CARLO II d'Angiò, re di Sicilia in "Dizionario Biografico" - Treccani - Treccani

CARLO II d'Angiò, re di Sicilia

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 20 (1977)

CARLO II d'Angiò, re di Sicilia

August Nitschke

Nacque nel 1254 da Carlo I d'Angiò e da Beatrice contessa di Provenza. Nel 1248 era morto, subito dopo la nascita, il primogenito di nome Ludovico, di modo che C. fu l'erede dei domini paterni. Quando nel 1270 Carlo I d'Angiò, che nel 1266 aveva conquistato il Regno di Sicilia, concluse un'alleanza militare con il re Stefano d'Ungheria, fu stabilito tra l'altro che C. avrebbe sposato la figlia del re, Maria. Il giorno di Pentecoste 1272 C., che l'anno precedente era stato così gravemente ammalato che la sua guarigione sembrò un miracolo, e il fratello minore Filippo, in una solenne cerimonia svoltasi a Napoli, furono armati cavalieri. Contemporaneamente il padre investì C. del principato di Salerno, della contea di Lesina e dell'onore di Monte Sant'Angelo.

Già in precedenza, il 15 febbr. 1271, durante l'assenza del padre che si era recato a Roma, C. aveva svolto per la prima volta le funzioni di vicario generale del Regno. Dal marzo fino all'inizio di giugno 1272 ricopri nuovamente questa carica, mentre alla fine del 1275 lo stesso ufficio era stato affidato a un nipote di Carlo I, il conte Roberto di Artois, che lo esercitò fino al marzo 1276. Dal 3 marzo 1276 fino al marzo 1277 fu invece di nuovo C. a ricoprire il vicariato. In questa qualità egli si doveva occupare, come del resto gli altri vicari generali prima di lui, soltanto degli affari correnti; tutti quelli di una qualche importanza erano riservati al re, il quale continuò anche a tenere il proprio registro.

Quando nella primavera del 1282 scoppiò la grande rivolta dei Siciliani contro la dominazione angioina C. si trovava in Provenza; informato dal padre, si recò alla corte del cugino Filippo III di Francia per richiedere rinforzi, ottenuti i quali nell'ottobre fece ritorno nel Regno. Ma padre e figlio si accorsero ben presto di non essere in grado di far fronte all'avanzata di Pietro d'Aragona, il quale, chiamato nell'isola come erede della tradizione sveva essendo marito della figlia di Manfredi, Costanza, nell'agosto 1282 era sbarcato a Trapani e già nell'autunno aveva cominciato l'invasione della Calabria. Da buoni cavalieri, gli Angioini erano abituati a combattere in battaglia, in campo aperto, mentre Pietro, con i suoi fanti catalani, gli almogaveri, si muoveva anche di notte: con questa tattica riuscì ad occupare una località dopo l'altra in Calabria, assalendo spesso anche le carovane che trasportavano il denaro, senza che i Francesi potessero opporre una valida resistenza. Si arrivò infine, fra Carlo e Pietro, alla decisione di risolvere la controversia con un duello che doveva svolgersi a Bordeaux, in territorio inglese. Prima della partenza per la Francia Carlo I il 12 genn. 1283 nominò C. di nuovo vicario generale del Regno, questa volta delegando tutti i poteri al figlio, che d'ora in poi tenne anche i registri. Già il 28 gennaio il principe di Salerno convocava tutti i prelati, conti, baroni e altri feudatari a un Parlamento generale e, con una lettera, invitava contemporaneamente anche le città a mandare quattro rappresentanti ognuna. Il Parlamento si riunì nel marzo nella pianura di San Martino; le consultazioni si svolsero probabilmente separatamente con i tre Corpi invitati, i prelati, la nobiltà e le città: i risultati alla fine furono infatti pubblicati separatamente per ognuno dei tre Corpi in una cedula.

