The Last of Us: Parte 2 - Recensione

Naughty Dog dà vita all’ennesimo capolavoro raccontando un’ambiziosa storia di vendetta, dolore e rimpianti.

The Last of Us: Parte 2 - La recensione

LA RECENSIONE IN BREVE

  • Un'avventura emozionante, intensa, ansiogena e profonda, capace di osare e reinventarsi trascinandosi (forse troppo) in una storia d'amore dolorosa e brutale.
  • Espande il gameplay in ogni aspetto possibile, trasformando anche i dettagli più piccoli in una meccanica di gioco e dando vita a un mix perfetto.
  • Tecnicamente sublime, con un performance capture incredibile, una cura per le animazioni fuori scala e una colonna sonora ancora una volta magistrale.

“L’odio è cieco, la collera sorda, e colui che vi mesce la vendetta, corre pericolo di bere una bevanda amara”, recitava Alexandre Dumas in una delle sue opere più rappresentative. E di bevande amare, la storia di The Last of Us: Parte 2 è davvero stracolma. Il cammino di Ellie, anni dopo la conclusione del primo episodio, affonda le sue radici nel tema della vendetta, si nutre di un sentimento che, sorso dopo sorso, inaridisce la protagonista fino a diventare consuetudine, alimentando quello che ben presto diventerà un implacabile ciclo di violenza il cui fine ultimo è la ricerca della giustizia personale, che giustizia in fin dei conti non è. Intraprendendo un simile percorso, Ellie perde la sua innocenza diventando giudice, giuria e boia in un mondo crudo e spietato, che non perde occasione di rimarcare la sua natura brutale davanti agli occhi (assai provati) del giocatore.

“If I ever were to lose you, I'd surely lose myself”, cantano i Pearl Jam nel brano Future Days (da Lightning Bolt, 2013), traccia voluta fortemente da Neil Druckmann per la colonna sonora di The Last of Us: Parte 2 come simbolo del lungo e tortuoso viaggio in cui si cimenterà la ragazza: un’esperienza intensa, impegnativa e a tratti talmente ansiogena da risultare estenuante per una storia che, consapevole di porti costantemente di fronte a situazioni moralmente discutibili e di giocare ripetutamente con i tuoi sentimenti, non smette mai di farlo. Costringendo nel frattempo chi si trova dall’altra parte dello schermo a fermarsi, tirare il fiato, posare il DualShock 4 anche solo per un istante e lasciarsi andare alla riflessione.

Già, riflettere. Con la sua ultima opera, Naughty Dog porta il giocatore a riconsiderare il significato di etica, di giusto e sbagliato, di bianco e nero, di buono e cattivo. Non ci sono eroi nel mondo – molto più profondo, complesso e stratificato – di The Last of Us: Parte 2. Che, dal canto suo, preferisce concentrarsi sulla pletora di sfaccettature che stanno lì, nel mezzo, pronte a mettere in discussione tutto e il contrario di tutto. È questione di prospettive, di punti di vista, di esperienze vissute in un universo in cui le peggiori paure del genere umano si sono tramutate nell’angosciante realtà di tutti i giorni. La quotidianità in cui vivono Joel, Ellie e i tanti personaggi (vecchi e nuovi) sapientemente plasmati da Druckmann per quella che rappresenta la sceneggiatura di certo più imponente mai creata dalla casa californiana, cucita addosso a quello che, a tutta ragione, è definito come il videogioco più ambizioso a cui la software house abbia mai lavorato da quando ha iniziato a parlare di ladri e gentil donzelle, di frenetici marsupiali affamati di mele e impavidi avventurieri in cerca di tesori.

Una dolorosa storia d'amore e odio

The Last of Us: Parte 2 è prima di tutto un videogioco, di quelli che decidono di sfruttare la loro natura interattiva per affrontare discussioni importanti, forse scomode, ma più che mai attuali. Tematiche come diversità e razzismo, orientamenti sessuali e culti religiosi, politica e fanatismo emergono con forza in un’epopea che, dopo decine e decine di ore trascorse tra location familiari e chissà quali altri luoghi, riesce nel difficile intento di essere ancora più stimolante e coinvolgente dal punto di vista emotivo. Distruggendo tutte le certezze e dimostrando un coraggio probabilmente non così comune in un panorama ancora relativamente giovane come quello dei videogiochi, sgretolandoti di colpo il terreno sotto i piedi, recidendo legami e creandone di nuovi e inaspettati. Emozionando e, perché no, facendoci piangere.

