativi sono venti di cui tredici sotto egida della coalizione guidata dagli americani nell’ambito dell’Operazione «Enduring Freedom» (Combined Forces Command-Afghanistan/CFC-A) e sette sotto egida ISAF. Come visto precedentemente, si differenziano


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per entità, scopo e compito principale e sono attagliati alle condizioni di sicurezza locale e alle dinamiche politiche e socio-economiche dell’area di impiego. Per esempio, il PRT tedesco a Konduz mantiene una netta suddivisione di responsabilità tra personale civile e militare. Funge da «posto sicuro» per gli specialisti civili e impiega quasi 375 soldati. Diversamente, quello del Regno Unito a Mazar-e Sharif opera con un contingente più ridotto, di circa 100 elementi, e tra la componente militare e i membri civili provenienti dall’Ufficio Stranieri, dal Dipartimento per lo Sviluppo Internazionale (DFID), i rapporti di lavoro sono molto stretti. Molti PRT collocati nell’area CFC-A hanno una composizione media di circa 60-80 elementi. Il personale militare dei PRT statunitensi lavora a stretto contatto con la controparte civile del USAID, del Dipartimento di Stato e del Dipartimento dell’Agricoltura. Tale flessibilità nella struttura e configurazione è considerata essenziale per una risposta efficace alle diverse esigenze delle differenti regioni e/o province. La percentuale di personale civile e militare dei PRT varia di conseguenza. In generale, comunque, la componente civile si aggira attorno al 5-10% del totale del personale. La maggior parte di quelli che incominciarono a operare nel 2003-2004 furono attivati in aree calde come Asadabad, Tarin Kowt, Lashkar Gah, Farah, Khowst, e Qalat, dove, di fatto, la presenza delle IOs (Organizzazioni Internazionali) e/o NGOs (Organizzazioni non Governative) era estremamente limitata o nulla. I PRT, scelti in collaborazione con il Governo afghano, cominciarono a operare come piccoli contingenti avanzati. Sebbene la loro costituzione abbia comportato un aumento della presenza militare nelle province, essi non avevano e non hanno compiti di «attività combat» ma, piuttosto, la loro presenza funge da deterrente contro attività terroristiche e criminali. In caso di minaccia da parte di forze ostili, posseggono assetti di autoprotezione e hanno la possibilità di richiedere l’intervento del supporto aereo ravvicinato e delle unità di reazione rapida. Le Lead Nations che hanno assunto la responsabilità dei PRT, e tuttora li alimentano, esercitano una considerevole influenza sulla condotta delle attività, spesso secondo una visione nazionale piuttosto che con una visione unitaria. Ciò rende più difficile il coordinamento e limita l’efficacia degli sforzi profusi. I PRT guidati dai Paesi Bassi, dalla Germania, dalla Nuova Zelanda, dal Regno Unito e dagli Stati Uniti hanno una particolare struttura che riflette i loro differenti compiti, priorità e piani nazionali. La loro organizzazione varia a secondo del livello di coinvolgimento nelle attività di ricostruzione, di supporto all’amministrazione locale, di sviluppo dei programmi contro il traffico di stupefacenti, di promozione alla smobilitazione delle

forze smilitarizzate e di supervisione della riforma del settore della sicurezza. Queste differenze hanno un impatto sia sulle interazioni tra CFC-A (la coalizione a guida statunitense) e le forze di ISAF sia sulle IOs e NGOs, sia sui donatori che sui programmi operanti delle Lead Nations dei vari programmi in Afghanistan. In prospettiva, in concomitanza di una diminuzione dell’impegno americano e il contestuale allargamento del numero di Nazioni coinvolte nell’attivazione dei PRT, sotto il controllo della NATO/ISAF, è prevedibile un incremento delle difficoltà per quanto attiene al coordinamento e alla gestione degli stessi. Per ovviare a ciò, la funzione di coordinamento (in prospettiva Comando e Controllo) è statA attribuitA a dei Regional Area Coordinator (RAC), ognuno dei quali responsabile di uno dei settori (comprendenti più province) che le forze della coalizione controllano, con evidenti ricadute positive. Nel febbraio del 2005, inoltre, il PRT Executive Steering Committee (comprendente il Ministro degli Interni Afghano, UNAMA, Comandanti della Coalizione e di ISAF, NATO’s Senior Civilian Representative e gli Ambasciatori dei Paesi guida dei PRT) ha definito le linee guida. A mano a mano che i PRT passano sotto il controllo della NATO/ISAF (Stage III e IV dell’espansione ISAF in Afghanistan), il raggiungimento di un orientamento comune diventerà sempre più importante al fine di rendere, nelle varie Province, più agevoli i rapporti con gli elementi chiave dei Governi locali, delle tribù, delle diverse religioni, delle NGOs e con i responsabili delle varie agenzie delle Nazioni Unite. In tale contesto, nell’ambito dello Stage II della missione NATO/ISAF, l’Italia ha assunto la responsabilità del PRT di Herat con la seguente missione: «...assistere il Governo afghano a estendere la propria autorità, al fine di facilitare l’instaurarsi di un ambiente stabile e sicuro nella propria Area di Operazioni e favorire, attraverso una presenza militare, le attività correlate con il programma Security Sector Reform (SSR) e con il processo di ricostruzione del Paese...». Impegno che per l’Esercito si è tradotto, oltre che nella costituzione del PRT, anche nel concorso a favore di altre due strutture presenti nell’area di Herat. Parliamo, in particolare, del RACW (Regional Area Coordinator West) e della FSB (Forward Support Base). Il RACW è la struttura individuata in ambito NATO per coordinare gli interventi inerenti alla ricostruzione del Paese afghano. Specificatamente, per la regione di Herat, è stato costituito il Regional Coordinator-West con il mandato di coordinare le attività dei quattro PRT NATO insistenti sulla regione: Chaghcharan (a guida lituana), Qal’Eh Now (a guida spagnola), Farah (a guida statunitense) e Herat (a guida italiana). Le mansioni di Regional

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Area Coordinator sono svolte da un Ufficiale Generale italiano designato, a turno, a cura dello Stato Maggiore dell’Esercito e dello Stato Maggiore dell’Aeronautica. Per esercitare le sue funzioni esso si avvale di un «multinational staff», per i compiti NATO, e di uno «special staff» e assetti specialistici, per le problematiche nazionali. I compiti che risalgono al Comandante del RACW riguardano, essenzialmente: • il coordinamento «regionale» delle attività CIMIC condotte dalle componenti militari dei PRT, del coordinamento delle attività di ISAF per quanto attiene alla SSR (Security Sector Reform) e, più in generale, al coordinamento delle attività NATO finalizzate alla stabilizzazione e ricostruzione in sinergia con le Agenzie ONU (UNAMA) e le Autorità Locali; • l’assistenza all’ANA (Afghan National Army), sempre in abito regionale; • la raccolta di dati allo scopo di elaborare punti di situazione. La FSB (Forward Support Base) è una installazione militare aeroportuale realizzata per: • assicurare il sostegno logistico, con carattere areale, ai PRT presenti nella regione di Herat; • ospitare una struttura medico-sanitaria dotata di assetti CASEVAC/MEDEVAC idonea a soddisfare le esigenze sanitarie dei PRT e ospitare una unità di intervento rapido in grado di intervenire con tempestività, con adeguati mezzi di trasporto, in tutta la regione. Il Comando della FSB è assicurato dalla Spagna mentre le Forze Armate Italiane concorrono alla sua costituzione mediante un APOD (Air Port of Debarkation/Air Port of Departure) e assetti di Force Protection e Combat Service Support. La provincia di Herat, con una superficie di 43 259 kmq e una popolazione stimata di 1 800 000 abitanti (etnicamente suddivisi in Pashtun 41%, Tajiki 29%, Turkmeni 7% e Aimaq, Biluci, Brahui Nurestani 13%) è la più importante tra le quattro provincie che costituiscono la parte occidentale dell’Afghanistan (Herat, Badghis, Ghowr e Farah). Confina a ovest con l’Iran, a nord con il Turkmenistan ed è posta tra le province afghane di Badghis a nord-est, Ghowr a sud-est e Farah a sud. La lingua più diffusa è il Dari (molto simile al Farsi parlato in Iran). La totalità della popolazione è musulmana equamente distribuita tra la confessione sciita e quella sunnita. Il capoluogo di provincia è l’omonima città di Herat (992 m di quota), l’insediamento più popoloso dell’Afghanistan occidentale con circa 500 000 abitanti. È una delle città più antiche dell’Asia e tra le principali dell’Afghanistan. Il primo insediamento (lungo il fiume Harirud) risale al XXV secolo a.C.. La città nel corso della sua storia ha subito varie occu-

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pazioni ed è stata annessa a vari regni a partire da Alessandro il Grande nel 330 a.C. fino a Ahmad Shah Durrani nel 1749, anno in cui fu conquistata e annessa al Nuovo Regno afghano. Nella città sono presenti antiche costruzioni la maggiore parte in discreto stato di conservazione. Di particolare interesse storico religioso, nella cinta muraria della città vecchia, si trova la Grande Moschea e il complesso architettonico-religioso del Musalla, costituito da una serie di minareti. Oggi, Herat è un centro commerciale di riferimento per l’area occidentale del Paese, in particolare per le attività di import/export, per il settore agricolo (grano, frutta e verdura), per la pastorizia e per il settore tessile. Tutto ciò grazie alla sua posizione, a cavallo tra le due principali arterie che collegano, rispettivamente, la prima le regioni meridionali afghane con la Repubblica del Turkmenistan, mentre la seconda unisce Herat, verso ovest, con l’Iran e, verso est, con Ghowr e Badghis. Amministrativamente, la provincia di Herat è suddivisa in 16 distretti con un Governo Provinciale retto da un Governatore nominato dal Presidente della Repubblica. In linea generale, gli obiettivi del PRT di Herat, a guida italiana, sono gli stessi di quelli previsti per gli altri e cioè supporto al Governo afghano per conseguire un ambiente stabile e sicuro ed estendere la propria influenza a livello regionale; supporto alle iniziative Security Sector Reform (SSR); favorire le iniziative di ricostruzione in funzione delle priorità di sviluppo nazionale; agevolare la cooperazione tra tutti gli «attori» civili presenti nell’area. Per quanto attiene ai compiti, essi riguardano i seguenti aspetti: contribuire al miglioramento del livello di sicurezza della popolazione afghana atIl rafforzamento della sicurezza del territorio, cui concorre il contingente italiano, consente al Governo centrale afghano di espandere la propria autorità. Nell’immagine, un nostro soldato vigila su un affollatissimo incrocio ove transitano pastori e contadini.


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traverso il dialogo con i leader regionali e lo svolgimento di attività di confidence building allo scopo di ridurre aree di conflittualità eventualmente esistenti; seguire, analizzare, supportare e fornire consulenza alle attività SSR, con particolare attenzione all’addestramento dell’ANA e della Polizia in stretto coordinamento con le Organizzazioni Internazionali (UNAMA) e le Nazioni leader dei programmi SSR; contribuire alla diffusione delle decisioni politiche del Governo afghano ai leaders regionali e alla popolazione afghana; assicurare una presenza visibile nell’area di competenza; seguire la situazione nell’area di competenza con particolare riguardo agli aspetti militari, politici e civili; assistere la Comunità Internazionale nel processo di organizzazione, stabilizzazione e rafforzamento delle strutture amministrative locali; organizzare e facilitare lo svolgimento di incontri periodici per favorire il dialogo e le relazioni tra i rappresentanti governativi, UNAMA, le organizzazioni internazionali e i leader regionali; ospitare e supportare, qualora richiesto, osservatori internazionali impegnati in programmi di assistenza allo sviluppo delle strutture civili. Per assolvere tali compiti è stato costituito un complesso tattico nazionale denominato Task Force «Lince», integrato da assetti multinazionali, in grado di esprimere le seguenti capacità: Comando e Controllo di operazioni terrestri; sicurezza; esplorazione a lungo e medio raggio (MOT Military Observation Teams); Polizia Militare; supporto logistico; supporto sanitario (ROLE 1); supporto CIS; FAC (Forward Air Controller); CIMIC; interpreti locali. Inoltre, è stato previsto un team di esperti del Ministero degli Affari Esteri (MAE) inquadrati in un Ufficio Civile PRT. Il Capo di tale ufficio è il rappresentante per la provincia di Herat dell’Ambasciatore d’Italia in Afghanistan. Le componenti civili e militari sono due strutture fortemente coordinate tra di loro e legate da una azione sinergica anche se organicamente indipendenti. Un cenno particolare meritano i MOT (Military Observation Teams) e il CMOC/CIMIC Center. I primi rappresentano lo strumento principale con i quali il PRT assicura il supporto generale per la mobilità e la protezione degli elementi civili del MAE e/o personale delle organizzazioni da loro segnalato; compie ricognizioni ed esplorazioni finalizzate ad acquisire informazioni e a dare visibilità all’operazione. Le tipologie di MOT che il PRT può esprimere sono il Long Range, con autonomia logistica e operativa fino a 96 ore e lo Short Range, per operazioni che prevedono attività che si concludono nell’arco della giornata. Non hanno una composizione organica preordinata ma, a seconda del compito assegnato, posso-

no essere configurati integrando le seguenti capacità modulari: sicurezza; sostegno sanitario; comunicazioni; PSYOPS; CIMIC, senza escludere anche l’eventuale presenza di rappresentanti di organizzazioni governative e internazionali, interpreti locali e rappresentanti dell’ANA/strutture governative. Il CMOC/CIMIC Center (il cui Comandante e assistente sono tratti dal CIMIC Group South di Motta di Livenza, mentre i tecnici, membri dei teams, sono tratti dalla Riserva Selezionata) per la sua peculiarità, ha assunto una funzionalità essenziale per il conseguimento di elevatissimi risultati nel settore relazionale e della ricostruzione. Infatti, prendendo spunto dai dati resi disponibili dagli americani (i quali avevano la responsabilità del PRT di Herat prima del passaggio di consegne all’Italia), è emerso che i progetti di ricostruzione afferenti al settore «Education» hanno assorbito circa il 50% delle risorse rese disponibili per la provincia di Herat. Un altro settore che ha richiesto particolare attenzione da parte del personale del PRT a guida statunitense è stato quello dell’«Irrigation» per quanto attiene, soprattutto, alla realizzazione di pozzi per acqua potabile, muri di contenimento e canalizzazioni. In subordine, sono stati indicati altri settori di intervento tra i quali, in primo luogo quello sanitario. È apparso, pertanto, ovvio che anche il PRT italiano focalizzasse la propria attenzione sui settori sopra citati, se non altro per ragioni di continuità progettuale e di coerenza degli interventi. Conseguentemente, fu subito chiaro come fosse necessario instaurare e mantenere rapporti di collaborazione con tutti gli attori presenti in loco, quale presupposto essenziale per la condotta delle successive attività riguardanti le aree sopraindicate. In tale contesto, il CIMIC/CMOC Center si è dimostrato per sua natura, compiti istituzionali, struttura e flessibilità lo strumento più idoneo a conseguire gli obiettivi prefissati. Con tale finalità, ha sviluppato e condotto una serie di specifiche attività (Liason, Support to the Force, Support to the Civil Environment) che hanno contribuito in maniera concreta e determinante allo sviluppo di un aspetto essenziale della fidence building nei confronti del contingente nazionale. In tale prospettiva sono stati, pertanto, perseguiti gli obiettivi volti a realizzare una efficace rete di relazioni con le autorità locali e governative, con le IOs/NGOs e con la popolazione locale; ricercare e mantenere il consenso dei locali; operare in sinergia con il personale del MAE. Obiettivi tutti conseguiti e concretizzati in una serie di progetti che hanno riscosso unanime riconoscimento e apprezzamento da parte della popolazione, delle autorità locali e del Comando ISAF. In tale contesto, gran parte del merito dei risul-

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tati positivi va attribuito al tipo di approccio adottato dal contingente italiano, mirato fin dall’inizio a individuare gli organismi istituzionali presenti in loco che, per specifica competenza, consentissero di fornire un contributo sostanziale alle attività di ricostruzione. Tali organismi sono stati individuati sia nel Governatore sia nei vari Dipartimenti in cui è articolato il Governo Provinciale. Successivamente, è stato necessario ricercare il loro coinvolgimento nelle principali fasi di sviluppo dei progetti. Infine si è perseguito l’obiettivo di responsabilizzare al massimo i dirigenti dei vari Dipartimenti nei confronti della popolazione della città di Herat e nei confronti delle amministrazione distrettuali della provincia. In altri termini, si è cercato di dare alla parola «ricostruzione» un significato allargato, riferito non solo alla ricostruzione di infrastrutture e/o distribuzione di beni e aiuti umanitari, bensì anche alla «ricostruzione del senso dello Stato». In questa ottica, l’azione del PRT è stata caratterizzata fin dall’inizio da una azione mirata nei confronti degli amministratori locali affinché contribuissero, in maniera concreta, all’individuazione delle esigenze della città e dei distretti, alla loro valutazione e alla definizione di una lista di priorità. È stato così possibile acquisire un quadro globale di esigenze che sono state valutate da parte dei tecnici del CIMIC/CMOC Center secondo criteri di coerenza agli obiettivi prefissati dalla missione, fattibilità in termini tecnici, disponibilità finanziaria, sostenibilità nel tempo e rapidità di realizzazione (Quick Impact Project). Tutto questo ha richiesto non solo attività di progettazione ma an-

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che e soprattutto la condotta di ricognizioni sul territorio. Attività (MOT) che hanno coinvolto e impegnato fortemente il PRT in quanto si trattava di raggiungere località isolate, effettuare l’assessement del posto, incontrare i vari leaders locali, spiegare i motivi della presenza e prendere accordi per lo sviluppo delle successive attività. Il tutto in una cornice di sicurezza garantita dagli assetti della Force Protection. Ovviamente, a questi MOT partecipavano oltre ad assetti militari, anche personale civile del MAE impegnato a sviluppare i progetti di competenza. Una volta definito un primo quadro dei progetti fattibili è stato predisposto un Master Plan base di discussione durante i meeting con i rappresentanti dei vari dipartimenti coinvolti nei progetti (Irrigation Department, Water Supply Department, Department of Rural Rehabilitation, Provincial Public Health, Social Affairs Departament) allo scopo di pervenire a un quadro globale degli interventi da effettuare. Contestualmente, i progetti sono stati discussi anche con le IOs e NGOs presenti in area allo scopo di evitare sovrapposizione di interventi, finalizzare in maniera coordinata le risorse e ricercare la massima sinergia. Questo è stato reso possibile organizzando specifici meeting ovvero partecipando ad analoghe attività organizzate dalle varie organizzazione internazionali e/o dai dipartimenti locali. Gli incontri con le autorità locali sono premessa indispensabile per l’attività dei PRT.


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Tutto ciò si è concretizzato in un piano operativo caratterizzato da una serie di progetti finalizzati essenzialmente ai settori scolastico, sanità, sicurezza, sport e emergenze. Una volta definiti i progetti si è provveduto ad avviare per ciascuno di essi una gara tra ditte afghane con il vincolo che ciascuna di esse non potesse vincere più di un appalto. L’obiettivo era duplice: massima chiarezza e trasparenza nelle operazioni di assegnazione dei lavori, distribuzione dei fondi in maniera diffusa. Per quanto attiene alle modalità di pagamento si è adottata la procedura della progressione dei lavori. Coerentemente con tale principio, alle varie ditte è stato concesso un anticipo pari al 5% dell’importo totale del contratto mentre i successivi pagamenti, sempre in termini percentuali, venivano effettuati in base alla progressione dei lavori previo accertamento da parte dei tecnici del team CIMIC. Questo modo di procedere ha permesso di conseguire tre risultati importanti. Il primo, riguarda il consenso nei confronti del Contingente italiano. Le risposte della popolazione sono sempre state estremamente positive. Dopo una prima fase interlocutoria caratterizzata dalla curiosità delle varie comunità durante le visite nei rispettivi villaggi, distretti o quartieri, è subentrata una seconda fase caratterizzata, questa volta, da un senso di aspettativa. Quando poi i lavori sono stati avviati, dall’aspettativa si è passati a una terza fase, quella della riconoscenza. Il secondo, riguarda l’accresciuta credibilità e autorevolezza delle istituzione locali le quali, coinvolte nelle varie fasi propedeutiche all’avvio dei progetti, hanno assunto degli impegni nei confronti della popolazione, che laddove è stato possibile onorare hanno fornito una risposta concreta alle esigenze locali. Quando invece, non è stato possibile realizzare quanto progettato sono stati spiegati i motivi della mancata realizzazione. Comunque, in entrambi i casi, la responsabilità è stata assunta dalle autorità locali che, in questo modo, si sono proposte quali referenti istituzionali inducendo, in tal modo, un senso di presenza dell’autorità costituita e quindi, in definitiva, del Governo centrale. Il terzo risultato, infine, attiene alla sempre maggiore considerazione di cui gode il PRT non solo da parte delle comunità locali ma, soprattutto, da parte delle varie organizzazioni internazionali presenti in area che ne riconoscono e apprezzano la assidua presenza nei vari consessi, la capacità e il pragmatismo nell’affrontare le varie problematiche, la ricerca costante di confronto e di sinergie con tutti gli attori presenti, l’efficacia degli interventi di ricostruzione, la disponibilità al dialogo, l’intelligente apertura a qualsiasi forma di collaborazione. In estrema sintesi, il riconoscimento di esso quale struttura di riferimento per le attività nell’ambito

della intera provincia. In conclusione, si può affermare che il PRT Herat a guida Italiana ha certamente contribuito a migliorare il livello di sicurezza della popolazione attraverso il dialogo con le varie autorità e leader regionali e lo svolgimento di attività di confidence building; costituito una presenza visibile nella provincia di Herat; assistito la comunità internazionale nel processo di organizzazione e rafforzamento delle strutture amministrative locali; facilitato lo scambio di informazioni tra agenzie governative e agenzie civili; organizzato e facilitato lo svolgimento di incontri periodici per favorire il dialogo e le relazioni tra i rappresentanti governativi, di UNAMA, le organizzazioni internazionali e i leader regionali. Ovviamente tutto ciò non esaurisce i compiti in quanto si stanno profilando all’orizzonte nuove sfide che riguardano aspetti ben individuati, principalmente, il programma SSR (Security Sector Reform). In dettaglio, si tratta di affrontare problematiche connesse con la governance nella accezione più ampia del termine, le attività contro la produzione e il traffico di droga, i programmi DDR (Disarmament, Demobilization, Reintegration), DIAG (Disbandment of Illegal Armed Group), ERW (Esplosive Remnants of War), l’addestramento dell’ANA (Afghan National Army) e dell’ANP (Afghan National Police) la riforma del settore giustizia (settore questo estremamente delicato e per il quale l’Italia è Nazione leader). Certamente, sarà necessario individuare degli aggiustamenti strutturali per disporre di quelle risorse specialistiche necessarie ad affrontare le nuove e diversificate problematiche. Risorse che non dovranno essere necessariamente tratte dalle Forze Armate ma potranno essere individuate anche tra specialisti civili. Infatti, il PRT per la sua natura di estrema snellezza e flessibilità ha dimostrato tutta la sua potenzialità quale strumento idoneo a essere impiegato nelle fasi di «ricostruzione» di quei Paesi che escono da un periodo di conflittualità e le cui condizioni generali di sicurezza non consentono l’intervento di attori civili senza alcuna forma di protezione attiva. Sarà, quindi, giocoforza avvalersi, per un tempo determinato, di una organizzazione che consenta di assicurare livelli di sicurezza e di condizioni di vita accettabili, indipendentemente dalla situazione locale, di capacità di comunicazione in grado di assicurare collegamenti con la madrepatria e con le agenzie presenti su tutto il territorio e condurre, contestualmente, attività relazionali e progettuali essenziali a premessa di attività di più ampio respiro. Amedeo Sperotto Colonnello, Capo Ufficio Pianificazione Generale e Finanziaria del Comando Forze Terrestri

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BRIGATE E REGGIMENTI


BRIGATE E REGGIMENTI Una proposta innovativa per migliorare la funzionalità L’eterogeneità strutturale delle attuali Brigate, la loro non sempre ottimale collocazione sul territorio nazionale e la diversificazione d’impiego delle forze dipendenti postulano un interessante quesito: In futuro converrà avvalersi dei soli reggimenti, la cui omogeneità è garanzia di efficienza e rispondenza ai compiti assegnati, o attribuire alle Brigate nuove funzioni operative?

Tutte le volte che si tratta della struttura ordinativa delle forze terrestri, della loro natura e dimensioni, si finisce per giungere a questo interrogativo: di quante Brigate deve essere composto l’Esercito? Sia che si parta da considerazioni di carattere strategico sia che si facciano attente valutazioni finanziarie, si arriva sempre allo stesso quesito e sulla risposta a esso si avviano dibattiti, si accendono discussioni, si formulano programmi e, soprattutto, si prendono decisioni. Le Brigate sono così divenute l’«unità di misura» dello strumento militare, o quanto meno della sua componente operativa in senso stretto, e a esse ci si riferisce quale parametro di valore obiettivo ed esattamente determinato. Un’analisi anche superficiale della realtà che le Brigate rappresentano ci mostra tuttavia che tale impostazione offre il fianco a non poche perplessità. Infatti molti sono gli elementi che differenziano una Brigata dall’altra in termini di dimensioni, di entità delle forze, di natura dei materiali, di costi, tanto che oggi si può ben dire, senza tema di errore, che nel nostro Esercito non ne esistono nemmeno due uguali fra loro. Per renderci conto della validità di questa affermazione occorre guardare qualche anno indietro per vedere come e perché sono nate le Brigate nella loro attuale accezione. Senza voler indagare sulle origini più remote del termine, è fuor di dubbio che nel XIX secolo e fino a tutto il primo conflitto mondiale le Brigate erano unità costituite da un numero vario di Reggimenti o battaglioni indipendenti – tutti della stessa Arma o Specialità – di massima inquadrate nel superiore livello divisionale con funzione di demoltiplicazione della linea di comando. La loro configurazione come piccole Divisioni, dotate organicamente di un’opportuna dosatura di Armi e Specialità diverse, è più recente e discende

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soprattutto dall’esigenza di assicurare con immediatezza il necessario supporto alle unità dell’Arma base senza passare per il tramite di comandi sovraordinati. Questa esigenza è tipica della guerra di movimento dei corazzati, condotta su spazi assai più ampi e in termini temporali assai più stringenti rispetto al passato, che ha caratterizzato gran parte della Seconda guerra mondiale. La formula ha trovato poi piena rispondenza anche nelle successive ipotesi di impiego in ambiente nucleare, che imponevano un maggior diradamento delle forze e di conseguenza un più accentuato decentramento dei supporti, sia tattici sia logistici. Si è così elaborato il modello 1959 NATO, che ha avuto graduale attuazione nei vari eserciti dell’Alleanza (ma non negli Stati Uniti) e che nel nostro Paese si è concretizzato con la ristrutturazione del 1975. Il modello definiva i tre tipi di Brigata che sono tuttora sostanzialmente in atto: la Brigata corazzata con prevalenza di unità carri, la Brigata meccanizzata con prevalenza, appunto, di meccanizzati rispetto ai carri e infine la Brigata «leggera» di fanteria, senza carri e con compiti particolari (nel nostro caso alpini o paracadutisti). La ristrutturazione prevedeva 24 Brigate, a fronte delle 36 unità equivalenti (raggruppamenti tattici) del precedente ordinamento fondato sul binomio Divisione-Reggimento. I successivi provvedimenti hanno poi portato, per l’evolversi del quadro politico-strategico e nel contempo per le crescenti difficoltà finanziarie, a progressive e sofferte riduzioni con il passaggio a 17, poi a 13 fino alle attuali 11 Grandi Unità. Ma la riduzione del numero manteneva salvo, almeno in teoria, il principio dei tre modelli di Brigata tipo, cui fare riferimento in termini di esigenze e soprattutto di costi. Infatti, in ambito interforze, mentre era relativa-


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mente semplice esprimersi in numero di navi e di aerei, appariva e tuttora risulta più complicato fare un elenco dei carri, delle blindo, dei missili, dei cannoni e così via, ritenuti necessari. Si è giunti così alla convenzione, o meglio all’abitudine, di misurare le forze terrestri in blocchi di Brigata, attribuendo a questi complessi di forze il valore simbolico di «unità di misura». Tutto ciò non trova però pieno riscontro nella realtà obiettiva, sia delle esigenze di impiego sia della generazione delle forze. Per quanto riguarda l’impiego, infatti, la Brigata 1959 NATO era stata concepita come raggruppamento tattico precostituito organicamente, da In apertura. Un reparto del 1° Reggimento «Granatieri di Sardegna» durante una cerimonia. Sotto. Alpini paracadutisti in addestramento in ambiente invernale.

considerare pedina fondamentale del combattimento, inquadrata nella Divisione o direttamente dipendente dal Corpo d’Armata. La sua struttura ordinativa prevedeva perciò in via permanente, come si è visto, tutti i supporti necessari per operare autonomamente senza richiedere continui rimaneggiamenti di forze in relazione al compito da assolvere. Tale esigenza è da considerare ancora immutata nelle operazioni combat, ma perde buona parte del suo significato nel peace keeping e nelle altre contingenze di vario tipo cui si è ormai sistematicamente chiamati a intervenire. In questi casi la struttura da adottare è estremamente variabile e la natura ed entità dei supporti è sostanzialmente diversa da quanto necessario in un combattimento, specie se ad alta intensità. Alcuni eserciti dell’Alleanza hanno fronteggiato questo decisivo stravolgimento dei classici canoni operativi e ordinativi dando vita a due differenti categorie di forze e, quindi, di Brigate: alcune, più

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pesanti, destinate all’impiego in operazioni tradizionali e altre più leggere, con supporti prevalentemente del genio e per l’informazione, anziché carri e artiglieria. Questa soluzione, secondo la quale le unità vengono «costituite e addestrate in relazione al compito da assolvere», appare senza dubbio razionale e coerente con il quadro di situazione del nostro tempo. Essa presenta tuttavia l’inconveniente di dover comunque prevedere, per il ridotto numero di unità che ormai caratterizza gli strumenti operativi, il ricorso a un travaso di forze dall’uno all’altro compito appena se ne verifichi la necessità. Ne consegue un certo contrasto fra la sostanziale rigidità, sia nell’organico delle Brigate sia nel loro addestramento, e l’esigenza di flessibilità che deriva dalla probabile e sensibilmente diversa destinazione alternativa cui potrebbero essere chiamate. Sussiste inoltre il rischio che le Brigate costituite solo con compiti di combattimento debbano attendere per tempi indefiniti, con le armi al piede, il verificarsi di poco probabili eventi, mentre le Grandi Unità dell’altra categoria sono costantemente impegnate, e anche pesantemente, nelle varie aree di crisi. Quale struttura attribuire poi a queste ultime per renderle abbastanza idonee ad affiancare le altre in caso di combattimenti più impegnativi? Per quanto riguarda poi la generazione delle forze, è da tener presente che, nelle ripetute trasformazioni che si sono dovute affrontare, il cambio di dipendenza, gli scioglimenti, gli accorpamenti e i trasferimenti sono stati drammaticamente influenzati dalle specifiche situazioni locali che devono rispondere a comprensibili istanze politico-sociali, dalla ineliminabile esigenza del rispetto dei valori storici e tradizionali, nonché dalle ben note limitazioni finanziarie che vincolano ogni scelta spesso più di qualsiasi altro parametro Questi condizionamenti sono la principale origine della citata eterogeneità strutturale delle nostre Brigate e della loro non sempre ottimale collocazione sul territorio nazionale. Ne è derivata una formula di compromesso che, fatti salvi tutti i vincoli sopra citati, rinvia l’adozione di una struttura ad hoc all’atto del verificarsi di ogni singola esigenza. Si è così ribaltato di fatto il concetto stesso di raggruppamento tattico precostituito stabilmente, che aveva ispirato la Brigata 1959, per tornare alla costituzione, di volta in volta, di task forces su misura. Alla luce di questa contraddizione fra l’idea di Brigata come pedina ordinativa e operativa di base standard e la realtà presente si pone così l’assunto delle presenti considerazioni. In sintesi, la concezione originale di Brigata co-

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me struttura organicamente e permanentemente predisposta, con un numero ben definito di Reggimenti di vario tipo alle dipendenze, nonché come parametro di valutazione in termini di uomini, di mezzi e di risorse, è da considerarsi ormai superata. Preso atto della necessità di disporre comunque di un elemento di riferimento per la definizione delle forze, risulta chiaro che le connotazioni di «misurabilità» richieste trovano tuttora piena rispondenza e validità nei Reggimenti, la cui solida omogeneità, non solo organica, ma anche in termini di sede, di infrastrutture, di tradizioni e di comando è istituzionalmente garanzia di efficienza e di piena rispondenza allo specifico compito per cui sono configurati. Per la loro struttura a carattere permanente, i Reggimenti – anzichè le Brigate – dovrebbero perciò essere una volta per tutte considerati pedine fondamentali della Forza Armata. Di essi è infatti certamente più efficace e rispondente tener conto nelle valutazioni riguardanti la natura e l’entità dello strumento nel suo insieme e nei dettagli, relativi alle singole esigenze in termini di ordinamento, di impiego e di costo. Le Brigate, a loro volta, dovrebbero essere naturalmente definite per quello che di fatto già sono e cioè semplicemente come comandi in grado di gestire un numero variabile di Reggimenti collegati fra loro per natura e dislocazione spaziale, con un indirizzo solo di massima riferito a una specifica funzione, di combattimento o no, e perciò non strettamente vincolato a rigidi e teorici schemi ordinativi. Il quesito abituale: «Quante Brigate?» dovrebbe perciò essere sostituito in tutte le circostanze con l’espressione: «Quanti Reggimenti?» essendo le prime a struttura variabile e i secondi a composizione fissa. È inoltre da tener presente che il notevole divario fra la struttura organica di base delle Brigate e la sempre diversa entità delle forze poste di volta in volta alle loro dipendenze nei vari teatri è dovuto non solo alle specifiche condizioni ed esigenze operative, ma anche alla ricorrente presenza di unità alleate da inserire nelle formazioni, nel quadro del più generale contesto joint-combined. Si pone così il problema della duplicità della funzione di comando che le Brigate impegnate in operazioni devono affrontare. Si tratta infatti di gestire, da una parte un complesso articolato e diversificato di forze impegnate in azione e dall’altra le unità rimaste in sede perché non necessarie alla task force operativa. La soluzione che normalmente scaturisce da questa particolare situazione si concreta nell’attribuzione al comando in operazioni di una considerevole entità di personale in rinforzo, comunque


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necessario per l’adeguamento alle esigenze di interfaccia nel contesto internazionale. Nel contempo l’organizzazione di comando in guarnigione, per poter continuare a funzionare, deve adottare misure di circostanza, spesso abbastanza rilevanti se si pensa che in non poche occasioni le forze in organico alla Brigata rimaste in sede sono più consistenti di quelle impegnate in Teatro. Tali provvedimenti sono ormai di routine per le Grandi Unità più frequentemente impegnate, ma hanno comunque sempre un carattere sostanzialmente empirico e spesso, comprensibilmente, precario. Sussiste inoltre il problema delle ineliminabili fasi di minor efficienza funzionale legate ai periodici avvicendamenti dei Comandi di Brigata in Teatro, che possono comunque presentare rischi o punti di debolezza. Di qui qualche ulteriore considerazione. Si potrebbe prevedere – a similitudine di quanto attuato nelle prime operazioni di pace, come in Libano e in Kurdistan, o di quanto è sostanzialmente configurato in Francia – la costituzione di comandi di proiezione ad hoc opportunamente predisposti per la condotta delle forze in Teatro e svincolati dalle Brigate, lasciando a queste ultime soltanto l’attività di addestramento, di gestione in guarnigione e di alimentazione. Questa formula ha il vantaggio di assicurare continuità alla condotta delle operazioni per tutta la durata dell’intervento, evitando i non sempre facili passaggi di consegne fra i Comandi di Brigata che, secondo l’attuale prassi, si succedono ogni circa sei mesi. È peraltro fuor di dubbio che la mancanza di amalgama preventiva fra un comando di questo tipo e tutti i Reggimenti ad esso assegnati all’insorgere dell’esigenza può accentuare le difficoltà di impostazione iniziale dell’operazione. Una specifica attività addestrativa da svolgere nei periodi di stand by in territorio nazionale potrebbe comunque attenuare questo inconveniente. In alternativa si potrebbero attribuire proprio alle Brigate le funzioni di comandi esclusivamente di proiezione, come già avviene ai livelli superiori, limitandone la struttura di base ai soli organi per l’esercizio di questo compito e ponendo nel contempo i Reggimenti alle dipendenze di altri comandi su base territoriale o raggruppandoli secondo la loro specifica configurazione o specializzazione. Questa formula, che vedrebbe di fatto scomparire la presenza delle Brigate nella loro ormai tradizionale configurazione sul territorio nazionale, rivitalizzerebbe gli Organi Territoriali e gli Ispettorati fortemente penalizzati dal riordinamento del 1997. Benché da tempo – sia pur sommessamente ipotizzata, tale inversione di tendenza potrebbe

comportare uno sforzo innovativo forse troppo oneroso in questa delicata fase evolutiva dello strumento terrestre. Un’ulteriore possibilità potrebbe essere poi rappresentata dalla costituzione in via permanente di organi di comando doppi in ambito Brigata, (secondo lo schema del «Comando di sostituzione» previsto nel passato, anche se per finalità assolutamente differenti). Analogamente d’interesse risulterebbe, infine, tornare a prevedere, in via permanente e a livello reggimentale, un organo destinato a gestire istituzionalmente la guarnigione, sia in situazioni normali sia all’atto dell’impiego fuori area, secondo criteri riconducibili ai Depositi di buona memoria. Ciascuna di queste ipotesi – e ve ne potrebbero essere anche altre – comporterebbe comunque ulteriori trasformazioni e rivolgimenti nel già sofferto tessuto dello strumento militare terrestre. Sembra tuttavia interessante averle enunciate perchè intese a dare risposta a istanze che obiettivamente si manifestano nella realtà di tutti i giorni e perché analoghi indirizzi nell’ambito dell’Alleanza potrebbero indurre a decisioni che è opportuno sottoporre a una certamente utile analisi preventiva. In conclusione, due punti fermi sembrano emergere dalle presenti considerazioni. Da una parte si configura l’opportunità di dare risposta al problema della contemporanea duplicità della funzione di comando, in sede e in operazioni, perchè le Brigate non vengono normalmente proiettate nella loro interezza nelle varie aree di intervento. Il pieno successo sul piano pratico che tutti i nostri contingenti hanno sempre conseguito in tante occasioni potrebbe indurre a non cercare ulteriori modifiche e innovazioni. Ma guardare avanti per ricercare soluzioni più razionalmente funzionali, e non affidate soprattutto alla buona volontà dei singoli operatori, potrebbe essere apportatore di nuovi brillanti risultati. D’altra parte – last but not least – appare stringente la necessità di fare chiarezza una volta per tutte sul termine Brigata, che abbiamo visto essere sensibilmente variabile e non adatto a essere assunto come «unità di misura» delle forze. Il trasferimento alle unità a livello Reggimento del concetto di «pedina di base» ne sarebbe logica e chiarificatrice conseguenza. Questa ultima precisazione, che risponde al quesito iniziale, non ha solo un valore formale e lessicale, ma appare invece di ricorrente e rilevante attualità per evitare malintesi, soprattutto in vista delle ulteriori ristrutturazioni che l’Esercito potrebbe essere chiamato ad affrontare nel futuro. Mario Buscemi Generale di Corpo d’Armata (aus.) Presidente dell’ARDE

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IL NETWORK CENTRIC WARFARE


IL NETWORK CENTRIC WARFARE Una soluzione idonea per gestire i conflitti La digitalizzazione dello spazio della manovra è stato riconosciuto come obiettivo prioritario e principio ispiratore del processo di trasformazione della NATO. In questo ambito, investimenti adeguati e ben focalizzati potrebbero consentire la realizzazione di una roadm map calibrata sulle esigenze nazionali, salvaguardandoci da una pericolosa dipendenza tecnologica e operativa con l’estero.

