IMMORTALITÀ in "Enciclopedia Italiana" - Treccani - Treccani

IMMORTALITÀ

Enciclopedia Italiana (1933)

IMMORTALITÀ (da in, prefisso negativo, e mortalità, fr. immortalité; sp. immortalidad; ted. unsterblichkeit; ingl. immortality)

Carlo MAZZANTINI
Alberto PINCHERLE

Immortalità si dice quella proprietà di un essere vivente, per la quale esso è naturalmente destinato a continuare a esistere sempre, senza corrompersi (cessar di essere ciò che positivamente era prima) per effetto della morte. Sopravvivenza si chiamerà invece il semplice fatto di continuare a esistere, per un tempo indeterminato; ed eternità l'esistenza necessaria extratemporale, la istantaneità perenne, il modo di durare del nunc stans. D'immortalità vera e propria si parla più specialmente per l'anima dell'uomo.

Religione. - Le concezioni dei popoli primitivi intorno alla natura dell'anima (v.) hanno condotto quasi universalmente a ritenere che, separandosi dal corpo con la morte, essa continuasse la propria esistenza in una vita d'oltretomba; variamente, ma sempre - anche là dove si credette a un vero e proprio mondo ultraterreno, quale l'Ade (v.) dei Greci (v. anche inferno) - concepita come scialba e inattiva rispetto alla vita reale; e riservata in origine soltanto a uomini privilegiati, per nascita, potenza o altre qualità che li avvicinassero in certo modo agli dei, caratteristica distintiva dei quali in confronto degli uomini è l'immortalità (un cospicuo e per alcuni rispetti tipico esempio del processo di "democratizzazione" si ha in Egitto, dove la sopravvivenza, dapprima privilegio del Faraone, diventa poi retaggio di tutti). Ma precisamente in questa estensione è la base degli sviluppi ulteriori. Poiché la vita d'oltretomba apparve come qualcosa che l'uomo si doveva in qualche modo conquistare, ovvero, almeno, meritare: onde, da una parte, la credenza che per entrare nel regno oltremondano fosse necessario cattivarsi o vincere le divinità preposte al luogo donde non è lecito ritornare: sia pagando un tributo, o pedaggio, sia risolvendo un indovinello o dando una parola d'ordine, ecc. (è chiara in questo caso l'analogia con i riti di passaggio, e la fiducia nel valore magico della parola). E, dall'altra, proprio su questa base si fonda la credenza in un giudizio delle anime e, insieme con la fiducia nei mezzi magici per avere favorevole la sentenza dei giudici infernali, il valore etico sempre più grande attribuito a questo giudizio, con la necessaria conseguenza d'una netta separazione nell'oltretomba fra i malvagi condannati a eterni supplizî, e i buoni che godono di una beatitudine incomparabile.

Ma questa naturalmente gli uomini desiderarono. E uno dei mezzi per acquistare ciò che in origine veniva riservato a coloro ch'erano in una relazione particolare con la divinità, doveva naturalmente apparire il concentrare in sé quanto più di divino fosse possibile: la qual cosa si poteva ottenere mediante l'immedesimazione del fedele, ottenuta attraverso il rito e una serie di purificazioni e di sacrifici di comunione, con una di quelle divinità, in origine e prevalentemente agrarie, che appunto personificavano il morire autunnale e il risorgere a primavera della vegetazione. Tale fu la via all'immortalitâ che, nell'Asia Minore e in grecia, offersero ai loro adepti i misteri: per i quali la distinzione nell'oltretomba fu quella tra coloro che avevano ottenuto questa consacrazione, cioè gl'iniziati, i "misti" e gli altri, all'infuori di qualsiasi discriminazione morale. Perciò i misteri furono dileggiati e disprezzati in Grecia dai moralisti; ma nella stessa Grecia, e poi nel mondo ellenistico, un certo grado di moralizzazione s'ebbe anche nei misteri e non si credette premiata soltanto l'esteriore purità rituale. Anzi l'iniziazione stessa fu sempre più concepita come purificazione dell'anima, come acquisto d'una conoscenza superiore, cioè del mito e del suo significato riposto: che si può dire consistesse in sostanza nel riconoscimento della natura spirituale e divina dell'anima stessa, anelante a liberarsi dal dominio delle cose sensibili, dalla prigione del corpo (σῶμα-σῆμα). Questo processo - in cui ha larga parte lo sviluppo delle dottrine filosofiche (v. sotto) - nel mondo mediterraneo ha, si può dire, come suo ultimo termine la gnosi (considerando il movimento gnostico nel suo complesso), dove la conoscenza dei nomi segreti delle divinità e degli eoni, delle "parole d'ordine" necessarie perché l'anima possa varcare le sfere celesti (secondo la cosmologia tolemaica) e, in genere, del "racconto sacro" che costituisce la speciale dottrina degli eletti, presuppone insieme un complesso di credenze in una purificazione dell'anima come parte divina dell'uomo, e, anzi, in una vera e propria redenzione (v. gnosticismo).