Se The Last of Us era un pugno nello stomaco, questa Parte 2 ti colpisce come un treno in corsa lasciandoti spesso e volentieri inerme, con l’incredibile desiderio di fermarti e di chiuderla lì, a cui segue prontamente un’asfissiante voglia di vedere come va a finire. Se il primo capitolo ci aveva abituato sin dalle battute iniziali a momenti di grande impatto, il secondo atto della storia post-apocalittica concepita da Naughty Dog non può e non vuole assolutamente essere da meno: accenna quasi a un ritorno alla normalità, quando si sofferma a spiegare come una piccola comunità sia riuscita a isolarsi dagli orrori del mondo circostante e a trovare rifugio tra le mura di una cittadina immersa nei boschi del Wyoming. Mostra sprazzi di allegria, momenti di genuina superficialità, attimi di romanticismo e di un’intesa che cresce minuto dopo minuto, per poi rimettere tutto in discussione quando decide che è tempo di spingere sull’acceleratore, sbattendoti in faccia eventi inaspettati che innescano inesorabilmente quel meccanismo di rivalsa incontrollata e incontrollabile con cui l’ormai diciannovenne protagonista sarà costretta a fare i conti lungo il suo percorso.

The Last of Us: Parte 2 inizia così, raccontando una storia incredibilmente significativa se presa singolarmente, ma capace allo stesso tempo di impreziosire con estrema coerenza il racconto del primo episodio. Attraverso sfumature, ricordi e pensieri custoditi all’interno di un diario, Naughty Dog vuole immergerci nei panni di una Ellie forgiata dal dolore, farci provare sulla nostra pelle la sua sofferenza e accrescere l’empatia nei confronti di un personaggio profondamente scosso e indurito dalle continue vicissitudini affrontate nel suo viaggio più difficile, che non manca di riflettere a più riprese su come ciò che prima sembrava scontato possa improvvisamente venire a mancare, di come rapporti, situazioni e dinamiche che non sembravano abbastanza, in realtà non fossero così male. Il team americano lo fa con una messa in scena potente e una narrazione ricca di sfaccettature, il cui obiettivo è donare ai giocatori interpretazioni differenti a seconda della sensibilità ai temi affrontati. Farà discutere? Assolutamente sì. Sarà in grado di emozionare? Potete scommetterci.

Le espressioni di Ellie manifestano chiaramente lo stato d'animo di una protagonista profondamente cambiata rispetto al primo capitolo.

E quando tutto sembra volgere ormai al termine, quando si ha la sensazione che il ciclo di violenza si sia esaurito e che i titoli di coda siano proprio lì dietro l’angolo, emerge il coraggio autoriale di un Druckmann che non ha alcuna paura nel cambiare improvvisamente direzione e rimettere tutto in discussione, svelando la reale natura di una sceneggiatura ben più intricata e complessa di quel che si poteva immaginare nella più rosea delle ipotesi. Questa volontà da parte dell’autore, la cui scrittura è profondamente maturata rispetto ai lavori precedenti, dà vita a una storia capace sì di impegnare per quasi trenta ore ma che, almeno nel mio caso, in diverse circostanze mi ha dato la sensazione di volersi dilungare un po’ troppo.

In un gioco in cui la violenza non accenna mai a diminuire e ha un impatto significativo sul giocatore, in cui la brutalità diventa tanto nauseante quanto ludicamente meccanica, in cui tutto è così intenso ed estremo, si corre il rischio di dilatare eccessivamente gli spazi e i tempi fino a risultare (involontariamente) quasi prolisso e, come già detto, estenuante. Poi, finalmente, tutto finisce e ciò che resta, in una sorta di strano déjà-vu, è solo un’enorme sensazione di vuoto: i titoli di coda scorrono, la musica accompagna il giocatore in un attimo di riflessione mentre tenta di ripercorrere mentalmente il lungo cammino e gli attimi più rappresentativi, assimilandone così le esperienze. È una sensazione che non si può spiegare a parole ma che bisogna necessariamente affrontare, nella sua intensità, nel suo dolore.