All’alba del terzo millennio la rapida evoluzione dello scenario geo-strategico scaturita, in particolare, a seguito dei noti eventi dell’11 settembre 2001, ha fatto registrare nella NATO una brusca accelerazione del processo di trasformazione, peraltro avviato dopo la caduta del muro di Berlino nel 1989. L’esigenza di contrapporsi a nuove minacce multiformi e multidirezionali, quali ad esempio il «terrorismo internazionale», nonché l’urgenza di disporre di forze militari e di organizzazioni di Comando e Controllo, capaci di fare fronte anche a conflitti di tipo asimmetrico, hanno innescato una vera e propria rivoluzione dei principi delle

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operazioni militari, determinando priorità diverse e domandando nuove capacità operative. I Patti di Praga impegnano i Paesi NATO, già a partire dal 2006, ad attivare una Forza di Reazione Rapida di nuova concezione. Allo stesso tempo

In apertura. Lagunari del Reggimento «Serenissima» durante un pattugliamento lungo l’Eufrate, in Iraq. Sotto. ll Network Centric Warfare, è la soluzione più idonea per la gestione dei conflitti, oggi più che mai dominati dalle tecnologie informatiche.


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NETWORK CENTRIIC WARFARE (NCW)

Tabella 1

L’emergente concetto di network centric warfare (NCW) scaturisce dall’applicazione delle moderne tecnologie informatiche (information technology - IT) e sarà reso possibile una volta che tutti gli elementi della forza (sensori, decisori e erogatori di effetti) saranno efficacemente collegati in rete, consentendo di accrescere: • gli attributi globali della forza: proiettabilità (1), letalità (2), manovrabilità (3), sopravvivenza (4), abilità di produrre uno shock (5) e sostenibilità (6). • le caratteristiche operative delle unità intese come grado di contribuzione agli attributi globali della forza. • le caratteristiche particolari dei suoi sistemi d’arma: trasportabilità (7), mobilità (8), potenza di fuoco (9), protezione (10), stealthness (11) e autonomia (12). (1) Abilità di trasferire rapidamente sistemi, personale, unità, rifornimenti ed equipaggiamenti da e verso un teatro di operazioni e di sostenerli logisticamente attraverso un idoneo dispositivo logistico. (2) Abilità di neutralizzare o distruggere forze avversarie. (3) Abilità di muovere efficacemente sistemi d’arma, personale e rifornimenti all’interno di un teatro di operazioni. (4) Abilità di evitare perdite di personale e materiali, di conservare la loro funzionalità e mantenere la coerenza organizzativa iniziale durante la condotta di operazioni e soprattutto durante operazioni di alta intensità. (5) Abilità di concentrare la potenza di fuoco e sfruttare le opportunità risultanti dalla sorpresa, dal ritardo, dalla disarticolazione e dalla demoralizzazione delle forze dell’avversario. (6) Capacità di sostenere lo sforzo nel tempo mediante la disponibilità di forze/assetti per la sostituzione/rotazione di quelli impiegati in teatro e di assetti/risorse per il sostegno logistico. (7) Velocità e facilità con la quale ogni sistema può essere trasportato verso e da un teatro di operazioni ad un altro. (8) Abilità di un sistema di muoversi efficacemente sul terreno nell’ambito dell’area di operazioni. (9) Abilità di un sistema di distruggere o danneggiare sistemi avversari in combattimento. (10) Abilità di un sistema di evitare di essere distrutto o danneggiato da fuoco avversario, attraverso la riduzione della probabilità di essere colpito una volta fatto oggetto dell’azione di fuoco dell’avversario e la limitazione del danno qualora questo venga colpito. (11) Abilità di un sistema di evitare di essere ingaggiato attraverso la riduzione della probabilità di essere individuato, riconosciuto, seguito e acquisito come obiettivo da sistemi avversari. (12) Periodo di tempo nel quale un sistema non è dipendente da intervento manutentivo, da rifornimenti o altri servizi per il funzionamento delle sue funzioni essenziali durante l’azione di combattimento.

l’applicazione alle operazioni militari dei concetti di Information Superiority (IS) e di Network Centric Warfare/Network Enabled Capability (NCW/NEC - tabella 1) è stata riconosciuta come obiettivo prioritario e principio ispiratore della trasformazione dell’Alleanza. A tal proposito giova ricordare che è stato costituito il Comando per la Trasformazione della NATO (SACT - Supreme Allied Command for Transformation) riconfigurando il precedente HQ SACLANT (Headquarter Supreme Allied Commander Atlantic). La creazione del SACT rappresenta una svolta epocale anche in considerazione del fatto che sono già operanti organizzazioni trasversali denominate «Permanent Integrated Project Teams (IPTs)» con il compito di coordinare tutte le attività e di correlarsi con le altre organizzazioni e agenzie della NATO. Gli IPTs, in particolare, devono assicurare lo sviluppo armonico, nel più ampio programma NATO di trasformazione, di tutte le aree ritenute fondamentali: Dottrina, Organizzazione, Training, Materiali, Leadership, Personale, Infrastrutture e Interoperabilità. Al riguardo, l’IPT, che studia l’applicazione dei concetti NCW-NEC, ha già avviato la sua attività assumendo subito il ruolo di interfaccia tra l’Alleanza e il Consorzio Industriale Mondiale denominato NCOIC (Network

Centric Operations International Consortium). Tale consorzio riunisce le 27 maggiori industrie mondiali della difesa tra le quali anche l’italiana Finmeccanica. La presenza di industrie italiane è altamente significativa per il prezioso apporto di conoscenza ai fini della definizione di una architettura NCW della difesa italiana, oggetto dello studio nazionale che è stato appena avviato, proprio con industrie dell’area Finmeccanica e con il supporto di importanti industrie statunitensi. Convinti di aver creato le basi concettuali della nuova/futura dottrina e supportati da una evidente superiorità tecnologica, gli Stati Uniti stanno ponendo in essere una doppia strategia, una sul piano politico-militare e l’altra sul piano politicoindustriale, volta a persuadere, in particolare, i Paesi cosiddetti amici e/o alleati sulla necessità di implementare i concetti NCW/NEC. Lo studio di fattibilità NATO-NEC dovrebbe terminare entro la fine del 2005. Inoltre, a livello europeo, un gruppo di nazioni (Francia, Germania, Italia, Spagna, Svezia e Gran Bretagna) firmatarie di una LOI (Letter Of Intent) studierà alcuni aspetti peculiari della nuova capacità, quali quelli della sperimentazione operativa, simulazione e valutazione.

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IL CONTESTO NCW/NEC Gli Stati Uniti hanno intrapreso una marcia a tappe forzate verso una difesa riconcepita in aderenza ai nuovi principi, investendo enormi risorse finanziarie nel settore C4ISR (Command, Control, Communications, Computer applications, Intelligence processing, Surveillance, Reconnaissance). La maggior parte dei Paesi industrializzati va prendendo coscienza della nuova realtà emergente nella gestione delle operazioni militari. L’introduzione del modello NCW/NEC nell’ambito della difesa italiana comporterà: • l’elaborazione di nuovi modelli organizzativi che avranno grande influenza sulle strutture di comando, sulla formazione e sull’addestramento del personale; • la definizione di nuovi requisiti per i sistemi informatizzati e per la struttura della rete informativa della difesa; • la definizione di un processo di transizione verso il cambiamento. La trasformazione verso il nuovo modello deve tenere conto della effettiva progressiva maturazione dei nuovi concetti, favorendo una introduzione graduale e iterativa delle soluzioni (dopo adeguata sperimentazione), avendo cura di non penalizzare le attuali capacità. In merito andrà individuato un giusto equilibrio fra la necessità di continuare a procedere nell’ammodernamento, già in corso o in acquisizione, della dotazione delle Forze Armate e il bisogno di gestire le implicazioni e il cambiamento che comportano l’introduzione degli emergenti concetti NCW/NEC. Nella totalità degli attuali scenari di possibile impiego la componente terrestre dello strumento militare nazionale è, e rimarrà in futuro, elemento indispensabile in una situazione di crisi o conflittuale. Infatti, peculiari rimarranno le sue capacità di ripristinare legittime situazioni di sovranità e di pacifica convivenza di popolazioni, sia attraverso operazioni di combattimento terrestre risolutive per la liberazione di territori occupati sia attraverso il controllo prolungato e diretto delle aree di crisi. A tale scopo, l’Esercito dovrà rimanere efficace su tutto lo spettro dei conflitti dalle Crisis Response Operations (CRO) alle operazioni ad alta intensità (NATO art. 5) e offrire alla Nazione la garanzia di una valida risposta alle nuove minacce emergenti dal nuovo contesto geo-strategico, soprattutto quale parte di un più ampio dispositivo interforze e internazionale. La futura Forza Integrata Terrestre sarà, quindi, «ottimizzata» per essere impiegata in ogni tipo di operazione e al tempo stesso idonea a schierare, in conflitti ad alta intensità, le proprie unità con tempestività nelle principali aree di interesse stra-

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tegico nazionale e a operare in qualsiasi tipo di ambiente naturale, iniziando, se necessario, in tempi ridotti le operazioni di combattimento al fine di neutralizzare sul nascere le strategie avversarie più probabili. STUDIO N CW N AZIONALE C OMMISSIONATO D A SEGREDIFESA La Direzione Generale delle Telecomunicazioni, dell’Informatica e delle Tecnologie Avanzate (TELEDIFE) ha stipulato, a suo tempo, un contratto con il Consorzio C3I (composto da Selenia Communications e Alenia Marconi Systems - oggi rispettivament Selex Comunications e Selex Sistemi Integrati) che su mandato di Finmeccanica, realizzerà uno studio architetturale con i seguenti requisiti (richiamati dal Capitolato Tecnico e Specifica Operativa presentata dal Consorzio nella scheda): • analisi delle risorse informatiche e di comunicazione della Difesa con focus su interoperabilità; • proposte adeguamento risorse (sistemi di Comunicazione/C2); • architettura di riferimento per la transizione verso NCO; • analisi aspetti organizzativi (Difesa/Industria); • possibili applicazioni per esigenze di altre organizzazioni governative (per esempio quelle per le Forze di Polizia). Lo studio si sviluppa su un arco temporale di 18 mesi (gennaio 2005-giugno 2006) e si articola su cinque task (lotti - vedasi tabella 2 a lato). Le attività relative ai due obiettivi principali, «Analisi scenario attuale e suo adeguamento» e «Definizione Scenario Futuro», si svolgono in parallelo per garantire la convergenza delle proposte. Il Team di progetto industriale opererà in stretto coordinamento con la Direzione di Programma diretta dal Capo Reparto TEI dello Stato Maggiore della Difesa. Durante l’esecuzione contrattuale saranno presentati rapporti periodici di avanzamento dello studio. In sintesi, sarà condotto uno studio analitico delle attuali risorse disponibili in termini di reti di comunicazione e di sistemi di Comando e Controllo, centri decisionali, sensori e attuatori. I risultati di tale studio saranno utilizzati per decidere quali sistemi dovranno migrare verso una capacità NCW/NEC, fondando la decisione sulla base di considerazioni legate alla vita operativa residua e al rapporto costo/efficacia. L’esercizio contemporaneo della definizione di una architettura generale nelle sue canoniche componenti di un «sistema dei sistemi» che implementi nel suo sviluppo i concetti NCW/NEC,


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STUDIO NCW NAZIONALE

Tabella 2

Scenario Attuale e Adeguamento - TASK 1 (lotto 1) Il Task 1 effettua l’analisi dello scenario attuale relativo a reti, sistemi C2, sensori e attuatori tramite: • Identificazione e selezione in base a prospettive d’impiego NCW; • Analisi e caratterizzazione tecnico-sistemistica; • Caratterizzazione operativo-funzionale di sensori ed attuatori ed analisi focalizzata sull’integrazione delle informazioni; • Definizione di uno scenario d’interoperabilità complessivo di riferimento e delle criticità esistenti. Scenario Attuale e Adeguamento - TASK 2 (lotto 2) Il Task 2 ha l’obiettivo di definire un percorso evolutivo delle reti e dei sistemi di comunicazione esistenti o in corso di realizzazione tramite: • Identificazione ed analisi degli elementi necessari per ottimizzare l’interoperabilità in ottica NCW (linee guida dal Task 4); • Approfondimenti sugli aspetti di sicurezza (Infosec/Comsec/Transec); • Definizione preliminare di proposte tecnico/economiche di adeguamento delle reti infrastrutturali e tattiche; • Caratteristiche tecniche dei sistemi di comunicazione di prossima generazione. Scenario Attuale e Adeguamento - TASK 3 (lotto 3) Il Task 3 ha l’obiettivo di definire un percorso evolutivo dei sistemi di Comando e Controllo esistenti o in corso di realizzazione tramite: • Identificazione ed analisi degli elementi necessari per ottimizzare l’interoperabilità delle applicazioni in ottica NCW (linee guida T4). • Approfondimenti sulle nuove tecnologie per la gestione delle informazioni. • Definizione preliminare di proposte tecnico/economiche di adeguamento sistemi. • Caratteristiche tecniche delle applicazioni Sw di prossima generazione. Scenario Futuro - TASK 4 (lotto 4) Il Task 4 definisce l’architettura NCW di riferimento e prevede: • Analisi di concetti, studi e programmi AD. • Analisi di concetti, studi e programmi NATO/USA/UE. • Valutazione e analisi delle tecnologie di riferimento e loro trend evolutivi. • Definizione scenari futuri in termini operativi (in accordo con AD). • Valutazione di modelli architetturale. • Piano di sviluppo per un’architettura prototipale e valutazione economica di massima. • Linee guida sugli assetti organizzativi Difesa-Industria. Scenario Futuro - TASK 5 (lotto 5 - opzionale) È un lotto aperto prevalentemente per il supporto di Società statunitensi relativo a specifiche attività tecniche e/o di simulazione. Le attivazioni di tali supporti opzionali saranno oggetto di proposte da parte del Consorzio e soggette ad approvazione da parte della AD.

avviato in stretto coordinamento con l’industria, che si avvarrà della preziosa esperienza di primarie aziende statunitensi (prevista come impegno contrattuale), contribuirà a dare alla difesa italiana una chiara visione degli sviluppi da intraprendere nel settore C4ISR e contribuirà a chiarire l’incidenza che la nuova capacità avrà sulla Dottrina, Procedure, Organizzazione, Addestramento. IL PROGRAMMA «DIGITALIZZAZIONE DELLO SPAZIO DELLA MANOVRA» L’Esercito, nell’ambito della rivoluzione introdotta dalla digitalizzazione e dal concetto di guerra retecentrica, ha avviato il programma di «Digitalizzazione dello spazio della manovra», che intende portare la Forza Armata a godere dei benefici introdotti dall’impiego delle tecnologie digitali, tenendo conto delle risorse a disposizione e

dei compiti assegnati. La digitalizzazione dell’Esercito si pone due obiettivi fondamentali: • incrementare le capacità operative in essere mediante una continua e progressiva integrazione delle nuove potenzialità acquisite con quelle esistenti; • acquisire le capacità per operare con successo nei futuri scenari operativi, insieme alle altre Forze Armate e ai propri Alleati. Si tratta di obiettivi ambiziosi, che generano numerose e impegnative sfide in tutti i settori e richiedono l’armonico sviluppo di nuovi programmi e la progressiva integrazione e sostituzione dei vecchi sistemi. Il programma di «Digitalizzazione dello spazio della manovra» definirà lo sviluppo tecnologico del futuro Esercito Digitale e guiderà la realizzazione delle interfacce, dei materiali e delle fun-

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zionalità necessarie per realizzare i concetti precedentemente citati (Network Centric, Information Superiority) e abilitare l’interoperabilità con le altre Forze nell’ambito delle future coalizioni internazionali. Esso prevede la realizzazione di un sistema nervoso, adattabile alla manovra e alla specifica operazione, che renda sinergicamente disponibili tutte le risorse schierate, in modo da poter agire con la stessa efficacia, precisione e tempestività, sia in campagna sia nei ridotti spazi urbani. Tale sistema nervoso sarà realizzato per mezzo di una rete che collegherà i vari elementi, le unità, i sistemi d’arma, i veicoli, i soldati. L’architettura di Comando e Controllo dell’intero sistema sarà strutturata su due livelli. Il primo livello, assimilabile al midollo spinale, sarà costituito dal SIACCON (Sistema Automatizzato di Comando e CONtrollo dell’Esercito), che dovrà soddisfare le esigenze di Comando e Controllo delle operazioni a livello strategico-operativo equipaggiando le unità sino al livello di Reggimento/battaglione Inoltre, il programma SIACCON 2a Fase, attualmente in corso, fornirà il core dei cosiddetti «servizi della digitalizzazione», che saranno comuni a tutti ed estesi a tutti i livelli ordinativi. Dal SIACCON dovranno diramarsi una serie di «terminazioni nervose», che costituiranno il secondo livello della struttura di Comando e Controllo, per collegare il resto della struttura ordinativa (battaglione, compagnia, plotone, squadra e singolo soldato). Questo secondo livello sarà realizzato dal SIstema di Co-

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mando COntrollo e NAvigazione (SICCONA), derivato dal SIACCON, che verrà installato sui mezzi da combattimento e sul più elevato numero di piattaforme e sistemi d’arma (in alto l’istallazione su blindo pesante «Centauro»). Su questa struttura nervosa viaggeranno le informazioni e i dati relativi a tutte le funzioni operative, in modo flessibile, rapido e riconfigurabile, in conformità al concetto di guerra retecentrica, alle caratteristiche dei materiali, dei protocolli internet e degli standard NATO. IL RUOLO DELLA SIMULAZIONE E I BENEFICI SULLA LOGISTICA E SULLE ATTIVITÀ DI ESPLORAZIONE E SORVEGLIANZA La sperimentazione e la validazione degli apparati e dei protocolli sviluppati dalla «digitalizzazione» potrà essere effettuata tramite l’impiego della Simulazione, nelle sue possibili categorie: • costruttiva (Constructive), che coinvolgono personaggi simulati operanti con sistemi simulati. Personaggi reali forniscono gli input a questi simulatori, ma non sono coinvolti nella determinazione delle risposte; • virtuale (Virtual), che coinvolge persone reali che operano su sistemi simulate. Tipici esempi di tale tipo di simulazione sono gli addestratori di pilotaggio e tutti quei sistemi che consentono a un operatore di interagire con un ambiente simulato (Synthetic environment) e/o con altri simulatori nell’ambito di un comune ambiente simulato;


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• dal vivo (live), in cui soldati e sistemi reali interagiscono all’interno di una struttura di esercitazione (poligono), chiamata «Centro di addestramento al combattimento» (Combat Training Center), che permette la registrazione dei risultati delle azioni di tutti gli «attori», per consentire la successiva revisione (After action review) ai fini della valutazione e validazione. Le tecniche informatiche e di realtà virtuale potranno essere efficacemente impiegate nella simulazione di situazioni operative, per migliorare la preparazione delle unità e dei Comandanti attraverso un addestramento sempre più vicino alla realtà. Sarà possibile organizzare esercitazioni tra unità a partiti contrapposti, simulando il tiro di artiglieria con laser simulatori di duello, impiegando gli stessi apparati digitali previsti per le attività reali (V/si schema in alto), in modo da realizzare il concetto di «combatti come sei stato addestrato e addestrati come dovrai combattere» (fight as you train, train as you fight). I benefici della «digitalizzazione» riguarderanno anche la logistica, che potrà essere più mirata e tempestiva, usufruendo delle informazioni sullo stato delle piattaforme e dei sistemi d’arma in servizio, rilevate dai sistemi digitali in dotazione. Anche la movimentazione dei carichi e dei materiali potrà essere semplificata con la classificazione e rilevazione automatica dei container. Le attività di Sorveglianza ed Esplorazione trarranno indubbi benefici dall’impiego di sensori digitali a elevate prestazioni, interconnessi tra loro

in tempo reale. Ciò aumenterà la capacità sensoriale complessiva dell’intero strumento militare. Sarà un pò come dotare i sensi del corpo umano di sistemi per la contemporanea amplificazione dell’udito, della vista e delle capacità olfattive e tattili. Ovviamente, l’efficacia finale sarà proporzionale alla corretta e armonica espansione della digitalizzazione, intesa come integrazione di tutte le risorse schierate in terra, in cielo e in mare in aggregazioni di forze multinazionali. La tecnologia dovrà consentire la realizzazione di un ambiente «omogeneo», in grado di fornire una serie di «servizi della digitalizzazione», comuni per tutte le piattaforme (cartografia, messaggistica, simbologia, comunicazioni, database, sistema operativo). Non sarà più necessario compilare messaggi diversi a seconda del sistema che si sta impiegando, né ci si dovrà più interessare a individuare il simbolo giusto per rappresentare un ostacolo o una qualsiasi unità. Sarà garantita la compatibilità tra le mappe geografiche impiegate da tutti e non ci si dovrà più preoccupare di sintonizzare la radio o di selezionare il canale e la modulazione corretta. Il SICCONA e la «digitalizzazione» renderanno queste e altre funzionalità di routine trasparenti all’utente, in modo che egli possa concentrarsi sul suo compito. L’hardware, il software, i protocolli di comunicazione e i programmi di rappresentazione e videoscrittura terranno conto dei prodotti commerciali per ridurre i tempi di addestramento del per-

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sonale, normalmente già familiare con tali prodotti e per assicurare il costante aggiornamento, in fase con l’evoluzione naturale del mercato. DALLA DIGITALIZZAZIONE AL FUTURO SISTEMA DI COMBATTIMENTO Le direttrici principali lungo le quali far evolvere la pianificazione delle capacità operative delle future Brigate Integrate Terrestri (BIT) possono essere così enunciate: • realizzare una stretta e costante collaborazione tra l’Amministrazione della Difesa e le industrie del settore, come avviene in particolare negli Stati Uniti, pena il rischio, nel prossimo futuro, di rimanere emarginati nei confronti degli altri partner e, quindi, l’esigenza di impostare una nuova strategia che consenta di seguire il «trend» degli altri Paesi più avanzati; • progredire, passo dopo passo, partendo dalle realtà tecnologiche esistenti; • avviare uno sviluppo che sia coerente con i vincoli di natura finanziaria; • costituire una solida base di partenza per un processo di pianificazione di lungo termine di una componente terrestre con spiccate attitudini «joint», «multinazionali» e «retecentriche». Nel periodo 2005-2009 andranno elaborati i documenti concettuali (Esigenze Operative, Requisiti Operativi Preliminari, Requisiti Operativi Definitivi, Requisiti Militari) necessari all’avvio delle discendenti attività amministrative e organizzative, in stretta osmosi con l’industria. In particolare, saranno elaborati documenti in bozza iniziale per la fase finale di produzione documenti esecutivi per la prima fase, di dimostrazione tecnologica (piano di ricerca tecnologica, piano di introduzione della tecnologia futura sulle piattaforme in servizio per la sperimentazione, requisiti di sperimentazione, organizzazione per la sperimentazione, risorse, strutture, ecc.). In tale fase saranno predisposte anche le varianti al quadro normativo prevedendo, possibilmente, un’unica Direzione Generale referente e la finanziabilità con fondi MAP (Ministero delle Attività Produttive), con un coinvolgimento diretto dello stesso nelle attività di proprio interesse (in passato sono stati chiesti fondi per la ricerca, ma solo per programmi minori a breve termine o laddove esisteva una esigenza da dover fronteggiare urgentemente delle situazioni connesse con i tagli ai finanziamenti). Nel periodo 2010-2015 prevedere la realizzazione di un «prototipo» di unità digitalizzata a livello Reggimento (limitatamente alle funzioni Combat) «network centric», la cui sperimentazione dovrà portare a una prima definizione della

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dottrina d’impiego, della logistica e alla normativa per la formazione del personale. In tale fase le piattaforme dovrebbero essere derivate da quelle in servizio, con l’inserimento progressivo delle nuove tecnologie, tenendo sempre a riferimento gli obiettivi finali. Nel periodo 2016-2020 sarà realizzato un secondo prototipo, comprensivo delle funzioni CS (Combat Support) e CSS (Combat Service Support), in possesso di una avanzata architettura di Comando e Controllo (C2) e «retecentrico», a livello interforze, basato su piattaforme pressoché definitive per il successivo avvio della produzione, previa sperimentazione tecnica e operativa. In sintesi, ci si propone di: rappresentare la cornice concettuale nel cui ambito sviluppare le capacità delle future grandi unità di manovra principali dell’Esercito Italiano, in grado di condurre operazioni complesse in uno spazio della battaglia digitalizzato, network based, e perfettamente integrato in un contesto joint e multinazionale. Fornire indicazioni per formulare criteri generali per il futuro bilanciamento strutturale dell’intera componente terrestre; offrire al settore nazionale dalle industrie della difesa un chiaro e sintetico quadro di riferimento concettuale, operativo e tecnologico ai fini del corretto orientamento e connotazione dei vari programmi di sviluppo a supporto della trasformazione della Forza Armata in tutte le sue componenti costitutive, con particolare riguardo alle capacità operative delle future Brigate medie polivalenti. In generale, il quadro complessivo post 2020, nel quale l’Esercito Italiano potrebbe essere chiamato a operare, può, in sintesi, essere riassunto nei seguenti tre punti: • indeterminatezza e poliedricità degli ambienti operativi, nei quali l’estrema sofisticazione degli armamenti e il ritmo delle operazioni richiederanno ai Comandanti di associare ad una eccezionale capacità di adattamento alle più diverse condizioni dei teatri di operazione una uguale capacità di gestire i tempi serrati delle varie azioni da condurre; • piena maturità delle tecnologie informatiche, soprattutto in termini di interconnessione delle reti di trasmissione e di elaborazione e diffusione delle informazioni; • spinta integrazione tra le varie componenti del «sistema nazione» (militare, culturale, industriale, ecc.), quale naturale e massima evoluzione di quella joint e multinazionale. Per la maggior parte dei programmi interessati dalla pianificazione degli investimenti nel prossimo quinquennio dovrà essere assicurato uno sviluppo sostanzialmente teso ad abilitare i concetti di «network centric warfare», con particolare riguardo ai programmi già in itinere o a essi correlati in chiave


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Sistema RSTA Riconoscimento - Sorveglianza - Acquisizione obbiettivi

evolutiva, quali: il SIACCON 2a Fase, il SICCONA, il sistema RSTA (in figura) e il sistema «Soldato futuro», che consentiranno di realizzare un ambiente digitalizzato comune, strutturato secondo i protocolli e le tecnologie internet (web services). In pratica, un vero e proprio processo di convergenza tecnologica graduale e «spiralizzata», che, con il progressivo concretizzarsi delle opportunità derivanti dalla digitalizzazione, renderà necessarie – nel medio-lungo termine – scelte che avranno un impatto su tutti i campi dell’organizzazione militare. CONCLUSIONI Il rapido sviluppo della tecnologia e l’affermarsi di nuovi scenari di impiego operativo rendono sempre più necessario adeguare continuamente le metodologie, le tecnologie e i requisiti di sviluppo dei sistemi per la difesa. Occorre, inoltre, considerare la peculiarità del mercato di tali sistemi, dove tutte le nazioni avanzate hanno proprie industrie esperte nel settore, in grado di adattare e ritagliare soluzioni sulle esigenze dell’utente nazionale. Un sfida complessa contraddistinta dal graduale passaggio da una polivalenza strutturale della forza terrestre (la necessaria flessibilità oggi realizzata sia attraverso l’armonico bilanciamento delle componenti operative – leggere, medie e pesanti – sia attraverso il ricorso ai principi della task organization) a una polivalenza capacitiva in-

trinseca alle componenti operative stesse e discendente dalla natura dei sistemi d’arma, delle piattaforme, delle strutture e, soprattutto, dalla loro capacità di fronteggiare la più ampia gamma possibile di operazioni. Investimenti appropriati nelle tecnologie «trasversali» a tutti i sistemi potranno non solo aumentare l’efficienza della risposta industriale nei confronti delle esigenze nazionali, ma anche, mantenendo un livello tecnologico innovativo e d’avanguardia, permettere all’industria nazionale di concorrere ancora più efficacemente sui mercati esteri. Una particolare accelerazione in termini di ricerca e sviluppo appare necessaria per affrontare, da primi attori in ambito mondiale, il tema del Network Centric Warfare, concetto potenzialmente rivoluzionario non solo per i sistemi C4I ma per la complessiva organizzazione, funzionamento e dotazione delle Forze Armate. In quest’ambito, investimenti adeguati e ben focalizzati potrebbero consentire di definire e attuare una roadmap calibrata sulle vere esigenze, caratteristiche e capacità nazionali, salvaguardandoci da una pericolosa dipendenza tecnologica e operativa con l’estero. Solo percorrendo questa roadmap si potranno definire, sviluppare e raccogliere frutti prevedibilmente assai importanti in termini di innovazione tecnologica e di benefici operativi in tutti i domini dello spazio di manovra. Donato D’Ambrosio Colonnello, Capo Ufficio Tecnologie Avanzate dello Stato Maggiore dell’Esercito

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WIRELESS OPERATIONAL TEST BED


WIRELESS OPERA ATIONA AL TEST BED L’obiettivo è migliorare la ricerca e lo sviluppo delle comunicazioni militari La Scuola delle Trasmissioni e Informatica dell’Esercito ha avviato un progetto teso a implementare e gestire, nel futuro battlesspace, un sistema di comunicazione e informazione articolato su componenti civili e militari.

L’esigenza di aumentare l’efficacia dell’azione di Comando e Controllo al fine di acquisire la superiorità dell’informazione sull’avversario, è subordinata alla disponibilità di sistemi di comunicazione e gestione delle informazioni adeguati a supportare la capacità di connettere in un’unica rete tutti i sistemi schierati in operazioni. Questa rete dovrà assicurare non solo la connettività tra i Comandi, ma anche il supporto dei servizi richiesti dai sensori e dai sistemi d’arma di nuova generazione che sempre più massivamente verranno schierati nello spazio della manovra. Il progetto Wireless Operational Test Bed (WOTB) nasce, in questa ottica, nel 2003 presso la Scuola delle Trasmissioni e Informatica dell’Esercito; in aprile dello stesso anno viene redatto il primo documento di progetto con il titolo «Wireless Brigade» studio per lo sviluppo e l’integrazione di una piattaforma sperimentale di comunicazioni militari con materiali Commercial Off The Shelf (COTS) (1). Nei 13 mesi successivi il progetto viene presentato all’Ufficio Tecnologie Avanzate dello Stato Maggiore dell’Esercito che lo approva nel quadro della «Digitalizzazione del campo di battaglia» e lo inserisce tra i progetti da finanziare a cura dell’Ufficio del Segretario Generale della Difesa. In questo periodo di tempo viene consolidato lo spiral approach, cioè il metodo di avvicinamento alla soluzione per obiettivi successivi, tipico della attività di ricerca e sviluppo, e con un confronto serrato tra l’Ufficio Tecnologie Avanzate e la Scuola delle Trasmissioni e Informatica il progetto viene ottimizzato adeguandone l’aderenza alla specificità militare. Il progetto WOTB, al termine di questo processo, si alliIn apertura.

Approntamento operativo di un UAV «POINTER» in tearo operativo iracheno.