Gli Ebrei ammisero anch'essi l'esistenza d'un regno oltre la tomba - la sheol - luogo di raccolta delle anime dei trapassati; ma tale sopravvivenza fu da loro concepita come ancora più povera e vana, se possibile, di quella concepita dai Greci dell'età omerica. Soltanto molto più tardi, sotto l'influsso del pensiero greco (v. sotto), alcuni di essi concepirono la vita d'oltretomba come sopravvivenza dell'anima e riconobbero nell'essere l'uomo dotato di un'anima immortale la ragione della sua somiglianza con Dio (cfr. Sapienza, II, 23 segg.; III,1-6; V, 15). Filone sostenne a sua volta l'immortalità dell'anima, da un punto di vista filosofico.

Ma questa corrente non rappresenta la linea storica di sviluppo del giudaismo ortodosso. Nel quale prevalsero il sentimento della solidarietà nazionale e quello della giustizia di Dio, come in Grecia prevalse invece l'individualismo: e lo prova il fatto che della sorte oltremondana delle anime si preoccuparono assai la filosofia e i misteri, pochissimo invece i culti pubblici. Ma precisamente il fatto che gli Ebrei non seppero concepire l'anima se non come la potenza attiva operante nel corpo e congiuntamente a esso, insieme con la viva speranza in un'era di beatitudine e di giustizia, variamente vagheggiata e descritta, li spinse a credere che non sarebbe stato giusto da parte di Dio escludere da tale beatitudine i morti, in particolare i martiri e i caduti in difesa della religione, che Dio avrebbe dunque fatto risorgere. È pertanto naturale che l'idea della risurrezione (teḥīyat ha-mētīm, "ravvivamento dei morti") sorgesse, come varî critici moderni pensano, o almeno fosse affermato con maggior vigore e chiarezza al tempo delle lotte dei Maccabei. Era anche naturale che questa credenza venisse collegata variamente, specie nella letteratura popolare del tardo giudaismo, con quelle relative all'avvento del regno messianico. Si possono infatti notare diverse tendenze: per alcuni la risurrezione è riservata ai giusti, mentre la condanna degli empî è nella loro stessa distruzione totale; per altri invece vi sarà risurrezione universale e giudizio di Dio; questo giudizio è da alcuni confuso con la vera e propria era messianica, da altri distinto e posto al termine di essa; altre apocalissi ancora ammettono sia la prima sia la seconda risurrezione.