Espandersi oltre ogni misura

Approfondire ulteriormente la componente narrativa senza incappare in possibili spoiler sarebbe impossibile oltreché del tutto superfluo, perché in fondo ci troviamo davanti a un videogioco che, per definizione, necessita di essere vissuto personalmente per apprezzarne al meglio le sfumature. Partendo dalle solide basi del capitolo precedente, The Last of Us: Parte 2 allarga gli orizzonti ed espande oltremisura ogni singolo elemento del gameplay, proponendo un’intricata avventura in terza persona che segna l’ennesima consacrazione da parte di Naughty Dog in termini di profondità delle sue peculiari meccaniche di gioco, di cura nei dettagli e di complessità degli elementi che compongono uno scenario oggi più che mai protagonista. Tutto è più grande, tutto è stato pensato per essere una meccanica di gioco, persino dettagli all’apparenza superflui come le dita che pizzicano le corde di una chitarra, sfruttando alle volte il Touchpad per suonare virtualmente le note di una colonna sonora come sempre magistrale.

Ogni elemento del primo episodio è stato ampliato a dismisura: in alcuni frangenti, il gioco arriva persino a tramutarsi in un piccolo open-world esplorabile, salvo poi tornare su binari ben definiti.

Azione, esplorazione, stealth, crafting: tutti gli elementi caratteristici del primo capitolo tornano in questo sequel in una versione ampliata, influenzate dalla violenza e brutalità di una storia molto più matura, e più in linea con le peculiarità di una protagonista la cui fisicità è giocoforza molto diversa da quella di Joel. Se le differenze tra i due erano emerse già in occasione dell’originale The Last of Us e del suo DLC Left Behind, qui esplodono con decisione introducendo nuove meccaniche di gioco che enfatizzano una maggiore agilità del personaggio (ora capace di saltare e schivare, accovacciarsi e sdraiarsi, persino muoversi negli spazi stretti) e una maggiore verticalità degli ambienti, mettendo in risalto un level design intricato e sempre pronto ad assecondare l’esplorazione, a garantire una via di fuga dai combattimenti a favore della furtività.

Al giocatore la scelta dell’approccio più adatto: si può affrontare ogni momento all’insegna dello stealth, aggirando il nemico, sfruttando mattoni e bottiglie per creare diversivi e strisciando nella vegetazione per procedere di soppiatto, oppure optare per una strategia più aggressiva, utilizzando nuove meccaniche come la possibilità di agganciare rapidamente un nemico e stordirlo lanciandogli contro oggetti, per poi colpirlo brutalmente grazie al sistema di combattimento corpo a corpo, che permette al nostro personaggio di affrontare a viso aperto il nemico, eluderne gli attacchi e persino di ucciderlo con le sue stesse mani, sfilandogli l’arma da mischia e infilzandolo senza pietà.

Ogni dettaglio, ogni elemento collaterale prende vita attraverso delle meccaniche di gioco che contribuiscono ad accrescere il valore di un gioco ambizioso e ricco di sfaccettature.

Il tutto avviene con un’eleganza e un’armonia difficilmente viste in un videogioco, frutto di una cura maniacale per i dettagli e di una maestria nella realizzazione delle animazioni – crude, feroci e impietose – che si susseguono senza soluzione di continuità. In tal senso, The Last of Us: Parte 2 è l’ennesima dichiarazione di intenti da parte di una Naughty Dog capace di dimostrare ancora una volta una superiorità quasi imbarazzante (per gli altri) nello sfruttare l’hardware delle console di Sony: se questo è ciò che la software house ha saputo creare con un’architettura con sette anni sul groppone, chissà dove potrà spingersi quando inizierà a prendere confidenza con la potenza di PS5.

Sopravvivere, a ogni costo

Quella messa in piedi dagli sviluppatori è una danza violenta di piombo e acciaio, di armi da fuoco e oggetti contundenti spesso raccolti per strada, potenziabili tramite un sistema di crafting rapido e prezioso nel supportare il personaggio principale a confezionare ciò che serve per sopravvivere, o quantomeno per provarci. A patto ovviamente di aver raccolto le risorse necessarie, che nel mondo di The Last of Us: Parte 2, al livello di difficoltà intermedio, sono discretamente abbondanti: negozi, edifici abbandonati, sotterranei e appartamenti raccontano storie di vita quotidiana prima dello scoppio dell’epidemia, frammenti di esistenza che sembrano oggi così tremendamente attuali, ma ospitano anche oggetti che possono essere scovati e raccolti nello zaino, in attesa poi di essere combinati al momento più opportuno per dar vita ad arnesi più utili dal menu di crafting. Accessibile in ogni momento, richiamabile in qualsiasi posizione (anche da sdraiati, mentre ci si ripara dai nemici) con la pressione di un tasto, perché non c’è assolutamente tempo da perdere nel letale mondo creato da Naughty Dog.

