ashtray_bliss
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venerd� 16 marzo 2018
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la tragedia greca rivisitata.
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Yorgos Lanthimos è un regista poliedrico, audace e visionario, che non ha paura a creare attraverso le sue pellicole degli universi carichi di simbolismi, delle storie che restano sempre in bilico tra la dimensione reale e quella surreale, e talvolta, come nel caso in questione, metafisica.
Lanthimos lo ricorderemo sempre per il divisivo
Kynodontas
(
Dogt
ooth
) dove attraverso una storia completamente sovversiva e profondamente disturbante, sgretolava un pezzo alla volta, la famiglia
neoborghese
greca e il sistema da loro creato per
crescere
i figli.
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Yorgos Lanthimos è un regista poliedrico, audace e visionario, che non ha paura a creare attraverso le sue pellicole degli universi carichi di simbolismi, delle storie che restano sempre in bilico tra la dimensione reale e quella surreale, e talvolta, come nel caso in questione, metafisica.
Lanthimos lo ricorderemo sempre per il divisivo
Kynodontas
(
Dogt
ooth
) dove attraverso una storia completamente sovversiva e profondamente disturbante, sgretolava un pezzo alla volta, la famiglia
neoborghese
greca e il sistema da loro creato per
crescere
i figli. In quel caso la famiglia fungeva da metafora politica e il sistema educativo assurdo messo in atto era assimilabile ai regimi totalitari e ai metodi di lavaggio del cervello eseguiti all'interno degli stessi. Nel caso, invece di
The
Killing
of
a
Sacred
Deer,
Lanthimos
esegue nuovamente, in modo preciso e chirurgico, la dissezione di una famiglia borghese ma al centro del racconto questa volta troviamo gli elementi classici della tragedia greca: il senso di colpa, la vendetta, il sacrificio di un'innocente, la collera e l'ira divina che si abbatte sugli uomini. Il titolo stesso racchiude una simbologia e una metafora coerente col racconto e strumentale col messaggio che la pellicola trasmette; costituisce infatti un riferimento esplicito all'uccisione del cervo sacro della dea
Artemis
(Diana) da parte di Agamennone. Provocando l'ira della dea, ella chiede ad Agamennone di uccidere sua figlia
Ifigeneia
per ristabilire l'equilibrio
e poterlo aiutare
nella sua battaglia contro i Troiani. Questo episodio mitologico, ripreso da Euripide nella sua famosa tragedia
Ifigeneia
in
Aulide
, viene rivisitato in chiave moderna e neoborghese da
Lanthimos
, che grazie
ad una
regia cristallina e talvolta
iper-realista
riesce a mettere in scena un dramma dalle venature surreali intriso di
elementi
che trascendono ogni logica,
ogni
concretezza empirica e certezza
medico-scientifica
. Spiazzando così lo spettatore e osando coinvolgere l'elemento sovrumano, ossia divino, che resterà tuttavia indefinito e ineluttabile per tutta la durata del film, rendendo ancora
più
intenso questo crudele e beffardo dramma psicologico.
La regia nitida e asciutta di
Lanthimos
, che predilige le riprese interne presso
luoghi vuoti, freddi e asettici (come i corridoi e le sale ospedaliere), cattura e trasporta lo
spettatore all'interno di quello che appare essere la
normalità
di una tipica famiglia borghese, composta da
Steven
, cardiochirurgo, sua moglie Anna (oftalmologa) e i figli adolescenti Bob e
Kim
. L'apparente
tranquillità e armonia
della famiglia inizia
ad essere
disturbata dalla presenza, via via sempre
più
ossessiva, di Martin, un ragazzino di
16
anni orfano di padre, che stringe amicizia col capo
famiglia
Steven
. Martin inizia a manifestarsi invasivo e possessivo del tempo e delle attenzioni del cardiochirurgo, iniziando a minacciare concretamente la
serenità
del nucleo familiare. Presto la vera natura, o per meglio dire le vere motivazioni di Martin verranno a galla e nulla sarà come prima. Le dinamiche tra protagonisti mutano e cambiano radicalmente. Quello che sembra essere un innocente rapporto di amicizia nasconde segreti più profondi che emergono sotto forma di un implosivo misto tra rancore e sete di vendetta. Quando poi sulla famiglia si abbatte una silenziosa ed impercettibile sorta di maledizione che coinvolge i figli, Steven ed Anna si ritrovano a dover fare i conti con degli impensabili dilemmi morali che li corrodono e li consumano.