Lo stesso concetto della risurrezione non si affermò di colpo né senza lotta: combattuto dai sadducei, era difeso dai farisei; ma la risurrezione è così strettamente connessa con la credenza nella giustizia di Dio e nella retribuzione finale, che non desta stupore il fatto che i farisei la trovassero affermata, esplicitamente o implicitamente, in ogni sezione della Legge, e che essa finisse col diventare dogma per Israele. Come tale, lo troviamo anche nei 13 articoli di fede di Maimonide: che tuttavia, sotto l'influsso di dottrine filosofiche, l'interpreta come immortalità dell'anima incorporea. E del resto, nello stesso giudaismo rabbinico si manifestò a poco a poco, necessaria conseguenza del concetto d'una retribuzione dopo la tomba, la distinzione dei due regni, riservati ai buoni e ai malvagi, in cui le anime si recano, non solo dopo il giudizio, ma immediatamente dopo la morte. I tormenti della geenna sono descritti talvolta con colori assai vivi; la beatitudine dei giusti invece, come contemplazione di Dio, ma anche in modo grossolano e materiale, come accadde nell'Islām, che a sua volta ereditò la credenza nella risurrezione. Che nel giudaismo questa poi fosse penetrata per la prima volta per influsso dello zoroastrismo, che è pure tutto imperniato sull'idea d'una purificazione del mondo fisico (quindi anche del corpo umano) e su un'escatologia universalistica, è stato sostenuto da parecchi: ma si può osservare che le premesse dello svolgimento storico della fede nella risurrezione sono nel giudaismo stesso e che pertanto, se vi fu recezione di idee iraniche, esse vennero accolte come conseguenza logica di quelle premesse.

Dal giudaismo la credenza nella risurrezione passò anche al cristianesimo: dove però fu combattuta da alcune sette, principalmente gnostiche, e dovette pertanto essere difesa, prima ancora che da Tertulliano, da S. Paolo. Il quale (I Corinzi, XV, 12 segg.), aveva però avvertito che il corpo umano non risorgerà quale esso è attualmente, cioè "animale", ma "in gloria", cioè come "corpo spirituale". D'altronde il legame esistente già nel giudaismo tra la risurrezione e le credenze messianiche e l'insistenza sulla risurrezione materiale da parte dei millenaristi (quali appunto Tertulliano) destarono sempre più i sospetti dei teologi colti. Accanto alla risurrezione, e all'escatologia collettiva, si venne sempre più affermando il concetto dell'immortalità vera e propria (v. sotto) e l'escatologia individuale, con la retribuzione immediata: e benché la "risurrezione della carne" sia rimasta articolo di fede, affermato in tutti i simboli, praticamente almeno e presso la massa dei fedeli l'escatologia individuale ha assunto maggiore importanza. Così Dante, nel descrivere i regni dell'oltretomba, solo di rado (p. es., Inferno, X, 10 segg.) ricorda che dopo il giudizio finale subiranno qualche modificazione.

Filosofia. - I primi tentativi di dimostrazione filosofica rigorosa, si trovano presso i Greci, e in primo luogo nelle opere di Platone. Questi ritorna sull'argomento in parecchi dialoghi (Menone, Fedone, Fedro, Gorgia, Repubblica) e si vale di diversi mezzi di prova. La reminiscenza rivela un intimo rapporto fra l'anima e quelle essenze eterne e immutabili che Platone chiama le idee; l'anima si manifesta quindi capace di esistere senza il corpo, essendole anzi questo d'impedimento piuttosto che d'aiuto nella ricerca della verità, che l'anima deve perseguire sola con sé stessa (αὐτὴ καϑ'αὐτήν). Un altro argomento si fonda sulla semplicità dell'anima, accertata per via gnoseologica (in quanto essa unifica i dati sensibili) e per via pratica (in quanto essa domina sul corpo, e non può quindi essere una risultante armonica delle varie parti e delle varie funzioni di questo). L'anima poi essendo, per definizione, datrice di vita, non si può pensare senza contraddizione che essa riceva in sé la morte. Affine a quest'ultimo argomento è l'altro, fondato sull'affermazione che l'anima è per sua natura semovente (αυτοκινοῦν), appunto perché essa deve avere per essenza ciò di cui fa partecipe il corpo. Questo movimento essenziale è quindi piuttosto un'attualità energica da cui può procedere l'attualizzazione (mediante il movimento) di altro.

