La vita è bella: recensione del film di Benigni - Cinematographe.it

La vita è bella: recensione del film di Roberto Benigni

Commovente, seppur in grado di strappare un sorriso: La vita è bella è uno dei capolavori del cinema italiano, internazionalmente riconosciuto come tale dopo la vittoria agli Oscar del 1999 come Miglior Film Straniero e non solo. Una pellicola che ha consacrato la comicità "morale" di Roberto Benigni alla storia del cinema, che ha saputo trattare la tragedia dell'Olocausto con un'umanità che lascia senza parole.

Come dimenticarselo quel momento in cui alla cerimonia degli Academy Awards del 1999 una splendida – e super emozionata – Sophia Loren annuncia al mondo che il vincitore della categoria Miglior Film Straniero era l’italianissimo La vita è bella, con regia dell’attore toscano Roberto Benigni? Difficile, perché a dire il vero è un momento che è passato alla storia.

Quella sera, Roberto Benigni e la sua “straordinaria” – in senso stretto, nel significato di “fuori dall’ordinario” – pellicola hanno portato a casa ben tre statuette: l’Oscar al Miglior Film Straniero, quello al Miglior Attore Protagonista e quello come Miglior Colonna Sonora. Un vanto, tutto italiano.

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La vita è bella: la trama del film di Benigni

Italia, 1939. La Seconda Guerra Mondiale non è ancora iniziata, ma il Paese è già in mano alla dittatura fascista. Guido Orefice (Roberto Benigni) è un giovane di origine ebraica, da poco trasferitosi nella città di Arezzo dopo aver lasciato la più placida vita di campagna in Toscana. Lì avviene l’incontro galeotto con la donna che diventerà l’amore della sua vita, la sua “principessa” – come è solito chiamarla – che diverrà anche moglie e madre di suo figlio, il piccolo Giosuè (Giorgio Cantarini). La dolcissima Dora (Nicoletta Braschi) è un’insegnante delle elementari: in breve i due si innamorano e decidono di sposarsi, nonostante Dora fosse consapevole del rischio che deriva dal matrimonio con un uomo ebreo. La vita della famiglia si svolge in maniera idilliaca fino al 1944: Guido è riuscito ad aprire una libreria e i tre vivono armoniosamente in una bella casa. Ma un giorno, proprio durante il compleanno del figlio Giosuè, le truppe naziste irrompono in casa Orefice e ordinano alla famiglia di seguirli. La famiglia Orefice sta per essere deportata in un lager. La mamma, Dora, viene presto separata dal figlio e dal marito: quest’ultimo, però, reagisce tempestivamente in modo sorprendente, per far sì di tenere il figlio all’oscuro degli orrori che li attendono. Inventa, quindi, un gioco a premi: Guido racconta e fa credere al figlio di star partecipando a un gioco, durante il quale vengono assegnati dei punti. In questo modo, riesce ad alleggerire al bambino il periodo di permanenza nel campo di concentramento, con una forza d’animo che solo un genitore può mostrare di avere di fronte a una simile tragedia. Purtroppo, Guido perde la vita in quel campo, ma quando gli americani giungono a liberare il Paese il piccolo Giosuè riesce a ricongiungersi con la madre, credendo di aver davvero vinto la partita, uscendo fuori dal lager come un vincitore su un carrarmato statunitense.

Una storia di coraggio, di riscatto e di amore

Siamo stati abituati a vedere al cinema grandi capolavori internazionali con protagonista il tragico evento della Shoah, firmati da registi che hanno voluto dedicare la loro arte alla memoria di una delle pagine più cupe della storia umana, se non la peggiore: dallo straziante Schindler’s List di Steven Spielberg a Il pianista di Roman Polański (successivo al film di Benigni), il registro narrativo con cui il cinema ha affrontato il tema dell’Olocausto e del genocidio ebraico è sempre stato tragico, angosciante e cupo.

Se è vero, come si dice al di là dei confini internazionali, che gli italiani sono un popolo allegro, animato da un amore per la vita e da un sorriso che ne è un tratto distintivo, di certo Roberto Benigni non smentisce, anzi, conferma lo stereotipo: lo fa regalando al pubblico, nel 1997, un film sull’Olocausto che nessuno mai si sarebbe aspettato di vedere, La vita è bella.

Già dal titolo veniamo spiazzati: sono diversi, infatti, gli intellettuali e gli scrittori che hanno vissuto in prima persona – come Primo Levi – gli orrori dei lager e che si sono domandati come fosse addirittura possibile parlare di Dio dopo un’esperienza come l’Olocausto. Il collegamento tra il Male e il mistero di Dio è qualcosa che perfino la Bibbia affronta nei capitoli che raccontano le vite di Giobbe e Giona, due uomini che hanno avuto con Dio una relazione ben diversa, l’uno sopportando con estrema pazienza e fede le avversità e l’altro scoraggiandosi e lamentandosi non poco nei confronti del Padre. Invece, Roberto Benigni sceglie di dare alla sua opera un titolo che è davvero un inno alla vita: è bella, dice, meravigliosa, fa “sorridere senza un perché” come canta la melodiosa voce di Noa nel pezzo Beautiful That Way che ha dato all’autore Nicola Piovani il meritatissimo Oscar per la Migliore Colonna Sonora.

la vita è bella

Ma come può, di fronte a una simile situazione, continuare a essere bella l’esistenza di un uomo? Roberto Benigni ci presenta una famiglia e dei personaggi che sono l’emblema del coraggio: persino Dora è stata coraggiosa nell’aver scelto di sposare un ebreo, così come coraggiosa è la scelta di Guido che, invece di farsi sopraffare dalla tragicità dell’evento, sceglie di mostrare al figlio un lato edulcorato della realtà, agendo per il suo bene. L’amore, non l’odio, è il sentimento che trionfa in questo film: è come se Benigni avesse dato voce ai milioni di ebrei coinvolti nella Shoah per riscattarli dalla tragedia, facendoli risorgere in questo omaggio cinematografico che celebra la positività e quanto di solare ci possa essere nella vita umana.

Benigni fa il suo lavoro con una regia poetica e spensierata, resa tale anche dalla già citata, bellissima, colonna sonora: si ritrova nella sua magistrale prova di recitazione la sua verve solita, la sua comicità fatta di giochi tra equivoci e malintesi, la sua leggerezza e il brio che lo caratterizzano e che qui si sublimano in un tocco di delicata umanità che difficilmente si ritrova in attori e registi che cercano di trattare un simile tema con il registro del comico. Bravissima anche la moglie, l’immancabile Nicoletta Braschi che nel personaggio di Dora concretizza la figura materna malinconica e sofferente, facendosi carico del dolore di tutte quelle donne, con primi piani di grande emotività.

La vita è bella è quasi una favola, non priva della sua morale: gli eroi ci sono, ne sono usciti provati, ma vincitori comunque, perché per quanto fragile possa essere l’esistenza, non perdere la speranza e la forza per aggrapparvisi sembrano essere gli ingredienti perfetti per vivere appieno quel tempo di cui ci è stato fatto dono. D’altronde, oggi si parla sempre di più di resilienza: La vita è bella è questo, è un film resiliente, in un certo senso strettamente psicologico.

Regia - 5
Sceneggiatura - 5
Fotografia - 4
Recitazione - 5
Sonoro - 5
Emozione - 5

4.8