Aveva contribuito a preparare il Parlamento anche il cardinale Gerardo di Sabina, il quale il 5 giugno 1282 era stato nominato legato nel Regno di Sicilia; non partecipò personalmente ma sicuramente erano state concordate con lui le clausole riguardanti il clero. I regnicoli furono infatti tenuti a pagare la decima alle chiese, mentre il clero non era sottoposto alla giurisdizione temporale, tranne che in questioni feudali: il diritto di asilo delle chiese veniva riconfermato; ai funzionari fu proibito di acquartierarsi nelle case degli ecclesiastici senza il loro consenso, e anche in questo caso era proibita la celebrazione di processi criminali; le elezioni ecclesiastiche, nel caso che non esistessero precisi diritti di patronato, venivano protette dalle interferenze dei laici; l'esenzione fiscale del clero e gli antichi privilegi della Chiesa furono riconfermati. Quanto al sistema fiscale fu stabilito che tutta la materia doveva essere riorganizzata secondo i principi validi al tempo di Guglielmo II. Alla nobiltà e ai feudatari fu permesso di contrarre matrimonio, senza consenso del re, tranne nel casi in cui venivano dati in dote dei feudi; alla nobiltà fu riconfermato inoltre il diritto di essere giudicata dai suoi pari e il servizio militare cui era obbligata fu regolato in modo a lei favorevole. Anche ai cittadini furono concessi il diritto di poter liberamente contrarre matrimonio e garanzie contro gli abusi dei funzionari. Per il conio della moneta furono stabilite norme precise. Le tasse per il rilascio di documenti furono fissate in base al tipo di documento, e fu stabilito inoltre a quali condizioni i regnicoli dovessero contribuire alla costruzione delle navi e alla riparazione dei castelli. I mercati furono tutelati.

Le disposizioni di San Martino solo in pochi punti vanno oltre le leggi più antiche, in vigore già ai tempi di Federico II, ma bisogna tener presente che la maggior parte di esse non era stata rispettata fino ad allora. Fu una novità anche la convocazione del Parlamento: da molti anni non si erano più riunite assemblee del genere, e, se erano state convocate, la loro influenza era stata pressoché nulla. Solo a partire dal Parlamento di San Martino il re cominciò a trattare abitualmente con i rappresentanti del clero, della nobiltà e delle città del Regno il quale, governato in modo centralizzato dagli Svevi e da Carlo I d'Angiò, ricevette ora una specie di costituzione corporativa.

Nella storiografia è stata sostenuta a lungo la tesi che C. avesse concordato queste misure con il padre e che egli non fosse stato altro che un esecutore fedele dei desideri di Carlo I. Ma visto che alcune leggi andavano ben oltre le precedenti disposizioni che erano state emanate dal sovrano, il quale del resto neanche più tardi fu disposto a collaborare con i rappresentanti del Regno, si è stati poi invece indotti a pensare che C. per la prima volta abbia agito in modo autonomo. è stato rilevato che un suo documento del 13 genn. 1295, nel quale egli fa esplicito riferimento alla sua attività di vicario generale e al Parlamento di San Martino, dicendo di averne promulgato i capitoli per amore dei sudditi e per sollievo delle loro sofferenze e della loro oppressione, "ultra paternam nobis traditam potestatem", cioè andando oltre le disposizioni dategli dal padre. I capitoli di San Martino sono dunque la prima testimonianza di una politica indipendente, per lo meno nei confronti del Padre. è fuori di dubbio però che C. abbia agito con l'appoggio dei suoi consiglieri, Pietro conte di Alençon, suo cugino, Ottone conte di Borgogna, Giovanni di Montfort conte di Squillace, Adenolfo d'Aquino conte di Acerra, ed è molto propabile che anche il legato pontificio Gerardo vescovo di Sabina lo abbia spinto in questa direzione.