Nella filosofia aristotelica il problema si pone bensì soltanto per l'anima intellettiva (νοῦς), ma conviene notare che Aristotele nega esservi molteplicità di anime nei viventi in genere e nell'uomo in specie.

Egli afferma l'anorganicità delle operazioni del pensare e del volere razionale; e quindi l'immaterialità e immortalità del principio da cui tali operazioni procedono. Che ogni individuo umano abbia in sé medesimo, come suo proprio, un cosiffatto principio sostanziale e immortale, sostenne un gruppo d'interpreti (in modo particolarissimo gli scolastici, fra i quali primeggia S. Tommaso d'Aquino). Altri invece sostennero in vario modo trattarsi di un principio universale e impersonale (così Alessandro d'Afrodisia, e così gl'interpreti arabi, fra i quali culmina Averroè. Tra gli alessandristi italiani P. Pomponazzi).

Dagli stoici l'immortalità fu in genere attribuita soltanto al Logos universale, concepito come il divino fuoco animatore del mondo, di cui le singole anime sono scintille, che in esso debbono venir riassorbite nella conflagrazione (ἐκπύρωσις) al termine di ogni ciclo cosmico.

I neoplatonici affermarono tutti in primo luogo l'eternità delle Idee, contenute nell'unico Intelletto come suoi eterni pensieri; ma affermarono poi l'eternità dell'anima del mondo, e finalmente anche delle anime individuali: come semplice riflesso, ma eterno, del mondo delle idee.

L'affermazione risoluta della materialità e conseguente corruttibilità, così dell'anima come del corpo (permanendo solo in eterno, come ab aeterno esistono, i singoli atomi) si trova specialmente sostenuta dagli atomisti (Democrito, Epicuro, Lucrezio). Anche se gli stessi atomi si riunissero per ricostituire, quelli più grossolani un medesimo corpo e quelli più sottili una medesima anima, mancherebbe il ricordo della vita antecedente, e quindi la continuità della coscienza personale.

Al pensiero cristiano, l'immortalità dell'anima apparve una verità fondamentalissima: a cui del resto si univa anche l'altra, della resurrezione dei corpi (v. sopra). I Padri della Chiesa affermano che l'immortalità è per l'anima umana un attributo naturale (nel senso che, supposta la sua esistenza, la natura che Dio le ha data la destina a rimaner sempre quello che è, e non a trasformarsi in un'altra sostanza), sebbene non essenziale (perché essa potrebbe anche non esistere, in qualsiasi momento del tempo, se Dio non la creasse e la conservasse). Tale immortalità naturale S. Agostino dimostrava anche in altri modi, p. es. fondandosi sulla capacità che l'anima possiede d'intuire le verità eterne.

La maggior parte degli scolastici ritennero che l'immortalità dell'anima potesse essere filosoficamente dimostrata, con perfetta evidenza razionale. Altri però ritennero che, filosoficamente, si potesse arrivare soltanto a un certo grado di probabilità. Fra i primi, il più importante (anche perché sintetizzò i risultati di un lungo processo storico) fu S. Tommaso. Questi sviluppò, in una piena e formale dimostrazione, gli accenni profondi ma oscuri di Aristotele, collegandoli con argomenti derivanti dalla tradizione platonica, e da quella patristico-scolastica. Ma il suo argomento fondamentale è quello strettamente metafisico, fondato sulla natura dell'anima come forma subsistens. L'anima umana cioè, a differenza di quella dei bruti, è ordinata per natura, in modo immediato, a esistere in sé; e non soltanto a far esistere, inerendo in una porzione di materia, il composto che ne deriva e che essa vivifica; sebbene essa abbia anche, e naturalmente, quest'ultima funzione. L'anima cioè sussiste per proprio conto, e fa partecipare il corpo della sua sussistenza, senza dipendere a tale riguardo dal corpo stesso; quindi è naturalmente ordinata a sussistere sempre (supposta la creazione e la conservazione da parte di Dio): substantiae vero quae sunt ipsae formae nunquam possunt privari esse (S. c. Gent., II, 55). Che poi l'anima sia una forma subsistens S. Tommaso conclude dal fatto che essa opera senza il corpo nelle sue attività razionali (pensiero e volontà, S. Theol., I, q. LXXV, a. 2). Invece, fra gli scolastici i quali ritennero che l'immortalità dell'anima, pur essendo certa per rivelazione, non possa essere dimostrata con perfetta evidenza razionale, si può ricordare Guglielmo di Occam.