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nea ai concetti della «Forza Integrata Terrestre (FIT) 2025» e, in senso più largo, ai principi fondanti del Network Centric Warfare/Nato Network Enabled Capability – NCW (2)/NNEC (3) – della NATO. Nel settembre 2005 il progetto ha ricevuto il primo finanziamento dalla Difesa. Entrando più nello specifico, gli scopi del progetto Wireless Operational Test Bed sono i seguenti: • la ricerca e il test bed di tecnologie civili di comunicazioni, sia operative, sia sperimentali, per valutare possibili applicazioni alle realtà del futuro battlespace. • la sperimentazione di piattaforme di comunicazioni, articolate su materiali Off-the-shelf IP, che possano essere fattivamente impiegate e/o integrate in ambito operativo; • la verifica della possibilità d’impiego della comunicazione dati, della telefonia Voice over IP (VoIP) (4) e del video IP in modo integrato, applicando il principio del Plug-in all cioè «connetti (alla rete) qualsiasi cosa» e, per ultimo, l’analisi di eventuali problemi di interoperabilità e proposte di soluzioni. In buona sostanza, la missione è quella di sviluppare un’organizzazione permanente allo scopo di mantenere nel tempo la cultura delle comunicazioni e di renderla disponibile nelle attività di ricerca, di studio e di acquisizione materiali. Questi scopi sono perseguibili seguendo due linee guida. La prima è quella di sviluppare un laboratorio «terreno di incontro permanente» tra industria, centri di ricerca e Forze Armate. La seconda verte sull’implementazione di un sistema embrionale di Communications and Information System (CIS) allo scopo di valutare le possibilità d’impiego delle più recenti tecnologie e dei relativi sistemi COTS IP in teatro operativo. È comunque essenziale sottolineare che il progetto


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WOTB non mira a produrre «il sistema di comunicazioni», panacea di tutti i problemi operativi ed economici, tutt’altro. In realtà, l’obiettivo è testare la possibilità di progettare, implementare e gestire nel futuro battlespace un CIS, articolato su componenti miste, civili e militari, comunque IP compliant. D’altronde Internet è la rete IP per antonomasia che, in quanto concepita per esigenze militari, ha per costituzione caratteristiche peculiari quali la semplicità di gestione, la flessibilità e l’elevata sopravvivenza.

Fig. 1

IL QUADRO DI RIFERIMENTO Il quadro di riferimento per il WOTB si fonda sull’asservimento a una «forza retecentrica», cioè su una forza che basa la sua operatività sulla «capacità di condividere e scambiare informazioni fra i suoi elementi distribuiti geograficamente». Si perseguono pertanto due linee guida, comunque già insite nelle tecnologie, e cioè che i componenti, a qualunque titolo operativi in rete, siano IP compliant e che la rete fornisca potenzialità di traffico idonee alle comunicazioni più impegnative (video, audio, transazioni real-time, ecc.). Banalizzando il concetto, il principio conduttore è lo studio della rete che, con qualsiasi mezzo disponibile al momento, possa fornire la connettività richiesta. Il quadro di riferimento dottrinale del test bed sarà quello in cui sia sempre possibile l’applicazione dei concetti operativi relativi alle forze operative e che consenta l’applicazione dei concetti dottrinali tipici dei sistemi informatici e di comunicazioni (CIS) in operazioni. Presumibilmente i futuri battlespace richiederanno reti di comunicazioni con caratteristiche ad oggi inesprimibili anche dalle più avanzate piattaforme o tecnologie commerciali, come: • la capacità di collegamento di gruppi (clusters) isolati articolati in uomini e mezzi, connessi tra loro, con il Comando sovraordinato e con le unità contermini. Il loro impiego in zona sarà temporalmente limitato, ma il carico utile d’informazioni (payload) trasportate sulla rete sarà rilevante essendo composto da voce, video e traffico transazionale. Tutto ciò dovrà essere replicato in uno scenario complessivo a «macchia di leopardo», caratterizzato da un’elevata dinamicità intrinseca; • l’elevata attitudine ai collegamenti in centro urbano, scenario tecnicamente molto difficoltoso. La problematicità si acuisce nel caso in cui non vi sia il totale controllo del territorio che consenta di installare nodi semipermanenti; • l’elevata flessibilità e capacità dei sistemi di comunicazione di supportare la sensoristica e la dinamicità, ad esempio, degli Unmanned Aerial Vehicle (UAV) e Unmanned Ground Vehicle (UGV)

(figura 1). Questi complessi, operando singolarmente o in gruppo e in zona non controllata, permetteranno il controllo del territorio minimizzando il dispiegamento di uomini; • l’assenza di Centri Nodali; • un unico protocollo di instradamento operativo sui molteplici media (radio, satellite, ecc.). LE COMUNICAZIONI Per ottimizzare il test bed del progetto WOTB sono implementati, in forma embrionale, anche alcuni elementi tipici che si servono della rete di comunicazioni per inviare le informazioni come il complesso per Target Acquisition, i complessi di videosorveglianza campale o la wearable-cam dell’assaltatore; ciò al fine di simulare l’alta densità di «nodi», cioè di uomini, mezzi e sensori, componenti il CIS. Altro punto cardine è dato dall’impiego di «apparati intelligenti» cioè dotati di software a bordo. Ciò permetterà il massimo livello di integrazione fra i vari apparati utilizzanti la rete di comunicazioni per cui, collegare in rete un sistema Intrusion Detection System (5) (IDS), permetterà di condividerne la funzionalità con tutti gli apparati della rete (nodi, switch, firewall, ecc.). In questa fase saranno testate anche le potenzialità dell’Orthogonal Frequency Division Multiplex (OFDM) (6). L’incidenza della ridondanza dei servizi centrali (DNS, gestore VoIP, ecc.) necessaria a garantire la sopravvivenza del CIS, sarà un altro settore interessante. Peraltro il progetto impiega altre tecnologie avanzate peculiari. IL LAND MOBIILE RADIIO OVER IP Dopo l’attentato alle Torri Gemelle, vi furono grossi problemi di coordinamento operativo nelle

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Fig. 2

La figura 2 illustra l’articolazione della piattaforma atta alla conversazione tra le pattuglie (radio) e le cellule del Comando (telefoni IP). La figura 3, invece, mostra il possibile impiego del LMR per transitare le conversazioni tra due telefoni installati su due diverse unità navali per mezzo della radio.

LA T ECNOLOGII A M OBII LE A D-H H OC N ETWORK (MANET))

attività di soccorso tra polizia, vigili del fuoco, ecc.. Ciò costò, purtroppo, la perdita di vite umane. Il settore incriminato fu proprio quello delle comunicazioni. Nello specifico, il sistema non consentì di rendere interoperabili più maglie radio fra di loro e impedì conversazioni tra forze di polizia e vigili del fuoco nonché di remotizzare in modo ottimale le stazioni radio da Ground Zero alla Sala operativa allestita per i soccorsi. Per risolvere queste problematiche è nato il «Land Mobile Radio over IP» (LMR) pedina di eccellenza all’interno del progetto WOTB. Detto sistema ha lo scopo di consentire di parlare via radio a telefoni della rete IP nella quale è inserita la stessa stazione radio. Anche il PTT (pulsante «premere per parlare») è efficacemente remotizzato sul telefono. Ciò permette di impiegare uno o più telefoni VoIP per pilotare l’apparato che, invece, è collegato con una scheda di un router (7) in qualunque punto della rete.

Si tratta di reti costituite da apparati wireless mobili (nodi) in grado di comunicare tra loro; tutto ciò senza necessità di un’infrastruttura preesistente, come avviene, al contrario, per la telefonia cellulare, che si basa su un’architettura di rete infrastrutturale ben definita. Nelle MANET ogni nodo è predisposto per funzionare in modalità a salti multipli (multi-hop). Ciò significa che, oltre a essere sorgente e destinatario del traffico, può partecipare attivamente alla gestione delle comunicazioni destinate ad altri utenti operando come nodo intermedio in un percorso multi-hop. I nodi di una MANET si autoconfigurano in maniera distribuita organizzandosi senza bisogno di interventi manuali di configurazione e, in virtù di queste caratteristiche di flessibilità e adattabilità, queste reti risultano di particolare interesse per scenari applicativi particolari come il futuro battlespace , in cui non è tipicamente possibile fare affidamento sulle infrastrutture di comunicazioni fisse preesistenti. L’auto-organizzazione sottintende un concetto di architettura distribuita su nodi della rete che possano comunque avere caratteristiche e potenzialità diversificate. Il Fig.3

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compito principale della rete è quindi quello di adattarsi dinamicamente alla condizione, o stato generale di se stessa: in primo luogo in funzione della potenza totale disponibile nella rete stessa. La MANET è, quindi, una rete mobile adattiva che si basa su specifici algoritmi di instradamento (routing) i quali permettono, potenzialmente, di sfruttare tecnologie di interconnessione differenti. Nel progetto WOTB è previsto l’impiego di due tipi di apparati radio, supportati da antenne e/o unità di amplificazione per adeguarne la portata. Saranno impiegati nodi in banda 2,5 Ghz e 900 Mhz. Successivamente saranno testate anche le bande 300 Mhz, 3,4 Ghz, 5 Ghz. I due nodi impiegano tecnologie d’instradamento MANET diverse. Questa scelta permetterà di valutare meglio le tecniche di instradamento applicate, sempre nell’ottica dinamica del Battlespace . Attualmente non esistono standard per le reti MANET, ma solo implementazioni differenti e ottimizzate sugli specifici ambiti applicativi. Probabilmente, a breve, il lavoro svolto in Europa dall’Università di Uppsala riceverà la formalizzazione del protocollo di routing «Ad-hoc On-Demand distance Vector» (8) (AODV).

IL ROAMIING Uno dei concetti cardine del Network Centric Warfare è che la rete sia unica, per cui priva di gateway che interconnettano più sistemi di comunicazione tattici tra loro. Ad esempio, attualmente un carro comando è dotato di radio VHF e HF. Il militare radiofonista è, in effetti, il gateway che si occupa di impiegare, instradare e inoltrare le informazioni sul sistema più idoneo. Il progetto WOTB mira a massimizzare una caratteristica specifica denominata roaming. Ne definiamo due tipologie: la prima, il roaming all’interno di un sistema di comunicazioni, viene utilizzato quotidianamente allorquando la nostra conversazione con il telefono cellulare continua, nonostante abbiamo percorso decine di chilometri in auto, diretta dal sistema di gestione della rete che fa sì che la nostra telefonata venga gestita dinamicamente da più nodi cellulari disponibili sul nostro percorso; la seconda, il roaming tra più sistemi di comunicazione, che permetterà di mantenere attiva la comunicazione del nostro carro comando sfruttando il sistema disponibile in una data area, fra tutti quelli disponibili sul carro. Questo potrà essere il nodo MANET, il terminale satellitare o la radio HF. La gestione dovrà anche prevedere che sia disponibile il sistema con la migliore qualità necessaria (Quality Of Service) .

Ad esempio, la rete MANET ha maggior capacità della radio per cui, se disponibili entrambi, le comunicazioni saranno instradate su MANET.

LA SFIIDA DELLA SICUREZZA Nel progetto WOTB non sarà implementata alcuna sicurezza a livello sistemistico di origine civile, al di fuori delle capacità locali (embedded) insite negli apparati. Tuttavia, nella seconda fase del progetto si esaminerà la possibilità di omologazione secondo i dettami della sicurezza italiana. La vera sfida tecnologica sarà la gestione delle condizioni operative (stati) dei nodi su veicolo (VCC, Defender, ecc.). Sono previsti due stati possibili: • Deaffiliato: il nodo risulta sconosciuto al CIS dispiegato in Zona Operazioni. In questo caso i veicoli possono comunicare esclusivamente tra loro utilizzando i sistemi come una radio. In alternativa si possono affiliare tra loro per condividere autonomamente la telefonia e il C2. Un esempio operativo potrebbe essere l’attività in cui un reparto si avvicina al battlefield. • Affiliato: questo stato sarà conseguito allorquando il veicolo, giunto a portata radio di un nodo già parte del CIS, raggiungerà il server deputato al riconoscimento e all’affiliazione. In questo stato il veicolo potrà impiegare tutti i servizi disponibili in rete quali la telefonia, le comunicazioni di C2, il video e la sicurezza. Sarà studiata e implementata la possibilità di cancellazione fisica di informazioni «sensibili» dai sistemi di comunicazione nel caso in cui il vettore non sia più nella condizione di «sicuro».

LE PECULIIARIITÀ CONTRATTUALII Per quanto attiene alle peculiarità contrattuali, si procederà con l’acquisizione dei materiali, almeno nella 1a fase. È stata definita questa formula anziché un leasing in quanto i materiali, al termine dell’attività saranno assegnati a un Reparto della Scuola delle Trasmissioni e Informatica; inoltre, il contratto prevede assistenza sistemistica di start-up e di funzionamento; l’integrazione dei complessi, delle varie aziende partecipanti al progetto, nell’architettura generale e la formazione del personale addetto nella forma training on the job. Visto il carattere di ricerca e sviluppo del progetto, l’azienda dovrà dichiarare e dimostrare, a proprio carico, un minimo del 50% dei costi di assistenza sistemistica. La proprietà intellettuale relativa sia alle soluzioni sistemistico-ingegneristiche sia all’even-

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Fig. 4

tuale software sviluppato nell’ambito del progetto sarà condivisa paritariamente tra l’azienda e l’A.D. (Amministrazione della Difesa). Ciò significa che a tale Amministrazione non potranno più essere imputati oneri relativi alla ricerca e sviluppo di soluzioni già determinate nell’ambito di questo progetto e del software prodotto. Esternamente all’A.D. le aziende potranno liberamente impiegare i risultati del progetto WOTB, fatte salve le limitazioni legate alla sicurezza nazionale. Al termine dell’attività in oggetto le aziende fornitrici stileranno l’elenco dei prodotti, dei risultati e delle soluzioni che in futuro non saranno più contrattualmente a carico dell’Amministrazione. ARTICOLAZIONE DEL PROGETTO L’articolazione del progetto WOTB produrrà «sottosistemi» che forniscono servizi di comunicazione ai Comandi e alle unità tecnico-operative.

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Ciascun sottosistema è articolato in Unità funzionali trasportabili denominate «Complessi», suddivisi a loro volta in «Sottocomplessi» o in apparati. Di seguito si riportano i sottosistemi previsti: • Sottosistema «Joint Task Force Command» (JTFC - figura 4). Produzione: 1 unità. Supporta un Comando Interforze simulato schierato fuori area con servizi di fonia, dati, video e connettività per C2 su un’unica rete di comunicazione. Nel contesto sono inseriti anche i servizi generali di rete DNS (9), PKI (10) e il complesso di «Management Security and Monitoring» (MSM) con funzioni di gestione e diagnostica dell’intero CIS. • Sottosistema «Alfa» (figura 4). Produzione: 1 unità. È un Comando in sottordine al JTFC atto a fornire, nello scenario simulato, un’ulteriore componente statica. Sono operativi i servizi di fonia, dati, video e connettività con il C2 del comando superiore. Sono ridondati alcuni servizi operativi nel JTFC per incrementare la sopravvivenza del sistema. • Sottosistema «Marina» (Unità navale - figura 5). Produzione: 2 unità. I sistemi servono 2 unità


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Fig. 5

navali con fonia VoIP, integrata su LMR, dati, video e connettività C2. Se possibile sarà testato l’impiego di un nodo su vettore ad ala rotante per incrementare la portata e la dinamicità del sistema. Sarà impiegata un’interfaccia COTS IP TDMA (11) per collegare via satellite la nave. • Sottosistema «Nodo a perdere» (figura 6). Produzione: 2 unità. Sarà sviluppato su base nodo MANET a 900 Mhz con lo scopo di testare la fattibilità di ingegnerizzazione di un «nodo a perdere» efficace, di basso costo e autonomia illimitata. Il sottosistema sarà impiegabile all’aperto. Obiettivi: sottendere una cella circolare di 10 Km; autonomia continuativa mediante sistemi misti di alimentazione a batterie e celle solari. Il sistema sarà integrato anche da batterie a fuel-cell (12) a metanolo per testarne l’operatività con un’autonomia predefinita; ingegnerizzare il sottosistema per essere facilmente trasportabile ottimizzandolo per il trasporto con elicottero e il dispiegamento speditivo di tutte le sue comÿponenti; testare sistemi di antenna a bassa visibilità.

• Sottosistema «Nodo su Defender» (figura 6). Produzione: 2 unità. Ha la funzione di incrementare l’area di copertura radio. Sarà completamente ingegnerizzato per l’installazione speditiva su veicolo «Defender». L’articolazione prevede un Complesso denominato Green Box, descritto di seguito, per testare l’incremento della flessibilità e della sopravvivenza impiegando nodi MANET su 2 bande di frequenza. In un sottosistema vi è un nodo trasportabile Wi-Max con funzione di collegamento ad alta velocità con il JTFC. Obiettivi: sottendere una cella circolare di 10 Km di raggio in visibilità elettromagnetica (Line of Sight - LOS) con entrambi i nodi MANET; instaurare un collegamento Point to Point tra nodi MANET distanti 20 Km LOS impiegando idonee antenne; connettere il JTFC via Wi-Max (13) (solo per 1 esemplare). Il complesso Green Box ha la funzione di routing e interfacciamento sia dei sistemi di comunicazioni COTS previsti, sia dei sistemi terrestri e satellitari operativi nella Forza Armata Obiettivi: testare

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Fig. 6

la compatibilità con le tecnologie civili attivate; testare la trasparenza del trasporto su terminali militari; test bed della rete «mista» civile-militare. • Sottosistema «Dardo» (VCC - figura 6). Produzione: 2 unità. È un nodo dinamico ingegnerizzato per l’installazione sullo specifico VCC. L’articolazione prevede un complesso Green Box e l’impiego di nodi su 2 bande di frequenza. Obiettivi: sottendere una cella circolare di 10 Km di raggio in LOS sia con l’apparato a 2,5 Ghz sia con quello a 900 Mhz; fornire connettività a due squadre di assaltatori garantendo una portata LOS di 1 300 m; testare l’impiego di un terminale satellitare COTS IP TDMA operativo su satellite SICRAL. • Sottosistema «Assaltatore» (figura 6). Produzione: 7+7 unità (2 equipaggi di VCC - Dardo). Questo sottosistema sarà «vestibile» nelle sue componenti e operativo outdoor in buone condizioni meteorologiche. Il terminale per la fonia IP avrà anche la funzione «broadcast radio» per conversare con il personale a portata

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elettromagnetica. Permetterà collegamenti video in tempo reale. Obiettivi: sottendere una cella circolare LOS di 1 300 m; testare, nella «Fase 1» del progetto, la possibilità d’impiego dei nodi MANET su piattaforme mobili. Definito l’ asset adeguato si procederà alla produzione successiva; ingegnerizzare il sottosistema perché possa essere sia una radio sia un telefono VoIP; sviluppare un sistema di trasmissione video indossabile (wearable) con telecamera integrata sull’elmetto che sia utente della piattaforma di videoconferenza. • Sottosistema «Tarrget Acquis sition n» (figura 6) . Produzione: 1 unità. Installato su un punto dominante permette di controllare vaste aree grazie a una potente telecamera. La rete permetterà sia la comunicazione video sia il telecontrollo da una Centrale operativa. Il sottosistema sarà autonomo. • Sottosistema «Serrvice» . Produzione: 1 unità. Simula le funzionalità necessarie a uno specialista addetto alla manutenzione e riparazione, di accesso, ricerca e visualizzazione di docu-


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Fig. 7

mentazione tecnica organizzata su un server Web connesso alla rete in qualunque posto. Questo sottosistema dovrà essere autonomo e «wearable» in tutte le componenti. Nello specifico: personal computer, batterie di alimentazione, display del tipo «Head Mounted Display» (14) (HMD - figura 7); nodo MANET; periferiche quali la telecamera montata su elmetto (figura 8), la tastiera da braccio. Obiettivi: il sistema wearable dovrà sottendere una cella circolare di 1 300 m; dimostrare la potenzialità e la velocità del sistema di comunicazione tramite la ricerca e la visualizzazione di documenti archiviati sul server; testare la possibilità e le capacità d’impiego di sistemi wearable in ambito militare. • S ottosistemi s trutturali. Parte integrante del progetto WOTB sono anche i sottosistemi necessari al progetto stesso quale il «Milab», laboratorio «terreno di incontro permanente» tra l’Industria e le Forze Armate. La struttura sarà situata presso la Scuola delle Trasmissioni e Informatica. Esso sarà complementare al «MilabMobile», un veicolo con strumentazione a bordo per il monitoraggio della componente a radiofrequenza. Ha lo scopo di effettuare misure come ad esempio quelle di campo per studi sulla copertura, di qualità e di analisi di spettro. TEMPISTICA DEL PROGETTO WOTB In ordine alla tempistica, il progetto è articolato in tre fasi per un periodo complessivo di circa tre anni. Ciascuna fase sarà chiusa da un’attività di stop and go articolata in redazione di un docu-

mento tecnico e operativo; briefing a favore delle Superiori Autorità; attività dimostrativa; approvazione dei focus della fase successiva. Nella prima fase il progetto WOTB ha gli obiettivi già prefissati da Segredifesa e definiti in sede di riunione presso la Scuola delle Trasmissioni e Informatica dell’aprile 2005. In sintesi: esprimere capacità amministrative ottimali al conseguimento di un « asset contrattuale» adeguato a un progetto di ricerca e sviluppo; dimostrare capacità di progettazione e di successiva gestione manageriale adeguate; progettare e conseguentemente realizzare con il supporto delle aziende coinvolte, alcuni complessi del sistema di comunicazioni allo scopo di dimostrare l’adeguatezza della filosofia di approccio al sistema e di effettuare una dimostrazione della potenzialità e validità delle tecnologie proposte applicate alla realtà operativa militare. L’articolazione di questa fase mira essenzialFig. 8

mente ai compiti precedentemente citati, per cui non ha una reale valenza operativa complessiva. I riferimenti di dettaglio sono contenuti nel documento «Business Plan 1a fase» dell’aprile 2005. Nella seconda fase si prevede: la progettazione e allestimento di un laboratorio (Milab) all’interno della Scuola delle Trasmissioni e Informatica; lo startup delle procedure per omologazione della Sicurezza; il completamento del CIS; l’ingegnerizzazione dei complessi per Esercito e Marina e il systems integration. Infine, nella terza fase saranno effettuati: i test con unità RISTA, i test con azienda specializzata in Security Evaluation e lo schieramento in Caserma del sistema; inoltre sarà verificata l’interoperabilità con i materiali attualmente in linea, verrà dispiegato il sistema in poligono e verranno svolte le prove in campo.

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CONCLUSIONI

Il sistema satellitare SICRAL.

Il progetto Wireless Operational Test Bed si inserisce nel filone degli studi sull’NCW/NNEC in quanto si pone l’obiettivo di definire le caratteristiche delle future comunicazioni tattiche dal singolo soldato fino a livello di comando joint, impiegando la tecnologia IP come elemento cardine per assicurare la disponibilità dei servizi e l’interoperabilità tra tutti i sistemi coinvolti. L’attività potrà inoltre, consentire di realizzare un ambiente di test/simulazione in grado di federarsi con gli altri centri di eccellenza delle Forze Armate allo scopo di validare le architetture NCW/NNEC in corso di sviluppo. Gli esiti della ricerca, oltre che introdurre innovazioni tecnologiche, costringeranno a una radicale revisione della dottrina, in virtù degli effetti dell’applicazione delle teorie sulle forze retecentriche. Il progetto è anche la dimostrazione che la Forza Armata sta cercando di darsi la migliore organizzazione possibile per la ricerca e svi-

luppo in un settore tecnologicamente importante come quello delle comunicazioni militari. Il progetto, infatti, oltre a prevedere importanti obiettivi nel campo della ricerca tecnologica, presenta anche una struttura e un modo di lavoro ottimali, basati su una stretta collaborazione Difesa-Industria, che consentono di migliorare l’approccio ai progetti di tecnologia avanzata. È anche per questi motivi che, per la prima volta, l’Ufficio del Segretario Generale della Difesa, ha finanziato un ente militare come un qualsiasi fornitore di un progetto di ricerca per l’Amministrazione della Difesa, alla stregua quindi di un’industria o di una università. La Scuola delle Trasmissioni e Informatica dell’Esercito riveste un ruolo di primaria importanza in questo ambito. La sua tradizione e la sua storia, compirà 60 anni nel corso del 2006, sono le

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migliori garanzie per proporsi con successo quale ente deputato alla ricerca e allo sviluppo di Forza Armata. Marco Cappellini Generale di Divisione, Vice Ispettore per l’Arma delle Trasmissioni e Comandante della Scuola delle Trasmissioni e Informatica Sergio D’Errico Tenente Colonnello, Capo Sezione presso la Scuola delle Trasmissioni e Informatica e Capo Progetto WOTB NOTE (1) Commercial off-the-shelf (COTS): è un termine che definisce software o hardware pronti per l’utilizzo e in vendita attraverso normali canali commerciali. Nel caso di componenti hardware i costi di produzione unitari del prodotto finale sono ridotti, dato che i materiali COTS sono ottimizzati e prodotti su scala più vasta rispetto ai componenti prodotti per le Forze Armate. Nel contesto del progetto WOTB i materiali COTS, per quanto necessario, saranno adeguatamente militarizzati. (2) Network Centric Warfare (NCW): è il cuore del processo di trasformazione dello strumento militare statunitense imposto, nella visione, del Dipartimento della Difesa (DoD). I principi cardine mirano alla realizzazione di un «sistema dei sistemi», al centro di un robusto e complesso network di reti, che integra completamente le funzioni di combattimento dal livello tattico fino a quello strategico. (3) NATO Network Enabled Capability (NNEC): l’Inghilterra, subito dopo gli USA, è la nazione che ha cominciato seriamente a considerare la trasformazione delle proprie forze in ottica «net-centrica», introducendo il concept di NEC. La concezione britannica, dalla quale la NATO ha derivato il proprio NATO NEC (NNEC), prevede un approccio molto più soft e limitato negli scopi pur condividendone i principi che sono alla base del NCW, quali: una robusta forza interconnessa che incrementa la condivisione delle informazioni, la condivisione delle informazioni che migliora la qualità delle stesse e la condivisione della conoscenza della situazione che abilitano la collaborazione e l’autosincronizzazione aumentando la sostenibilità e la velocità di comando. (4) Voice over IP (VoIP): è una tecnologia che rende possibile effettuare una conversazione telefonica sfruttando una LAN, Internet o un’altra rete dedicata che utilizza il protocollo IP, anziché passare attraverso la normale linea telefonica. Vengono instradati sulla rete pacchetti di dati contenenti le informazioni vocali, codificati in forma digitale, e ciò solo nel momento in cui è necessario, cioè quando uno degli utenti collegati sta parlando. (5) Intrusion Detection System (IDS): sistema per il rilevamento di intrusioni all’interno di una rete di comunica-

zioni. Ha la funzione di allarme: controlla lo stato del sistema e, nel caso si riscontrino situazioni considerate pericolose, avverte l’amministratore di rete e può eseguire delle operazioni pianificate. (6) OFDM: tecnica di modulazione di origine militare impiegata nel digitale terrestre con interessanti peculiarità quale quella di gestire collegamenti non in visibilità elettromagnetica (NLOS) con elevate qualità e capacità di traffico. (7) Router: è un dispositivo capace di instradare dati selezionando il percorso migliore tra quelli disponibili. (8) AODV: protocollo di routing per dispositivi mobili che permette lo scambio di messaggi tra i vari nodi anche in condizioni di non visibilità radio diretta fra sorgente e destinazione. Il cuore del protocollo è una tabella di routing dinamica generata automaticamente che permette di instradare i pacchetti con successo. In caso di disconnessione da parte di un nodo dal sistema il protocollo riaggiorna la tabella di routing evitando così una situazione di errore. Il riconoscimento dei nodi vicini, cioè quelli direttamente ascoltabili, avviene tramite la ricezione di un «HELLO» message trasmesso in modo broadcast a intervalli regolari. (9) Domain Name System (DNS): è un computer che permette di tradurre l’indirizzo di un PC dalla forma umana, ad esempio www.esercito.difesa.it, in quella riconosciuta dalla rete, ad es. 192.84.145.38, e viceversa. (10) Public Key Infrastructure (PKI): sistema che fornisce servizi quali la firma digitale la cifratura di mail o di transazioni. (11) Time Division Multiple Access (TDMA): formato digitale che consente di dividere una sequenza di conversazioni in pacchetti di dati in funzione del tempo. (12) Fuel Cell le «Celle a Combustibile con Alimentazione Diretta al Metanolo» (DMFC): è un dispositivo che produce energia, a differenza della batteria che la immagazzina. Per attivare il processo è sufficiente rifornirle di carburante, nello specifico di metanolo (alcool metilico). Il principio di funzionamento è basato sulla creazione di un potenziale termodinamico da una reazione tra metanolo e aria. (13) Wi-Max è l’acronimo di (Worldwide Interoperability for Microwave Access): è una tecnologia derivata dalle specifiche del Wi-Fi e consentirà la connessione veloce a Internet senza fili. Consente una trasmissione dati in un raggio di circa 50 Km a una velocità massima di 79 Mbps. La tecnologia che utilizza le trasmissioni radio sulle frequenze da 2-11 GHz è la soluzione per le future reti Wireless MAN (Metropolitan Area Network) che consentiranno la connessione a dispositivi mobili come i computer e i cellulari. La caratteristica principale di questa nuova tecnologia è la qualità della comunicazione, anche in presenza di ostacoli che impediscono la visibilità elettromagnetica tra i nodi. (14) Head Mounted Display (HMD): è un visore che si cala a qualche centimetro dagli occhi. Proietta l’immagine direttamente sulla retina.

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ETICA E MOTIVAZIONE


ETICA E MOTIVAZIONE Lo stato d’animo di un soldato in combattimento Il soldato impegnato in combattimento è pervaso da un tumulto di stati d’animo spesso in conflittualità tra loro. Sentimenti contrastanti dove la passione tende a sovrastare il ragionamento, la motivazione e il senso dell’etica. Un alternarsi di predominanze razionali e irrazionali che coinvolge anche i Comandanti, costretti a vivere situazioni forse più esplosive e stressanti.

IL SOLDATO Il soldato è una figura sociale riconosciuta da quando è iniziata la civiltà. Era l’elemento del gruppo che emergeva per vigore fisico e aggressività, colui che era in grado di proteggere un territorio o le scorte di cibo, oppure, al contrario, di predarlo e toglierlo ad altri gruppi. In ogni caso era il «principe» della sopravvivenza per una comunità che per questa ragione lo esaltava e temeva allo stesso tempo. La società che Licurgo fondò a Sparta nell’VIII secolo a.C., così racconta Plutarco nella «Vita di Licurgo», era orientata alla creazione di una razza di guerrieri invincibili. Per essere tali dovevano restare incontaminati dalla «superfluità e dalla vanità» (1), un principio che vigeva già in Egitto dove i soldati venivano tenuti separati dalla società civile. La società spartana fu quella che per secoli affascinò tutta la Grecia, e Platone non poté che ispirarsi ad essa quando idealizzò il suo Stato nella «Repubblica». Si arrivava a concepire una suddivisione sociale sostanzialmente su tre gruppi a seconda della diversa natura di ciascun uomo, ovviamente tenendo fuori dalla menzione gli schiavi: i filosofi, i guerrieri e i cittadini (agricoltori e artigiani). Le classi che devono guidare lo Stato utopico di Platone sono, nell’ordine, i filosofi dotati del sapere necessario per conoscere ciò che è bene per la città nel suo complesso (coloro che posseggono più degli altri la verità) e i guerrieri dotati della virtù del coraggio (i militari che agiranno da garanti del volere dei filosofi e da difensori dai nemici esterni). Queste due classi governano quelle inferiori costituite dagli artigiani e dai contadini, le classi produttrici dei beni necessari alla comunità. Le classi dominanti, tuttavia, non devono preoccuparsi solo del proprio bene, ma anche di quello comune, agendo nel rispetto delle due im-

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portanti virtù che devono essere possedute da tutti i componenti dei tre gruppi: la giustizia, che consiste nell’esercizio delle funzioni per natura proprie a ciascuno, e la temperanza. Sembra che il tempo, la tecnologia e le nuove modalità di interpretare lo strumento militare non possano nascondere una forte analogia tra le due virtù platoniche e quelle che in generale guidano le azioni dei soldati sul campo di battaglia e in pace. Non dimenticando che la forza per eccellenza di un militare si estrinseca nel combattimento e ha come unico scopo quello di vincere, non è comunque da sottostimare la sua valenza di deterrente altrettanto utile e risolutivo quando si dimostra capace di essere potenzialmente distruttivo e vincente. Combattere vuol dire saper usare la violenza in maniera intelligente ed efficace, saper uccidere quando necessario e mettere in conto che si può essere uccisi. Vincere significa essere lo strumento idoneo per neutralizzare le offese contro la propria comunità/Stato. Neutralizzare assomma in sé sia il carattere prettamente aggressivo dello spirito del militare sia la sua misura nel raggiungere gli scopi prefissati senza superare limiti umanitari e distruttivi. I soldati sono i professionisti dell’impiego della forza, coloro che devono saperla impiegare senza eccessi (di nuovo si ritrovano le virtù di giustizia e temperanza). Comunemente si ritiene che in guerra tutto sia lecito (2) (inter arma silent leges). In realtà niente è più pericoloso e dannoso di una simile opinione, non solo da un punto di vista civile ma anche strettamente militare. La guerra, affermava il Generale Karl von Clausewitz (1780-1831), è una prosecuzione dell’attività politica, una sua continuazione con altri mezzi. L’animo umano soggiace facilmente alla spinta del pathos (passione) più


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che a quella del logos (ragionamento) e dell’ethos (etica e morale). In molte circostanze, ma soprattutto in combattimento, la natura umana è messa a nudo, può smarrire il proprio equilibrio giungendo a gesti irreparabili. Proprio per questo un’autentica civiltà si impone dei comportamenti etici e degli imperativi morali che, tradotti in norme giuridiche, possono costituire una garanzia di umanità ed equità. Questo pensiero ha un suo peculiare valore anche nel garantire che non venga meno il titolo di legittimazione di una guerra, cioè, se le forme e i modi in cui essa viene combattuta violino i princìpi del diritto umanitario (i canoni dello ius in bello); in particolare, se e in quanto violino il principio di proporzionalità (dei danni inflitti) e il principio di discriminazione (tra combattenti e non combattenti): «per giusta che sia la causa per cui una guerra è fatta, essa risulta tuttavia del tutto ingiustificata se per vincerla è necessario violare (non importa quanto e quanto spesso) i due principi dello ius in bello» (3). IL SOLDATO, DA STRUMENTO AD ATTORE Accettando l’idea che il soldato riesca a selezionare e a rispettare una proporzionalità nell’agire e ne-

In apertura. Iraq: pattuglia di Lagunari in azione. Sopra. Afghanistan: Alpini in attività di sorveglianza.

gli strumenti che impiega a seconda delle circostanze o delle minacce nemiche, viene da porsi il dilemma se il soldato sia un mero strumento oppure un agente pensante nell’ambito di quella prosecuzione militare della politica di uno Stato. L’opzione che peserebbe di meno sul soldato, ma anzi lo faciliterebbe nei suoi compiti, sarebbe quella di ritenerlo come un freddo e meccanico mezzo da attivare per il raggiungimento di scopi politicamente prefissati, senza richiedere a quest’ultimo di assumersi il peso di decisioni che non siano esclusivamente tattico-strategiche per la vittoria finale. Preferire questa soluzione significherebbe scegliere di avere a disposizione un combattente che sia una mera macchina da guerra orientata a dare il massimo per vincere, mossa da una motivazione costruita sull’addestramento, la disciplina e la leadership. Quando, però, gli si chiede di non essere più solamente un mero strumento ma di assurgere al ruolo di protagonista nella risoluzione delle controver-