L'aspetto surreale del racconto, ben presto si scontra con l'analisi concreta ed impeccabile fornita dal regista, riguardo l'aspetto oscuro dell'animo umano che emerge quando messo a dura prova da forze maggiori, violente e inesplicabili. Un processo impercettibile, che sfugge da ogni rigido dogma scientifico e dalla logica umana, incapace di comprendere l'aspetto sacro della nemesi che ripristina l'equilibrio. Le colpe e gli errori commessi nel passato ritornano prepotenti chiedendo un salato prezzo da pagare. Il bivio morale ed etico di fronte al quale si ritrovano gli adulti del film, li divora e li macera ma facendo emergere il lato oscuro e nascosto, quello più occulto, l'istinto di autoconservazione che prevale infine sui sentimenti e sul ruolo di genitore. Le debolezze umane hanno il sopravvento, l'egoismo, la voglia di vivere, la paura dell'ignoto e della morte spingono i protagonisti all'interno di una spirale di violenza e paranoia che raggiungono l'apice nella crudele, drammatica e intensa scena finale.
Ci si ritrova così ad avere un film inusuale, uno dei tanti a cui Lanthimos ci ha abituati, che riesce ad andare oltre le apparenze, scavando oltre la superficie e che riporta in primo piano non solo un pezzo della classica drammaturgia greca, ma riproponendo in chiave moderna i dubbi, le paure, i dilemmi, le angosce che investono i protagonisti di una tragedia inevitabile.
La regia lucida di Lanthimos, dai limpidi richiami Kubrickiani, è perfetta per trasportarci in questo incubo, psicologico e visivo, angosciante ed inquietante sostenuto dall'utilizzo di una fotografia impressionante, nitida, fredda e distante che paradossalmente enfatizza il dramma psicologico.
Merito anche dei bravissimi ed indiscussi interpreti. Colin Farrell e Nicole Kidman in primis, che risultano convincenti e impegnati, pur non avendo nulla da dimostrare riguardo il loro talento. Farrell comunque, spicca notevolmente anche in questa pellicola, dimostrando la maturità non solo anagrafica ma interpretativa, donando spessore al personaggio di Steven divorato dai sensi di colpa e successivamente logorato dalla scelta che deve compiere. Notevole anche il giovane Keoghan che si destreggia benissimo nei panni di un adolescente problematico, e personificazione della vendetta divina.
Curato esteticamente, The Killing... mette in scena un'allegorica parabola su una società disfunzionale (fulcro del quale è la famiglia borghese), un dramma psicologico intenso e logorante che si materializza come un incubo lucido ed estremamente vivido che (im)pone una riflessione sul peso delle proprie colpe ed errori, sulla giustizia e/o nemesi divina che ricompone gli equilibri spezzati e sul senso del sacrificio inteso sia in modo figurato che letterale. In questa dimensione, costruita impeccabilmente da Lanthimos e Filippou, le persone non sono altro che inermi prigionieri del destino costrette ad accettare le conseguenze delle proprie azioni passate, senza poter intervenire o modificare lo stato delle cose. Lo spettatore diventa complice osservatore di questo gioco, crudele e talvolta sadico, ma non può che apprezzare la maestria tecnica e narrativa dell'opera. Voto: 4/5.
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vanessa zarastro
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venerd� 6 luglio 2018
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una "perfetta" famiglia di medici
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“The Killing of a Sacred Deer”, il film del regista greco Yorgos Lanthimos, può essere considerato una commedia dark che ma mano vira nell’horror. Molte sono le cose che ci sono dentro, che però non appesantiscono la visione scandita e precisa del racconto. Ci sono dentro i miti greci, la vita e la morte, il concetto di colpa e di giustizia, l’espiazione, la vendetta, il destino, i complessi rapporti genitoriali, le gelosie e gli innamoramenti adolescenziali.
Teatro di tutta la vicenda è una splendida Cincinnati, una città con tanti ponti sull’Ohio River, con meno di 300.000 abitanti, rappresentata nel film piena di sole nella fotografia di Thimios Bakatakis.
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“The Killing of a Sacred Deer”, il film del regista greco Yorgos Lanthimos, può essere considerato una commedia dark che ma mano vira nell’horror. Molte sono le cose che ci sono dentro, che però non appesantiscono la visione scandita e precisa del racconto. Ci sono dentro i miti greci, la vita e la morte, il concetto di colpa e di giustizia, l’espiazione, la vendetta, il destino, i complessi rapporti genitoriali, le gelosie e gli innamoramenti adolescenziali.