Nella filosofia di R. Descartes, e dei pensatori che a lui più direttamente s'ispirano, l'anima è concepita non come forma del corpo, ma come sostanza a sé, dotata di una semplicità essenziale, che è il fondamento metafisico della sua incorruttibilità. Più difficile è l'interpretazione del pensiero di B. Spinoza. Secondo quest'ultimo non vi è né dualità di sostanze secondo la specie, né pluralità secondo il numero; ma vi è dualità di attributi (almeno degli attributi a noi noti, pensiero ed estensione), e pluralità dei modi di questi attributi, nell'unità della sostanza. Ciò che si chiama anima individuale è un gruppo di modi del pensiero, corrispondente a un gruppo di modi dell'estensione, e inerente nella Sostanza Divina. Sennonché, appunto per questo, l'anima (che in certo modo è l'idea del corpo) partecipa all'eternità di tale sostanza: eternità che è una presenza extratemporale, non un prolungarsi indefinitamente nel passato e nel futuro. Di questa sua presenza eterna, l'anima nostra è sempre in qualche modo consapevole (cfr. Ethica, V, 23); ma questa consapevolezza non è ricordo di stati antecedenti, né anticipazione di stati futuri.

L'antico materialismo, già sotto la forma di atomismo rinnovato nel sec. XVII da P. Gassendi (con riserve di carattere religioso) e da T. Hobbes, trovò largo credito nel sec. XVIII, e poi di nuovo nella seconda metà del XIX. La negazione dell'immortalità dell'anima è per questi pensatori fondata sul presupposto metafisico della corporeità, e conseguente decomponibilità di tutto ciò che esiste (P.-H.-D. d'Holbach, P.-J.-G. Cabanis, J. Moleschott, ecc.); o per lo meno essi affermavano che le manifestazioni psichiche anche più elevate (pensiero e volontà) procedono per evoluzione da quella stessa sostanza eterna da cui procedono tutte le altre manifestazioni della realtà (p. es. E. Haeckel).

Una particolare importanza storica ha avuto, anche nei riguardi di questo problema, il criticismo di E. Kant. Dal punto di vista della ragione, Kant riteneva che tale problema fosse insolubile, come insolubili erano per lui tutti i problemi metafisici, riguardanti non il fenomeno (accessibile) ma la cosa in sé (inaccessibile all'umana conoscenza). Vero è che noi pensiamo una sostanza (la nostra anima, appunto), come sostrato in cui ineriscono e da cui procedono i fenomeni psichici, dati come materia del senso interno, e ordinati nella forma intuitiva a priori del tempo (non dello spazio). Ma questa categoria (concetto puro) di sostanza manifesta, secondo Kant, non un'entità reale che sussiste in sé, ma piuttosto una nostra (universalmente umana) esigenza mentale, che vale solo in quanto è applicabile all'esperienza: serve cioè a collegare in sintesi i dati del senso interno. Mentre però la ragione nel suo uso teorico porta così a conclusioni affatto agnostiche, nel suo uso pratico invece (in quanto pensa la legge direttiva della volontà come imperativo categorico, e riflette sui presupposti necessarî della validità di questa legge) essa porta a una conclusione affermativa: non nel senso che faccia conoscere, ma nel senso che fa necessariamente postulare l'immortalità dell'anima; e la fa postulare, perché senza di essa sarebbe inconcepibile quel progresso morale indefinito, che pur l'uomo deve proporsi come scopo principale del suo agire. Non essendo per la volontà umana raggiungibile, in nessun momento del tempo, quella santità assoluta e definitiva che è propria della volontà divina, essa ha bisogno di continuare a sforzarsi per migliorare, nell'indefinito del tempo futuro. Benché non saputa, l'immortalità deve quindi essere creduta, con un atto di fede razionale pratica.