Due mesi dopo la fine del Parlamento C., con un'azione di sorpresa, fece arrestare i più alti ufficiali finanziari del Regno. L'ondata di arresti ebbe inizio il 17 giugno, festa del Corpus Domini, ed era conclusa già il 22 dello stesso mese; il procedimento, preparato a quanto pare da tempo, giunse del tutto inatteso per quelli che ne furono colpiti: infatti fino al 16 giugno C. aveva avuto con loro rapporti diretti. Il 22 giugno, con una lettera circolare indirizzata alle città del Regno, giustificò l'operato. Era, come diceva, sua intenzione estirpare i vizi propagatisi a causa dell'immunità goduta dai colpevoli; alla corte del re erano stati autori di tutto il male, loro che ogni giorno avevano escogitato nuove oppressioni e consigliato altre rappresaglie, e con il loro disprezzo del bene generale avevano provocato la rivolta esplosa nel Regno di Sicilia. Il denaro di cui si erano appropriati - somme ingenti - fu confiscato ed utilizzato per il pagamento e l'approvvigionamento dell'esercito e della flotta. Tre dei più alti funzionari furono condannati alla forca (Angelo della Marra, suo fratello Galgano della Marra e Lorenzo Rufolo), gli altri furono condannati al pagamento di ammende enormi. Tutto questo conferma la supposizione che C. fosse seriamente intenzionato di intervenire a favore delle popolazioni oppresse dal governo del padre. Carlo I infatti, una volta tornato nel Regno, prese le sue distanze dall'azione del figlio, facendo impiccare a sua volta il giudice Tommaso da Brindisi che aveva consigliato a C. la condanna a morte del Rufolo.

L'anno successivo, il 5 giugno 1284, poco prima del ritorno di Carlo I dalla Francia, il principe di Salerno osò attaccare la flotta aragonese comandata da Ruggiero di Lauria che incrociava nel golfo di Napoli; glielo aveva consigliato il conte di Acerra, ma sconsigliato il legato Gerardo di Sabina. Nella battaglia gli Aragonesi impiegarono metodi forse poco cavallereschi, ma che ebbero pieno successo; con sommozzatori aprirono falle nelle navi francesi facendole affondare. C. stesso dovette arrendersi a Ruggiero di Lauria con numerosi nobili del suo seguito. Dopo aver ottenuto la liberazione di Beatrice, cognata di Pietro d'Aragona, tenuta fino ad allora prigioniera a Napoli, l'ammiraglio aragonese fece ritorno a Messina, dove i rappresentanti delle città siciliane chiesero la morte di C. per vendicare la morte di Manfredi e di Corradino. Solo grazie alla mediazione della regina Costanza, moglie di Pietro d'Aragona e figlia di Manfredi, si riuscì a sottrarlo alla furia del popolo e a portarlo nel castello di Cefalù. Dopo la morte di Pietro d'Aragona avvenuta nel novembre 1285 (gli successero i figli Alfonso e Giacomo, il primo in Aragona e il secondo in Sicilia), C. fu trasferito in Catalogna, ma, prima della partenza, rinunciò ai suoi diritti sull'isola di Sicilia e sul territorio dell'arcidiocesi di Reggio; ancora nel febbraio 1287, mentre era prigioniero in Spagna, sollecitò personalmente papa Onorio IV a rispettare il cosiddetto trattato di Cefalù.

Nel frattempo, il 7 genn. 1285, era morto anche Carlo I d'Angiò, lasciando il Regno senza la guida del legittimo successore. Comunque dopo la morte del re Martino IV, che sarebbe morto anch'egli di lì a poco (28 marzo 1285), aveva assegnato, il 17 sett. 1285, giusto il testamento di Carlo I, la reggenza per il figlio ancora minorenne di C., Carlo Martello, a Roberto di Artois. Il successore di Martino IV, Onorio IV, promulgò costituzioni per l'ordinamento del Regno di Sicilia, che rafforzavano le tendenze corporative del Parlamento generale di San Martino. Ai feudatari venne data piena libertà di contrarre matrimonio con la facoltà di dare in dote anche i feudi, i quali ora diventarono ereditari in linea collaterale fino alla terza generazione; essi inoltre non furono più tenuti a prestare il servizio militare al di fuori del Regno.