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sie e demandargli decisioni che hanno un peso sugli obiettivi e le politiche nazionali, il soldato viene a trovarsi in una posizione non facile per la sua natura. In questo caso, infatti, egli non è più libero di operare solamente nel rispetto delle regole internazionali riconosciute valide per la condotta di operazioni militari (ius in bello), che sono già parte integrante della sua dottrina, ma viene sottoposto anche alla variabilità del sensibilissimo fattore interno dell’opinione pubblica, e di conseguenza, investito di ulteriori responsabilità con cui, forse, preferirebbe non dover interagire. La scelta che il soldato sia «pensante» non può, però, essere concepita senza riconoscere una mutazione del suo ruolo da strumento ad attore, da semplice causa a causa intelligente; cioè causa dotata di mente e perciò in grado di produrre cose belle e buone, quindi non qualcosa che è mossa anche essa stessa da una causa e che produce solo effetti «casuali senza ordine e disegno» (4). Questo segna un punto di svolta nell’accezione di «soldato». Infatti, se assumiamo che in tempo di pace tutto quello che riguarda il combattente esista solo in «potenza», riferendoci al soldato impegnato in attività operative e di combattimento che «pensa» alle conseguenze che vuol produrre, è ammissibile riconoscergli la capacità di programmare il suo operato non solo in funzione degli obiettivi ma anche degli effetti che il suo agire per perseguirli produce (Effect Based Operation). Ma vediamo di capire quanto appena detto si attagli alla realtà, poiché i diversi scenari operativi impongono condizioni tali per cui il soldato che vi opera può mettere in mostra una indole che può essere più spiccatamente pensante ovvero più istintuale. È chiaro che l’analisi si semplifica se si prende in esame l’ambito operativo/di combattimento in cui, come detto, è possibile registrare dall’esterno la parte pensante del soldato e quella istintuale, che altrimenti rimarrebbe latente poiché non necessaria e non sollecitata. CHI SONO GLI UOMINI CHE COMBATTONO Sul campo di battaglia il soldato si muove nella direzione in cui il suo addestramento e la sua disciplina lo spingono (Combat Motivation). Quando torna la calma si ferma per valutare i risultati raggiunti e quelli che ancora deve conseguire. In questa fase predomina quella ragione (Etica Militare) che consente di prendere decisioni importanti. Decisioni che devono tener conto della sua umanità e, al contempo, della sua necessità di vincere. Tutti i soldati vivono questo alternarsi di predo-

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minanza razionale o irrazionale, ma è più facile visualizzare quanto affermato trasponendo, sebbene con qualche piccola forzatura, in alcuni soggetti facilmente individuabili i livelli estremi di tutte e due le risorse emotive sopra citate: l’Etica Militare, la Combat Motivation (grafico a lato). Come seconda figura possiamo porre quella del Comandante di Grandi Unità, che riesce comunque a operare senza lasciarsi coinvolgere nella parte prettamente fisica del combattimento. Egli vive situazioni forse ancora più esplosive e stressanti del soldato sopra descritto. La responsabilità della missione, dei propri uomini, del rispetto del diritto, l’adrenalina di chi vedrebbe il suo vero posto in prima linea con chi combatte assorbono grandi energie; è necessario che per fare fronte a questo gravoso impegno si possa accedere alla spinta e alla giusta guida che il massimo della Combat Motivation e dell’Etica Militare riescono a dare. Il Comandante, il cui animo soggiace a una forte Combat Motivation, riesce ad avvicinarsi ai propri soldati attraverso questo suo coinvolgimento di pathos, i due estremi tendono a toccarsi. Questo rende possibile il mantenimento di una struttura organizzativa assai compatta che ne guadagna per tutti quegli aspetti positivi che ha in sé la definizione di struttura organica. Terza e ultima figura, presente sul nostro virtuale campo di battaglia, è il soldato di staff. Lavora per il Comandante al fine di concretizzare decisioni in linea con il compito e che non si scontrano con il diritto (ius in bello, Etica Militare). Egli opera in un contesto il più possibilmente distaccato dal coinvolgimento fisico ed emotivo della battaglia, dove si è in grado di agire potendo ascoltare con maggiore serenità la propria parte razionale, quella che in realtà serve al suo scopo, e facendosi prendere meno dal concitamento della Combat Motivation. COSA GUIDA IL SOLDATO L’energia che anima internamente il soldato e ne guida le mosse, la sua parte istintuale che lo spinge ad agire seguendo uno scopo giusto è riconducibile all’Etica Militare e alla Motivazione (Combat Motivation) (5). L’Etica Militare è l’insieme delle norme di condotta pubblica e privata che sono proprie di chi esercita la professione delle armi, caratterizzata dai valori essenziali di Patria, Disciplina e Onore, in estrema sintesi è ciò che ricorda al soldato «cosa deve fare e per chi deve fare» (6). Le circostanze tendono di certo a condizionare le nostre scelte, ma un soldato non può ammettere che questo avvenga nell’adempimento dei propri doveri. Egli ovvia a questo facendo leva sulle regole che definiscono l’ambito del suo agire,


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sulla sua capacità di prevedere le conseguenze delle proprie azioni nel perseguimento della propria missione e sul rispetto dei camerati che operano con lui, tenendo conto della realtà che lo coinvolge in quel momento. Agire in questo modo garantisce l’avere osservato un comportamento eticamente corretto. La Combat Motivation può essere spiegata dando una definizione separata dei termini che la compongono. Dal latino motivus , capace di far muovere, si tratta di uno stimolo conscio o inconscio per l’azione che, riferito all’individuo, si può meglio descrivere come «il fattore dinamico del comportamento umano che attiva e dirige un organismo verso una meta» (7). Per ciò che riguarda l’aggettivo combat , ci si può rifare al comportamento individuale aggressivo, che è qui da intendersi solo come un fenomeno derivato dalla condizione di guerra, non come una caratteristica dell’individuo che la giustifica (8). In definitiva, si tratta di un moto dello spirito che spinge l’individualità del soldato a mettere in pratica, con grinta e con volontà di sopraffare il nemico, l’addestramento ricevuto, risponden-

do positivamente alla buona leadership esercitata su di lui all’interno di un contesto cameratesco e organizzativo ideale. Perciò la Combat Motivation si estrinseca contemporaneamente nel singolo e nel gruppo: nel soldato come volontà di vincere e sopravvivere, nel gruppo come coesione, «ciò che lega assieme i membri di una organizzazione in modo tale che i membri supportano a vicenda la loro volontà e il loro commitment (9) nei confronti di sé stessi, dell’unità e dell’obiettivo» (10). ANALISI CONCLUSIVA È chiaro che quanto ho descritto riferendomi alle tre particolari figure del soldato combattente, di quello di staff e del Comandante è teoria, mentre la realtà impone compromessi più complicati. Il soldato non può mai credere di essere solo una macchina da guerra, il Comandante non può pretendere di trovarsi a prendere decisioni e fare delle scelte dove i contorni sono facilmente tracciabili. Così avviene che, a livello operativo, il soldato

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preso dal combattimento con energia e aggressività, modera il suo agire secondo principi etici molto semplici ma comunque importanti ed efficaci. È importante che questo avvenga per più di una ragione, ma è altrettanto importante che questi principi siano facilmente ricordabili e non fraintendibili. Può costituire un esempio il punto di vista dell’Esercito americano che ha sintetizzato nella «Soldier’s Creed» quelli che devono essere considerati i «Warrior Ethos» (11):«I will always place the mission first. I will never accept defeat. I will never quit. I will never leave a fallen comrade». Il soldato, animato dal suo istinto e dagli irrinunciabili principi di onore e cameratismo, è in grado di perseverare nella sua azione anche nelle peggiori condizioni inseguendo una vittoria che non importa quanto sia lontana, difficile, ostacolata. Il perseverare in riferimento a qualcosa che va oltre il mero atto coraggioso o virtuoso è «coraggio morale»; cioè di una energia interiore che permette di mantenere per un tempo prolungato una volontà e non solo di rischiare prendendo una decisione secca che vale per una sola volta. L’avere menzionato la U.S. Army «Soldier’s Creed» ha lo scopo di evidenziare che gli eserciti moderni (è quindi solo un termine di paragone preso ad esempio), nonostante riconoscano la necessità di un rispetto morale del nemico e delle regole della guerra, tendono a far prevalere (o meno) in quelli che sono i loro precetti motivazionali, l’aspetto motivazionale su quello etico del soldato. Riferendoci al grafico di pag. 93, sarebbe come far traslare verso l’alto, o viceversa il basso, la parabola della Combat Motivation a seconda che un esercito miri ad avere tra i propri ranghi, ma soprattutto in prima linea, dei soldati spinti nel loro agire più da pathos che non da ethos. Infatti, facendo un semplice paragone tra l’approccio alla situazione di combattimento che l’Esercito statunitense chiede ai propri uomini e

quello che invece può normalmente trasparire dalla politica adottata dalle nostre Forze Armate, risulta evidente come il soldato americano sia più orientato al risultato che non al modo di perseguirlo, come invece tende ad accadere per il soldato italiano. Inoltre questo lascia intravedere una diversa risolutezza nel grado di fiducia accordato al singolo. Cioè enunciare pochi semplici principi generali accompagnati da minuziose check list è sintomatico di una organizzazione che si permette di non controllare troppo da vicino i propri elementi, perché a priori ha già tracciato i limiti entro cui il singolo è libero di operare. Questo consente a quest’ultimo di sentirsi maggiormente coinvolto nel raggiungimento dell’obiettivo organizzativo e lo sprona a impegnarsi prendendo anche l’iniziativa quando necessario. Al contrario, enunciare miriadi di principi senza impegnarsi in una puntigliosa classificazione delle procedure operative standard ha il risultato di confondere il singolo sul terreno e di renderlo vincolato ai propri organi decisionali. Ma fino a oggi, questo atteggiamento nei confronti delle problematiche operative si è rivelato capace di far conseguire ottimi risultati ed è stato considerato un pregio delle nostre Forze Armate nelle missioni di pace condotte, risultando premiante sia per il raggiungimento di importanti risultati materiali sia per gli attestati di stima internazionale. Adesso però ci si è accorti che questo nostro pregio potrebbe trasformarsi in un pericoloso handicap. Le stesse parole del Ministro della Difesa, il quale afferma che: il peacekeeping non deve condurre a una impostazione limitativa delle funzioni militari in quanto le caratteristiche combat di un esercito devono comunque restare elevate (12), mettono in guardia gli uomini delle Forze Armate dall’allontanarsi troppo nell’interpretazione di quello che è il naturale campo di impiego dello strumento militare, cioè il campo di battaglia e lo scontro violento con il nemico.

LE DIECI REGOLE DEL COMBATTENTE • Comportati da soldato disciplinato. La disobbedienza alle leggi di guerra macchia la tua unità e te stesso e crea sofferenze inutili che, lungi dall’attenuare la volontà di battersi del nemico, lo spingono alla vendetta. • Combatti solo i tuoi nemici e gli obiettivi militari. • Non procurare danni maggiori di quelli richiesti dall’assolvimento del compito che ti è stato affidato. • Non combattere più il nemico che si arrende o che è fuori combattimento. Raccoglilo, disarmalo e consegnalo al tuo superiore. Rispetta e proteggi i naufraghi del mare e dell’aria. • Tratta con umanità tutti i civili ed i nemici che si trovano in tuo potere. • Raccogli e cura i feriti e i malati amici, nemici e civili al termine dell’azione o, durante l’azione, conformemente agli ordini del tuo Comandante. • Non prendere ostaggi e non fare mai atti di vendetta. • Rispetta le persone ed i beni muniti dei simboli della Croce Rossa, della protezione dei beni culturali, della protezione civile e la bandiera bianca del parlamentare. • Non rubare né saccheggiare e rispetta le proprietà ed i beni altrui. • Informa il tuo Superiore di qualunque atto di ostilità.

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Ecco che si riporta l’attenzione al vero scopo dell’esistenza del soldato, ed è quanto avevamo già detto precedentemente riferendoci al guerriero della Repubblica di Platone. Quella premessa ribadisce la sua validità anche nel contesto attuale, perché riafferma un concetto determinante per chiarire ogni incertezza sulla concezione che devono avere le Forze Armate riguardo al soldato per cancellare ogni equivoco su alcuni concetti fondamentali spesso logorati da un uso distorto. La pace intesa come assenza di conflitto militare non può essere garantita per sempre (13). È un bene che va costantemente curato, con una adeguata politica di sicurezza, cioè una appropriata gestione della forza, possibilmente allo stato virtuale ma, se necessario, impiegandola effettivamente. Per rispettare l’equazione sicurezza-chiusuraviolenza, che costituisce uno dei cardini del modo di essere del guerriero, e non incorrere in facili errori interpretativi, il fatto che il militare si possa trovare a operare in scenari non definiti «war» non significa che non debba affrontarli con il suo solito military mind supportato da preparazione professionale e credo morale adeguato. Se ne può concepire solo un filtraggio e adeguamento alle prerogative dei compiti.

Immagine utilizzata come sfondo per il desktop dei computer della componente AVES nell’Operazione «Antica Babilonia».

Al riguardo si possono citare le parole dell’ex Segretario alla Difesa statunitense Les Aspen «Noi abbiamo una missione: combattere e vincere le guerre della nazione. Perché lo facciamo? Per difenderci. Per chi lo facciamo? Per il popolo americano. Questa è la duplice etica che giustifica le Forze Armate americane (...). Poiché sappiamo combattere e vincere le guerre della nazione, siamo più capaci di altri di affrontare altre missioni quali quelle di mantenimento della pace, di aiuti umanitari (...)» (14). La realtà impone, quindi, di definire il soldato come uno strumento «combat ready», addestrato ed equipaggiato pensando all’impiego per cui nasce. Ma «non si può dare un’arma in mano a chicchessia. Da ciò deriva la necessità di una selezione rigorosa e un’ancora più rigorosa formazione morale e disciplinare per chi abbraccia la carriera militare» (15), una formazione morale che sia modello di riferimento univoco in ogni circostanza, in guarnigione o in teatro operativo, che si sia chiamati a operare sia in contesti di guerra che di

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Incursori del 9° Reggimento paracadutisti d’assalto poco prima di iniziare una missione in Afghanistan.

di pace. Questo si potrà ottenere solo se al soldato si indicano principi di riferimento definiti, semplici, orientati al suo impiego di combattente. Insomma le Forze Armate devono ritenersi coerenti e non temere ambiguità se indicano al soldato dettami cui aspirare del tipo: • I am disciplined, physically and mentally tough, trained and proficient in my warrior tasks and drills (US Army, Warrior Ethos); • I stand ready to deploy, engage, and destroy the enemies of the U.S.A. in close combat (US Army, Warrior Ethos); • ...the ethos of the Army is sustained by all soldiers doing their duty with an implacable will to succeed; accepting their grave responsibility and legal right to fight and kill according to their orders and their unlimited liability to give their lives for others; confident that in return the nation will look after them and their families (16) (British Army); • In combattimento agisci sempre senza passioni e animosità, tu rispetterai il nemico vinto, tu non abbandonerai mai i tuoi morti, i

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tuoi feriti, le tue armi (Codice d’Onore del Legionario francese); • La missione è sacra, tu la eseguirai subito e a qualsiasi costo (Codice d’Onore del Legionario francese). Le situazioni di combattimento affrontate dai contingenti in Iraq e Afghanistan lo impongono. A livello strategico si complica in maniera sostanziale il contesto in cui il Comandante opera. Le questioni diventano complesse e caratterizzate da volatilità, incertezza, complessità e ambiguità tanto da richiedere tutto un altro insieme e livello di competenze (17). Il passaggio dal livello di leadership organizzativa a vera leadership strategica implica lo sviluppo e il rilancio di nuove capacità e attitudini. Il fatto che a livello organizzativo siano maggiormente chiari il compito e gli obiettivi richiede a chi deve confrontarvisi un certo livello e tipo di capacità. Infatti, i compiti sono ben definiti così come lo standard delle performance da tenere. Diviene chiaro che chi si trova nella posizione più difficile è come al solito il Comandante, il quale deve gestire la risorsa più delicata cioè la parte etica in maniera assai più determinante che non le altre figure. Egli non deve assumere un comportamento immorale contro il nemico, poi-


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ché, in quanto essere umano dotato di ragione e coscienza di sé (facoltà mentali proprie della specie), è in grado di riconoscere l’equivalenza tra sé e il suo prossimo. Il suo comportamento sarà di certo etico se continua a considerare il nemico pari a sé, sarebbe invece immorale se considerasse il nemico come strumento per i propri fini (militari). Il principio è del tutto indipendente dai fini specifici che ciascuno si propone, perché soltanto in questo modo può essere universale ed eticamente valido. Le situazioni e le sfide che si propongono al Comandante hanno sempre dei risvolti etici e morali che possono ripercuotersi con effetti realmente importanti sulla vita dei propri soldati, dei civili, sul successo o il fallimento degli obiettivi strategici, perfino politici, della propria nazione; tanto più che questi momenti di grande responsabilità si presentano sempre accompagnati dall’incertezza e dall’ambiguità. Però i Comandanti non esistono solo per salvare anime ma anche, come ogni soldato, per garantire una deterrenza, prepararsi a condurre guerre che prevedono l’uccisione di persone e la distruzione di cose (18). Poiché i soldati devono, in molti casi, confrontarsi con situazioni particolarmente difficili al Comandante non è comunque concesso di rimanere nell’inerzia paralizzato dalla paura di fare la cosa sbagliata, di compiere qualcosa di non eticamente corretto. È possibile che un Comandante possa commettere errori nelle sue decisioni e che queste saranno oggetto di revisione, ma egli non deve farsi inibire da questa eventualità, al contrario deve coraggiosamente imprimere vigore alla linea di condotta che in quel momento gli appare la più saggia e corretta. In ogni caso non si può sottovalutare che prendere una decisione eticamente sbagliata aumenta non solo il numero e la varietà delle scelte che si proporranno di volta in volta a seguire ma anche l’impatto futuro di quelle scelte. Ancora più importante una cattiva decisione etica al principio porta verso la trappola di non riuscire a prendere decisioni che ritornino sulla giusta via (19). Massimo Scotti Capitano, in servizio presso l’Accademia Militare di Modena NOTE (1) B. Russell, «Storia della filosofia occidentale (L’influenza di Sparta)», Ed. TEA, 1991, p. 118. (2) C. von Clausewitz, «Della guerra»: «La guerra è un atto di forza, all’impiego della quale non esistono limiti». (3) G. Pontara, «Guerre, disobbedienza civile, non violenza», Edizioni Gruppo Abele, Torino, 1996, p. 42.

Meno netta, forse, la posizione di M. Walzer che, nondimeno, riconosce: «Lo jus ad bellum rinvia a concetti quali aggressione e autodifesa; lo jus in bello all’osservanza o alla violazione delle norme consuetudinarie e positive del combattimento. I due tipi di giudizio sono tra loro logicamente indipendenti [...]. Eppure tale indipendenza [...] crea perplessità [...]. Il dualismo jus ad bellum/jus in bello incarna quanto di maggiormente problematico vi sia all’interno della realtà morale della guerra». Cfr. M. Walzer, «Just and Unjust Wars», Basic Books, New York, 1977; la citazione è tratta dalla trad. it.: «Guerre giuste e ingiuste», Liguori Editore, Napoli, 1990, p. 39. (4) B. Russell, «Storia della filosofia occidentale (La cosmogonia di Platone)», Ed. TEA, 1991, p. 157. (5) «I oppose the idea that there is either the military (by which I mean the profession of arms, the military services, or combat operations) or ethics (by which I mean morality, concern for righteousness, or principles of goodness). That division between what is military and what is moral is properly referred to as a false dichotomy; that is, we are arbitrarily and unfairly separating what must not be torn asunder», Dr. James H. Toner, «Military OR Ethics, Air & Space Power Journal» - Summer 2003. (6) Dr. James H. Toner, «Military OR Ethics, Air & Space Power Journal» - Summer 2003. (7) U. Galimberti «Dizionario di Psicologia», Utet, Torino, 1992, p. 592. (8) J. Van Doorn, «The Soldier and Social Change», Sage Publications, Beverly Hills, 1975, p. 134. (9) Commitment = (Fiducia + Alleanza) tra l’organizzazione e l’individuo. (10) W. D. Henderson, «Cohesion: The Human Element in Combat», National Defense Univ. Press, Washington, 1985, p. 4. (11) C. Freakley, Chief of Infantry and Fort Benning’s Commanding General. (12) A. Martino, Premessa al volume curato da Andrea Nativi «Esercito Italiano. Le nuove frontiere del Peacekeeping», Mondadori, 2004. (13) C. Jean, «Guerra, strategia e sicurezza», Editori Laterza, 1997, p.32. (14) L. Aspin, in «News Briefing», Office of the Assistant Secretary of Defense, settembre 1993, p. 4. (15) L. Chiavarelli, Dopo soldati di pace, la lunga serie di equivoci, Pagine di «Difesa», 6 maggio 2005. (16) ADP, Vol. 5 «Soldiering – the Military Covenant». (17) M. L. Cook (Professor of Ethics, US Army War College), «Moral Reasoning as a Strategic Leader Competency». (18) M. Walzer, Sulla guerra: «Non posso conciliare le concezioni e l’opposizione resta: è una caratteristica della nostra realtà morale: ci sono limiti alla condotta della guerra, e ci sono momenti in cui possiamo e forse dobbiamo superarli (ma i limiti in sé non scompaiono mai)». (19) John R. Schafer, M.A., «Making Ethical Decisions. A practical Model» FBI Law Enforcement Bullettin, May 2002.

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L’EPOPEA DELL’ARMIR


L’EPOPEA DELL’ARMIR Gli italiani sul fronte orientale Il fronte orientale vide livelli di ferocia e di spietatezza senza precedenti, con i contendenti impegnati in una guerra di annientamento senza alcun riguardo per le convenzioni internazionali. In quel contesto, il comportamento delle truppe italiane si differenziò nettamente. Ripercorrere quei momenti rende giustizia alle Unità e a quanti eroicamente caddero nelle gelide steppe russe.

La bibliografia sulle operazioni belliche del contingente italiano inviato a combattere in Russia nel corso della seconda guerra mondiale è estremamente vasta. Abbondano i diari e le memorie di reduci dal fronte e dalla prigionia e, soprattutto, i libri sull’epica ritirata che coinvolse decine di migliaia di militari dell’ARMIR (Armata Italiana in Russia). Meno noto e dibattuto è, invece, il comportamento dei soldati italiani verso i civili, svolgendo essi il ruolo di Esercito occupante in ottemperanza a ordini politici che imponevano di portare la guerra all’Unione Sovietica. Recenti studi sul fronte orientale, tradotti in italiano, hanno approfondito l’analisi del drammatico coinvolgimento dei civili nella contrapposizione senza esclusione di colpi tra i regimi più autoritari e sanguinari della storia d’Europa (1). I combattimenti tra russi e tedeschi del 1941-1945 assunse un acme di ferocia e spietatezza mai raggiunto nel corso della seconda guerra mondiale (2). I due belligeranti combatterono una guerra di annientamento, senza alcun riguardo per le convenzioni internazionali sul diritto umanitario che non risparmiò le popolazioni civili. Fu un conflitto combattuto senza quartiere, una contrapposizione altamente ideologizzata tra due dittature, che fecero leva sul sentimento patriottico e nazionalista dei due popoli, sugli odi atavici che li dividevano, e, per quanto riguarda la parte tedesca, anche su convinzioni di ordine razziale. Reparti speciali di polizia segreta inviati sul fronte russo ricevettero il compito di eliminare i cosiddetti nemici della razza, ebrei, bolscevichi e slavi, che la Wehrmacht doveva appoggiare con una condotta bellica priva di scrupoli. Fin dalle prime fasi, le operazioni militari furono contrassegnate da battaglie di grande intensità dove, al superiore addestramento e capacità di manovra tedesca, i russi cercavano di opporre una strenua resistenza in difesa del suolo patrio. An-

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che quando circondate e isolate, le truppe russe lottavano in genere fino all’ultima cartuccia, senza riguardo per le elevate perdite in vite umane. Dopo le prime sconfitte dell’estate-autunno 1941 e la conseguente ritirata generale, i sovietici ricorsero alla tecnica della «terra bruciata», distruggendo sistematicamente nel corso del ripiegamento ogni infrastruttura della rete viaria, ogni manufatto legato alla produzione industriale, ogni fonte di approvvigionamento alimentare. Ciò, se acuì i problemi logistici tedeschi di rifornimento dei reparti, ridusse alla fame le popolazioni civili, costrette anche a subire gli espropri e le requisizioni di massa dell’occupante, che cercò di sfruttare al massimo le residue risorse economiche dei territori invasi, come bottino di guerra. Fin dall’estate 1941 i due contendenti riservarono un trattamento spesso inumano al nemico che si arrendeva: si passava cioè dall’eliminazione immediata sul posto, allo sfruttamento forzoso come manodopera dei prigionieri di guerra sottoposti a orari di lavoro massacranti e a condizioni di vita bestiali. Il Governo russo non aveva ratificato le convenzioni di Ginevra del 1929 sul trattamento dei prigionieri di guerra e nell’agosto 1941 arrivò a dichiarare, in via riservata sui canali diplomatici, di non ritenersi più vincolato agli accordi internazionali circa il divieto di usare aggressivi chimici e circa l’assistenza da prestarsi a feriti e ammalati degli altri Eserciti in guerra. L’Esercito tedesco se sulla carta emanò ordini che si attenevano ai trattati internazionali, nella pratica non li rispettò affatto. La miglior sorte fu riservata alle centinaia di migliaia di volontari e di prigionieri russi che furono avviati nel territorio del Reich per contribuire all’economia di guerra tedesca, mentre chi rimase a lavorare nella zona delle retrovie visse in condizioni miserevoli spesso ai limiti della sopravvivenza (3). Nei campi di concentramento tedeschi, Ufficiali e soldati russi vi-


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In apertura.

La cattura di alcuni soldati russi. Sopra. Celebrazione della Santa Messa alla presenza dei prigionieri sovietici.

nell’estate 1941, quando la Missione Militare Italiana a Berlino riferì al Comando Supremo di un colloquio riservato avuto con un’alta carica del servizio informazioni tedesco. Il rapporto riportava le spaventose perdite subite fino ad allora dai due contendenti che assommavano a non meno di 600 000 uomini per i tedeschi (tra morti, feriti e dispersi) e a oltre 4 milioni di militari sovietici. «Le cifre delle perdite russe date dall’O.K.W. (Alto Comando dell’Esercito, n.d.a.) – 5 milioni – sono leggermente superiori alla realtà, perché includono molti lavoratori; tuttavia non sono certo inferiori ai 4 milioni. Riconosciuto l’errore iniziale, i prigionieri russi non vengono più fucilati e si pensa convenga meglio impiegarli come mano d’opera». Altre fonti del Comando Supremo italiano confermarono che il conflitto combattuto a est aveva assunto tragici contorni senza alcun riguardo per le leggi di guerra. La campagna invernale (1941-1942, n.d.a.) ha confermato e messo ancor più in evidenza le caratteristiche di questa guerra, non solo è totale ma anche di annientamento. Germania e Russia combattono per la loro esistenza e perciò hanno

A destra. Distribuzione del rancio ai prigionieri in un campo di concentramento italiano.

vevano frammisti, quasi senza assistenza sanitaria, con un’alimentazione insufficiente, sottoposti a continue vessazioni e lavoro duro (4). Sul fronte opposto, i campi di concentramento russi erano anche peggiori di quelli nazisti e non infrequenti erano casi di antropofagia da parte dei prigionieri spinti dalla fame e dalle privazioni (5). I russi alimentarono fin da subito la guerriglia partigiana dietro le retrovie tedesche, reclutando agenti informatori e sabotatori anche tra donne e ragazzi e infiltrando nelle linee nemiche reparti di truppe speciali in abiti borghesi per compiere attentati e organizzare la resistenza. A questi sistemi di lotta non convenzionale e sovversiva i tedeschi risposero con metodi brutali, ricorrendo su larga scala a rappresaglie contro i civili e alla presa indiscriminata di ostaggi. Nella controffensiva verso il cuore della Germania del 1943-1945, i russi ripagarono l’Esercito tedesco delle violenze perpetrate contro la popolazione civile, con un comportamento altrettanto barbaro e vendicativo verso coloro, soprattutto ucraini, cosacchi, estoni, lettoni, lituani che avevano appoggiato l’occupazione dei territori dell’Unione Sovietica. L’avanzata delle truppe di Stalin verso ovest fu accompagnata dalla fuga in massa dei civili di origine tedesca in cerca di scampo dalle orde dell’Armata Rossa. Il massacro che si andava compiendo sul fronte orientale fu appreso dai vertici militari italiani già

impresso alla lotta un carattere di distruzione e ferocia, come da molti secoli non si verificava nelle guerre europee. L’uccisione in massa di prigionieri, i provvedimenti di rigore presi da entrambe le parti contro le popolazioni, le distruzioni, costituiscono un aspetto caratteristico di questa lotta, come messo in rilievo nell’articolo del critico militare svizzero, Colonnello Danicker: Si tratta di una vera e propria guerra di annientamento nel senso antico, la quale tocca la sostanza stessa di tutto un popolo. Nelle altre campagne si è trattato piuttosto di un giuoco a scacchi. Chi era accerchiato ha capitolato. Ora invece la lotta viene condotta al coltello. La strategia russa – nella quale affiorano naturalmente concezioni asiatiche – porta in campo anche le donne e gli adolescenti e

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distrugge tutto nel ripiegamento. Si tratta del resto di un fenomeno ricorrente ogni qualvolta due opposte ideologie, fanaticamente sostenute dagli avversari, vengano in contrasto. (...) si manifestano quegli stessi caratteri di ferocia che si sono verificati nelle guerre di religione dei secoli scorsi. In questo quadro di brutalità e di sistemi di lotta contrari a ogni norma del diritto bellico, il comportamento delle truppe del CSIR prima, e dell’ARMIR poi, verso prigionieri e civili russi, si distinse da quello adottato dagli altri Eserciti belligeranti. Nel periodo di impiego del CSIR, tra il luglio 1941 e quello dell’anno successivo, i militari russi catturati venivano avviati, in base a precedenti accordi fra i due Governi italiano e tedesco, dopo un sommario interrogatorio, ai campi di concentramento posti sotto la sorveglianza di unità germaniche, nei quali non vi era alcuna ingerenza da parte dei Comandi e reparti italiani, in quanto il CSIR operò sempre alle dipendenze di un’Armata tedesca. Soltanto a inverno inoltrato il Comando germanico concesse a quello italiano di trattenere qualche centinaio di prigionieri che, in collaborazione con reparti del genio e dell’intendenza, venivano saltuariamente impiegati nelle retrovie in lavori di manovalanza, stradali e di sgombero di piste dalla neve (6). Per tali prigionieri, ai quali veniva distribuito lo stesso rancio e la razione di sigarette assegnata ai militari italiani, venne impiantato un apposito campo ben organizzato e nel quale i soldati russi trovarono una decente sistemazione. Il trattamento fu tale da indurre i prigionieri a offrirsi spontaneamente per il lavoro per evitare di essere trasferiti nei campi gestiti dalle autorità tedesche. Molti dei prigionieri venivano impiegati senza alcuna sorveglianza. Diversamente dal fronte dell’Africa settentrionale, dove i prigionieri del Commonwealth venivano inviati nei campi di concentramento in Italia, lo CSIR e l’ARMIR non avviarono mai in Patria prigio-

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Adunata in un campo di prigionia per militari sovietici catturati dalle forze dell'Asse. Estate 1942.

nieri russi. All’inizio della guerra il Governo sovietico aveva dichiarato che, pur non figurando fra i firmatari della Convenzione di Ginevra, ne avrebbe ugualmente rispettato le disposizioni, a condizione di reciprocità. Due mesi dopo, il 21 agosto 1941, il Governo tedesco dichiarava a sua volta che, di fronte alle constatate atrocità perpetrate dai russi sui prigionieri germanici, non si sarebbe più considerato vincolato alle disposizioni di Ginevra. Nella stessa circostanza il Comando tedesco emanò una circolare alle sue truppe e a quelle alleate combattenti sul fronte orientale, per giustificare la propria decisione con l’elencazione di una serie di terribili atrocità che sarebbero state commesse dai russi, di cui faceva una specie di terrificante riassunto. Il Governo italiano non si associò alla dichiarazione tedesca e il Comando del CSIR continuò a comportarsi secondo le norme stabilite dalle convenzioni internazionali ratificate all’Aja nel 1907 a Ginevra nel 1929. Soltanto molto più tardi, il 12 marzo 1942, ebbe a comunicare al Comitato Internazionale della Croce Rossa che da quel momento, per mancanza di reciprocità, avrebbe cessato dal comunicare le liste dei prigionieri russi. Nel periodo compreso tra il luglio 1942 e il gennaio 1943, la costituzione dell’ARMIR determinò l’organizzazione di due campi di prigionia a Stalino e a Dniepropetrosch, con 835 militari. Successivamente il numero dei campi si elevò a dieci, con un totale di circa 5 000 prigionieri provenienti per la maggior parte da campi tedeschi, dai quali giungevano in condizioni spaventose. I tedeschi avevano emanato disposizioni particolareggiate e umane circa il trattamento dei prigionieri, ma mentre nei loro campi esse furono disattese, in


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quelli italiani le analoghe norme impartite dai Comandi italiani trovarono sempre regolare applicazione. I malati, trascurati completamente dai tedeschi, venivano curati e ricoverati poi in un convalescenziario per prigionieri, appositamente costituito dagli italiani a Rikovo. Se nei campi germanici, ufficiali e truppa erano accantonati promiscuamente, in quelli dell’ARMIR si provvide alla loro separazione come previsto dalle convenzioni internazionali. Il comportamento italiano si diversificò da quello dell’alleato anche nel campo del vettovagliamento e del vestiario, il cui rifornimento sarebbe dovuto spettare al Comando tedesco, anche per i prigionieri in mano italiana. Mentre le autorità germaniche avevano stabilito razioni diverse per gli addetti ai lavori pesanti, a quelli leggeri, ai non impiegati in lavori e ai malati, l’intendenza dell’8ª Armata, constatata la grave insufficienza dei viveri previsti dalle tabelle, ordinò che ai degenti nelle infermerie e ai soggetti deperiti o denutriti fosse distribuita la razione del soldato italiano e autorizzò i Comandanti dei campi a estendere a tutti gli altri la razione viveri spettante agli addetti ai lavori pesanti. Per il vestiario, non essendo state accolte le numerose richieste rivolte ai servizi tedeschi, venne ordinata la distribuzione di indumenti usati ritirati alle truppe italiane, a seguito della sostituzione con altri nuovi. Alcuni episodi ben esemplificano l’atteggiamento dei Comandi italiani verso i prigionieri russi. A Voroscilowgrad, per provvedere alla distribuzione di coperte ai militari sovietici che ne erano sprovvisti, venne temporaneamente ritirata una coperta ai militari italiani del presidio. Il 21 dicembre 1942, durante il ripiegamento, giunse a Voroscilowgrad, proveniente da Kantemirovka, un gruppo di militari italiani appartenente a un battaglione di rincalzo; ritirato il rancio, questi militari lo consumarono con prigionieri russi che li avevano volontariamente seguiti nella ritirata, trasformandosi in protettori e soccorritori. A Rikovo, il Comandante del locale campo di prigionia ebbe la disapprovazione da parte del Comando tedesco perché aveva fatto fare il bagno ai prigionieri. La Divisione alpina «Cuneense» rilevò dalla 294ª Divisione tedesca circa 600 prigionieri russi, impegnati in lavori di fortificazione campale, in cattive condizioni di nutrizione e di vestiario (la maggior parte di essi erano scalzi). Ai primi di novembre un ordine dell’Intendenza tedesca stabilì che ai prigionieri di guerra dovesse essere distribuita una razione viveri ridotta. Il Comandante della Divisione, nella considerazione che i pochi prigionieri in custodia lavoravano e rendevano sufficientemente, dispose che fosse loro distribuita quasi al completo la razione del soldato italiano e fece spogliare e rivestire a nuovo una compagnia per dare abiti e scarpe usate ai prigionieri.