Alcool, stracci, recipienti, lame, strumenti di fissaggio ed esplosivi diventano dunque alleati preziosi per creare medikit, molotov, bombe fumogene e mine di prossimità, per rinforzare le armi da mischia o dar vita a un silenziatore rudimentale che può attutire i colpi (tre, al massimo) della pistola. Utile per affrontare i nemici senza far rumore, meno quando si esce allo scoperto: in quel caso, basta premere il tasto Triangolo per rimuoverlo ed evitare così di sprecarlo in momenti che non richiedono necessariamente un approccio furtivo. Lo stesso arco, che qui torna prepotentemente dopo l’apparizione nel primo episodio, ora consente di creare e alternare munizioni tradizionali e frecce esplosive: anche in questo caso, il passaggio dall’una all’altra è davvero questione di un tasto da premere mentre si accede alla ruota delle armi.

Il crafting è legato a doppio filo all'esplorazione e ricompensa coloro che decidono di dedicare più tempo a setacciare ogni singolo angolo delle mappe, anche perché non basta raccogliere uno straccio e dell’alcool per poter creare un kit medico o una molotov (sì, spesso sarete portati a scegliere se prediligere l’uno o l’altra). Le risorse, nel mondo di The Last of Us: Parte 2, sono frazionate, a volte disponibili nella loro interezza, altre solo parzialmente: l’interfaccia di gioco comunica chiaramente la porzione raccolta e non manca di sottolineare con riferimenti audiovisivi quando il personaggio è pronto a creare un nuovo oggetto, con icone e suoni riconoscibili e mai invasivi che alle volte paiono presi in prestito da Uncharted, quasi come a voler creare un filo comune, una firma riconoscibile che possa raccogliere i progetti del team sotto un unico marchio di fabbrica e indicare ai giocatori la direzione verso cui Druckmann e soci stanno puntando.

Il risultato è un sistema che, pur essendo preponderante, non diventa mai noioso: per tentare di sopravvivere è necessario utilizzare ogni risorsa e ogni rottame che il mondo può offrire, ed è per questo che l’esplorazione in questo secondo atto assume un ruolo ancora più importante. I giocatori possono deviare dal percorso principale, andare in cerca di luoghi secondari e totalmente opzionali, irrompere nei negozi distruggendo le vetrine per scovare armadietti, casseforti, e, perché no, piccoli ma piacevoli enigmi ambientali che ripagano con un numero più elevato di risorse da investire poi nel crafting, creando oggetti che possono facilitare la vita in fase di combattimento. È un piacevole circolo vizioso che, rispetto al primo episodio, ho trovato meno tedioso e meglio integrato nelle meccaniche di gioco.

Mezzi di trasporto come imbarcazioni e cavalli sono presenti in fasi specifiche dell'avventura, così come personaggi comprimari che faranno compagnia alla protagonista durante il suo cammino.

Già, perché esplorando a dovere gli scenari e assicurandosi di prestare attenzione ad ambientazioni che nascondono spesso e volentieri segreti in bella vista, ci sono altre risorse che contribuiscono alla crescita del proprio personaggio, o più semplicemente a facilitarsi la vita: nascoste in punti opzionali potrebbero esserci delle fondine che permettono di passare da un’arma all’altra senza riporla nello zaino, mentre i rottami servono a potenziare le bocche da fuoco raccolte lungo il cammino, aspetto possibile quando ci si imbatte occasionalmente in un banco da lavoro. I manuali di sopravvivenza, dal canto loro, permettono di accedere a nuove e variegate abilità da sbloccare tramite l’uso di integratori in qualsiasi momento dell’avventura.

