«Cose che non si raccontano», recensione del romanzo di Antonella Lattanzi
/

Il vero scopo della scrittura

«Cose che non si raccontano» di Antonella Lattanzi

8 minuti di lettura
«Cose che non si raccontano» di Antonella Lattanzi

Non è consigliabile scrivere una recensione da un punto di vista troppo personale, quindi usando la prima persona singolare. Si predilige rimanere impersonali oppure adoperare un pluralis maiestatis. Ma Cose che non si raccontano di Antonella Lattanzi (Einaudi, 2023) è un libro troppo personale, troppo sofferto, per mantenere la critica prospettiva di chi deve aprirlo, scardinarlo, spiegare il lettore perché leggerlo, senza esporsi come persone e, nel caso specifico, come donne.

Tu sei una donna, e devi fare sempre tutto da sola. Il corpo dentro il quale ci sono queste bambine è il tuo. Fattene una ragione.

Nicola Lagioia ha definito questo romanzo come una maledizione e una catarsi, definizione perfettamente calzante per un lavoro che è potente, intenso, ma anche distruttivo e ricorda lo scopo primario probabilmente della scrittura: raccontare ciò che spesso non si vorrebbe. Inoltre, Cose che non si raccontano concorre alla LXXVIII edizione del Premio Strega su proposta di Valeria Parrella, con la seguente motivazione:

È un romanzo rappresentativo di un momento privato che però sa raccontare di quanto esso sia condizionato dallo sguardo altrui, di quanto, cioè, non una società qualunque ma proprio la nostra, quella italiana degli anni 2020, quella post pandemica, possa essere giudicante e richiestiva davanti alla materia più complessa e preziosa dell’esistenza: il corpo delle donne.

Se le cose non si raccontano, non esistono

Il titolo mostra già il significato e il fine principale del romanzo. Antonella Lattanzi racconta in prima persona, senza filtri, la sua esperienza con la maternità, il suo tentativo di avere figli. È una storia che è piena di sangue, sudore, lacrime, e tante parole. Il desiderio è quello di raccontare senza freni, spesso in flussi di coscienza intensi e particolari, monologhi interiori, risvolti, excursus, salti temporali. Sembra, da lettrice donna, di percepire la propria dimensione corporea durante la lettura. Arrivano perfino dolori alla pancia, fitte, quando l’autrice racconta la sofferenza, perché la realtà descritta non è solo vera e già vissuta, ma anche illustrata perfettamente per suscitare empatia, commozione e coinvolgimento.

Ho una diga nella testa dove stanno nascoste tutte le cose che fanno davvero troppo male. Quelle cose, io non voglio dirle a nessuno. Io non voglio pensarle, quelle cose. Io voglio che non siano mai esistite. E se non le dico non esistono.

Il principio che sta alla base del titolo e del racconto è semplice: ci sono cose che non si raccontano, ma è il momento di fare i conti con sé stessi e con il foglio bianco. Antonella Lattanzi non è solamente una donna, una delle tante che affrontano l’esperienza di un figlio, ma ha anche dalla sua parte il fatto di essere una scrittrice. E come ci insegna Dacia Maraini, gli intellettuali e gli scrittori hanno un plus: sapere come dire le cose, come illustrarle, a chi vive le stesse sensazioni e non sa come esprimerle, oppure a chi non ha vissuto il loro stesso dramma o non ha avuto un determinato pensiero.

Leggi anche:
Il ritorno alla narrativa di Niccolò Ammaniti

«Cose che non si raccontano» e la fragilità di vivere

Se, dice Umberto Eco, la letteratura è una immortalità all’indietro, in Cose che non si raccontano facciamo i conti principalmente con la nostra mortalità, la nostra fragilità. Il foglio diventa proiezione di quante difficoltà possano esistere. Il tema, le difficoltà biologiche e mediche, è quanto più quotidiano possibile e non attrae tutti, ma si può andare oltre questo comprendendo che questo romanzo è prima di tutto autobiografico. Quindi se la scrittrice, forte delle sue qualità oggettive di grande narratrice, mette a servizio la sua storia, è impossibile non rimanerne affascinati.

Dalla maternità, che è la cornice, si arriva al racconto del dolore, della speranza, al racconto del corpo che è vero protagonista di un romanzo definito come estremamente contemporaneo. Lo è certamente per la questione centrale – affronta anche il tema, molto caldo e controverso, dell’aborto – ma lo è principalmente perché la speranza di arrivare a un obiettivo (quale che sia) e l’ambizione, specie femminile, rappresentano prove di una quotidianità mortale distruttiva e qui dissacrata e sfacciatamente messa a nudo.

Ho imparato che la speranza quando è troppa diventa certezza. Che non è verde e nemmeno gialla. La speranza è nera, perché ti distrugge.

Leggi anche:
Chi sono i dodici candidati al Premio Strega 2024?

Antonella Lattanzi e la catarsi della scrittura

Siamo allora dentro a questo viaggio bellissimo e terribile, che ti turba e ti fa chiedere perché continuare a leggere, perché farti male con una storia cruda e con le mille difficoltà che non vorresti scoprire perché le conosci già, e vederle nero su bianco ti tocca profondamente. Ma no, Cose che non si raccontano (acquista) non si può lasciare andare. Fino alla fine ti spinge ad ascoltare una storia, anche perché l’autrice parla spesso con il lettore, implicitamente, lo coinvolge, lo seduce con la semplicità della sua umanità. Non è stato operato qui un lavoro di finzione letteraria molto forte, la chiave distintiva di questo romanzo è infatti la sincerità.

Per tale ragione, il patto che l’autore fa con il lettore modello, come direbbe Umberto Eco, è tacitamente mantenere la fiducia reciproca comprendendo la verità di una vita complessa. È una storia sofferta di maternità, ma è soprattutto un romanzo sulla scrittura. Non è semplice valvola di sfogo perché nessun libro lo è, come spiega la stessa Lattanzi in uno dei passi più significativi del romanzo:

E se stai parlando solo a te?, mi chiedo. Un libro per essere un libro non può parlare solo a te. Deve essere per tutti. Come faccio a sapere se sto parlando solo a me? Un libro è una cosa seria. Non puoi scriverlo per sfogarti. Non puoi scriverlo perché serve a te. E quello che è successo me lo sono meritata pure perché, mentre cerco il coraggio di scrivere tutto questo, io penso: sarà un bel libro? Sarà un bel libro? Me lo sono meritata perché, anche ora, invece di pensare solo a quello che è successo, io sto pensando alla scrittura.

Segui Magma Magazine anche su Facebook e Instagram!

Silvia Argento

Nata ad Agrigento nel 1997, ha conseguito una laurea triennale in Lettere Moderne, una magistrale in Filologia Moderna e Italianistica e una seconda magistrale in Editoria e scrittura con lode. Ha un master in giornalismo, è docente di letteratura italiana e latina, scrittrice e redattrice per vari siti di divulgazione culturale. Autrice di un saggio su Oscar Wilde e della raccolta di racconti «Dipinti, brevi storie di fragilità».

Lascia un commento

Your email address will not be published.