I rapporti fra la popolazione civile e le truppe italiane furono improntati in genere a reciproco rispetto e talvolta anche a cordialità, soprattutto nelle regioni ucraine. Qualche caso sporadico di violenza o di delinquenza reso noto al Comando italiano venne severamente punito. Così, ad esempio, a Rikovo un soldato della Divisione «Torino» che aveva ucciso una donna per rapina, fu immediatamente processato da un tribunale straordinario recatosi sul posto e, dopo un pubblico dibattimento al quale furono presenti molti russi, condannato a 26 anni di reclusione. Sempre a Rikovo, un Ufficiale italiano accusato di aver tentato violenza a una donna, fu punito con un mese di arresti di fortezza e immediatamente rimpatriato. Gli ordini dei Comandi superiori sulla necessità di rispettare la popolazione erano categorici: È mio preciso intendimento che i nostri reparti acquistino la fiducia dei civili in modo che ci sia assicurata la sempre più fattiva collaborazione da parte della popolazione della zona. Prego pertanto di voler svolgere opera fattiva ed energica per convincere Ufficiali e truppa della assoluta necessità di quanto esposto». «Contegno con la popolazione civile: deve essere corretto, dignitoso, energico. Evitare che i militari circolino con civili, specialmente donne. Furti di bestiame e di qualsiasi genere devono essere assolutamente evitati. Reprimere con la massima energia e severità gli spari abusivi (passibili di denuncia). (...) Punirò severamente qualsiasi abuso commesso a danno della popolazione. Notevoli aiuti furono concessi alla popolazione nel campo alimentare e dell’assistenza sanitaria: nell’inverno 1941-1942 il Comando della Divisione «Torino» organizzò e fece funzionare il locale orfanatrofio, distribuendo ai circa 400 bambini viveri e vestiario e reclutando a pagamento il corpo insegnante; nelle retrovie dell’ARMIR vennero fatti funzionare per la popolazione 29 ospedali, 75 ambulatori cui si dedicarono 71 medici e 157 levatrici; nelle soste, frequenti furono i casi di nostri soldati che aiutarono i contadini nei lavori agricoli. Così riporta la relazione del Direttore di sanità del CSIR: Per mio ordine tutti gli ospedali da campo e di riserva italiani istituirono ambulatori gratuiti per la popolazione civile che largamente beneficiò di tale aiuto, priva, com’era ridotta, di qualsiasi mezzo di cura e specialmente di materiale di medicazione. (...) Come da mie precise disposizioni furono sempre istituiti e mantenuti buoni rapporti dai medici italiani con i sanitari russi, per la cooperazione ritenuta indispensabile al fine della difesa igienica delle truppe che non poteva prescindere da quella della popolazione civile per la quale, serpeggiando numerose endemie di difterite, tifo esantematico e dissenteria, si provvide sempre a fornire mezzi pro-

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filattici e personale per disinfestazioni e disinfezioni, mezzi curativi e soccorsi alimentari. A riprova dell’atteggiamento amichevole della popolazione russa verso le truppe italiane, sta il fatto che i Comandi e le unità operanti furono raramente oggetto di incursioni e atti di sabotaggio da parte dei partigiani, e comunque le perdite subite a opera dei franchi tiratori avversari risultarono sensibilmente inferiori a quelle tedesche. Anche durante il ripiegamento dal Don, i nostri reparti non trovarono ostilità ma spesso aiuto e conforto dai civili locali. Molti furono i casi in cui russi, specialmente le donne, si rivolsero ai militari italiani per essere difesi dalle angherie e dalle violenze dei soldati tedeschi. Tutte le volte che, in territorio occupato, le truppe italiane venivano avvicendate da quelle tedesche, grave era la preoccupazione che insorgeva negli abitanti nel timore di un peggioramento della situazione. Gli italiani cercarono di contenere al minimo le requisizioni, preferendo diminuire alquanto la razione delle truppe, e, quando furono eseguite, si provvide a pagarne regolarmente l’importo. Si evitò di imporre contribuzioni in viveri ai privati, mentre le requisizioni di immobili furono limitate quasi esclusivamente ai locali pubblici, anche se talora per ubicazione e per caratteristiche abitative non rispondevano alle necessità. Così riporta una relazione del Maresciallo d’Italia Giovanni Messe, Comandante del CSIR e del XXXV Corpo d’Armata inquadrato nell’ARMIR fino all’ottobre 1942, redatta nel settembre 1945: (...) Anche in fasi operative che avrebbero richiesto il massimo sfruttamento delle risorse locali (a causa della difficoltà dei rifornimenti, n.d.a.), le nostre truppe pesarono il meno possibile sulle popolazioni. Allorquando il pantano delle piste non consentiva alle colonne logistiche dell’intendenza di raggiungere le unità più avanzate, nulla fu requisito con la violenza e tutto regolarmente pagato ai legittimi proprietari. (...) Posso per personale constatazione affermare che devastazioni terrificanti come quelle operate dalle truppe russe in ritirata io le ho viste soltanto con i bombardamenti aerei scientifici. A parte ogni considerazione di carattere umanitario, ritengo che sia più che evidente che gli italiani, almeno per le zone nelle quali dovevano sostare e vivere, non avevano nessun interesse ad accrescere il quadro di desolazione e di squallore già esistente. (...) Rapporti più che cordiali si stabilirono fra le nostre truppe e le popolazioni civili. Gli italiani avevano saputo conquistare l’animo dei russi, di tutti i russi, anche dei partigiani che noi non ci accorgemmo mai di avere nelle nostre retrovie. Sotto questo aspetto si aveva l’impressione di operare in un paese amico! Il Maresciallo d’Italia Messe presentò un quadro fin troppo idilliaco dei rapporti tra italiani e russi,

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prova ne sia che nella relazione del Comandante dei Carabinieri Reali del CSIR sui primi sei mesi di attività sul fronte russo è riportata la consegna alla polizia segreta tedesca di 249 sospetti agenti del nemico e la fucilazione di 27 partigiani «perché sorpresi in flagrante delitto» (7). Comunque gli ordini emanati da Messe tra il 1941 e 1942 sull’atteggiamento da mantenere nei riguardi dei civili furono chiari e non lasciano spazio a dubbi sull’intenzione di rispettare il più possibile la popolazione. Scopo eliminare presenza civili in vicinanza linee et consentire maggiore libertà movimenti truppe et massimo controllo transito attraverso le stesse per repressione spionaggio dispongo che tutta popolazione tuttora abitante in caseggiati a cavallo postazioni difensive sia fatta sgomberare a tergo alt. (...) Comandanti Divisione organizzino esodo in guisa assicurare at popolazioni sgomberate sicuro asilo in abitati arretrati con particolare riguardo a donne et bambini. Anche il Generale Italo Gariboldi, che sostituì Messe come massima carica militare italiana in Russia, seguì l’indirizzo del suo predecessore, ordinando che: economicamente occorre assicurare alle popolazioni il rispetto dei propri averi e dei propri prodotti. Occorre che la popolazione riprenda serenamente e con fiducia le proprie occupazioni, specialmente nelle campagne, al fine di aumentare la produzione. Politicamente è necessario dimostrare la grande superiorità del vincitore nel rispetto della legge, del diritto, della giustizia. La migliore propaganda si attua perciò pretendendo e ottenendo da tutti correttezza di contegno, rispetto della proprietà, giustizia, tutela della vita e dei beni di chi ci è sottomesso. Continua Messe nella sua relazione: La sosta dei prigionieri e disertori russi si limitava presso i nostri Comandi a 36-48 ore o poco di più, dopo di che venivano accompagnati – quasi sempre con automezzi – al campo di concentramento più vicino indicato dai Comandi germanici. Ben presto però cominciarono a diffondersi nei Comandi italiani le notizie circa il trattamento che i tedeschi facevano ai prigionieri russi. Trattamento di eccezionale rigore e a volte bestiale. Nessuna pietà per i deboli e gli ammalati; Ufficiali accantonati insieme alla truppa; la razione giornaliera ridotta a un solo rancio e a una brodaglia disgustosa di miglio, priva delle vitamine necessarie non tanto per lavorare quanto per sostenere una vita umana. (...) Tali fatti non potevano non fare presa sugli italiani e infatti i nostri Comandi: cominciarono a non segnalare ai tedeschi il numero esatto dei prigionieri; approfittando della carenza dei mezzi di trasporto e della impraticabilità delle strade trattenevano un certo numero di prigionieri, adibendoli a servizio di ausilio. Tutto ciò allo scopo di sottrarre il più possibile i prigionieri ai pati-


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Colonna di prigionieri sovietici scortata da un carabiniere dell’ARMIR.

menti che venivano loro inflitti nei campi germanici e procrastinare il giorno della consegna che doveva alla fine necessariamente avvenire. (...) Fu prescelto come sede del campo di concentramento di Karjnskaja un ampio kolkos con grandi capannoni ben riparato, suddiviso con tramezzi di legno, disinfettato, provvisto di paglia. Furono impiantati i servizi igienici (bagno, disinfestazione, infermeria) e i servizi generali (cucina, latrina). Il personale di guardia era costituito da una ventina di soldati che montavano accoppiati a prigionieri ucraini volontariamente offertisi per il servizio di guardia. Gli ufficiali russi disponevano di un locale dove mangiavano e dormivano isolati dalla truppa. Non furono mai impiegati in lavori ma esclusivamente adibiti all’inquadramento dei prigionieri che, invero, si dimostravano molto disciplinati. (...) Fu istituita la messa al campo e fu consentito l’ingresso al campo dei parenti dei prigionieri e dei civili in genere che volessero chiedere ai prigionieri notizie dei loro congiunti e portare loro doni. Le notizie dell’umano trattamento usato dagli italiani ai prigionieri si diffusero ben presto anche nelle linee nemiche col risultato che nello spazio di 15 giorni (25 agosto - 10 settembre 1942) oltre 800 disertori russi si presentarono alle nostre linee sul Don. (...) Quando a metà febbraio 1943 fu ripreso il ripiegamento momentaneamente sospeso e si dovette consegnare i prigionieri ai tedeschi, la notizia fu accolta con dolore e scoppi di pianto: molti prigionieri si diedero alla fuga, favoriti dai nostri soldati di guardia. Essi avevano infatti seguito spontaneamente le truppe italiane in ritirata e non volevano finire nelle mani dei tedeschi (8). Durante il periodo di amministrazione italiana dei territori occupati dall’ARMIR furono riorganizzate le attività civili e sociali che il passaggio della guerra

aveva temporaneamente interrotto. Gli uffici affari vari dei Comandi di Corpo d’Armata per la zona delle operazioni e la Direzione delle Tappe per la zona delle retrovie provvidero a svolgere il censimento della popolazione, a riaprire scuole e chiese, ad amministrare la giustizia, ad adeguare i servizi sanitari all’emergenza, a mantenere l’ordine pubblico. La popolazione espresse la propria gratitudine alle autorità italiane per la riapertura delle chiese (oltre 50), provvedimento che rispondeva ai desideri della massa, profondamente pervasa da sentimento religioso e osservante del rito cristiano-ortodosso. Furono riaperte complessivamente 477 scuole frequentate da 28 000 allievi. Il servizio sanitario fu organizzato riattando gli ospedali civili danneggiati, riaprendo gli ambulatori e rifornite per quanto possibile le farmacie, per garantire agli abitanti un minimo di assistenza sanitaria. Dove non fu possibile l’immediata riapertura degli impianti sanitari preesistenti, si ricorse all’opera dei medici militari. Tutti gli ospedali da campo e di riserva italiani istituirono ambulatori gratuiti per la popolazione civile che largamente beneficiò di tale aiuto. L’amministrazione della giustizia non costituì un problema, in quanto la popolazione si mantenne tranquilla, con i reati più comuni costituiti da furti e contravvenzioni alle disposizioni delle autorità locali (oscuramento, coprifuoco). Per finanziarie le amministrazioni locali si applicò un’imposta personale a tutti gli abitanti dai 18 ai 65 anni. I rapporti con i civili rimasero buoni anche nella seconda parte del 1942, tanto che il Comando del Corpo d’Armata alpino nella «Relazione mensile sullo spirito della truppa e delle popolazioni dei territori occupati», datata 31 dicembre 1942, specificò che i rapporti tra la truppa e la popolazione civile si sono mantenuti normali. Nessun incidente da segnalare, persistendo corretti e cordiali i rapporti con la popolazione. In precedenza lo stesso Comando aveva rilevato che I militari, durante il successivo spostamento in zona di operazioni, si sono cattivati con il loro contegno, la simpatia delle popolazioni dei territori occupati, fatti segno costantemente a cortesie da parte degli abitanti. (...) Con le popolazioni, il contegno è stato sempre dignitoso – senza eccessive confidenze – improntato allo spirito di carità che distingue il nostro soldato d’innanzi alla miseria materiale e spirituale. I rapporti quindi fra la truppa e la popolazione, si sono mantenuti cordiali – anzi il senso di simpatia che gli alpini suscitano nei paesi che li ospitano, è andato aumentando col passare del tempo. Le popolazioni ucraine delle zone di Rikovo, prima, Gorlowka, Voroscilowgrad, poi, dove hanno sostato i reparti, hanno dimostrato in generale aperta simpatia per il nostro soldato. Episodi sporadici di rapine di frutta, verdura, bestiame, causati più che altro da necessità contingenti in relazione a esigenze logistiche non potute soddisfare per cause di forza maggiore, non

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hanno influenzato la buona opinione dell’ambiente locale sul soldato italiano. Scarsissimi incidenti, tutti di breve entità. Lo spostamento dalla zona di Voroscilowgrad alle sponde del Don ha fatto incontrare una popolazione civile alquanto diversa. Essa piuttosto chiusa, a differenza degli ucraini, per quanto non dimostri nessun atteggiamento di aperta ostilità, è da considerarsi con diffidenza. La vicinanza del nemico suscita in alcuni la speranza di rivincita delle forze russe, avvalorata da qualche atto propagandistico a mezzo manifestini e dalla infiltrazione di qualche elemento lanciato da aerei. Nel complesso la popolazione dei campi non dà segni di insofferenza e comincia ad aprire la sua simpatia alle nostre truppe. Meno ottimista appariva il Comando del II Corpo d’Armata che nella «Relazione sullo spirito delle truppe e delle popolazioni dei territori occupati del novembre 1942» osservava che: è ancora difficile comprendere quali siano le idee e lo spirito della popolazione dei territori occupati. Si ha tuttavia l’impressione che la nostra presenza sia appena sopportata, anche da quelli che sono contrari al regime sovietico. Influisce forse sulla situazione la mancanza, molto sentita, di generi alimentari e di vestiario. Tutto consiglia a diffidare di tutti. Nel settembre 1942, il Comando dell’ARMIR diede disposizioni per la costituzione di nuclei di milizie locali per lo svolgimento di compiti di polizia, ordine pubblico, sfruttamento delle risorse naturali e concorso alla lotta anti partigiana. All’ARMIR fu aggregata la Divisione di fanteria con organici da occupazione «Vicenza», destinata a svolgere compiti di controllo delle retrovie e di lotta alla guerriglia. La Grande Unità, priva del Reggimento di artiglieria e rinforzata da un battaglione Carabinieri, operò nelle seconde linee del fronte orientale per circa due mesi (ottobre-novembre 1942), provvedendo alla sicurezza delle vie di comunicazione. Nel corso di queste operazioni, che videro impegnati oltre la metà degli effettivi alle dirette dipendenze del Comando gruppo d’Armate «B» tedesco, gli scontri con i partigiani furono piuttosto scarsi e all’inizio di dicembre, in previsione dell’offensiva sovietica, la «Vicenza» fu trasferita e schierata a difesa delle posizioni arretrate del Corpo d’Armata alpino. Anche i rapporti provenienti dalla Divisione alpina «Cuneense» tra l’estate e l’inverno del 1942, riportavano che: l’attività dei partigiani nella zona della Divisione, anche nelle più lontane retrovie, fu praticamente nulla. Deboli azioni di reazione popolare si ebbero soltanto contro i reparti di coda della colonna della Divisione, il giorno in cui queste iniziarono il ripiegamento dal Don. Nelle conclusioni, la relazione Messe riferisce che: I primi contatti con gli ucraini furono ben presto stabiliti: i rigori dell’inverno li favorirono. Le truppe andavano nelle case acconciandosi in qualche stanza, alla meglio. L’importante era di

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trovare una temperatura possibile e le stufe erano già in funzione. Le donne lavavano la biancheria, i soldati, in cambio, offrivano parte del loro pane e del loro rancio; i nostri medici prestavano disinteressatamente la loro opera e fornivano anche i medicinali ai civili ammalati. (...) Chi semina raccoglie e il CSIR che in Russia ha profuso generosità e comprensione non poteva che essere ripagato con uguale moneta. Senza bisogno di coercizione alcuna il CSIR ebbe a disposizione dovizia di spalatori di neve, locali di ogni genere, personale per spettacoli e concerti, personale per i più svariati lavori ausiliari. Durante la battaglia di Natale (25-29 dicembre

Attestato di riconoscenza rilasciato dai prigionieri sovietici internati nel campo di Karinskaja.

1941) la situazione ebbe momenti di fluidità notevole per cui villaggi furono perduti e riconquistati anche dopo furiosi combattimenti notturni e con una temperatura di 35 gradi sotto zero. In tale circostanza parecchi nostri soldati ebbero salva la vita per il generoso intervento di contadine russe, che sfidando la punizione dei commissari politici, diedero loro ricetto, viveri e protezione fino a quando i russi non furono costretti dalla nostra controffensiva a ripiegare. (...) Anche durante le tristi giornate del nostro defi-


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nitivo ripiegamento tutti i reduci sono concordi nel dichiarare che la popolazione civile piangeva di commozione nel vedere i nostri soldati trascinarsi sulla neve laceri, stanchi, affamati e che spesso forniva ad essi indumenti, viveri, ospitalità. Tutto questo non sarebbe certamente accaduto se i soldati italiani avessero lasciato un cattivo ricordo in quelle popolazioni. In conclusione il contegno dei militari italiani in Russia fu ispirato a spirito umanitario e rispetto del nemico e dei civili. I Comandi italiani evitarono di vessare la popolazione con severe misure coercitive per non incidere ulteriormente in senso negativo sulle già precarie condizioni di vita degli abitanti dei luoghi attraversati dalla guerra e soprattutto per non alimentare il fenomeno partigiano. Il Comandante del Corpo di Spedizione fu costretto addirittura ad apostrofare la naturale e istintiva propensione delle truppe italiane a un atteggiamento fin troppo amichevole verso i civili, che rischiava eccessivamente di offrire il campo allo spionaggio e all’attività dei partigiani russi. Il comportamento italiano si distinse nettamente da quello tedesco, più propenso alle maniere dure e spietate. Il trattamento dei prigionieri di guerra russi si allineò a quello imposto dalle convenzioni internazionali, anche se il nemico non ricambiò tale atteggiamento. Pur non escludendo atti sporadici di atrocità commessi da parte di qualche combattente o Ufficiale italiano, che rientrano nelle consuetudini della guerra, gli ordini emanati dai Comandi superiori non compresero il ricorso a mezzi estremi per riportare l’ordine nelle retrovie o garantire la sicurezza delle truppe negli accantonamenti o nei trasferimenti. Le truppe che marciarono dal 1941 al 1943 contro la Russia di Stalin, nel quadro della guerra di espansione a fianco della Germania voluta dal Governo Mussolini e appoggiata freddamente dai vertici militari che avrebbero preferito concentrare gli sforzi bellici nello scacchiere mediterraneo, si batterono con determinazione pur tra enormi difficoltà di rifornimento e non disponendo spesso di armamenti adeguati. Il soldato italiano fece il proprio dovere fino in fondo senza il ricorso da parte dei Comandi a forme estreme di propaganda virulenta e incitanti all’odio verso il nemico, che invece caratterizzarono fin dalle fasi iniziali del conflitto a est l’indottrinamento politico e lo spirito combattivo tedesco. Pietro Quaroni, Ambasciatore italiano a Mosca, in un rapporto del maggio 1945 affermava: Ho avuto da parte mia informazioni sulla condotta delle truppe italiane in Russia da tre fonti differenti: comunisti italiani, giornalisti stranieri che sono stati sul posto dopo la ritirata del 1942, sudditi sovietici sul luogo. Tutti sono stati concordi nell’affermare che i soldati italiani non solo

non si sono resi responsabili di violenze alle donne, ma che, anzi, in molti casi hanno difeso le donne russe dalla violenza tedesca. Che, in genere, nei riguardi della popolazione locale si sono comportati bene, certo meglio che tutti quanti gli altri (occupanti, n.d.a.). Giovanni Sargeri Colonnello, Capo Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito Filippo Cappellano Tenente Colonnello, in servizio presso l’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito NOTE (1) Cfr. O. Bartov, «Fronte orientale. Le truppe tedesche e l’imbarbarimento della guerra (1941-1945)», Il Mulino, Bologna, 2004; R. Overy, «Russia in guerra. 1941-1945», Il Saggiatore, Milano, 2000; G. Schreiber, «La Seconda Guerra Mondiale», Il Mulino, Bologna, 2004; J. Bourke, «La Seconda Guerra Mondiale», Il Mulino, Bologna, 2005. (2) Dei 55 000 000 di persone uccise in tutto il mondo durante il conflitto quasi la metà furono sovietiche, in maggioranza civili (J. Bourke, op. cit. p. 93). (3) Nel 1944 erano oltre 7 000 000 i civili e i prigionieri di guerra impiegati come lavoratori nell’economia di guerra del Reich. Buona parte di essi proveniva dall’URSS (G. Schreiber, op. cit. p. 75). (4) In totale morirono 3 300 000 prigionieri russi, su un totale di 5 700 000, pari a circa il 60% (J. Bourke, op. cit. p. 95). (5) Tale aberrante fenomeno si registrò in almeno quattro campi di prigionia russi in cui erano rinchiusi anche militari italiani (M. T. Giusti, La memorialistica sulla prigionia in Russia, in «Annali» n. 9/10/11 - 2001/2003, Museo Storico Italiano della Guerra, p. 22). (6) C. De Franceschi - G. de Vecchi, «I servizi logistici delle unità italiane al fronte russo (1941-1943)», SME Ufficio Storico, Roma, 1975, p. 187. Una situazione dell’Ufficio Prigionieri dello Stato Maggiore del Regio Esercito del marzo 1942 segnalava la cattura da parte del CSIR di 14 267 militari russi dei quali 12 472 ceduti ai tedeschi e altri alle autorità romene. Si trovavano rinchiusi in campi di concentramento in Italia solo 3 militari russi, gli altri erano internati in Ucraina. (7) Occorre ricordare che le leggi di guerra internazionali dell’epoca non garantivano ai partigiani la qualifica di combattenti regolari. (8) Stralci della relazione Messe del settembre 1945 furono riportati nel capitolo VII «Il contegno delle truppe italiane verso le popolazioni e i prigionieri russi» del libro scritto dal Maresciallo d’Italia ed edito da Rizzoli nel giugno 1947 col titolo: «La guerra al fronte russo. Il Corpo di Spedizione Italiano (CSIR)». Il volume è stato ristampato nel 2005.

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L’«M 13» DI EL ALAMEIN


L’«M 13» DI EL ALAMEIN La breve storia del carro armato eretto a simbolo dei carristi del deserto Il Colonnello Paolo Caccia Dominioni, Conte di Sillavengo, rinvenne nel deserto egiziano, il 1° luglio del 1948, il relitto di un carro armato sul quale spiccava nitidamente la targa RE 3700. Oggi, nel Mausoleo di Q. 33, quel carro, eretto a monumento, materializza il ricordo di tanti soldati italiani che a El Alamein seppero scrivere un’indelebile pagina di eroismo e amor di Patria.

Nel 2002, il sessantennale della battaglia di El Alamein è stato celebrato con grande solennità alla presenza del Presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, e di alte Autorità inglesi, tedesche, australiane e neozelandesi. Durante tale cerimonia il Presidente Ciampi, ricorrendo il decennale della scomparsa, ha conferito la Medaglia d’Oro al Merito dell’Esercito, concessa «alla memoria», nelle mani della Contessa Elena Caccia Dominioni di Sillavengo, moglie del Colonnello.

Paolo Caccia Dominioni è stato autore della sovrumana impresa di ricerca, recupero e riconoscimento delle salme dei soldati di ogni Nazione caduti e rimasti insepolti nel Sahara occidentale egiziano, ove avevano combattuto in nome della propria Patria e obbedendo alle leggi del dovere militare. Impresa che lo tenne nel deserto per ben 12 anni, insieme al guastatore alpino Renato Chiodini, Medaglia d’Argento al Valor Militare guadagnata alla presa di Tobruk, già suo soldato nel XXXI battaglione genio guastatori nella campagna d’Africa settentrionale e nelle tre battaglie di El Alamein. Di quel periodo Paolo Caccia Dominioni aveva tenuto un diario dettagliato, una vera cronistoria, con gli esiti delle ricerche, le iniziative prese per facilitare il rinvenimento e il riconoscimento delle salme e altri mille piccoli avvenimenti, tipici di un’attività tanto particolare e desueta. Il tutto intrecciato con i propri ricordi dei giorni della battaglia, di quelli precedenti e degli eventi che avevano coinvolto, tra gli altri, anche il proprio battaglione. Questo diario divenne poi parte importante del volume «Alamein, 1933-1962», edito da Longanesi nel 1962 (premio «Bancarella» nel 1963, pubblicato in oltre 500 000 copie in lingua italiana e inglese, riedito nel 1992 da Mursia). Quest’ultima uscita, però, priva dei 41 disegni e delle 74 fotografie con cui l’autore aveva arricchito il testo, per dare al lettore la possibilità di essere anche visivamente partecipe di quanto narrato. Esigenze «editoriali» che, se pur comprensibili, sacrificano la funzione storico-culturale dell’opera. Insieme a un’altra delle sue opere, «Ascari K7», Paolo Caccia Dominioni di Sillavengo, Comandante del XXXI battaglione guastatori del Genio, in Africa settentrionale nel 1942.

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La torretta del carro M 13 rinvenuta tra le sabbie del deserto di El Alamein.

«Alamein» è il più significativo e coinvolgente degli scritti del Conte di Sillavengo. In esso non vi è solo la storia degli eventi, ma anche quella degli uomini, degli ideali e della fede che li muovevano, dei loro entusiasmi e delle loro sofferenze, del coraggio e del valore profusi, con semplicità e slancio, come atto spontaneo e pienamente ovvio, tanto da compierlo, in tutta naturalezza, sino alla prova estrema. Il capitolo V di «Alamein» inizia con la narrazione del contrattacco australiano del 10 luglio 1942, dopo che si era conclusa la prima battaglia di El Alamein, quella dove «mancò la fortuna, non il valore», che aveva portato il 7° Bersaglieri a 111 km da Alessandria, con l’azione affidata alla 3a compagnia dell’XI battaglione carri M13 della Divisione «Trieste», tesa a riconquistare una delle posizioni prese dagli australiani, il cocuzzolo in riva al mare chiamato dai beduini «Tell el Cheikh Fadl Abu Sharsir», ossia il Colle dello Sceicco In apertura e sotto.

Il simulacro realizzato con la torretta e la targa del carro M 13 RE 3700.

Fadl, padre di Sharsir e da noi, più sbrigativamente, Q. 33, oggi inglobata nel comprensorio del Sacrario Militare italiano di El Alamein. Oltre allo svolgimento dell’evento, Paolo Caccia Dominioni descrive anche gli attori: il Maggiore Gabriele Verri, Ufficiale di Stato Maggiore, che comanda l’XI, e il Comandante della 3a compagnia, il Capitano Vittorio Bulgarelli, che proviene dalla Cavalleria, sempre «elegantissimo» (il che non gli

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deve essere stato molto facile, nel deserto) «completo di erre moscia e monocolo, eppure sempre ardente di entusiasmo». Anche Verri è uomo d’eccezione. Ha combattuto in Africa Orientale, nel 1935-36, Tenente carrista sui carri L3, le «scatole di sardine», guadagnando una Medaglia d’Argento al Valor Militare. Tornato

a combattere, in Africa Settentrionale, nell’ultimo atto della terza battaglia di Alamein, 2 novembre 1942, a Tell Alam el Aqqaqir, condurrà i propri carri M13 e 14, e quelli di un reparto corazzato tedesco ai suoi ordini, in un disperato contrattacco contro la massa di carri inglesi che sta irrompendo dietro le nostre ultime posizioni di resistenza.

Promozione per merito di guerra: al magg. Gabriele Verri, comandante dell’XI battaglione carri M 13 Soldato di istinto, affermò al cospetto del nemico in forze soverchianti, le sue qualità di comandante intrepido e capace. Attaccando audacemente con il suo battaglione di carri armati una massiccia formazione di carri armati nemici, impediva l’avvolgimento della sua divisione. Colpito gravemente agli arti inferiori, continuava ad impartire per radio ordini per il proseguimento dell’azione. Esausto per la forte perdita di sangue, veniva trasportato al posto di medicazione dove sopportava stoicamente l’amputazione degli arti inferiori colpiti. Fulgido esempio di coraggio, sprezzo del pericolo, alto senso del dovere e spirito di sacrificio. Tell Alam el Aqqaqir (Egitto), 2 novembre 1942.

Medaglia d’argento al valor militare: alla memoria del cap. Vittorio Bulgarelli, dell’XI battaglione carri M 13 Comandante di compagnia carri M, entusiasta e capace, già distintosi in precedenti azioni, affrontava con il proprio reparto un impari combattimento con una formazione di carri armati nemici preponderanti per numero, corazzatura, armamento e velocità. Giunto con il suo carro a distanza ravvicinata, malgrado l’intenso tiro anticarro nemico, riusciva a mettere fuori combattimento due carri avversari. Ferito, assieme a tutto il suo equipaggio, da un colpo perforante che inutilizzava il carro e che ne aveva provocato l’incendio, si rifiutava di abbandonare il suo posto e continuava a sparare col suo cannone finchè un altro colpo nemico gli toglieva la vita. Bella figura di eroico comandante carrista. Tell Alam el Aqqaqir (Egitto), 2 novembre 1942.

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«Nessuno si illudeva che la calma subentrata la notte del 4, ed estesa a tutto il fronte, potesse durare.... Gli Australiani hanno attaccato la notte scorsa,...improvvisi e violenti, lungo il mare.... Alla prime luci dell’alba hanno raggiunto le pendici di Q. 33...ed investito lo schieramento delle artiglierie pesanti di Armata. Un disastro!.... Mentre i tedeschi della 164a riescono, con l’aiuto di un battaglione della «Trieste» e con gruppi di bersaglieri, a creare un nuovo schieramento tra il mare e la sinistra della «Trento», è decisa la riconquista di Q. 33,...già occupata in forze dal nemico con molta artiglieria. Il compito è affidato al battaglione del Maggiore Verri, XI carristi, Divisione «Trieste».... Gabriele Verri potrebbe starsene in Ufficio di Stato Maggiore avendo superato la severa prova della Scuola di Guerra, ma le tradizioni di famiglia non lo consentono. Suo zio Pietro, Capitano di Stato Maggiore, fu ucciso ad Henni, presso Tripoli, nell’ottobre 1911,...mentre portava all’assalto una compagnia da sbarco della Regia Marina.... Suo padre, Carlo, fu tra i primi mutilati del Carso, sul San Michele, nel luglio 1915: era Generale di Divisione. Per questo Gabriele comanda un battaglione carri, nel crogiolo di Alamein. La compagnia d’urto è la 3a, comandata da Vittorio Bulgarelli,.... I diciannove carri devono sfilare sotto un costoncino di Marsa el Hamra, la Baia Rossa, lanciarsi allo scoperto per tre chilometri nella laguna secca e assaltare le pendici della Quota.. Al loro apparire si scatena il tiro dei 57 anticarro e degli 88. La compagnia avanza sicura, i cingoli mordono in pieno nel fondo umidiccio ma compatto di grossa sabbia nera e di sale, procedendo a zig zag per sfuggire ai colpi che si fanno sempre più fitti. Qualche carro è inchiodato a meno di due chilometri dalla Quota. Allora, diversi convergono verso sud, per salire verso la cresta occultandosi nei valloncelli. Gli altri procedono nella piana. Questi vengono tutti colpiti, sprigionano fiamme e fumo, scoppi e crepitio di colpi nell’interno degli scafi. Un solo carro, isolato e folle, continua illeso a correre verso la cresta, la raggiunge, la sorpassa, scompare dall’altro versante, viene annientato con tutto l’equipaggio oltre la mèta, sul rovescio della linea australiana. Esso porta la targa RE 3700, ma quali sono i nomi dei quattro forti che lo armavano?». (da «Alamein, 1933-1962», capitolo V, di Paolo Caccia Dominioni di Sillavengo).

Oggi, a tanti anni di distanza, in un mondo e in una società che sembrano aver smarrito, quando non rifiutato, i valori posti a pilastro delle generazioni precedenti, rileggere quelle pagine desta, in noi vecchi soldati, un duplice interrogativo: il primo, triste, ci fa pensare di essere dei superati; il secondo induce una perplessità: farebbero altrettanto i giovani di oggi, posti dinanzi a un simile impegno totale? E come non condividere l’emozione che certamente travolge Paolo Caccia Dominioni allorché, il 1° luglio 1948, sei anni dopo quegli eventi, si ritrova in quello stesso deserto di Alamein, «un uomo solo tra cinquemila croci» e individua il relitto dell’M13 RE 3700! L’immensità della tragedia svoltasi in quei luo-

ghi, il ricordo degli uomini che l’hanno vissuta e sofferta, il richiamo silente dei Caduti ancora sparsi tra le sabbie del deserto, i singoli episodi che egli rivive con la mente e che a quella tragedia hanno dato corpo e sostanza, i visi, il suono delle voci di coloro che non sono tornati, sconvolgono certamente il suo animo e sono la molla che ispirerà le sue decisioni e motiverà quei dodici anni di ricerche, di rischi personali tra i campi minati, di impegno e di dedizione: egli sente di dover fa sì che il ricordo di questi uomini, del loro valore e del loro sacrificio, di tanta tragedia, venga «materializzato» nelle forme evocative più degne e non si disperda col trascorrere del tempo. È da ciò che scaturisce, per prima, l’idea del «...simbolo da realizzare nell’erigendo Cortile

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Un carro dell’Ariete nelle dune del deserto.

d’onore...»,«...tra le arcate...», per creare quello che diverrà il Monumento ai Carristi del Deserto. Io ho avuto la ventura, e la fortuna, di conoscere personalmente Paolo Caccia Dominioni e di esserne stato amico per più di vent’anni, dal 1970 sino alla sua scomparsa, nel 1992. Oltre ad averle conosciute leggendo i suoi libri, ho ascoltato il racconto delle tante vicende e, ciò che più conta, credo di aver potuto comprendere l’animus che lo aveva mosso, che ne aveva guidato le azioni. Lo sforzo costante, continuo, di tramandare la memoria, di far comprendere la necessità di materializzarla in forme capaci di resistere al tempo è stata la costante di tutta la seconda parte della sua vita, sia come «ricercatore», sia come inge-

gnere, sia come scrittore e artista. Come soldato, aveva contribuito a creare quegli eventi che alla «memoria» avrebbero dato origine. Il ricordo della sua presenza tra le sabbie del Sahara egiziano, della sua opera umanitaria mossa da pietà e spiritualità cristiane, della profusione di intelletto e di ingegno con cui era andato via via realizzando il Sacrario è stato per lungo tempo lasciato nell’ombra. Fu solo nel 1992, nel cinquantenario della battaglia, quando Commissario Generale di ONORCADUTI era il Generale degli Alpini Nando Gavazza, che la lapide, con testo da me redatto, venne finalmente incisa. Una seconda iniziativa venne presa, nell’anno 1997, dall’Associazione Nazionale Genieri e Trasmettitori e dal Rotary Club Roma Appia Antica, allorché il Generale Vittorio Bernard era Presidente di ambedue i sodalizi: venne fuso un busto in bronzo di Paolo Caccia Dominioni, opera del Maestro Bruno D’Arcevia, collocato nel grande atrio del Sacrario a eternarvi le sembianze del soldato e dell’artefice dell’opera. In precedenza, nel 1988, allorché ero Ispettore dell’Arma del Genio, il Capo di Stato Maggiore dell’Esercito mi incaricò di predisporre una pubblicazione che presentasse, su un piano divulgativo più ampio, la figura di Paolo Caccia Dominioni e la sua opera multiforme di soldato, di artista, di

FINE DELLA BATTAGLIA GRANDE Deserto occidentale egiziano, novembre 1942

«La battaglia si sta concludendo.... A cavallo della Palificata, in regione Tell el Aqqaqir,..., Rommel ha concentrato quanto gli rimane dei suoi carri per opporsi alla fiumana corazzata inglese che dilaga oltre il gran canale aperto fra i due corridoi iniziali.... I carri inglesi sono, in tutto, un migliaio. La difesa è affidata ai trentacinque carri superstiti dell’Afrika Korps, e a una quarantina di M 13 italiani, quanto rimane dell’XI «Trieste» e del 133° «Littorio». Il combattimento viene condotto con ferocia dai due lati. Il Maggiore Gabriele Verri ha ambedue le gambe stroncate da una granata: la strage impazzisce attorno a lui,... Cadono, del battaglione, il Capitano Vittorio Bulgarelli che aveva tentato, il 10 luglio, di riconquistare Quota 33;.... ... al posto di medicazione del 554°, arriva, in orrende condizioni, appena ferito, il Maggiore Verri dell’XI carristi «Trieste». Il dottor Fiamminghi gli amputa ambedue le gambe. Verri, tranquillo, (come se gli mettessi delle gocce negli occhi, scrisse il dottore), chiese una sigaretta e raccontò la sua avventura come fosse capitata a un altro». (da «Alamein, 1933-1962», capitolo XVIII, di Paolo Caccia Dominioni di Sillavengo).