Teatro di tutta la vicenda è una splendida Cincinnati, una città con tanti ponti sull’Ohio River, con meno di 300.000 abitanti, rappresentata nel film piena di sole nella fotografia di Thimios Bakatakis. Più della metà delle scene sono girate nel Christ Hospital dove lavora un cardiochirurgo - Steven Murphy interpretato dall’impeccabile Colin Farrell - che sembra la personificazione di un perfetto borghese: vive in una villa unifamiliare suburbana, ha una bella moglie oftalmologa Anna (Nicole Kidman), una figlia adolescente Kim e un figlio più piccolo Bob (Raffey Cassidy e Sunny Suljic). La sua casa è fredda e “sterile”, arredata con un terribile gusto borghese, con mobili falso antichi e pesanti tende alle finestre, senza alcun tocco della mano di un architetto. La stanza da letto matrimoniale ha un pesante letto a baldacchino (citazione de “L’Esorcista”?) quasi un altare sacro. “Il sacrificio del cervo sacro” è una farsa macabra piena di paradossi, cui il regista del bizzarro “The Lobster” del 2015 ci ha abituato, narrati con una sconvolgente fissità di sguardo e compiacimento del grottesco. Infatti, né il film né i componenti della famiglia hanno alcunché di empatico e il racconto è svolto con un occhio freddo e distaccato, girato con carrelli indietro e lenti zoom in avanti, con stranianti grandangoli e campi lunghi.
Steve ha preso a protezione Martin (Barry Keoghan), il figlio sedicenne di un suo paziente deceduto a seguito di un suo intervento (si scoprirà poi che probabilmente era ubriaco). Ha un rapporto ambiguo con il ragazzo, un po’ protettivo e un po’ reverenziale. Gli compra un orologio da sub piuttosto caro e sembrerebbe non saper dire di no alle sue richieste. Lo incontra di nascosto dalla famiglia in squallidi bar di sapore hopperiano, quasi un amante furtivo. Man mano, per gratificarlo, Steve lo invita in casa e gli fa conoscere moglie e figli con i quali Martin stringe amicizia. In particolare con Kim sembra nascere anche un flirt.
Ma Martin sembra avere dei poteri demoniaci e minaccerà di morte tutta la famiglia del cardiochirurgo se lui non ne sacrificherà un membro, come risarcimento per la morte del padre. Per di più ha un insano desiderio di far accoppiare Steve con sua madre (Alicia Silverstone), nel frattempo dimagrita e “in tiro”. In tal modo il nucleo familiare della perfetta coppia di medici si inizia a frantumare fino ad assumere i toni di una tragedia greca – non a caso i critici parlano del sacrificio di Ifigenia di Euripide (ma forse c’è anche un riferimento al dio Saturno). Ma per assurdo, la minaccia riunisce i membri della famiglia che iniziano a essere meno perfetti e più umani: le voci si alzano, si urla e si piange, si romperanno piatti e bicchieri, si solidificano i rapporti tra figli e genitori – «Chi è il tuo migliore amico?» chiede Steve a suo figlio Bob – e Steve diventa perfino offensivo con i colleghi che non riscontrano alcuna malattia nei figli diventati ormai paraplegici. Perfino gli ingenui figli cambieranno sotto minaccia e faranno a gara per compiacere spudoratamente il padre, nel tentativo di salvarsi la vita.
Il gusto macabro e le scene sadiche fanno parte del repertorio formale di Lanthimos che qui fa il verso a Kubrick nel riprendere le scale mobili dall’alto e i lunghi corridoi vuoti in prospettiva centrale – ricordate l’albergo di “Shining”? Anche nelle scelte musicali Yorgos Lanthimos si rifà ai gusti di Stanley Kubrick: il minuto di buio iniziale è sottolineato da Sabat Mater di Franz Schubert, poi le scene saranno accompagnate da brani di Gyorgi Ligeti o da cori bachiani. Un altro regista che i critici associano a Lanthimos è l’austriaco Michael Haneke per la sua crudezza e per il suo cinismo. A mio avviso, il regista greco possiede un lato tragicomico – forse un po’ meno evidente in questo film rispetto ai precedenti - che gli altri non hanno, né vogliono avere. Basti pensare alle scene in cui i bambini paraplegici strisciano per terra e Kim addirittura scende le scale e se va in giro nel prato, oppure la scena in cui Anna - impietosita o supplicante? – bacia i piedi feriti di Martin come la Vergine Maria quelli del Cristo deposto. È proprio questo lato grottesco che impedisce di catalogare il film come horror. L‘unica regista che si può accomunare a Lanthimos, è la sua amica Athina Rachel Tsangari che, nel suo film “Attennberg” del 2010 fa recitare proprio Yorgos Lanthimos e sua moglie l’attrice Arian Labed, che per questo film ha vinto la Coppa Volpi a Venezia. Stessa visione distaccata, stessi temi di malattia, morte e anaffettività, stesso fotografo di scena.