Il positivismo genuino insiste sull'aspetto agnostico del criticismo kantiano, affermando la conoscibilità del solo fenomeno, e l'impossibilità di trascendere con la ragione l'esperienza sensibile. Se ammette una fede non l'ammette più come fede razionale (alla maniera di Kant), ma come stato puramente sentimentale, o come decisione arbitraria e autosufficiente della volontà. Così alcuni positivisti credettero potere evitare il contrasto fra la loro dottrina filosofica e le aspirazioni religiose, compresa fra queste l'aspirazione all'immortalità, fondando tale accordo sulla inconoscibilità perpetua (ignoramus, ignorabimus) della realtà in sé. H. Spencer sostenne perciò la necessità di affermare un Inconoscibile; fu combattuto su questo punto dal positivista italiano R. Ardigò. Ma la scuola positivista italiana, sebbene a quest'ultimo ami ricollegarsi, ne ha superato le tesi negative, pure sfruttando altri elementi del suo pensiero. Così specialmente G. Tarozzi (che però, nell'ultima fase del suo pensiero, esce dal positivismo) distinguendo la questione an sit dalla questione quid sit, conclude che una realtà trascendente e una vita oltremondana possa essere affermata (non però secondo lui dimostrata), sebb-ne non possiamo sapere quale essa sia.

Sul carattere volitivo delle nostre credenze insistono specialmente i pragmatisti (p. es. W. James). Come finzioni utili le considerano altri: p. es. Hans Vaihinger con la sua filosofia del come se (Als ob).

Diversa fu la via seguita dall'idealismo assoluto. Esso affermò l'eternità extratemporale dell'Io puro (J. G. Fichte), o dell'Assoluto (F. W. J. von Schelling), o dell'Idea (G. W. F. Hegel), interpretando l'individualità come negativa e limitatrice, negando a quest'ultima ogni permanenza e anche ogni fondamento morale all'aspirazione corrispondente. Fra i hegeliani posteriori alcuni accentuarono l'aspetto negativo della dottrina (p. es. A. Feuerbach), altri cercarono di avvicinarla alla dottrina tradizionale, parlando di una conservazione nell'assoluto (p. es. J. Michelet), altri infine, specialmente anglo-americani, parlarono di un valore positivo e d'una permanenza dell'individuo stesso, come momento non superabile anzi insostituibile nella coscienza universale (p. es. J. Royce).

Molteplicità di tendenze si ritrova anche nel neo-hegelismo italiano. B. Croce, dando all'individuo umano un carattere puramente istituzionale e convenzionale, conclude che la vera immortalità è soltanto quella delle opere conservate (in quanto appunto superate) nel processo storico. G. Gentile insiste sull'assoluto valore e l'eternità indefettibile dell'Io trascendentale come atto puro, e di ogni momento positivo di vita, che nella sua concretezza si identificherebbe appunto con l'atto puro (Teoria gener. d. Spir., X, 8: "l'immortalità... è affermazione che il soggetto fa di sé nel proprio assoluto valore"). In quest'ultima concezione (dell'immortalità come assolutezza) si avvicina al Gentile anche A. Guzzo.

La dottrina spiritualistica tradizionale, affermante l'esistenza, in ogni persona umana individua, di un principio sostanziale incorporeo e indistruttibile (anima), è sostenuta dai neo-scolastici, e da numerosi altri pensatori, anche se notevolmente differiscono tra loro nella più esatta determinazione di tale principio e attualità permanente; anche perciò quando rifuggono dall'adoperare termini come "anima" e "sostanza".

Bibl.: v. anima; escatologia; inferno e le altre voci richiamate nel testo.

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