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Quo ota 33, primo o luglio o 1948 «Un uomo solo tra cinquemila croci nel deserto schiacciato dal caldo pesante, senza vento. “119 chilometri da Alessandria” dice il cartello sulla strada asfaltata. Tra i reticolati e la devastazione affiorano mine a centinaia: la collina è rossa di schegge arrugginite, una ogni spanna. Caverne e buche australiane, anch’esse brune di ruggine; avanzi del campo italiano e lo scafo di un carro M 13, ma la torretta, capovolta, giace con il suo pezzo e la mitragliatrice binata al di là della strada, tra le mine. Porta il rettangolino giallo della compagnia Bulgarelli, 3a dell’XI battaglione, Maggiore Verri. I relitti degli altri carri, distrutti il 10 luglio, sono giù nella laguna disseccata: le tracce dei cingoli, sul fondo salsedinoso e compatto, sono nette come fossero di ier l’altro. Il primo, dunque, è il famoso carro che nel contrattacco riuscì a superare l’altura...». **** 21 otto obre 1949 «La torretta del carro è a soli trecento metri dall’erigendo cortile d’onore. Si potrebbe crearle un basamento di pietra con la stessa forma dello scafo M 13, e farne un simbolo, tra le arcate. Ma pesa molto e non ci sono mezzi di sollevamento. Stamane Sillavengo è stato avvertito dal guardiano Gomaa che a quindici chilometri, presso il cimitero inglese, c’è un autocarro munito di travi e paranco, che carica e trasporta grossi blocchi di pietra. Sillavengo corre sul posto e interroga l’autista indigeno che gli risponde in buon italiano. Sillavengo: “Come ti chiami?”. “Milad Mohammed”. “Perché parli italiano cosi bene?”. “Sono tripolino. Caporale d’artiglieria con il Generale Maletti. Ferito e prigioniero a Sidi Barrani dopo la morte del Generale. Liberato alla fine della guerra sono rimasto qui e lavoro”. Ora è l’autista che interroga: “Lei è il Colonnello italiano?”. “Sì”. “Le occorre qualche cosa?”. “Sì”. “Lo so che cosa. Vuole trasportare la torretta che sta nel campo minato del chilometro 119”. “Come lo sai?”. “Me l’hanno detto ieri ad Alessandria, al caffè”. “Puoi farlo?”. “Sì”. “Quando?”. “Dopodomani mattina”. “Ci sono le mine e i beduini che non lasciano toccare niente”. “Non importa. Sono più cattivo io”. “La torretta pesa almeno cinque tonnellate”. “Col mio paranco ne sollevo dieci”. “Quanto vuoi?”. Il bravo Milad ha l’aria offesa. “Neanche una piastra. Chiedo una cosa sola: che il cannone e la mitragliatrice, quando lei farà il monumento, siano puntati verso il Cairo”...». (da «Alamein, 1933-1962», capitolo XX, di Paolo Caccia Dominioni di Sillavengo).

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Biglietto augurale realizzato da Paolo Caccia Dominioni.

scrittore, di ingegnere e di architetto. In breve, la sua vita. Ne uscì un volume, affidato per la pubblicazione alla «Rivista Militare», intitolato «Un Uomo», di cui è oggi in corso la stampa della quarta edizione. Tutte queste iniziative hanno finalmente posto nella giusta luce la figura e il ricordo di Paolo Caccia Dominioni, il significato profondo della sua opera.

Il carro M 13 RE 3700, nel 1949 divenne il Monumento ai Carristi nel Cortile d’Onore del Sacrario Militare Italiano di El Alamein. E lì sarebbe rimasto per molti anni, sino a quando qualcuno, che non aveva mai letto il libro di Paolo Caccia Dominioni, e non ne conosceva il travaglio e l’impegno di trasmettere ai posteri la memoria degli eventi, decise di demolirlo e di sostituire il simulacro del carro con un anonimo mucchio di sassi, sul quale la torretta e la targa sembravano appoggiate a caso. Oltre che brutta e priva di ogni estetica, la nuova sistemazione dell’insieme cancellava la traccia degli eventi tragici e gloriosi che Caccia Dominioni aveva sintetizzato nella sistemazione originaria. La 3a compagnia carri dell’XI battaglione della Divisione «Trieste», gli equipaggi che ne avevano fatto la storia combattendo, i Comandanti che li avevano guidati, cadendo con loro, il rispetto per la loro memoria e per il loro valore: tutto cancellato! Uno scempio che non si poteva accettare! Nel sessantesimo anniversario della «battaglia grande», il Commissariato Generale per le Onoranze ai Caduti in Guerra, giustamente sensibile alle sollecitazioni che gli giungevano da più parti, decise di «ricostruire» il simulacro e, con esso, il monumento originario. E lo ha fatto applicandovi le tecniche più moderne sull’uso del cemento armato ed ottenendo un effetto scenico d’insieme tale da rivalutarne ed esaltarne le motivazioni originarie. L’opera è stata ampliata e completata, nel suo significato, posizionandovi accanto una targa che ha un duplice scopo: • far riflettere, e desistere, chiunque avesse mai, in futuro, l’intenzione di «cambiare» ancora l’impostazione originaria del monumento; • richiamare alla mente dei visitatori i soldati dell’XI battaglione carri, i loro Comandanti, il loro valore ed il loro sacrificio, compiuto nel nome d’Italia. La targa dice: «Questo simulacro, con torretta e targa del carro M13 RE 3700, realizzato inizialmente da Paolo Caccia Dominioni, è stato ricostruito a cura del Commissariato Generale per le Onoranze ai Caduti in Guerra. Il carro era in forza alla 3a cp. dell’XI btg. cr. della D. mot. “Trieste”. Il suo equipaggio si immolò, il 10 luglio 1942, nell’attacco per la riconquista di Tell el Eissa, la fatidica Q. 33. Targa commemorativa del Colonnello Paolo Caccia Dominioni di Sillavengo a Q. 33.

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Veduta del Sacrario.

Il Cap. Vittorio Bulgarelli, Comandante la compagnia, cadde a Tell el Aqqaqir il 2 novembre successivo, nell’ultima battaglia di El Alamein e riposa qui, nel Sacrario. Il Maggiore Gabriele Verri, Comandante del battaglione, Medaglia d’Argento al V.M. “sul campo”, fu a sua volta ferito e gravemente mutilato nella stessa battaglia. Questa targa vuole rammentare nel tempo il cosciente ed eroico sacrificio di Comandanti e Gregari ed onorarne la memoria, con quella di tutti i Carristi del Deserto italiani», (Alamein, Deserto occidentale Egiziano, ottobre 2003). Ciò illustra chiaramente il perché non si potesse in alcun modo accettare quell’anonimo mucchio di sassi su cui la torretta e la targa dell’M13 erano state posate quasi a caso. Il caporale dell’artiglieria coloniale libica Milad Mohammed non avrebbe mai accettato di collocarla lì sopra. Verri, Bulgarelli, tutti i carristi dell’XI «Trieste», in particolare «i quattro forti» che avevano «armato» quel carro, anche se rimasti sconosciuti, si sarebbero ribellati con lui. Forse il nuovo basamento potrà sembrare un po’ troppo «contemporaneo» e moderno, troppo

diverso da quello ideato e realizzato da Paolo Caccia Dominioni. Io credo, però, che esso rispetti sia il suo pensiero sia lo scopo che si era posto, di trasmettere anche visivamente il ricordo di quegli uomini, delle loro azioni e del sacrificio totale di se stessi, offerto alla Patria, senza esitazione e senza alcuna riserva, in obbedienza alle leggi dell’onore militare. E di garantire che tale ricordo, unitamente a quello dei 4 814 Soldati i cui resti mortali riposano nel Sacrario, non avesse mai fine. Nel silenzio solenne del Sacrario, nell’atmosfera evocativa che lo circonda, il ricordo di quei Soldati ne fa rivivere le gesta, e induce a riflettere e a meditare sulla loro sorte e su quella della Patria. «Le guerre si vincono e si perdono con identico cuore»: loro persero con «identico» cuore e con onore. Che il loro ricordo sia sempre tra noi ed il loro spirito riposi in eterno «in quell’angolo di Paradiso che il Dio degli Eserciti riserva ai Martiri ed agli Eroi». Qui si conclude questa breve storia di un carro armato, scritta perché non abbia mai fine. Gualtiero Stefanon Generale di Corpo d’Armata (ris.), Direttore del Circolo Ufficiali delle Forze Armate d’Italia

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ATLANTE GEOPOLITICO NAZIONI UNITE Nel primo semestre 2006, sono da segnalare le previsioni, le riflessioni e le speculazioni su chi sarà il prossimo Segretario Generale dell’ONU. Manca quasi un anno alla sua designazione ma già se ne discute animatamente. Dovrebbe essere un asiatico, dato che l’ultimo fu il birmano U-Thant nel 1971. Negli ultimi tre decenni sono state l’Europa, l’America e l’Africa i continenti che si sono alternati alla guida del Palazzo di vetro, prima con l’austriaco Kurt Waldheim, poi con il peruviano Xavier Perez De Cuellar, quindi con l’egiziano Boutros BoutrosGhali e, infine, con il ghanese Kofi Annan. L’Asia ha buoni candidati, come il vicepremier thailandese Surakiart Sathirathai, il negoziatore dello Sri Lanka Jayantha Dhanapala, lo scrittore indiano Shashi Tharoor o il Ministro degli Esteri coreano Ban Ki Moon. Ma il principio della rotazione continentale non ha mai trovato favore negli Stati Uniti. L’ambasciatore all’ONU John Bolton, nel ribadire che questo principio non è mai stato accettato, ha anche fatto notare che l’Europa orientale mai ha espresso un Segretario Generale dell’ONU. In tale caso potrebbe emergere la figura dell’ex Presidente polacco Aleksander Kwasniewski. In ogni caso si dovrà trovare un accordo nell’ambito dei 15 del Consiglio di Sicurezza, quindi la nomina spetterà ai 191 Paesi dell’Assemblea Generale. In attesa del successore, il Segretario Generale commette una gaffe che suscita vibranti proteste, soprattutto da parte israeliana e americana: Kofi Annan, infatti, durante la «Giornata internazionale di solidarietà con il popolo palestinese», si fa fotografare davanti ad una carta geografica del Medio Oriente priva di Israele. Intanto a Vienna gli investigatori dell’Onu interrogano cinque funzionari siriani sospettati di essere coinvolti nell’assassinio dell’ex Premier libanese, Rafik Hariri. Damasco, che nega qualsiasi coinvolgimento nell’attentato, aveva autorizzato gli interrogatori con la garanzia che agli imputati sarebbe stato permesso di rientrare in patria. A gennaio l’ex Premier spagnolo Aznar avanza una proposta nuova poi discussa informalmente dai Ministri della Difesa a Taormina (9-10 febbraio): espandere la base geografica dell’Alleanza per dare equilibrio al pianeta e sconfiggere l’estremismo islamico. Giappone, Australia e Israele do-

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vrebbero diventare membri a tutti gli effetti, mentre Colombia e India dovrebbero essere legati alla NATO da un’associazione strategica. All’inizio di febbraio anche Rumsfeld e il Segretario Generale dell’Alleanza, da Berlino, sostengono le medesime tesi: il futuro della NATO dipende da un suo orientamento globale e da alleanze da stringere con altri Paesi (quali Australia e Giappone) per fronteggiare sfide globali come il terrorismo. UNIONE EUROPEA Inizia a gennaio il semestre di presidenza austriaca. Nell’ambito della politica europea di sicurezza e difesa, è da segnalare la missione «Althea» in Bosnia-Erzegovina che prosegue, dal 7 dicembre, sotto il Comando di un Ufficiale italiano, il Generale di Brigata Gianmarco Chiarini, che guida un contingente di 7 000 uomini di 33 Paesi, di cui 22 della UE. All’inizio di gennaio anche EUPM, Missione Europea di Polizia Militare in Bosnia, passa sotto il Comando di un Ufficiale italiano, il Generale di Brigata dei Carabinieri Vincenzo Coppola. BALCANI È da segnalare la morte dello storico leader kosovaro Ibrahim Rugova, che non è riuscito a vedere concretizzato lo «status finale» del Kosovo. La sua morte è stata una grande perdita per i Balcani e per l’Europa, perché il Presidente Rugova era un uomo di pace, risoluto di fronte all’oppressione ma profondamente impegnato verso gli ideali della non violenza, ha scritto di lui Xavier Solana. La Bosnia-Erzegovina si incammina sempre più sulla strada della PfP: dall’inizio dell’anno, per decisione del Parlamento della Repubblica Srpska, quell’entità non ha più un Ministero della Difesa separato ed un Esercito esclusivo; d’ora in poi nel Paese esisteranno tre Brigate, una per ciascuna entità (serba, croata e musulmana) che dipenderanno non dalle singole realtà etniche, bensì dalla Presidenza tripartita. Un altro punto a favore di Sarajevo è la decisione della UE, il 24 gennaio, di cancellare l’embargo sulla vendita di armi alla Bosnia, che era in vigore dal 1996.


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Il Montenegro, invece, sta progettando di dotarsi di un Ministero della Difesa indipendente da quello di Belgrado. Se si considera che il Montenegro ha già una moneta (l’euro) diversa da quella della Serbia (il dinaro) le prospettive di separazione diventano sempre più concrete. EUROPA ORIENTALE Scoppia la «guerra del gas». All’inizio dell’anno la Russia taglia le forniture di metano all’Ucraina sostenendo, come motivazione ufficiale, che quest’ultima «sottrae» gas in transito verso i Paesi della UE (in realtà una «tassa» del 15% è regolarmente prevista). Alcuni opinion leaders sostengono, invece, che il vero motivo inconfessabile è che si vuole punire l’Ucraina per la «rivoluzione arancione» di un anno prima. I contraccolpi si fanno sentire anche sui Paesi europei: in Ungheria si avverte un calo del 40% delle forniture, in Austria del 20%, in Polonia del 15%. L’Ucraina accusa Mosca di destabilizzazione, mentre Washington denuncia che i tagli creano insicurezza nella regione. Ma la crisi è politica, più che energetica. Intanto, Putin, nomina l’ex Cancelliere tedesco Schroeder presidente della società della Gazprom, che dovrà costruire, entro il 2010, un gasdotto da 4 miliardi di dollari per trasportare attraverso il Baltico l’energia in Europa occidentale. L’obiettivo è quello di proporsi come il punto di congiunzione fra i Paesi industrializzati e l’OPEC. REPUBBLICHE CENTRASIATICHE Sono da segnalare le elezioni in Kazakistan, dove Nursultan Nazarbayev si conferma ancora una volta leader: al potere da 16 anni, ottiene il 91 per cento dei voti. L’opposizione annuncia battaglia: Ci sono state diverse irregolarità, dice il candidato dell’opposizione Zharmakhan Tuyakbai, al quale è andato solo il 6,64 per cento delle preferenze. Intendiamo utilizzare tutti i mezzi legali per protestare contro queste violazioni, aggiunge, indicando nelle liste elettorali falsificate e in quelle incomplete due dei problemi maggiori. IRAN Continua il braccio di ferro con la comunità in-

ternazionale a proposito del suo programma nucleare. All’inizio di febbraio viene interrotta la cooperazione con l’AIEA, e i cinque Paesi membri permanenti del Consiglio di Sicurezza concordano nel trasferire la delicata materia all’ONU. Ahmadinejad avverte l’Occidente: l’Iran non si piegherà davanti al linguaggio della forza di alcuni Paesi che pensano di essere tutto il mondo. Nella vicenda è da registrare l’inedita ma promettente fermezza della trojka europea (Francia, Germania e Regno Unito), forse effetto della nuova «linea Merkel». Il fatto che l’Europa, una volta tanto, abbia assunto una posizione netta è in discontinuità con la consuetudine di cercare compromessi e tollerare tutto, salvo poi lasciare la responsabilità decisionale agli Stati Uniti (dove il 57% dei cittadini è favorevole ad un’azione militare contro Teheran) per poi accusarli di unilateralismo. ISRAELE Il Premier Sharon si dibatte tra la vita e la morte, il Paese segue con interesse e preoccupazione l’evolversi della vicenda iraniana, lasciando intendere che tutelerà la propria sicurezza «con qualsiasi mezzo». Teheran ribatte minacciando di mandare Israele in coma permanente, proprio come Sharon in caso di attacco. E intanto Gilad Erdan, deputato del Likud e Presidente della Commissione parlamentare per lo sport, propone al Cancelliere Merkel di escludere l’Iran dai prossimi campionati mondiali di calcio. Il successore di Sharon, Olmert, espone il suo programma politico sui dei territori occupati: separarsi dalla popolazione araba di Giudea e Samaria mantenendo il controllo di Gerusalemme est, delle grandi colonie di Maale Adumim, Ariel e Gush Etzion (ci vivono in totale 185 000 ebrei) e della valle del Giordano, che verranno annesse. PALESTINA Le elezioni si risolvono in favore del movimento estremista Hamas, creando non poco imbarazzo in tutto l’Occidente. Come farà ora la UE a sostenere economicamente, come ha fatto finora, l’autonomia palestinese se al potere c’è un movimento che non riconosce a Israele il diritto di esistere? Ma non tutti i mali vengono per nuocere. Ora Hamas dovrà dimostrare di essere una forza di go-

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verno responsabile e moderata, e per farlo non è escluso che si veda costretta a riconoscere lo Stato ebraico. IRAQ Il processo democratico procede a ritmi meno serrati del previsto. I risultati definitivi delle elezioni di dicembre arrivano solo a metà febbraio e confermano la buona affermazione delle liste sciite, ancorché senza la maggioranza assoluta. Ora seguirà l’insediamento del Parlamento, l’elezione del collegio presidenziale, la nomina del Primo Ministro e l’insediamento del Governo, e l’iter durerà verosimilmente tutta la prima metà dell’anno. Prosegue intanto il processo a Saddam, fra dimissioni e sostituzioni dei giudici, proteste, boicottaggi, abbandoni dell’aula, contestazioni e reclami. AFRICA La situazione nel Darfur non accenna a migliorare: la missione dell’Unione Africana, con i suoi 5 000 soldati e 2 000 poliziotti, è troppo esigua per tenere sotto controllo un’area vasta quanto il Texas. Il 12 gennaio l’UA ha deciso di estendere il mandato della missione fino al 31 marzo, ma solo un successivo intervento dell’ONU, supportato da una forte risoluzione del Consiglio di Sicurezza, potrà garantire sicurezza nell’area. Intanto in Congo, il 22 gennaio, otto Caschi blu del Guatemala restano uccisi e altri 14 vengono feriti dai ribelli ugandesi nel parco di Garamba. Anche in Costa d’Avorio le truppe ONU della missione MINUCI, il 18 gennaio, vengono attaccate a Guiglo dal movimento dei «Giovani patrioti», con un bilancio di 4 civili morti. AMERICA LATINA Gli Stati Uniti non riescono a liberarsi dalle scomode presenze dei dittatori, a cominciare dal Venezuela. A cavallo fra 2005 e 2006 la stretta di Hugo Chavez sul Parlamento venezuelano si fa più serrata. Le elezioni gli consegnano una maggioranza di più dei due terzi dei seggi, anche per il boicottaggio dell’opposizione e per il forte astensionismo. Il risultato rende praticamente certa la sua rielezione, nel 2006. I partiti di governo conquistano tutti i 167 seggi della camera

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unica, mentre il movimento di Chavez si aggiudica da solo 114 deputati. Solo il 25 per centro degli aventi diritto è andato alle urne e i più importanti partiti di opposizione, Azione Democratica e Copei, hanno boicottato il voto lamentando mancanza di trasparenza.

L’APPROFONDIMENTO Le «strane guerre» del 2006, iniziate con la «guerra del gas», proseguono con la «guerra santa delle vignette». Questa crisi si sviluppa secondo una curiosa cronologia: prima molto lenta, poi frenetica. Tutto comincia il 30 settembre 2005, quando la rivista danese «Jylland Posten» pubblica le celebri vignette, che per tre settimane tutto sono state, fuorchè celebri. Infatti nessuna rilevanza hanno avuto fino al 20 ottobre, quando alcuni Ambasciatori di Paesi musulmani si sono lamentati con il Primo Ministro danese Rasmussen. Ma anche questo episodio è sfuggito all’opinione pubblica fino al 10 gennaio 2006, quando un giornale norvegese le ha riproposte. Solo il 26 gennaio la Siria richiama per consultazioni il suo Ambasciatore a Copenaghen, mentre Algeria e Libia chiudono le loro rappresentanze diplomatiche. Il 27 anche l’Arabia Saudita richiama il suo Ambasciatore. Da questo momento in poi è tutta un’escalation, un effetto domino i cui riflessi investono tutto il mondo occidentale. Il 28 gennaio in tutta l’area del Golfo Persico si decide di boicottare i prodotti scandinavi (e pertanto anche quelli della Svezia, che non solo non ha pubblicato vignette, ma era stata addirittura citata ad «esempio» nell’ultimo bollettino di Bin Laden). Il 29 avvengono dimostrazioni in Yemen, Libia e Kuwait. Il 30 gennaio nella Striscia di Gaza uomini armati, al grido Danesi, andatevene, assaltano la sede dell’Unione Europea e chiedono che l’Europa porga le proprie scuse al mondo musulmano. Il giorno successivo, il giornale danese presenta le sue scuse, ma il 1° febbraio alcune testate francesi, italiane, tedesche, belghe, irlandesi e spagnole ripubblicano le famigerate vignette. Il 2 febbraio la Norvegia è costretta a chiudere il suo ufficio diplomatico in Cisgiordania. Il 3 febbraio, a Copenaghen, il Primo Ministro e il Ministro degli Esteri, a margine del consueto incontro con i 71 Ambasciatori accreditati, incontrano undici diplomatici di altrettanti Paesi musulmani e spiegano: il governo non può scusarsi a nome di


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un giornale, e Jylland Posten lo ha già fatto. Anche in Iraq, nonostante siano trascorsi più di quattro mesi dalla pubblicazione delle vignette, scoppiano atti ostili proprio nell’area affidata al controllo del nostro Contingente. Una bomba il 30 gennaio prende di mira una pattuglia danese a Bassora; contemporaneamente, il jihad islamico dà quarantotto ore di tempo a tutti gli scandinavi per andarsene. Le dimostrazioni pubbliche si diffondono ovunque, a Bagdad i sadristi proclamano tre giorni di protesta e a Bassora viene emanata una fatwa contro i soldati danesi. I sermoni del venerdì (sempre 3 febbraio), nelle moschee irachene, prendono spunto dal fattaccio e la critica alle vignette è praticamente unanime. In particolare, un imam sciita sostiene che bisogna usare tutti i mezzi disponibili contro i nemici dell’islam. Da notare che la necessità di utilizzare «all available means», era il linguaggio delle risoluzioni dell’Onu, che gli Stati Uniti hanno messo in pratica. Da allora, l’espressione «all available means» equivale all’autorizzazione all’uso della forza. Violente dimostrazioni hanno luogo anche in Pakistan, al grido morte alla Danimarca. Sempre in Pakistan il Senato invita il Governo ad adottare contro i Paesi scandinavi contromisure economiche e politiche. In Indonesia viene devastata l’ambasciata danese di Giacarta. A Gaza una bomba

Il vertice politico-religioso dell’Iran, l’Ayatollah Seyyed Ali Khamenei e il Presidente Mahmoud Ahmedinejad.

viene gettata all’interno del Centro culturale francese. L’ex Presidente iraniano Rasfanjani definisce la pubblicazione delle vignette una strategia ben organizzata contro i musulmani per esporli come terroristi e l’attuale Presidente invita a sferrare un colpo tremendo a coloro che bestemmiano il Profeta, rammentando che la legge islamica prevede la morte per coloro che si rendono colpevoli di blasfemia . Anche il Presidente afghano Hamid Karzai, fedele alleato dell’Occidente, ha definito le vignette un insulto. Migliaia di manifestanti hanno riempito le piazze e le strade di Egitto, Giordania, Senegal, Libano, Repubblica Caucasica del Daghestan, Somalia e persino delle Maldive, chiedendo ovunque il boicottaggio dei prodotti europei. In Iran si attribuisce la responsabilità della crisi ai sionisti, che avrebbero ordito il complotto in quanto infuriati per la vittoria di Hamas. E intanto si bandisce un premio per la miglior vignetta sull’Olocausto. Giovanni Marizza Generale di Divisione, Direttore dell’Istituto Alti Studi per la Difesa

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IN ITALIA IL VERTICE ALLARGATO DELLA NATO TAORMINA - Il 9 e 10 febbraio si è svolto il vertice «informale» della NATO. Hanno partecipato oltre ai 26 Ministri della Difesa degli Stati membri, il Ministro russo Ivanov e quelli dei sette Paesi del «Dialogo Mediterraneo», tra i quali per la prima volta Israele. Cruciali i colloqui con la delegazione russa in vista di un concreto contributo per riportare la pace nelle aree critiche. In particolare, grande coesione e convergenza si sono trovate sul futuro dell’Afghanistan. Infatti, è emerso il comune convincimento di rafforzare la presenza delle Forze ISAF a sud e ad est del Paese. Intanto, da quest’estate, 6 000 uomini si aggiungeranno al contingente attualmente al comando del Generale italiano Mauro del Vecchio, in modo da raggiungere le 16 000 unità previste. Inoltre, un accordo di massima è stato raggiunto per arrivare al massimo coordinamento tra ISAF ed Enduring Freedom potendo così sfruttare al meglio le sinergie di ciascuno. Si è posto anche l’accento sulla necessità che tutti i Paesi che intendono collaborare con la NATO, in particolare quelli del cosiddetto «Mediterraneo allargato», possano avere strumenti adeguati per farlo. Questo conferma quanto le attività della NATO tendano alla sicurezza e all’allargamento del suo orizzonte geopolitico. Ciò in linea con la trasformazione in atto nell’Alleanza, come ha sottolineato il Ministro della Difesa Antonio Martino: ...il pericolo incombente attuale non è più la guerra, quindi la risposta al pericolo attuale, che è il terrorismo, non è la difesa, è la sicurezza. Ha, quindi, aggiunto: mentre gli accordi di difesa tendono ad escludere qualcuno, cioè a rivolgersi contro qualcuno, le organizzazioni di sicurezza tendono ad essere inclusive, nel senso che quanto maggiore è il numero di Paesi che ne fanno parte, tanto più efficace tende a essere l’organizzazione di sicurezza. Tra gli incontri bilaterali è da evidenziare quello tra il Ministro della Difesa russo e quello statunitense. PASSAGGIO DI CONSEGNE IN AFGHANISTAN KABUL - Il giorno 6 febbraio si è svolta, alla presenza del Generale di Corpo d’Armata Mauro del Vecchio, massima autorità militare della NATO in Afghanistan e Comandante dell’ISAF dall’agosto del 2005, il passaggio di consegne, al vertice del Comando della Brigata Multinazionale a Kabul, tra

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il Generale di Brigata Claudio Graziano, cedente, Comandante della Brigata Alpina «Taurinense», e il Generale di Brigata bulgaro Neyko Nenov, subentrante, Comandante della Seebrig (Brigata del sudest europeo, costituita da ben sette Nazioni, compresa l’Italia). Soddisfacente il risultato raggiunto dai nostri militari. Fondamentale è stata l’attività di pattugliamento, spesso condotta in sinergia con le forze locali, per il controllo del territorio, per la ricerca di armi e munizioni e per l’attività di intelligence. Oltre al contributo fornito nell’opera di ricostruzione e nella distribuzione degli aiuti umanitari. Il Generale Graziano ha avuto alle dipendenze ben ventitré Contingenti di diversa nazionalità, tra cui quello italiano, forte di 1 300 soldati, che ha supportato il Governo afghano nel difficile cammino verso la democrazia. Un lavoro fondamentale in un periodo particolarmente ricco di sfide decisive: le prime elezioni libere e l’inaugurazione del Parlamento. Questo Paese, ha sottolineato il Generale Graziano, ha bisogno di una cornice di sicurezza per potersi sviluppare e di non essere lasciato solo. L’alto Ufficiale, nel corso del suo comando, ha ottenuto ampi consensi e la stima delle autorità locali. La sua guida è stata molto apprezzata anche dagli altri Contingenti nazionali che compongono la missione. RIENTRO DAL PAKISTAN ROMA - La prima aliquota di 170 militari italiani appartenenti alla Task Force «Elefante» è rientrata in Patria il 3 febbraio al termine delle operazioni di soccorso della popolazione colpita dal terribile sisma di ottobre 2005. L’operazione, denominata «Indus» dal nome del maggiore fiume pakistano, l’Indo, è iniziata il 20 novembre e ha impiegato 250 militari dell’Esercito, 140 mezzi ed altri assetti logistici necessari per l’organizzazione campale dispiegata. La Task Force, guidata dal Tenente Colonnello Giulio Biot, ha operato a Bagh, città di 100 000 abitanti situata a circa cento chilometri a nord est di Islamabad. Gli interventi più significativi hanno riguardato lo smaltimento delle macerie, la demolizione degli edifici pericolanti, il ripristino del sistema fognario e della viabilità, la realizzazione di opere murarie di contenimento, la sistemazione di aree volte ad accogliere i campi profughi e la distribuzione di materiale sanitario alla popolazione. Il Contingente ha potuto contare su una componente del Comando della Brigata Genio di Udine, una unità di manovra costituita da una compagnia


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viabilità e supporti del 6° Reggimento genio pionieri di Roma, del 2° Reggimento genio pontieri di Piacenza e del Reggimento genio ferrovieri di Castel Maggiore (Bologna). Il supporto logistico è stato fornito dalla Brigata Logistica di proiezione di Treviso e dall’11° Reggimento trasmissioni di Civitavecchia. CAMBIO AL VERTICE DEL 1° COMANDO FORZE DI DIFESA VITTORIO VENETO - Si è svolta venerdì 2 settembre 2005 presso la Caserma «Gotti», la cerimonia d’avvicendamento del Comandante del 1° Comando Forze Difesa. Il Generale di Corpo d’Armata Gaetano Cigna ha infatti lasciato il Comando della prestigiosa Grande Unità poiché chiamato ad assumere un alto incarico presso lo Stato Maggiore dell’Esercito.

Il Generale di Corpo d’Armata Giovanni Ridinò, subentrante, ha frequentato il 23° corso dell’Accademia Militare di Modena e, nella sua carriera, ha svolto incarichi di prestigio nell’Arma del Genio, presso lo Stato Maggiore dell’Esercito e in ambito internazionale, dove, è stato per quasi un anno Vicecomandante della Divisione Multinazionale SudEst in Bosnia Erzegovina. Nel suo discorso, l’alto Ufficiale ha evidenziato come l’attività di Comando rappresenti un momento molto ambito che da corpo ad una sua scelta ideale. Ha, poi, rivolto un deferente saluto alle Bandiere di guerra e agli stendardi dei reparti del 1° FOD ed un sentito riconoscente pensiero ai caduti. La cerimonia, cui è intervenuto il Comandante delle Forze Operative Terrestri, Generale di Corpo d’Armata Bruno Iob, e le massime Autorità civili e religiose del Triveneto, ha visto schierati: lo sten-

dardo del 32° Reggimento carri, la Fanfara della Brigata di Cavalleria «Pozzuolo del Friuli» e un Reggimento di formazione, su tre battaglioni, in rappresentanza di tutti i reparti del 1° FOD. La presenza del Gonfalone della Città di Vittorio Veneto, decorato di medaglia d’oro al Valor Militare, dei Labari dell’Istituto del Nastro Azzurro e delle Associazioni Combattentistiche e d’Arma hanno riaffermato i legami esistenti tra la Grande Unità, la realtà locale in cui essa opera, le istituzioni e le associazioni che assicurano la continuità etico-morale e storica tra le generazioni dei soldati d’Italia. PIENA CAPACITÀ OPERATIVA PER LA DIVISIONE «MANTOVA» TREVISO - Dopo oltre due anni di intensa attività addestrativa e organizzativa si è concluso, con le Esercitazioni «Invitta ’05» e «Solstizio ’05», svoltesi nel periodo 28 settembre - 28 ottobre 2005 presso l’area addestrativa di San Giacomo di Veglia (TV), il processo di validazione del Comando Divisione «Mantova». Le due esercitazioni, grazie alle quali la Grande Unità ha ottenuto, rispettivamente, la Interim Operating Capability (IOC) e la Full Operating Capability (FOC), si sono svolte in uno scenario operativo interamente ideato e prodotto dal gruppo di progetto dello stesso Comando Divisione, che ha visto la «Mantova» gestire un’operazione di stabilizzazione e ricostruzione in presenza di una minaccia «asimmetrica». La validazione del Comando Divisione è stata condotta da un team del CE.SI.VA. di Civitavecchia, che ha esaminato sia le attività propedeutiche all’impiego sia le procedure messe in atto nell’ambito del Posto Comando principale della Divisione. Numerose sono state le autorità civili e militari che hanno assistito all’esercitazione. Tra queste il Sottocapo di Stato Maggiore della Difesa, Generale di Corpo d’Armata Cosimo d’Arrigo, e il Comandante delle Forze Operative Terrestri, Generale di Corpo d’armata Bruno Iob. Gli ospiti hanno potuto visitare l’innovativa struttura del Posto Comando e assistere ad una videoconferenza con il Comando ISAF di Kabul. Nel corso delle due esercitazioni, durate complessivamente 14 giorni, la «Mantova» ha dimostrato le proprie capacità e ha ottenuto la «patente» di piena operatività, proponendosi quale nuova realtà disponibile per tutti gli impieghi operativi, nonché efficace risorsa nazionale di Comando e Controllo, impiegabile anche in versione «multinazionale».