Al Festival di Cannes del 2017 il film ha condiviso ex aequo il premio per la miglior sceneggiatura – scritta da Yorgos Lanthimos con Efthymis Filippou - con “A Beautiful Day” di Lynne Ramsay. Bravi gli attori, perfino Nicole Kidman che, dopo anni di film sbagliati, torna finalmente a un buon livello recitativo.
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peter patti
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mercoled� 6 febbraio 2019
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un signor film
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Sfiora il capolavoro. E più che a Kubrick, mi ha fatto pensare a Nicholas Roeg, quello di 'A Venezia.
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Sfiora il capolavoro. E più che a Kubrick, mi ha fatto pensare a Nicholas Roeg, quello di 'A Venezia... un dicembre rosso shocking' ('Don't look now', 1973), di 'L'uomo che cadde sulla Terra' (1976), di 'Insignificance' ('La donna in bianco', 1985)... Dietro all'apparente normalità della vita borghese di una famiglia di dottori serpeggia la pazzia. La pazzia di tutti noi, crudele (nelle parole, negli atti e nelle immagini) e dunque umana, troppo umana.
È una narrazione di perdono e colpa, pentimento e bellezza sciupata. Ricorda le produzioni indipendenti à la Cassavettes, ma è legato a doppia mandata con Hollywood. Con la nuova (e più consapevole( Hollywood.
Ricordiamoci il nome del regista: Lanthimos. Ci regalerà ancora tante opere significative.
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(di biscotto51)
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johnny1988
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gioved� 5 luglio 2018
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la macumba
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Dunque, mosso innanzitutto dalla presenza della Kidman prima ancora del film, ho visto IL SACRIFICIO DEL CERVO SACRO (a cui dedico il sottotitolo: LA MACUMBA). ATTENZIONE AGLI SPOILER sotto!
Ora, al di là che la Kidman senza filtri e senza veli appare ANCORA tonica e liscia come nel '99 ai tempi di Kubrick e questo (forse) basta a pagare il biglietto, meno certezze mi ha lasciato il suo regista, un greco, che di greci ora fa tanto trandy dissertare tanto ai festival quanto alla UE.
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Dunque, mosso innanzitutto dalla presenza della Kidman prima ancora del film, ho visto IL SACRIFICIO DEL CERVO SACRO (a cui dedico il sottotitolo: LA MACUMBA). ATTENZIONE AGLI SPOILER sotto!
Ora, al di là che la Kidman senza filtri e senza veli appare ANCORA tonica e liscia come nel '99 ai tempi di Kubrick e questo (forse) basta a pagare il biglietto, meno certezze mi ha lasciato il suo regista, un greco, che di greci ora fa tanto trandy dissertare tanto ai festival quanto alla UE.
Yorgos Lanthimos ha fatto parlare molto di sé sulla scena internazionale negli ultimi anni (per chi lo desidera, recuperi almeno THE LOBSTER). A me, e non solo, questi appare un po' il Sorrentino dell'altra costa, iperbolico, simbolico, allegorico, illogico e un po' anarchico. Un sacco di -ico. C'è a chi piace perché non si capisce una mazza, c'è a chi non piace perché... non si capisce una mazza.
Poi ci sono gli indecisi, quei maledetti vagabondi della terra di nessuno, relativisti e cerchiobottisti, che dicono tutto il contrario di tutto, ma che speculano arbitrariamente. Eccomi, io, a testa china, che mi accodo come uno svizzero in questa fascia di pubblico.