Due sistemi di upgrade che, però, difficilmente riuscirete a completare nella loro interezza in un solo playthrough: gli sviluppatori si sono assicurati di piazzare un numero sufficiente di rottami per potenziare buona parte delle armi o integratori per sbloccare un gran numero di abilità, ma non tutte quelle che è possibile ottenere nel corso della campagna, portando così a prediligere l’una o l’altra a seconda del proprio stile di gioco. Le scelte prese dal giocatore hanno così un impatto sulla crescita, sullo stile di gioco, sulla resistenza ed efficienza del personaggio, nonché sugli oggetti che potrete realizzare mediante il crafting.

Artefici del proprio destino

Scegliere bene è il primo passo per sopravvivere a un mondo se possibile più ostile di quello visto nel primo episodio. Sono passati più di vent’anni dallo scoppio dell’epidemia Cordyceps che ha tramutato gli umani in feroci infetti, a cui si sommano quelli trascorsi dal finale di The Last of Us: la natura continua lentamente a riprendersi il posto che le spetta, contaminando con la sua vegetazione lussureggiante gli spazi costruiti dall’uomo. Un mondo ormai allo sbando, sempre più decadente e opprimente, nella sua desolazione. Lo scopo di Naughty Dog era proprio di creare un’ambientazione che sembrasse viva e reale, e non solo una serie di livelli sconnessi studiati allo scopo di favorire un combattimento o per assecondare un momento specifico della storia: ci si trova di fronte a scenari differenti e incredibilmente vari, a spazi immensi concepiti come veri e propri ambienti urbani, traslati nell’universo post-apocalittico che abbiamo imparato a conoscere nel gioco originale.

Ed è così che il gioco si apre improvvisamente a momenti di esplorazione che fanno il verso agli open-world, lasciando al giocatore la possibilità di scegliere dove andare e quale compito affrontare per primo, se esplorare tutti gli edifici oppure procedere subito verso la meta correndo il rischio però di perdere segreti, storie secondarie, manuali di addestramento o risorse preziose. Sono momenti sporadici, esperimenti che il team aveva già provato in passato con Uncharted 4 e L’Eredità Perduta, ma che in questo contesto tornano in pompa magna illudendoci di trovarci di fronte a qualcosa di molto più ampio e dandoci l’opportunità di apprezzare l’incredibile lavoro svolto nella creazione dell’ambientazione, prima di riportarci prevedibilmente e comprensibilmente su binari ben definiti. Ciò che stupisce di The Last of Us: Parte 2 è l’incredibile mole di sequenze e momenti scriptati, che possono essere vissuti seguendo il percorso studiato da Naughty Dog, ma che allo stesso tempo possono essere completamente mancati qualora il giocatore dovesse optare per un approccio differente. Si tratta di dettagli, piccole variazioni sul tema che però contribuiscono a rendere più reale e coinvolgente il mondo messo in piedi dalla fucina di talenti californiana.

Un mondo che, come potrete immaginare, cela numerose insidie: anni dopo la fine di The Last of Us, nuove fazioni hanno invaso gli Stati Uniti. Prendiamo Seattle, ad esempio: diventata un vero e proprio campo di battaglia, ospita il brutale confronto tra la fazione militaristica Washington Liberation Front (WLF, i cui soldati sono meglio noti come Lupi) e i Serafiti (anche noti come Iene), un culto religioso convinto che la pandemia sia un segno divino atto a punire i continui peccati del genere umano. Fazioni pericolose, ciascuna per motivi differenti, che incroceranno il loro cammino con quello della protagonista, mettendola a dura prova: se i Serafiti utilizzano armi più rudimentali e prediligono un approccio maggiormente votato allo stealth, la WLF sfrutta un equipaggiamento militare e preferisce chiaramente un approccio più diretto.

Cambia anche il modo di comunicare: non è raro sentire i Lupi chiamarsi per nome, indicare la posizione in cui potrebbe essere nascosto il giocatore e reagire di conseguenza all’uccisione di un alleato, laddove invece le Iene sfruttano fischi di varie intensità per comunicare tra loro, creando un senso di inquietudine da parte di chi si trova a impugnare il controller. Da una parte ci sono i cani, che possono scovare la posizione del giocatore tramite la scia olfattiva (visualizzabile tramite la modalità Ascolto, che torna dal primo episodio e potrà essere potenziata nel corso dell’avventura); dall’altra abbiamo soldati pesanti dotati di armi capaci di spaccare un cranio in un sol colpo o arcieri che possono scoccare frecce in grado di perforare il corpo di Ellie che, dal canto suo, potrà rimuoverle per evitare il dissanguamento con una pressione prolungata del tasto R1. Ancora una volta, una sequenza che avrebbe potuto tradursi in un breve filmato automatico trasformato da Naughty Dog in una meccanica di gioco.