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L’IDENTIFICAZIONE DELLE PIATTAFORME TERRESTRI IN COMBATTIMENTO Nel numero precedente di questa rubrica avevamo tracciato un panorama delle tecnologie e dei dispositivi d’identificazione in combattimento (combat identification) che non prevedono interazione con altri sistemi. Questa volta completeremo la panoramica con l’esame dei dispositivi che utilizzano la tecnica di «interrogazione e risposta». Si tratta di tecnologie ancora sperimentali, non utilizzate in alcuna Forza Armata, il cui principio di funzionamento prevede una prima fase di interrogazione della piattaforma che si sta per ingaggiare o dell’area di interesse per la propria missione. Le piattaforme dotate della stessa tecnologia saranno in grado di rispondere e saranno identificate come amiche. Se non fornisce alcuna risposta, non è detto necessariamente che si tratti di una piattaforma avversaria, ma potrebbe trattarsi di una alleata, sprovvista della stessa tecnologia. Pertanto l’interrogazione potrà fornire due possibili risultati: amico: (se si è ricevuta una risposta corretta); sconosciuto: (se non si riceve alcuna risposta o una risposta non decifrata correttamente). In quest’ultimo caso, l’identificazione è affidata ad altri fattori, in particolare: l’addestramento del personale e la capacità di saper distinguere, visivamente, le piattaforme ed i sistemi amici ed avversari; la possibilità di disporre di una situazione operativa aggiornata, che riporti le posizioni di tutte le piattaforme amiche e, possibilmente, nemiche (situation awareness). La capacità di identificazione in combattimento si riferisce pertanto alla combinazione di questi fattori (dispositivi di identificazione, addestramento del personale e situation awareness). Ogni tipo di dispositivo d’identificazione possiede caratteristiche diverse (probabilità di corretta identificazione, tempo di risposta e così via), che contribuiscono a connotare quel particolare dispositivo in termini di «utilità militare», la cui valutazione è il parametro di riferimento per

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INTERROGATORE

TRASPONDITORE

Uno dei «Dardo» italiani che hanno partecipato alla esercitazione Urgent Quest. Sono stati evidenziati l’interrogatore e l’antenna trasponditore del BTID nazionale installato.

l’adozione di nuove tecnologie di identificazione. Per la valutazione dell’utilità militare (military utility assessment) dei dispositivi d’identificazione successivamente descritti sono stati avviati Gruppi di Lavoro (GdL) internazionali (GdL Coalition Combat Identification - CCID, con la partecipazione di Stati Uniti, Regno Unito, Germania, Francia, Italia, Australia, Canada, Olanda e Svezia, e GdL Combat Identification Working Group - CIWG dell’organizzazione 5 Power, con Stati Uniti, Regno Unito, Germania, Francia ed Italia) e la dimostrazione di tecnologie avanzate di coalizione ( Advanced Coalition Technology Demonstration - ACTD), organizzata dal Comando Alleato per la Trasformazione (Allied Command for Transformation - ACT) e dal Comando Interforze degli Stati Uniti (US Joint Forces Command - US JFCOM), al fine di valutare le tecnologie ed i dispositivi di identificazione disponibili. Tale dimostrazione si è compiuta nel-


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l’ambito della esercitazione operativa Urgent Quest, svoltasi nel poligono di Salisbury (Regno Unito, 19 settembre - 9 ottobre 2005), con la partecipazione di 800 soldati di Stati Uniti, Regno Unito, Australia, Canada, Danimarca, Francia, Germania, Italia e Svezia, 200 tecnici civili delle numerose industrie coinvolte (compresa la società nazionale Selex Communications) e 130 sistemi e dispositivi di identificazione tecnologicamente avanzati. Nel corso di tale evento sono state utilizzate le seguenti tecnologie: • identificazione di obiettivi sul campo di battaglia (Battlefield Target Identification Device); • dispositivo per l’identificazione del soldato appiedato (dismounted soldier identification device); • identificazione in combattimento basata sull’impiego delle radio (Radio Based Combat Identification); • marcatori a radio-frequenza (RF Tag); • sistemi di identificazione ottici (Optical Combat Identification System). L’Italia ha partecipato alla esercitazione Urgent Quest con un plotone del 1° Reggimento bersaglieri (dotato di quattro carri «Dardo» equipaggiati con prototipi di sistemi «Battlefield Target Identification Device» (BTID) nazionali di ultima generazione, sviluppati dalla società statunitense Raytheon e forniti dalla società Selex Communications. Solo Stati Uniti, Regno Unito Francia, Svezia ed Italia sono state in grado di contribuire con proprie tecnologie.

e oscuranti; • azioni di interrogazione e risposta anche con il veicolo in movimento, alla massima velocità. Il principio di funzionamento si basa sulla tecnica della «interrogazione e risposta» cifrata, con l’utilizzo di trasmissioni ad onde millimetriche (37 GHz), modulate a salti di frequenza pseudocasuali, che rendono quasi impossibili le attività d’intercettazione e disturbo. Quando la sequenza trasmessa dall’interrogatore arriva alla piattaforma interrogata, il trasponditore installato su di essa riceve il segnale, lo decodifica e invia automaticamente la risposta, con i dati identificativi. La forma d’onda utilizzata dal BTID è stata studiata per consentire la cifratura dei dati inviati e garantire la necessaria robustezza alle interferenze ed alle riflessioni (cammini multipli), per essere sicuri di non ricevere rimbalzi e/o false risposte.

IDENTIFICAZIONE DI OBIETTIVI SUL CAMPO DI BATTAGLIA ( BATTLEFIIELD TARGET IDENTIIFIICATIION DEVIICE - BTID) È un sistema di identificazione per veicoli da combattimento, definito dallo STANAG 4579, ratificato da quasi tutte le Nazioni NATO ed implementato, in via sperimentale, solo da Stati Uniti, Francia, Regno Unito e Italia. Le caratteristiche principali del BTID sono: • identificazione di piattaforme amiche equipaggiate con BTID e «sconosciute» senza BTID; • risposta in meno di 1 sec.(sequenza di interrogazione e risposta nell’arco di 1 sec.); • probabilità di corretta identificazione maggiore del 98%; • utilizzo di tecniche di trasmissione a salti di frequenza e comunicazioni cifrate; • intervallo di identificazione da 150 a 5 500 metri; • capacità di operare in ogni condizione meteorologica, compresa pioggia, nebbia, fumo, polvere

Dispositivi del BTID nazionale.

I prototipi statunitense, francese e italiano utilizzano interrogatori con antenne molto direttive in asse con la bocca da fuoco principale del veicolo, mentre il trasponditore utilizza un’antenna omnidirezionale, per inviare la propria risposta a 360°, non sapendo, a priori, da dove possa arrivare l’interrogazione. L’interrogatore UK, invece, è di tipo «steerable» (direzionabile), in modo da poter essere asservito sia all’arma principale sia al panoramico del capo carro, anche diverso da quello del puntatore.

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FUNZIONE DI COLLEGAMENTO DATI DIGITALE (DIIGIITAL DATA LINK - DDL) DEL BTID. Il BTID consente di effettuare anche un collegamento digitale per lo scambio di dati, nota come «funzionalità DDL», con cui, durante l’interrogazione e la risposta, vengono scambiati i propri dati identificativi e anche altre informazioni, come, ad esempio, l’identificazione di tutti i carri identificati da ognuna delle due piattaforme. In tal modo è possibile visualizzare le posizioni delle piattaforme identificate dall’altra piattaforma, contribuendo alla citata «situation awareness». MARCATORI A RADIOFREQUENZA (RF TAG)). Questa tecnologia si rivolge all’identificazione di piattaforme terrestri da parte di piattaforme aeree. In particolare, speciali dispositivi, chiamati «marcatori a radio frequenza» (RF TAG) installati sui veicoli da combattimento, emettono speciali frequenze in grado di essere rivelate dai sistemi radar in dotazione alle piattaforme aeree. Effettuata l’interrogazione radar, l’aereo si ritrova sulla mappa radar l’eco degli RF TAG, con le relative posizioni. Nel corso della Urgent Quest sono stati utilizzati tre tipi di RF TAG, prodotti da Enti e società statunitensi. In definitiva, i dispositivi di identificazione RF TAG si integrano facilmente con i sistemi radar già in servizio sugli aerei da combattimento, con piccole modifiche del sistema di visualizzazione. Il loro impiego nel corso della Urgent Quest non ha fornito risultati soddisfacenti a causa delle numerose mancanze di rivelazione dei marcatori installati sui carri da combattimento. È, pertanto, necessario che tale promettente tecnologia raggiunga una maggiore «maturità» e affidabilità. IDENTIFICAZIONE BASATA SULL’IMPIEGO DELLE RADIO (RADIIO BASED COMBAT IDENTIIFIICATIION RBCI) Questa tecnologia statunitense è basata su una opportuna modifica al software delle radio SINCGARS, in dotazione all’Esercito, che possono in tal modo effettuare delle interrogazioni, non direttive: tutte quelle che si trovano nell’area di copertura modificate con il predetto software e che ricevono l’interrogazione rispondono automaticamente, inviando la propria posizione e altri dati

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di interesse. In tal modo, è possibile ricostruire la situazione degli amici presenti in quell’area. Questa tecnologia ha suscitato elevato interesse tra gli addetti ai lavori, anche per la possibilità di estendere tale funzionalità alle piattaforme ad ala rotante, per la interrogazione aria-terra. Tuttavia, l’RBCI comporta alcuni rischi rappresentati dal fatto che non si tratta di una tecnologia standardizzata che prevede l’impiego di un’unica radio: la SINCGARS. In aggiunta, la necessità di trasmettere le sequenze di identificazione comporta la indisponibilità della radio, non nota a priori, per «periodi» di alcuni secondi. In sintesi, la semplicità ed economicità della RBCI si scontrano con tali evidenti limitazioni operative. SISTEMA OTTICO PER L’IDENTIFICAZIONE IN COMBATTIMENTO ( OPTIICAL COMBAT IDENTIIFIICATIION SY YSTEM - OCIDS) Il principio di funzionamento del sistema OCIDS, messo a punto dalla società statunitense Cubic, è basato sulla interrogazione e risposta ottica. Tramite un raggio laser, del tipo già in servizio sulle piattaforme da combattimento e di prossima introduzione sulle piattaforme «soldato futuro», è possibile inviare un messaggio di identificazione. Quando il messaggio raggiunge il sistema da interrogare, viene rilevato da speciali rivelatori ottici, dello stesso tipo di quelli impiegati dai sistemi di simulazione live. Dopo la rilevazione, il segnale viene modulato e rimbalzato, sulla stessa frequenza ottica. Il segnale riflesso e modulato viene ricevuto dalla piattaforma interrogante, che lo decodifica e lo identifica tramite l’accensione di un led direttamente nel visore. La portata del sistema varia a seconda del tipo di laser installato. Per le piattaforme «soldato» si ha un intervallo di identificazione sino a 2 Km, mentre per le piattaforme «veicolari» tale portata può arrivare sino a 5 - 6 Km. Come è facile intuire, il sistema OCIDS risulta più versatile ed economico rispetto al BTID e, in aggiunta, può essere installato sulle piattaforme veicolari e su quelle del soldato appiedato. Tuttavia, le prime indiscrezioni sull’impiego di questa tecnologia «proprietaria» non sono molto soddisfacenti: sembra infatti che la trasmissione ottica sia troppo sensibile a rimbalzi, cammini multipli e risenta delle condizioni meteorologiche avverse e della presenza di fumo, nebbia, oscuranti e polvere, che, in particolare, potrebbe compromet-


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terne l’efficacia in ambiente operativo. SISTEMI DI IDENTIFICAZIONE PER LE PIATTAFORME «SOLDATO FUTURO» La NATO ha promulgato lo STANAG 4630 per la realizzazione di dispositivi di identificazione dei soldati appiedati (dismounted soldier identification device - DSID), che prevede la dotazione dei futuri sistemi «soldato» di un dispositivo di interrogazione laser con ricezione della risposta tramite radio. Tale STANAG, in fase di ratifica da parte delle principali nazioni dell’Alleanza, non definisce le frequenze per la risposta radio e l’algoritmo di cifratura da impiegare, lasciando aperti molti interrogativi sulla effettiva interoperabilità dei sistemi sviluppati da diverse nazioni. Le uniche realizzazioni prototipiche di DSID sono state sviluppate dagli Stati Uniti e dalla Germania: nessuna delle due nazioni ha utilizzato tali prototipi nel corso della Urgent Quest. La portata utile del DSID è di 400600 metri, mentre la probabilità di corretta identificazione dovrà essere maggiore del 98%. IL SISTEMA DI IDENTIFICAZIONE IN COMBATTIMENTO DEI SOLDATI DELLA FANTERIA STATUNITENSE Il sistema prototipico statunitense (Infantry Combat IDentification System - ICIDS) utilizza due sottosistemi principali: • il SimLAS (Simulation LASer), cuore del sistema, è composto da un sistema laser multi funzione basato sul diffusissimo sistema di simulazione per addestramento MILES; • la radio utilizzata per la risposta. Il SimLAS utilizza un interrogatore laser installato sulla canna del fucile. Il principio di funzionamento prevede l’invio di un raggio laser verso i soldati da identificare, dotati di speciali rivelatori laser e di un trasmettitore radio. Il dispositivo è dotato di un pulsante di interrogazione che abilita la trasmissione del raggio che, colpiti i sensori posti sulla tuta dei soldati da identificare, attiva la radio. Questa invia un messaggio di risposta in radio-frequenza che, a sua volta, viene ricevuto dalla radio del soldato interrogante, attivando un segnale di «amico». Il SimLAS utilizza la tecnologia del MILES, ma mentre il laser è impiegato per telemetrare la distanza e interrogare il potenziale avversario, il sensore è più avanzato di quello impiegato dal MILES.

IL DSID TEDESCO Il programma DSID tedesco è senz’altro il più avanzato nel settore. Il cuore del DSID tedesco è composto da un laser multi-funzione, che emette una forma d’onda opportunamente modulata. Questa, colpendo uno specifico ricevitore laser posto sull’obiettivo, dopo essere stata rilevata e decodificata, attiva la radio in dotazione per inviare all’interrogante un messaggio di identificazione.

Soldato tedesco che sta utilizzando il sistema DSID. In particolare, è visibile il dispositivo laser installato all’estremità della canna del fucile e la radio RF per la gestione della risposta che è contenuta in una sacca posta sul dorso del militare.

CONCLUSIONI La pluralità di dispositivi e tecniche di identificazione esaminate indica che non esiste ancor una tecnologia universale, in grado di risolvere il problema del «fuoco fratricida». Probabilmente, sarà necessario adottare un insieme di dispositivi adeguatamente strutturati ed inseriti in una architettura di identificazione, a sua volta incastonata nell’architettura digitalizzata e «network centric warfare» della Forza Armata, e disporre di adeguate procedure tecnico-tattiche, che tengano conto della fase di identificazione e superare le lacune di interoperabilità ancora presenti. Angelo Gervasio Tenente Colonnello, in servizio presso l’Ufficio Tecnologie Avanzate del Reparto Logistico dello Stato Maggiore dell’Esercito

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IL MUSEO STORICO DEI BERSAGLIERI Il Generale Edoardo Testafochi, Ispettore dei Bersaglieri, ebbe per primo l’idea, nel 1887, di iniziare una raccolta di cimeli e documenti legati alle vicende del Corpo, dalle sue origini risalenti al 1836 in poi. La raccolta fu incrementata dal Generale Bruto Bruti, nel frattempo succeduto al Testafochi nella carica di Ispettore. Allorché l’Ispettorato dei Bersaglieri venne soppresso, nel 1895, il Generale Bruti ottenne dal Ministero della Guerra che tutto il materiale, ormai copioso e di elevata importanza per il valore morale e di documentazione storica, fosse dato in consegna al Reggimento bersaglieri di stanza a Roma, a quell’epoca il 3°. Il Colonnello Giovanni Butturini, comandante del Reggimento dal 1902 al 1907, riordinò con opera appassionata il materiale esistente affidandolo ad un apposito Ente. Il Museo Storico dei Bersaglieri ebbe, così, forma concreta e, il 18 giugno 1904, ne venne inaugurata la sede nella caserma Lamarmora in Trastevere, alla presenza del Re Vittorio Emanuele III. Negli anni successivi il Museo si andò ancor più ampliando per l’ulteriore acquisizione di documenti e di cimeli raccolti dai Reggimenti del Corpo, dalle società di mutuo soccorso tra bersaglieri (primo nucleo dell’Associazione Nazionale costituita nel 1925) e di vecchi bersaglieri e loro familiari. Infine, per le vicende della guerra italo-turca del 1911-1912 e, soprattutto, della Grande Guerra, il materiale divenne così cospicuo da far considerare insufficienti alla sua esposizione e conservaUbicazione del Museo Stoico dei Bersaglieri Porta Pia - via XX settembre - 00187 Roma Tel. e fax: 06/486723 Orario di apertura al pubblico • martedì e giovedì - dalle 09.00 alle 13.00; • lunedì, mercoledì e venerdì - visite guidate di 90 minuti per associazioni, enti e scolaresche, previa prenotazione telefonica. Servizi addizionali Il Museo affianca alle sue strutture espositive una biblioteca ed un archivio storico-documentale, che possono essere consultati da studiosi e ricercatori su prenotazione telefonica.

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Particolare del Cortile interno della Porta Pia con il monumento ad Enrico Toti, i busti di Lamarmora e Pagliari e l’ingresso principale del Museo.

zione i locali che il Reggimento Bersaglieri (divenuto nel frattempo il 2°) poteva mettere a disposizione nella sua caserma. Appariva, oltretutto, difficile conciliare le esigenze dei visitatori, sempre più numerosi, con quelle proprie di un reparto operativo. Fu quindi posta allo studio la possibilità di assegnare al Museo, eretto nel frattempo in Ente Morale con decreto del 1921, una sede diversa e più consona alle sue esigenze. Un primo progetto di edificazione, sempre nella zona di Trastevere, fu abbandonato a favore di una sistemazione più degna e storicamente legata alle glorie del Corpo. Fu prescelta così l’area di Porta Pia, concessa dal Comune di Roma nel 1931, e dove nel piazzale antistante era allora in corso l’erezione del Monumento Nazionale al Bersagliere. Il 18 settembre 1932, contemporaneamente alla solenne inaugurazione del Monumento, alla presenza di cinquantamila bersaglieri convenuti da tutta Italia, avvenne anche l’inaugurazione della nuova e definitiva sede del Museo Storico. Porta Pia, legata indissolubilmente alla storica breccia attraverso la quale i bersaglieri del XII e del XXXIV Battaglione e ai fanti del 39° Reggimento entrarono in Roma il 20 settembre 1870, è un grandioso complesso artistico, che fonde armonicamente tre differenti opere assai distanziate nel tempo: le mura aureliane del III secolo dopo Cristo, la porta interna michelangiolesca (1561-


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1564), la porta interna di Virginio Vespignani (1864), l’architetto di Pio IX, da cui la Porta ha tratto il nome. Nel piazzale antistante è collocato il già ricordato Monumento bronzeo al Bersagliere, opera dello scultore Publio Morbiducci. Il cortile interno di Porta Pia, nel quale è sistemato il monumento a Enrico Toti, il più romano tra i bersaglieri, il volontario per vocazione, è dominato dal rovescio della pala di Michelangelo raffigurante l’immagine della Vergine, prima dipinta e poi sostituita nel 1936 da una riproduzione a mosaico. Sempre il cortile ospita i busti in bronzo di: Alessandro Lamarmora, il fondatore del Corpo; Giacomo Pagliari, il Maggiore caduto sulla Breccia nel 1870; Goffredo Mameli, il giovane poeta del nostro Inno Nazionale, e di Luciano Manara, caduto insieme al Mameli sul Gianicolo nel 1849 agli ordini di Garibaldi. Al pian terreno sono ubicati: la saletta Lamarmora, il salone d’onore e il Sacrario. Nella saletta Lamarmora, sotto il busto del fondatore, sono esposte due carabine a tiro rapido, da lui ideate e costruite in un laboratorio che si era fatto apprestare nella sua abitazione di Torino. Uno dei due modelli verrà adottato nel 1839 come arma d’ordinanza della nascente specialità dell’Arma di Fanteria. Nel salone d’onore è raccolta una vasta serie di oggetti personali appartenuti al Generale Lamarmora, molti dei quali utilizzati nella campagna di Crimea del 1856. È conservato, inoltre, il documento autografo di La-

I Bersaglieri alla breccia di Porta Pia. 20 settembre 1870.

marmora, la Proposizione originale, col quale perorò al Re la costituzione del Corpo, oltre alla raccolta dei Labari cremisi, che prima dell’assegnazione della Bandiera ai Reggimenti, rappresentarono le insegne di guerra dei reparti bersaglieri. Il Sacrario è l’ambiente più suggestivo del Museo, dedicato ai bersaglieri Caduti per la Patria. Al suo interno sono esposti la sciabola che Lamarmora impugnò l’8 aprile 1848 nella battaglia di Goito ed il ritratto del fondatore, affiancato da due grandi teche nelle quali sono contenute le medaglie al valore collettivo ottenute dai reparti bersaglieri dalla loro costizione ad oggi. Nei locali del primo piano sono esposti i cimeli, le documentazioni e i ricordi relativi alle campagne del Risorgimento, le tre Guerre di Indipendenza e la presa di Roma, alla guerra di Crimea, e alla repressione del brigantaggio, in estremi temporali che vanno dal 1848 al 1870. Le sale contengono oggetti, medaglieri, armi ed equipaggiamenti appartenenti a personaggi di rilievo della storia militare italiana, quali il Generale Cialdini, primo Ispettore del Corpo, e Menotti Garibaldi, il figlio primogenito dell’Eroe e Comandante di un battaglione bersaglieri garibaldini. Di rilievo il celebre quadro del pittore Avitabile che ritrae il Re Vittorio Emanuele II in uniforme da caporale degli zuavi, onore a lui con-

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Bersaglieri. Uniformi agli inizi del ‘900.

ferito dall’Esercito francese per la valorosa condotta tenuta nella battaglia di Palestro del 1859. Il piano superiore del lato sud dell’edificio è dedicato alle campagne coloniali: dal primo sbarco dei bersaglieri a Massaua, avvenuto il 5 febbraio 1885, alla battaglia di Adua del 1896, alla spedizione di Cina del 1900, alle operazioni di conquista della Libia e del Dodecaneso nel 1911-1912 e dell’Etiopia del 1935-1936. Molte le armi di estremo interesse storico, dalle zagaglie, alle lance, agli scudi, alle corazze a maglia d’acciaio ancora in uso presso i guerrieri abissini alla fine dell’800. Di particolare valore e significato, l’elmo del generale Oreste Baratieri, sfortunato Comandante italiano ad Adua; i ricordi e le fotografie dei 530 bersaglieri dell’11° Reggimento che accerchiati a Sciara Sciat, nell’oasi di Tripoli, resistettero eroicamente, finché, sopraffatti, furono barbaramente torturati e trucidati dai ribelli libici; il busto e le decorazioni del Maresciallo d’Italia Emilio De Bono, che guidò la prima fase dell’avanzata italiana in Etiopia. Il piano inferiore del lato sud è dedicato alla Prima guerra mondiale. La visita ha inizio con la saletta Enrico Toti, nella quale sono esposti ritratti, fotografie e vari cimeli appartenuti all’Eroe ed in particolare la bicicletta e la celebre stampella. Nelle sale successive numerosi sono i ricordi di altri decorati al valor militare e di reparti

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che si coprirono di gloria nella guerra contro gli Imperi Centrali del 1915-1918. Si va dai cimeli dei battaglioni ciclisti e di reparti d’assalto, alle armi italiane e austriache recuperate sui campi di battaglia, a oggetti personali di bersaglieri di ogni grado, che compirono importanti atti di valore o che si distinsero nella guerra che decise l’unificazione nazionale. Tra questi il busto del Maresciallo d’Italia Gaetano Giardino, Comandante dell’Armata del Grappa, e la fotografia di Francesco Rismondo, primo martire irredento di origini dalmate. Un artistico cofanetto contiene il Tricolore di seta cucito e ricamato a mano segretamente dalle «ragazze di Trieste», nel 1916, in casa della signora Bianca Slataper, sorella dell’Eroe Scipio. Sotterrato nel giardino, fu donato ai bersaglieri del Generale Coralli, allorché sbarcarono al molo «Audace». Il pianoterra del lato sud è dedicato alla Seconda guerra mondiale, che vide i reparti bersaglieri impegnati, nella buona e nell’avversa fortuna, su tutti i fronti: dal deserto libico-egiziano, alla steppa russa, dalle montagne greco-albanesi, al colle di Montelungo. Tra i cimeli più importanti quelli appartenuti ad altri due Marescialli d’Italia: Ettore Bastico, Comandante dello scacchiere dell’Africa settentrionale fino alla battaglia di El Alamein, e Giovanni Messe, Comandante del Corpo di Spedizione Italiano in Russia e della 1a Armata in Tunisia. In due urne funerarie romane sono conservate la sabbia di El Alamein e la terra dell’ansa del Don, a segnare i due momenti culminanti delle vicende eroiche che i bersaglieri seppero vivere per la storia d’Italia nel conflitto del 1940-1945. Un’intera sala è infine dedicata ai reparti bersaglieri che, dopo l’8 settembre 1943, combatterono contro i tedeschi nella guerra di Liberazione: il 51° Battaglione Bersaglieri, che ebbe gravi perdite a Montelungo; il 4° Reggimento inquadrato nel Corpo Italiano di Liberazione; il Battaglione «Goito» che operò nel Gruppo di Combattimento «Legnano». L’ultimo locale espone ricordi e immagini iconografiche del periodo relativo al secondo dopoguerra, dove sono ricordati gli interventi a favore delle popolazioni civili colpite da calamità naturali e le recenti missioni internazionali fuori dai confini nazionali. La visita al Museo si conclude con la Saletta dedicata alle 191 Medaglie d’Oro al Valor Militare individuali concesse a bersaglieri a partire dal 1848. Salvatore Orlando Tenente Colonnello in servizio presso l’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito


8 APRILE 1848 IL COMBATTIMENTO DI GOITO Ricorre quest’anno il 170° anniversario della costituzione del Corpo dei Bersaglieri e «Rivista Militare» vuole ricordarli ripercorrendo una delle pagine più gloriose della loro storia: il combattimento di Goito del 1848, episodio che segna il battesimo del fuoco di questa specialità della Fanteria. Nella guerra del 1848 la massima unità tattica dei bersaglieri era costituita dalla compagnia che aveva una forza variabile di 150-180 uomini. All’inizio delle ostilità facevano parte dell’Esercito tre compagnie bersaglieri: la 1a e la 4a assegnate al II Corpo d’Armata ala sinistra dell’Esercito, al comando del Generale Ettore De Sonnaz, e la 2a al I Corpo, agli ordini del Generale Eusebio Bava. A queste unità si aggiunse, subito dopo, una compagnia bersaglieri volontari, accorsi in difesa della Patria all’inizio della guerra, denominata 3a del I battaglione comandata dal Luogotenente Cassinis. Oltrepassato il Ticino, i due Corpi d’Armata marciarono verso il Mincio diretti rispettivamente su Monzambano e su Goito. La 2 a compagnia svolse il 6 aprile, a Marcarla, una breve azione contro gli Ulani, ove trovò la morte il bersagliere Giuseppe Bianchi, primo caduto per l’indipendenza italiana. Il giorno 8 aprile i reparti più avanzati giunsero sulle colline intorno Goito, presidiate dalle migliori truppe della brigata austriaca Wohlgemüth che avevano sistemato a difesa l’abitato e minato il ponte sul Mincio. In testa al I Corpo d’Armata piemontese si trovava la Divisione d’Arvillars che aveva il compito di occupare l’abitato e di passare al di là del fiume. I bersaglieri al comando dello stesso La Marmora si trovavano all’avanguardia della Divisione ed attaccarono i Kaiserjager che occupavano la periferia del paese. Per l’avvicinamento La Marmora formò due colonne: la prima, al comando del Capitano Lyons, doveva attaccare frontalmente e cercare di penetrare nell’abitato di Goito. La seconda, comandata dal Capitano Muscas, doveva aggirare l’abitato, occupare il ponte sul Mincio ed attaccare gli austriaci sul tergo del loro schieramento, facilitando il compito all’altra colonna e

chiudendo al nemico la via della ritirata. Seguivano le due colonne un reparto della Fanteria Real Navi ed un plotone di Cavalleria. La Marmora marciava in testa alla colonna del Capitano Muscas e stava per raggiungere il ponte quando gli Austriaci, asserragliati nel paese, nelle vicinanze dell’«Albergo della Giraffa», aprirono improvvisamente il fuoco contro di loro. Una pallottola ferì gravemente alla mascella lo stesso La Marmora che, nonostante la menomazione riuscì ad uccidere con una sciabolata un Capitano nemico che voleva catturarlo. Intanto gli austriaci fecero saltare il ponte; ma i bersaglieri si lanciarono sull’arcata rimasta intatta per passare sull’altra sponda del Mincio. Nell’attraversamento cadde con una palla nel petto il Sottotenente Galli della Mantica, primo Ufficiale ucciso per l’indipendenza d’Italia. Il comando venne allora assunto dal Capitano dei volontari Saverio Griffini (decorato in seguito di Medaglia d’Oro al Valor Militare, primo militare insignito durante le guerre del Risorgimento, di tale altissima ricompensa) che, oltrepassò di slancio il fiume con i suoi Bersaglieri, riuscendo a catturare 53 austriaci. Nella stessa sera dell’8 aprile la Divisione d’Arvillars poteva occupare Goito e passare il fiume. Sull’azione svolta dai Bersaglieri al passaggio del Mincio, il Generale Bava, Comandante del I Corpo d’Armata Sardo scrisse nel suo rapporto: «Questo primo e splendente fatto d’armi contro le migliori truppe austriache condusse in nostro potere 100 prigionieri ed un cannone e soddisfece pienamente Sua Maestà, degnatasi di venire in persona sul luogo a premiare i più valorosi». Il Fea nella sua storia dei Bersaglieri, riferendosi appunto al fatto d’arme di Goito, ebbe a scrivere: «Poche milizie cominciarono con maggior onore la loro Storia; poche compagnie, senza dubbio, ebbero una parte così importante in un combattimento come la 2a dei bersaglieri al ponte di Goito. Essa diede il vanto ai bersaglieri di aver superato, nel loro primo incontro, i cacciatori tirolesi, già di fama mondiale». Il Generale Piola Caselli ricorda che l’azione di Goito corrispose ai principi di impiego dettati da

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L’area interessata dallo scontro di «Goito», da un’inedita carta di Epoca ottocentesca.

una lapide commemorativa con la seguente iscrizione:

La Marmora: «Staccati dall’avanguardia, liberi nella loro iniziativa, i bersaglieri entrano i primi in azione col fuoco preciso delle carabine. Con esse e con il loro slancio conquistano la superiorità morale sull’avversario, aprono la falla, sfruttano il successo iniziale, concorrono alla vittoria». Anche per l’efficace addestramento nello sfruttare gli appigli del terreno, impartito dal La Marmora, le perdite dei bersaglieri furono poche: 1 Ufficiale caduto e 2 feriti; 6 uomini di truppa feriti. Alcuni Ufficiali ed un Sottufficiale promossi per merito di guerra. A ricordo del fatto d’arme dell’8 aprile 1848, il Comune di Goito fece apporre, sullo storico ponte

«Qui il giorno 8 aprile 1848 i Bersaglieri piemontesi, duce Alessandro La Marmora, sconfissero e dispersero i cacciatori tirolesi della Brigata Wohlgemuth, segnando sul ponte del Mincio la prima pietra miliare di quella via che, per la Cernaia, Palestro, S. Martino, condusse gli Italiani sul Campidoglio. Il Municipio di Goito nel primo cinquantenario del fatto glorioso memore ed esultante poneva. 8 aprile 1898».

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Salvatore Orlando Tenente Colonnello, in servizio presso l’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito


Rivista Militare n. 2/2006

Riccardo Caimmi: «L’identità di sicurezza e difesa europea - Il percorso storico», Edizioni Cantagalli, 2004, pp. 184, € 12,00.

Bruno Maietta: «Capire e Farsi capire - L’importanza dell’ascolto nella comunicazione», Edizioni Eucos, Roma, 2005, pp. 242, € 14,00.

In questi ultimi anni si sono avvertite le conseguenze politiche di una nuova dimensione dell’Europa, un progetto pensato fin dalla Seconda guerra mondiale e che faticosamente oggi si sta realizzando. La riflessione dell’autore, Tenente Colonnello dell’Esercito, giunge spontanea a confrontare le linee ispiratrici di allora con la realtà attuale dell’Europa. L’Unione Europea si appresta a divenire un grande attore di questo processo di gestione della transizione e della instabilità: questo perché ha gli strumenti politico-economici e, attraverso la crescita della dimensione di Politica Estera e di Difesa, potrà dotarsi di una componente in grado di gestire le emergenze. Il processo di costruzione di un’identità di sicurezza e difesa europea non deve essere sottostimato. È divenuto indispensabile elaborare un pensiero strategico, cioè orientato a obiettivi di lungo termine ma al contempo ancorato alle capacità esistenti o che possono essere mobilitate. Questo passo è necessario a maggior ragione perché la UE ha una notevole capacità di convogliare variegati strumenti di influenza esterna verso obiettivi comuni. Viceversa, questa idea nobile ed antica potrebbe diventare, per usare le parole del Generale Giuseppe Cucchi, autore della prefazione al volume, una «Fata Morgana eternamente a portata di mano ma sempre pronta a spegnersi od a spostarsi un poco più in là proprio nel momento in cui ci si illude alfine di essere riusciti a raggiungerla…!»

Sin dai primordi, l’uomo utilizza quotidianamente l’arte innata della comunicazione che gli consente di rispondere a determinati bisogni e stabilire un contatto con il mondo esterno. Le parole, la gestualità, l’espressione permettono di inviare segnali agli altri individui, trasmettere messaggi, costruire quella rete di relazioni tra le persone che costituiscono la base e la struttura organica e funzionale della società. La consapevolezza dell’importanza di questo strumento ha portato allo sviluppo di studi e ricerche empiriche finalizzati alla definizione, alla comprensione e, soprattutto, al miglioramento del fenomeno oggetto di indagine. Questo lo scopo principale dell’interessante opera di Bruno Maietta, psicoterapeuta, specializzato in Psicodiagnostica Rorschach, Ipnosi, Training Autogeno e Biofeedback, e insegnante presso il Corso di Laurea in Scienze Infermieristiche, presso la Facoltà di Medicina e Chirurgia di Tor Vergata. Il suo è un libro utile e felicemente ispirato, che non si propone di essere esaustivo dell’intera realtà comunicativa ma vuole delineare quegli strumenti in grado di agevolare la comprensione e il dialogo in ogni contesto sociale. Il libro, concepito inizialmente per chi opera in ambito sanitario, è, in realtà, un prezioso insegnamento per ciascuno di noi oltre a un aiuto per comprendere meglio quegli oscuri meccanismi che regolano le relazioni umane. Un’intuizione senz’altro felice da parte di Bruno Maietta, abile nel trattare un argomento vasto e complesso evidenziando i punti più interessanti e trasmettendo il suo messaggio in maniera semplice e immediata.

L.N.

S.G.

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Ogni PRT è strutturato in base al livello di rischio, alla posizione geografica e alle condizioni socio-economiche della Regione in cui opera. In questo contesto l’Italia, con l’Operazione «Praesidium» ha la responsabilità di Herat. Una potenza regionale che stenta a decollare, di Andrea Margelletti (pag. 6). Un Paese dalle enormi ricchezze materiali e umane che si candida a potenza di livello mondiale. Ma le controversie legate alle ambizioni nucleari, ai rapporti con Israele e alle aspirazioni di contrastare la politica economica americana rendono assai precari gli equilibri internazionali.

Brigate e Reggimenti, di Mario Buscemi (pag. 64). L’articolazione strutturale delle attuali Brigate, la loro non sempre ottimale collocazione sul territorio nazionale e la diversificazione d’impiego delle forze dipendenti postulano un interessante quesito: in futuro converrà avvalersi dei soli reggimenti, la cui omogeneità è garanzia di efficienza e rispondenza ai compiti assegnati, o attribuire alle Brigate nuove funzioni operative?