Per farla breve: IL SACRIFICIO DEL CERVO SACRO è una rivisitazione liber(issim)a della tragedia di Ifigenia, sacrificata dal padre per placare la rabbia divina. E fin qui tutto bene. Bisogna accettare aprioristicamente che l'assurdo, la metafisica irrompente non devono rispettare pedissequamente una congruenza narrativa. La trama pone al centro il rapporto misterioso, quasi morboso, fra un sedicenne stalker e un cardiochirurgo che cerca, nel suo piccolo, di espiare un profondo senso di debito nei riguardi del giovane, rimasto orfano del padre dopo un intervento non riuscito. In qualche modo, il ragazzo si insinua nella famiglia del medico e ne turba disastrosamente l'armonia, fino a culminare, come suggerisce il titolo, in un sacrificio vero e proprio. Un sacrificio che paghi il prezzo di una perdita, quella del padre del ragazzo, e che ristabilisca l'equilibrio "cosmico" fra le parti. Insomma, una vita per una vita.
Il film è tutto strutturato sulla logica della vendetta, premeditata, lenta, servita come un piatto freddo. E a proposito di piatti, qui si apre uno dei tanti spunti simbolici che articola il tessuto della storia. Il cibo come nutrimento vitale, la vita stessa che diventa una merce di scambio, l'assenza di linfa vitale che sembra svuotare tutti i personaggi, che potano le siepi, cantano, fanno l'amore, ma inanimati e senza gioia. Dove vorrà mai portarci la letteratura metafisica di Lanthimos? Tutte domande quelle che la pellicola propone, lo scontro atavico del LOGOS e dell'IGNOTO, l'apollineo annichilente e il dionisiaco folle che caratterizzano l'umanità occidentale, lo svuotamento disforico dello spirito umano nell'ipermoderno, la sottolineatura - anche linguistica, propria dell'inquadratura, fredda, sicura, meccanica quasi KUBRICKIANA - che si aprono sì a mille congetture plausibili, ma che lasciano anche molto spazio alla risata involontaria. Colpa forse di una sceneggiatura ben ideata, ma tendenzialmente raffazzona nella stesura.
Tutto è talmente assurdo che si cerca di recuperare la logica da quel (poco) che ci sembra agguantabile.
Il piccolo stalker psicolabile e morboso pare tirare le iazze pesanti alla famiglia del medico a cui vuole far pagare la morte del padre (ma chi era, che sappiamo di lui? boh, non ha importanza).
Il medico reo confesso della morte del paziente, il padre defunto del piccolo stalker psicolabile e morboso, deve trovare una soluzione per fermare il piccolo verme che gli ha tirato la macumba, a lui e a tutta la famiglia, i cui membri, per ragioni cliniche inspiegabili, si ammalano fatalmente (ma nessuno pensa a grattarsi le palle, giusto per scaramanzia).
La moglie del medico - finalmente la Kidman liquida le smorfie irritanti degli ultimi 13 anni e abbraccia una recitazione degna del suo calibro - è anch'essa un medico, fredda, calcolatrice, sveglia, brava a fare tutto, da una limonata da chef a prendersi cura dei figli moribondi mentra fa l'amore con il medico, il quale, mesto e pensoso, deve trovare una soluzione alla questione spinosa della sfiga iettatrice sotto il suo tetto.
In conclusione, malgrado il film ti sappia tenere col fiato sospeso fino in fondo (bisogna dare il merito al povero Lanthimos, che guarda nostalgico ad Haneke, Kubrick e Von Trier), ti lascia tuttavia incompleto, con uno psicosomatico prurito ai genitali e un desiderio istintivo di eliminare per sempre dalla dieta il glutine - vedere la scena degli spaghetti per rivivere tale horror -, forse uno degli elementi "cosmici" a cui si devono i poteri paranormali dello stronzetto stalker.
Ora, al di là di tutto, bisogna essere pazienti e meno irriverenti quando non si capiscono le cose. Io mi permetto di sdrammatizzare quando e quanto posso, un po' perché penso non si debba prendersi troppo sul serio, un po' per nascondere una mia possibile impreparazione intellettuale.
Ma se vedo il medico, ridotto all'ultimo a compiere la grande scelta su quale membro della famiglia sacrificare e girare a occhi chiusi su se stesso con un fucile in mano e giocare alla roulette russa, mi fa pensare due cose: o che siamo davvero a un punto storico in cui bisogna rivalutare con attenzione il prezzo della vita, o che, come capita spesso ultimamente altrove, potrebbe essere questo un autoritratto del regista mentre cercava un finale col botto.
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