A prescindere dalla fazione che vi troverete ad affrontare, l’unica costante è la sensazione di non essere mai al sicuro: c’è il rischio di imbattersi in qualcosa di letale ogni volta che si gira l’angolo, gli scenari sono studiati per non offrire mai la sensazione di essere completamente protetti o di avere l'opportunità di fermarsi a riprendere fiato. Un ritmo che diventa asfissiante, quasi claustrofobico, specialmente quando entrano in gioco gli Infetti. Già, perché non sarebbe The Last of Us senza i letali abomini nati in seguito al virus fungino che, vent’anni prima, ha sconvolto per sempre la vita sul pianeta. Runner, Clicker e Bloater tornano in questo episodio insieme agli Stalker, intravisti nel primo capitolo e qui presenti con maggior costanza, e soprattutto agli Shambler, vera e propria novità che rappresenta l’ennesima, spaventosa evoluzione del virus Cordyceps.

Un mondo allo sbando

Ogni tipologia di Infetto costringe a un approccio diverso: i Runner sono ora più aggressivi e si spostano spesso in piccole orde, i Clicker continuano a sfruttare l’ecolocalizzazione per compensare all’impossibilità di sfruttare la vista per scorgere i nemici, i Bloater attaccano con forza e prepotenza senza guardarsi indietro, pronti a massacrarci senza pietà. Gli Stalker, dal canto loro, si muovono furtivamente, al punto da essere quasi invisibili persino utilizzando l’Ascolto: la loro presenza dà vita a momenti che rendono il sequel di The Last of Us molto più vicino a un thriller dalle tinte horror, aspetto che emerge particolarmente quando si tratta di affrontare (più volte, lungo il cammino) i nuovi Shambler, nemici simili a tank che possono esplodere e ustionare il giocatore in una letale nuvola di spore. Non sono, però, le sole minacce inedite che ci troveremo ad affrontare nel sequel.

Infetti vecchi e nuovi faranno la loro comparsa nel mondo di The Last of Us: Parte 2, oltre alle nuove fazioni che minacceranno la vita di Ellie.

Quando le strade di nemici umani e infetti si incrociano, The Last of Us: Parte 2 dà vita a situazioni insolite che enfatizzano un’intelligenza artificiale più sofisticata: è possibile attirare gli infetti con mattoni e bottiglie per scagliarli contro gli umani, lasciando che Runner e Clicker facciano il lavoro sporco mentre ci si concentra sugli avversari isolati. Contrariamente al primo episodio, anche l’IA degli alleati reagisce con maggiore intelligenza alle situazioni: scordatevi, insomma, di assistere a momenti come quelli in cui la Ellie del primo episodio andava in giro come se niente fosse mentre il povero Joel cercava di farsi strada senza far rumore. Ciò che colpisce è la caratterizzazione del mondo, delle fazioni, di come i nemici affrontino la perdita degli alleati, agitandosi e diventando più nervosi man mano che il nostro personaggio li stermina senza pietà. Le grida di dolore, la disperazione per la morte di un compagno di fazione, le reazioni guidate dall’ira danno vita a momenti coinvolgenti, reali, tangibili, che colpiscono come un macigno ogni volta che ci si trova ad affrontare un combattimento, ad affondare la lama nel corpo di un avversario, a sgozzare un Serafita o a lanciare una molotov contro un cane sguinzagliato dalla WLF. Non ci sono regole in The Last of Us: Parte 2, non c’è giusto o sbagliato. Ciò che conta è solo sopravvivere.