Tre buone ragioni per evitare l'intervento militare, di Edward N. Luttwak (pag. 18). Ne spiega i motivi, per «Rivista Militare», Edward N. Luttwak. Proponiamo ai nostri lettori il suo punto di vista nella certezza che l'illustre politologo, l'insigne studioso di problemi militari, lo scrittore di successo e, soprattutto, il Consulente dei Dipartimenti di Stato e della Difesa degli Stati Uniti possa offrire un valido contributo alla comprensione di ciò che sta accadendo e potrà accadere in quelle lontane latitudini.

Il Network Centric Warfare, di Donato D’Ambrosio (pag. 70). La digitalizzazione dello spazio della manovra è stato riconosciuto come obiettivo prioritario e principio ispiratore del processo di trasformazione della NATO. In questo ambito, investimenti adeguati e ben focalizzati potrebbero consentire la realizzazione di una roadmap calibrata sulle esigenze nazionali, salvaguardandoci da una pericolosa dipendenza tecnologica e operativa con l’estero.

Il Military Staff, di Jean-P Paul Perruche (pag. 28). Il «Military Staff» dell’Unione Europea si occupa, ormai da quattro anni, della pianificazione strategica «Early Warning». Elemento cardine dello sviluppo della Politica Europea di Difesa e Sicurezza, lo Staff sta divenendo più funzionale, più attivo e più coerente nella ricerca di una migliore integrazione con i partner civili.

Wireless Operational Test Bed, di Marco Cappellini e di Sergio D’Errico (pag. 80). La Scuola delle Trasmissioni e Informatica dell’Esercito ha avviato un progetto teso a implementare e gestire, nel futuro battlespace, un sistema di comunicazione e informazione articolato su componenti civili e militari.

La NATO del XXI Secolo, di Pietro Serino e di Stefano Del Col (pag. 34). A 57 anni dalla costituzione, oggi la NATO non è solo il baluardo dei principi democratici, della libertà e della legalità. Essa deve affrontare, in modo efficace e innovativo, le sfide del nuovo secolo, che impongono un processo di revisione del proprio ruolo e delle proprie responsabilità per conseguire tre obiettivi fondamentali: nuove capacità, nuovi Paesi membri, nuove relazioni e aperture a Est.

Etica e Motivazione, di Massimo Scotti (pag. 92). Il soldato impegnato in combattimento è pervaso da un tumulto di stati d’animo spesso in conflittualità tra loro. Sentimenti contrastanti dove la passione tende a sovrastare il ragionamento, la motivazione e il senso dell’etica. Un alternarsi di predominanze razionali e irrazionali che coinvolge anche i Comandanti, costretti a vivere situazioni forse più esplosive e stressanti.

La s ostenibilità d ella s pesa m ilitare, d i R occo Panunzi (pag. 46). Professionalizzazione, trasformazione e innovazione sono le direttrici-guida per la prosecuzione dell’ampio processo di riforma dello strumento militare. Ma ciò comporta la disponibilità di un coerente volume di risorse finanziarie che l’attuale situazione macroeconomica non lascia intravedere. È allora necessario reperire finanziamenti alternativi e nuove forme di cooperazione. Operazione «Praesidium», di Amedeo Sperotto (pag. 56). I PRT operano in Afghanistan in concorso con il Governo centrale per promuovere e rafforzare la sicurezza e facilitare il flusso di aiuti umanitari, assicurando il supporto alle attività di ricostruzione condotte dalle Organizzazioni nazionali e internazionali.

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L’epopea dell’ARMIR, di Giovanni Sargeri e di Filippo Cappellano (pag. 102). Il fronte orientale vide livelli di ferocia e di spietatezza senza precedenti, con i contendenti impegnati in una guerra di annientamento senza alcun riguardo per le convenzioni internazionali. In quel contesto, il comportamento delle truppe italiane si differenziò nettamente. Ripercorrere quei momenti rende giustizia alle Unità e a quanti eroicamente caddero nelle gelide steppe russe. L’«M 13» di El Alamein, di Gualtiero Stefanon (pag. 112). Il Colonnello Paolo Caccia Dominioni, Conte di Sillavengo, rinvenne nel deserto egiziano, il 1° luglio del 1948, il relitto di un carro armato sul quale spiccava nitidamente la targa RE 3700. Oggi, nel Mausoleo di Q. 33, quel carro, eretto a monumento, materializza il ricordo di tanti soldati italiani che a El Alamein seppero scrivere un’indelebile pagina di eroismo e amor di Patria.


Each PRT is organized on the basis of the level of risk, geographic position and socio-economic conditions of the Region where it works. In this context, with operation «Presidium», Italy has undertaken the responsibility of the Herat Province. A Regional Power Hardly Able to Take Off, by Andrea Margelletti (p. 6). A Country with an immense material and human wealth, which stands to become a world power. But the disputes connected with its nuclear ambitions, its relations with Israel and the aspirations to oppose the American economic policy make the international balances very unstable. Three Good Reasons for Avoiding a Military Intervention in Iran, by Edward N. Luttwak (p.18). Edward N. Luttwak explains why, in this article for «Rivista Militare». We propose his viewpoint to our readers with the certainty that the distinguished political scientist, eminent expert in military problems, successful writer and, above all, Adviser to the State Department and Defense Department of the United States, can offer a valid contribution for understanding what is happening, and could happen, in those faraway latitudes. The Military Staff, by Jean-P Paul Perruche (p. 28). During the last four years the «Military Staff» has been dealing with the «Early Warning» strategic planning. A cornerstone of the development of the European Policy of Defence and Security, the Staff is becoming more functional, more active and more coherent in pursuing a better integration with the civilian partners. NATO in the 21st Century, by Pietro Serino and Stefano Del Col (p. 34). Fifty-seven years after its constitution, today NATO is not only a bulwark of democratic principles, freedom and legality, but must also meet the challenges of the new century, which impose a revision of its role and responsibilities, in order to achieve three fundamental objectives: new capabilities, new member Countries, new relations and overtures to the East. The Sustainability of the Military Expenditure, by Rocco Panunzi (p. 46). Professionalism, transformation and innovation are the guidelines for carrying on a comprehensive process of reform of the military instrument. But this implies the availability of a coherent amount of financial resources, which in the present macroeconomic situation cannot be foreseen. Thus, it is necessary to find alternative financing and new forms of cooperation. Operation «Praesidium», by Amedeo Sperotto (p. 56). The «Provincial Reconstruction Teams» operate in Afghanistan together with the central Government, in order to promote and strengthen security, facilitating the flow of humanitarian aid and assuring their assistance in the reconstruction activities conducted by national and international Organizations.

Brigades and Regiments, by Mario Buscemi (p. 64). The structural organization of today’s Brigades, their not-always optimal location on the national territory, and the diverse employment of their subordinate units, postulate an interesting question: will it be more profitable, in the future, to employ only the regiments, whose homogeneity is a guarantee of efficiency and suitability to the tasks, or to assign new operational functions to the Brigades? Network Centric Warfare, by Donato D’Ambrosio (p. 70). The computerization of the manoeuvring space has been acknowledged as priority objective and inspiring principle of NATO’s transformation process. In view of this, adequate and well focused investments could allow the realization of a roadmap gauged on national requirements, safeguarding us from dangerous technological and operational dependence on foreign Countries. The Wireless Operational Test-B Bed Project, by Marco Cappellini and Sergio D’Errico (p. 80). The Army Signal and Information Technology School has started a project aimed at implementing and managing, in the future battlespace, a communication and information system based on civilian and military components. Ethics and Motivation, by Massimo Scotti (p. 92). The soldier engaged in combat is pervaded by a tumult of feelings, often in contrast with each other. Conflicting feelings where passion tends to overcome reason, motivation and sense of ethics. An alternation of rational and irrational predominance which involves also the Commanders, compelled to live through perhaps even more explosive and stressing situations. The ARMIR’s Epic Deeds, by Giovanni Sargeri and Filippo Cappellano (pag. 102). The eastern front witnessed levels of ferocity and ruthlessness never reached before, with the opposing forces engaged in a war of extermination, with no regard for international conventions. In that environment, the behaviour of the Italian troops was decidedly different. To revisit those moments does justice to the Units and to those who heroically fell on the gelid Russian steppes. The «M 13» of El Alamein, by Gualtiero Stefanon (p. 112). Colonel Paolo Caccia Dominioni, Count of Sillavengo, on July 1, 1948 found in the Egyptian desert the wreck of a tank, on which the plate M 13 RE 3700 appeared very clearly. Today, in the Mausoleum of «Height 33» that tank, erected as a monument, embodies the memory of many Italian soldiers who, at El Alamein, wrote an unforgettable page of heroism and love of the Motherland.

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risque, de la position géographique et des conditions socio-économiques de la Région dans laquelle il opère. Ave l'opération «Praesidium», l'Italie a assumé la responsabilité de Herat.

Une puissance régionale qui a du mal à décoller, par Andrea Margelletti (p. 6). Un pays riche en ressources matérielles et humaines aspirant au titre de puissance mondiale. Cependant, les controverses liées à ses ambitions nucléaires, à ses rapports avec Israël et à ses aspirations à contrecarrer la politique économique américaine, rendent bien difficiles et précaires les équilibres internationaux. Trois bonnes raisons pour éviter l'intervention militaire par Edward N. Luttwak (p.18). Edward N. Luttwak, en explique les raisons à «Rivista Militare». Aussi, nous proposons à nos lecteurs son point de vue, car nous sommes convaincus que l'illustre politologue, l'éminent spécialiste de questions militaires, l'écrivain célèbre et surtout le Conseiller des Départements de l'Etat et de la Défense des Etats-Unis nous permettra de mieux comprendre les évènements actuels et ceux qui pourraient se produire à l'avenir dans cette région lointaine. Le «Military Staff», par Jean-P Paul Perruche (p. 28). Cela fait désormais quatre ans que le «Military Staff» de l'Union européenne s'occupe de la planification stratégique «Early Warning». Elément essentiel du développement de la Politique européenne de Défense et Sécurité, le Staff devient plus fonctionnel, plus actif et plus cohérent en vue d'une intégration accrue avec les partenaires civils. L'OTAN du XXIème siècle, par Pietro Serino et Stefano Del Col (p. 34). Depuis 57 ans l'OTAN n'a cessé d'être le rempart des principes démocratiques, de la liberté et de la légalité. Elle doit maintenant trouver des moyens efficaces et innovateurs pour relever les défis du nouveau siècle. Pour ce faire elle devra engager un processus de révision de ses responsabilités et de son rôle, en vue d'atteindre les objectifs fondamentaux suivants: nouvelles capacités, nouveaux pays membres, nouvelles relations et ouvertures vers l'Est. La dépense militaire est-e elle soutenable?, par Rocco Panunzi (p. 46). La professionalisation, la transformation et l'innovation. Telles sont les lignes directrices permettant de poursuivre le processus visant à la réforme des armées. Or, celui-ci nécessite des ressources financières considérables que la situation macroéconomique actuelle rend difficiles à repérer. D'où le besoin de trouver des sources de financement alternatives y de nouvelles formes de coopération. Opération «Praesidium», par Amedeo Sperotto (p. 56). Les PRT et le Gouvernement central opèrent conjointement en Afghanistan en vue de promouvoir et de renforcer la sécurité et de favoriser le flux des aides humanitaires, tout en assurant le soutien aux activités de reconstruction déployées par les Organisations nationales et internationales. Chaque PRT est organisé en fonction du niveau de

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Brigades et Régiments, par Mario Buscemi (p. 64). L'articulation structurale des Brigades actuelles, leur localisation sur le territoire national, pas toujours optimale, et la diversification des forces dépendantes posent la question, fort intéressante, de savoir si à l'avenir il conviendra de n'employer que les régiments, dont l'homogénéité garantit l'efficience et la correspondance par rapport aux fonctions assignées, ou si, au contraire, il conviendra d'attribuer aux brigades de nouvelles fonctions opérationnelles. Le « Network C entric W arfare», p ar D onato d'Ambrosio (p. 70). La digitalisation de l'espace de la manœuvre est l'objectif prioritaire et le principe inspirateur du processus de transformation de l'OTAN. Dans ce cadre, des investissements appropriés et ciblés pourraient permettre de réaliser un feuille de route en fonction des exigences nationales, tout en nous mettent à l'abri du risque de la dépendance technologique et opérationnelle vis-à-vis de l'étranger. «Wireless Operational Test Bed», par Marco Cappellini et Sergio D'Errico (p. 80). L'Ecole de Transmissions et Informatique de l'Armée a mis en marche un projet visant à mettre en place et à gérer, dans le cadre du futur battlespace, un système de communication et information ayant des composantes civiles et militaires. Ethique et Motivation, par Massimo Scotti (p. 92). Le soldat engagé dans un combat connaît une multitudes d'états d'âme, parfois conflictuels. Des sentiments opposés où la passion tend à l'emporter sur la raison, sur la motivation et sur le sens éthique. Une alternance de rationalité et d'irrationalité qui implique souvent les Commandants, lesquels sont obligés à vivre des situations parfois plus explosives et stressantes. L'épopée de l'ARMIR, par Giovanni Sargeri et Filippo Cappellano (p. 102). Sur le front oriental la cruauté et la férocité auront été sans égal. Les contendants s'étaient en effet engagés dans une guerre d'anéantissement, sans aucun respect des conventions internationales. A cette occasion, les troupes italiennes se distinguèrent nettement des autres belligérants de par leur comportement. Rappeler ces évènements c'est rendre hommage et honneur aux Unités et à tous ceux qui périrent héroïquement dans la neige des steppes russes. Le «M13» de El Alamein, par Gualtiero Stefanon (p. 112). Le 1er juillet 1948, le Colonel Paolo Caccia Dominioni Comte de Sillavengo, trouva dans le désert d'Egypte l'épave d'un char de combat dont la plaque portait l'inscription «M13 RE 3700». Aujourd'hui, ce char érigé en monument au Mausolée Q. 33, matérialise le souvenir de nombreux soldats italiens qui, à El Alamein, contribuèrent à écrire une page indélébile d'héroïsme et d'amour de la Patrie.


stuft. In diesem Zusammenhang hat Italien mit der Operation «Praesidium» die Verantwortung von Herat übernommen.

Eine regionale Macht, die Mühe hat, zu beginnen, von Andrea Margelletti (S. 6). Ein Land enormer materieller und menschlicher Reichtümer, das als Weltgroßmacht kandidiert. Aber Streitigkeiten verbunden mit den nuklearen Ambitionen, den Beziehungen zu Israel und den Bestrebungen, die amerikanische Wirtschaftspolitik zu behindern, machen die internationalen Gleichgewichte sehr prekär. Drei gute Gründe, einen Militäreinsatz zu vermeiden, von Edward N. Luttwak (pag. 18). Die Gründe dafür erklärt die "Rivista Militare" (Militärische Zeitschrift), Edward N. Luttwak. Wir stellen unseren Lesern seinen Standpunkt vor und sind sicher, dass der berühmte Politologe, der wichtige Forscher militärischer Sachen, der erfolgreiche Autor, und vor allem der Berater des amerikanischen Staats und Verteidigungsministeriums einen wertvollen Beitrag zum Verständnis dessen beitragen kann, was in jenen weit entfernten Breitengraden geschehen könnte. Das Military Staff, von Jean-P Paul Perruche (S. 28). Das «Military Staff» der Europäischen Union arbeitet seit nunmehr vier Jahren an der strategischen Planung «Early Warning». Als Hauptelement der Entwicklung der europäischen Verteidigungs und Sicherheitspolitik, wird das Staff funktionaler, aktiver und kohärenter in der Recherche nach einer besseren Integration der zivilen Partner. Die NATO des 20. Jahrhunderts, von Pietro Serino und von Stefano Del Col (S. 34). 57 Jahre nach ihrer Gründung ist die Nato nicht nur ein Schutzwall für die Prinzipien der Demokratie, der Freiheit und der Legalität. Sie muss in effizienter und innovativer Weise den Herausforderungen des neuen Jahrtausends gegenübertreten, die einen Revisionsprozess der eigenen Rolle und der eigenen Verantwortung auferlegen, um drei Hauptziele zu erlangen: neue Kapazitäten, neue Mitgliedsländer, neue Beziehungen und Öffnungen zum Osten. Die Vertretbarkeit des militärischen Haushalts, von Rocco Panunzi (S. 46). Professionalisierung, Umwandlung und Innovation sind die Leitdirektiven für die Fortführung des umfangreichen Reformprozesses des Militärapparats. Aber dafür ist die Verfügbarkeit eines kohärenten Umfangs finanzieller Ressourcen notwendig, die sich in der derzeitigen makroökonomischen Situation nicht abzeichnet. Es ist daher nötig, alternative Finanzierungen und neue Kooperationsformen zu finden. Operation «Praesidium», von Amedeo Sperotto (S. 56). Die PRT operieren in Afghanistan unter Mitwirkung der Zentralregierung, um die Sicherheit zu fördern und zu verstärken und den Strom humanitärer Hilfen zu erleichtern, indem dieUnterstützung der von den nationalen und internationalen Organisationen geleiteten Wiederaufbauarbeiten gesichert wird. Jedes PRT wird auf der Basis des Risikoniveaus, der geographischen Lage und der sozioökonomischen Bedingungen der Region, in welcher es operiert, einge-

Brigaden und Regimenter, von Mario Buscemi (S. 64). Die strukturelle Gliederung der derzeitigen Brigaden, ihre nicht immer optimale Stellung auf dem nationalen Territorium und die Unterschiedlichkeit des Einsatzes der Streitkräfte stellen ein interessantes Problem dar: wird es in Zukunft besser sein, sich nur der Regimenter zu bedienen, deren Homogenität eine Garantie für die Wirksamkeit und Ausführung der übertragenen Aufgaben darstellt oder den Brigaden neue operative Funktionen zuzuweisen? Das Network Centric Warfare, von Donato D´Ambrosio (S. 70). Die Digitalisierung des Handlungsraums wurde als vorrangiges Ziel und als zugrunde liegendes Prinzip des Transformationsprozesses der NATO anerkannt. In diesem Zusammenhang könnten angemessene und genau kalkulierte Investitionen die Verwirklichung einer Roadmap zulassen, die nationale Erfordernisse abwägt und uns zugleich vor einer gefährlichen technologischen und operativen Abhängigkeit vom Ausland schützt. Das Projekt Wireless Operational Test Bed, von Marco Cappellini und von Sergio D’Errico (S. 80). Die Schule für Übertragungen und Informatik des Heeres (Scuola delle Trasmissioni e Informatica dell´Esercito) hat ein Projekt ins Leben gerufen, das darauf ausgerichtet ist, im zukünftigen «battlespace» ein Kommunikations und Informationssystem zu entwickeln und zu leiten, das in zivile und militärische Komponenten gegliedert ist. Ethik und Motivation, von Massimo Scotti (S. 92). Der an Kampfhandlungen teilnehmende Soldat wird häufig von Seelenzuständen aufgewühlt, die in sich konfliktreich sind. Gegensätzliche Gefühle, in denen die Leidenschaft dazu neigt, den Verstand, die Motivation und den ethischen Sinn zu beherrschen. Ein Wechsel von rationaler und irrationaler Vorherrschaft, der auch die Befehlshaber einbezieht, die gezwungen sind, eventuell explosivere und stressigere Situationen zu erleben. Das Epos der ARMIR, von Giovanni Sargeri und von Filippo Cappellano (S. 102). Die Ostfront sah ein bis damals nie erreichtes Niveau von Grausamkeit und Erbarmungslosigkeit mit Gegnern, die in einen Vernichtungskrieg ohne jegliche Achtung vor den internationalen Konventionen verstrickt waren. In diesem Zusammenhang war das Benehmen der italienischen Truppen deutlich anders. Diese Momente in der Erinnerung vorüberziehen zu lassen, schafft den Einheiten und den in der eisigen russischen Steppe heroisch Gefallenen Gerechtigkeit. Der «M 13» von El Alamein, von Gualtiero Stefanon (S. 112). Der Oberst Paolo Caccia Dominioni, Graf von Sillavengo, entdeckte am 1. Juli 1948 in der ägyptischen Wueste das Wrack eines Panzers, auf dem sich deutlich das Schild M 13 RE 3700 abhob. Im Mausoleum von Q. 33 materialisiert heute dieser als Denkmal errichtete Panzer die Erinnerung an viele italienische Soldaten, die in El Alamein eine unauslöschliche Seite des Heldentums und der Liebe für das Vaterland zu schreiben wussten.

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riesgo, a la ubicación geográfica y a las condiciones socioeconómicas de la Región en la que interviene. En este contexto, con la operación "Praesidium" Italia asumió la responsabilidad de Herat.

Una potencia regional que no logra despegar Andrea Margelletti (pág. 6). Un país con inmensas riquezas materiales y humanas que se presenta como candidato a potencia mundial. Pero las controversias suscitadas por sus ambiciones nucleares, sus relaciones con Israel y sus aspiraciones a contrarrestar la política económica estadounidense vuelven muy precarios los equilibrios internacionales. Tres buenos motivos para evitar la intervención militar, Edward N. Luttwak (pág.18) Edward N. Luttwak explica a "Rivista Militare" las razones para evitar la intervención militar. Proponemos a nuestros lectores el punto de vista de este ilustre politólogo, eminente especialista de cuestiones militares, afamado escritor pero sobre todo Consejero de los Departamentos de Estado y de Defensa de los Estados Unidos, porque estamos convencidos de que nos permitirá entender mejor lo que está pasando hoy y lo que podría suceder mañana en aquella lejana región. El «Military Staff», Jean-P Paul Perruche (pág. 28). El «Military Staff» de la Unión Europea ya lleva cuatro años ocupándose de la planificación estratégica «Early Warning». Siendo un elemento clave del desarrollo de la Política europea de Defensa y Seguridad, el Staff se está volviendo más funcional, más activo y más coherente al objeto de conseguir una mayor integración con los interlocutores civiles. La OTAN del siglo XXI, Pietro Serino y Stefano Del Col (pàg. 34). Al cabo de sus 57 años, la OTAN sigue siendo el firme baluarte de los principios democráticos, de la libertad y de la legalidad. Pero además tiene que hacer frente, con medios eficaces e innovadores, a los retos del nuevo siglo que imponen que emprenda un proceso de revisión de su proprio papel y de sus propias responsabilidades, con miras a alcanzar objetivos fundamentales tales como nuevas capacidades, nuevos países miembros, nuevas relaciones y aperturas hacia el Este. Los gastos militares son sostenibles?, Rocco Panunzi (pág. 46). Profesionalización, transformación e innovación son las directrices necesarias para proseguir el amplio proceso de reforma de la herramienta militar. Sin embargo, todo ello necesita de considerables recursos financieros, posibilidad que no se vislumbra en la situación macroeconómica actual. Resulta necesario, por lo tanto, encontrar financiaciones alternativas y nuevas formas de cooperación. Operación «Praesidium», Amedeo Sperotto (pág. 56). Los PRT obran en Afganistán junto con el Gobierno central con el objeto de promover y reforzar la seguridad y facilitar el movimiento de las ayudas humanitarias, asegurando el apoyo a las actividades de reconstrucción llevadas a cabo por las Organizaciones nacionales e internacionales. Cada PRT resulta organizado con relación al nivel de

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Brigadas y Regimientos, Mario Buscemi (pág. 64). La organización estructural de las actuales Brigadas, su ubicación en el territorio nacional, no siempre óptima, y la diversificación de empleo de las fuerzas dependientes, plantean el interesante interrogante de si en el futuro, resultará más conveniente recurrir exclusivamente a los Regimientos, cuya homogeneidad es una garantía de eficiencia y de correspondencia con las funciones atribuidas, o si, en cambio, convendría atribuir a las Brigadas nuevas funciones operacionales. La «Network Centric Warfare», Donato D'Ambrosio (pág. 70). La digitalización del espacio de la maniobra es el objetivo primario y el principio inspirador del proceso de transformación de la OTAN. En este contexto, inversiones apropiadas y focalizadas podrían contribuir a la realización de una hoja de ruta con arreglo a las exigencias nacionales, evitándose de esta manera una peligrosa dependencia tecnológica y operacional del extranjero. «Wireless Operational Test Bed», Marco Cappellini y Sergio D'Errico (pág. 80). La Escuela de Transmisiones e Informática del Ejército ha puesto en marcha un proyecto encaminado a implementar y gestionar, en el futuro "battelspace", un sistema de comunicación e información con componentes civiles y militares. Etica y Motivación, Massimo Scotti (pág. 92). Durante un combate, el soldado experimenta un tumulto de estados de ánimo, a veces conflictivos. Sentimientos contrastantes en los que la pasión tiende a dominar la razón, la motivación y hasta el sentido ético. Es una alternancia de racionalidad e irracionalidad que involucra hasta a los Comandantes, quienes se ven obligados a vivir situaciones quizás aún más explosivas y estresantes. La epopeya del ARMIR, Giovanni Sargeri y Filippo Cappellano (pág. 102). En el frente oriental la ferocidad y la crueldad alcanzaron niveles sin precedentes. Los contendientes estaban empeñados en una guerra de aniquilamiento sin respeto alguno a las convenciones internacionales. En semejante contexto, las tropas italianas se distinguieron de los otros beligerantes por su comportamiento. Recordar aquella época es rendir homenaje a las Unidades y a todos aquellos que murieron heroicamente en las gélidas estepas rusas. El «M13» de El Alamein, Gualtiero Stefanon (pág. 112). El 1° de julio de 1948, en el desierto egipcio, el Coronel Paolo Caccia Dominioni, Conde de Sillavengo, encuentra los restos de un tanque en cuya matrícula se leía claramente M13 RE 3700. Hoy, en el Mausoleo de Q.33, ese tanque instituido en monumento, materializa el recuerdo de muchos soldados italianos que en El Alamein contribuyeron a escribir una página indeleble de heroísmo y de amor patrio.


Uma potência regional que tarda a decolar (pag.6). Um país de enormes riquezas materiais e humanas que se candidata a potência de nível mundial. Mas as controvérsias ligadas às ambições nucleares, às relações com Israel e às aspirações de contrastar a política económica americana tornam bastante precários os equilíbrios internacionais. Três boas razões para evitar a intervenção militar, de Edward N. Luttwak (pág. 18). Explica os motivos, para a "Rivista Militare", Edward N. Luttwak. Propomos aos nossos leitores o seu ponto de vista na certeza que o ilustre profissional da Ciência Política, o insigne estudioso de problemas militares, o escritor de sucesso e, sobretudo, o Consultor dos Departamentos de Estado e da Defesa dos Estados Unidos, possa oferecer um válido contributo para a compreensão do que está a acontecer e do que poderá acontecer naquelas longínquas latitudes. O Military Staff, de Jean-P Paul Perruche (pág. 28). O Military Staff da União Europeia ocupa-se, já há quatros anos, da planificação estratégica Early Warning. Elemento fulcral do desenvolvimento da Política Europeia de Defesa e Segurança, o Staff está a tornarse mais funcional, mais activo e mais coerente na pesquisa de uma melhor integração com os parceiros civis. A NATO do Século XXI, de Pietro Serino e Stefano Del Col (pág. 34). A 57 anos da constituição, hoje a NATO não é apenas o baluarte dos princípios democráticos, da liberdade e da legalidade. Esta deve enfrentar, de modo eficaz e inovativo, os desafios do novo século, que impõem um processo de revisão do próprio papel e das próprias responsabilidades para atingir três objectivos fundamentais: novas capacidades, novos países membros, novas relações e aberturas a Leste. A sustentabilidade da despesa militar, de Rocco Panunzi (pág. 46). Profissionalização, transformação e inovação são as directrizes-guia para o prosseguimento do amplo processo de reforma do instrumento militar. Mas isto comporta a disponibilidade de um coerente volume de recursos financeiros que a actual situação macro-económica não permite prever. É então necessário encontrar financiamentos alternativos e novas formas de cooperação. Operação «Praesidium», de Amedeo Sperotto (pág. 56). Os PRT operam no Afeganistão em concurso com o Governo central para promover e reforçar a segurança e facilitar o fluxo de ajudas humanitárias, assegurando o suporte às actividades de reconstrução conduzidas pelas Organizações nacionais e internacionais. Cada PRT é estruturado com base no nível de risco, na posição geográfica e nas condições sócio-económicas da região em que opera. Neste contexto a Itália, com a Operação «Praesidium» tem a responsabilidade de Herat.

Brigadas e Regimentos, de Mario Buscemi (pág. 64). A articulação estrutural das actuais Brigadas, a sua não sempre óptima colocação no território nacional e a diversificação de emprego das forças dependentes postulam um interessante requisito: de futuro convirá valer-se apenas dos regimentos, cuja homogeneidade é garantia de eficiência e respondência às tarefas atribuídas, ou confiar às Brigadas novas funções operativas? O Network Centric Warfare, de Donato D'Ambrosio (pág. 70). A digitalização do espaço de manobra foi reconhecido como objectivo prioritário e princípio inspirador do processo de transformação da NATO. Neste âmbito, investimentos adequados e bem focalizados poderiam consentir a realização de um roadmap calibrado para as exigências nacionais, salvaguardando-nos de uma perigosa dependência tecnológica e operativa com o estrangeiro. Wireless Operational Test Bed, de Marco Cappellini e Sergio D'Errico (pág. 80). A Escola das Transmissões e Informática do Exército haviou um projecto estendido a implementar e gerir, no futuro battlespace, um sistema de comunicação e informação articulado em componentes civis e militares. Ética e Motivação, de Massimo Scotti (pág. 92). O soldado empenhado em combate é inundado por um tumulto de estados de espírito em conflito entre eles. Sentimentos contrastantes onde a paixão tende a superar o raciocínio, a motivação e o sentido de ética. Um alternar-se de predominâncias racionais e irracionais que envolve também os Comandantes, obrigados a viver situações talvez mais explosivas e stressantes. A epopeia do ARMIR, de Giovanni Sargeri e Filippo Cappellano (pág. 102). A frente oriental viu níveis de ferocidade e de crueldade sem antecedentes, com os contendedores empenhados numa guerra de aniquilamento sem qualquer relação com as convenções internacionais. Naquele contexto, o comportamento das tropas italianas diferenciou-se nitidamente. Repercorrer aqueles momentos rende justiça às Unidades e a quantos, heroicamente, caíram nas gélidas estepes russas. O «M13» de El Alamein, de Gualtiero Stefanon (pág. 112). O Coronel Paolo Caccia Dominioni, Conde de Sillavengo, descobriu no deserto egípcio, a 1 de Julho de 1948, os restos de um carro armado nos quais se destacava nitidamente a matrícula M 13 RE 3700. Hoje, no Mausoléu de Q. 33, este carro, erguido a monumento, materializa a memória de tantos soldados italianos que em El Alamein souberam escrever uma inesquecível página de heroísmo e amor pela Pátria.

ERRATA CORRIGE Ci scusiamo con i nostri lettori per aver erroneamente denominato la FYROM con il termine Macedonia a pag. 7 della «Rivista Militare» n. 1- 2006.

147 - RUBRICHE


IN RICORDO DI SALVATORE MARRACINO Un anno fà perdeva la vita in Iraq, durante un’attività addestrativa, Salvatore Marracino, coraggioso e stimato Sergente dell’Esercito. La sua scomparsa ha creato un immenso e doloroso vuoto nei familiari e nei commilitoni che ben si evince dalle parole di suo fratello Massimo e del suo Comandante di batteria. Ai paracadutisti della «Folgore».

Caro Salvatore...... ci siamo conosciuti nel 1998, nella nostra 2a Batteria «le Aquile» del 185° Reggimento Ricognizione ed Acquisizione Obiettivi «Folgore». Il tuo generoso e gioviale carattere ci ha accompagnato e rallegrato nei molti momenti passati insieme. La tua abnegazione, la tua serietà e le tue capacità ci sono state di aiuto e supporto durante tutti questi anni. Ricordo con affetto i concitati momenti al Posto Comando di Batteria durante le numerose esercitazioni a fuoco, tu, radiofonista di collegamento col Gruppo, rispondevi a tono alle «minacciose» comunicazioni del Comando di Gruppo senza, però, premere il tasto della radio, per vedere la mia colorita reazione. La nostra prima operazione è stata in Kosovo nel 1999. Durante quei lunghi e freddi mesi, vivendo insieme la quotidianità della missione, condividendo tutti i sentimenti, abbiamo unito le nostre vite indissolubilmente. La vita è fatta principalmente di sentimenti, ricordi, speranze ed affetti; gli affetti sono la colla che ci lega l’un l’altro e ci porta ad essere partecipi delle sorti altrui anche quando le situazioni ci vorrebbero separati. Questo sentimento mi ha permesso di seguirti durante il tuo percorso di vita militare. Ogni passo intrapreso rappresenta una crescita: la ferma permanente, la qualifica di Acquisitore e la promozione a Sergente; ho gioito nel partecipare come un fratello maggiore ai tuoi successi. L’entusiasmo e la voglia di fare sono stati, per te, un credo profondamente intimo, in Caserma come nella vita privata. Sovente tessere le lodi di un amico che è mancato può sembrare quasi retorico o rituale, ma noi tutti al 185° RRAO sappiamo che tu sei sempre stato un uomo fiero, che ha vissuto serenamente ed a testa alta, essendo di esempio per tutti. Siamo stati fratelli in armi, nella fatica degli addestramenti, nelle difficoltà delle missioni, nelle gioie dell’amicizia ed anche nei dolori che la vita inesorabilmente ci ha spesso riservato. Guardare al futuro non è facile, ma il ricordo del sorriso con cui hai sempre affrontato la vita, colma parzialmente il vuoto che hai lasciato e ci spinge ad andare avanti. Grazie per quello che hai rappresentato e rappresenterai per tutti noi. Sempre vivo sarà il ricordo di un fratello che è caduto per quei valori in cui credeva fermamente e che si riconoscono nel nostro nome: «Folgore». Capitano Andrea Vicari Comandante della Task Force «Victor»

Ricordo perfettamente il giorno in cui mio fratello apprese la notizia della sua chiamata nell’Esercito. La riforma delle Forze Armate compiva i suoi primi passi e Salvatore era fortemente convinto della sua intenzione di intraprendere la carriera militare. La preoccupazione di non essere accettato diventava sempre più insistente ai suoi occhi, ma non appena venne a conoscenza della buona notizia, il timore, l’apprensione si tramutarono in soddisfazione e curiosità per quello che sarebbe stato il suo domani, il suo fiero avvenire. Era il 29 settembre del 1997. Dopo circa quattro mesi Salvatore avrebbe fatto parte della Brigata «Folgore», di stanza presso il 185° Reggimento Paracadutisti Ricognizione Acquisizione Obiettivi, indossando quel basco color amaranto che non avrebbe mai più lasciato. Credo che il modo più efficace per raccontare l’orgoglio e la voglia di appartenere a un Corpo glorioso e stimato si racchiude in questo breve racconto di quella che, poi, sarà la vita professionale del Sergente paracadutista Salvatore Domenico Marracino, caduto in Iraq il 15 marzo 2005, all’età di 27 anni, e non invano. Non invano perché sono certo che Voi, paracadutisti della «Folgore», Voi, giovani soldati che, petto in fuori, indossate quell’uniforme, porterete vivo il ricordo di un ragazzo deciso e impegnato nel compiere il suo dovere. Quando, nell’agosto 2004, venne promosso al grado di Sergente, era ormai diventato un uomo. Lo si capiva dal suo sguardo che, all’occasione, assumeva lineamenti seri e coscienziosi. Potevo scorgere nella sua persona il cambiamento di un’esistenza che lo aveva consegnato ai sacrifici ed alle fatiche della vita militare, sempre sostenuti con passione e grande volontà. Ed io, ammirato, osservavo quella sua crescita interiore, mai ostentata e sapientemente raccolta in una virtù di orgoglio e modestia. Era il fratello maggiore ed era il Sergente paracadutista del 185° RRAO! A coloro che ogni giorno tracciano la storia della Brigata «Folgore», rafforzandone i confini, rivolgo questa mia lettera perché so che Salvatore è e sarà sempre con i suoi compagni in armi, sostenendoli e osservandoli senza essere osservato. Così recita il suo motto che per sempre risuonerà dall’alto della sua perenne memoria: videre nec videri. Massimo Marracino


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