Certo, bisogna sottolineare come spesso e volentieri lo scontro sia del tutto opzionale, e che sia assolutamente possibile andare avanti in buona parte dei casi senza necessariamente uccidere gli avversari. A una maggiore abilità di Ellie nel nascondersi, però, corrispondono altrettante possibilità che i nemici vadano in cerca della protagonista in posti in cui normalmente non avrebbero cercato nel primo episodio: l’intelligenza artificiale gestita dalla CPU, insomma, è molto più sveglia, reattiva, e capace di reagire dinamicamente qualora decidiate di indugiare in un nascondiglio per troppo tempo. L’esperienza è bilanciata da numerose opportunità per eludere gli avversari o affrontarli per mettere fine alla pressione della sopravvivenza, alla necessità di trovare una strada anche quando sembra non ci sia via di scampo. La possibilità di saltare, abbassarsi o sdraiarsi, di strisciare sotto i veicoli o nella vegetazione per occultarsi, di sfruttare gli spazi stretti per interrompere il contatto visivo: tutto ciò nasce dalla volontà di offrire a Ellie (e al giocatore) l'opportunità di utilizzare l'ambiente a proprio vantaggio. È una cosa che il gioco partorito dal team californiano fa particolarmente bene, sempre sfruttando un sistema di animazioni che lascia perennemente a bocca aperta e che contribuisce a rendere il giocatore parte integrante di un’avventura intensa come poche.

Il culto dei Serafiti è capace di comunicare tramite fischi per non dare riferimenti a Ellie: le fasi in cui compaiono sono davvero intriganti e ricche di pathos.

Per Naughty Dog è diventata quasi una consuetudine chiudere col botto ogni generazione di console PlayStation: l’ha fatto, nel giugno di sette anni fa, quando Sony si preparava a mandare in pensione PS3 e a lanciare PlayStation 4. Lo fa oggi, con l’ammiraglia nipponica pronta a lasciare spazio alla nuova PlayStation 5, creando uno dei titoli graficamente più impressionanti che si siano visti finora, un gioco che rende alla grande su PS4 standard e dà il meglio di sé su PS4 Pro, allargando la cornice nativa, aumentando la definizione, enfatizzando dettagli, rendendo tutto possibilmente ancora più bello. Con i suoi personaggi, le sue storie, i suoi sguardi, le frasi non dette, i rimpianti: la seconda parte di The Last of Us cattura il giocatore grazie alle ottime interpretazioni da parte di un cast d’eccezione guidato dai soliti Troy Baker, Ashley Johnson e una strepitosa Laura Bailey, con un performance capture ancora una volta magistrale che riesce perfettamente nell’intento di trasmettere le espressioni ed emozioni degli attori in modelli digitali incredibilmente realistici e d’impatto, secondi probabilmente solo a Death Stranding per bontà dell’interpretazione del suo cast.

Il tutto è impreziosito come sempre da una colonna sonora incredibile che, ai succitati Pearl Jam, unisce il lavoro svolto dal compositore argentino Gustavo Santaolalla. Il quale, con grande maestria, alterna momenti introspettivi a brani più decisi, composizioni in cui accompagna con fare sommesso fasi topiche della sceneggiatura a situazioni in cui sono ben poche le note che spezzano l’assordante silenzio. La colonna sonora, sommata all’ottimo audio design e doppiaggio (ancora una volta molto buono nella versione italiana, ma di tutt’altro pianeta nella spettacolare versione originale) contribuiscono a rendere ancora più emozionante una delle storie più belle di questa generazione, di quelle che meritano assolutamente di essere vissute.

Verdetto

Ci sono pochi team capaci di sfruttare l’hardware di riferimento così bene, ancora meno sono quelli in grado di farlo come ha dimostrato, oggi per l’ennesima volta, Naughty Dog con The Last of Us: Parte 2. Che punta a essere un nuovo punto di riferimento per l’industria, uno di quei giochi per cui vale l’acquisto di una console. La cosa più vicina a una killer application, per usare un termine non più in voga come un tempo. Il motivo per cui siamo videogiocatori, ovvero vivere avventure memorabili capaci di lasciare ricordi indelebili nel cuore di chi le vive. The Last of Us: Parte 2 è stato questo e molto altro per me. Un’opera grandiosa, di quelle che si vedono una volta ogni generazione.

In questo articolo

The Last of Us: Parte 2

Naughty Dog | 19 Giugno 2020
  • Piattaforma
  • PS4
  • PS5

The Last of Us: Parte 2 - La recensione

9.5
Ottimo
Naughty Dog dà vita a una nuova perla: un'opera ambiziosa e coraggiosa che riesce continuamente a emozionare e far riflettere.
The Last of Us: Parte 2