Nel frattempo continuò la guerra tra Francesi e Aragonesi, e fu solo grazie alla assidua mediazione del re inglese Edoardo I che nel 1288 fu stipulato ad Oléron un accordo con le clausole seguenti: a C. sarebbe stata accordata la libertà se avesse dato in ostaggio i tre figli maggiori e 50.000 marchi d'argento come garanzia. Doveva inoltre impegnarsi a indurre Carlo di Valois a rinunciare all'Aragona, che gli era stata conferita da Martino IV, e a sollecitare il papa a revocare tutte le pene; gli furono concessi tre anni di tempo per negoziare una pace tra la Chiesa, la Francia e l'Aragona che potesse soddisfare le esigenze degli Aragonesi. Se non fosse riuscito a osservare queste condizioni egli si doveva impegnare a tornare prigioniero. Il re di Francia, Filippo il Bello, impedì subito l'esecuzione del trattato, contro il quale protestò energicamente il 15 marzo 1288 anche papa Niccolò IV. Ma Inglesi e Aragonesi continuarono a negoziare, e venne così concluso il 28 ottobre, a Canfranc, un accordo non molto diverso dal primo. Questa volta anche Edoardo I s'impegnò ad adoperarsi per l'esecuzione del trattato, al quale però Niccolò IV oppose nuovamente il suo rifiuto. Nonostante ciò C. si dichiarò pronto ad accettare le condizioni postegli e fu così liberato dalla prigionia nel novembre del 1288.

In un primo momento si fermò in Francia, sensibilmente disorientato dalla sventura che gli era capitata: chiese infatti ad Alfonso d'Aragona il permesso di intitolarsi re di Sicilia nelle trattative che si era impegnato a condurre, e Alfonso gli rispose il 26 genn. 1289 che non gli sembrava opportuno che assumesse questo titolo, visto che doveva trattare la pace anche con suo fratello Giacomo, il quale usava intitolarsi anch'egli re di Sicilia. Ma la corte francese e il papa spinsero C. a far valere i suoi diritti, e alla fine egli si trasferì in Italia e fu incoronato dal pontefice la Pentecoste del 1289 (29 maggio) nella cattedrale di Rieti, re di Sicilia e di Gerusalemme, insieme alla moglie Maria. Il 12 settembre dello stesso anno Niccolò IV dichiarò illegittimi gli accordi di Oléron e di Canfranc, perché conclusi in stato di necessità, sciogliendo C. II dal giuramento prestato. Ma questi non era affatto d'accordo con questa decisione pontificia, e già ora lo opprimeva il pensiero, di non essere in grado di indurre Carlo di Valois alla rinuncia all'Aragona e il papa a perdonare gli Aragonesi, visto che Niccolò IV faceva predicare nuovamente la crociata contro l'Aragona e più tardi anche contro la Sicilia.

Gli accordi erano stati presi solo tra Alfonso d'Aragona e C. II senza includere Giacomo di Sicilia, il quale in quello stesso periodo fece conquistare dal suo ammiraglio Ruggiero di Lauria gran parte della Calabria. Alla fine del giugno 1289 Giacomo sbarcò presso Gaeta. C., il quale nel frattempo era giunto a Napoli, decise di recarsi anch'egli a Gaeta; il 18 agosto lo troviamo infatti in mezzo alle sue truppe che assediavano i Siciliani. Non approfittò tuttavia della situazione militare abbastanza favorevole per lui, ma concluse con Giacomo una tregua della quale non informò i legati pontifici, tra i quali il futuro papa Bonifacio VIII, che gli serberà rancore per questa sua iniziativa ancora al tempo del suo pontificato.

I grandi sforzi di C. II per giungere alla pace appaiono derivare dai suoi scrupoli religiosi, e soprattutto dalla sua preoccupazione sulla sorte dei figli dati in ostaggio al re d'Aragona.

Il figlio maggiore, Carlo Martello, era nato nel 1271 a Napoli, e già quando aveva solo tre anni era stato concordato dal nonno Carlo I il suo matrimonio con Clemenza, figlia di Rodolfo d'Asburgo, portata nel 1281 in Italia; durante la prigionia del padre aveva soggiornato in Provenza, insieme ai fratelli. In un primo momento era stato destinato ad andare in Catalogna come ostaggio, ma poi venne scambiato con il fratello Raimondo Berengario: si trovava dunque in libertà. Già il 9 luglio del 1289 C. aveva ordinato ai giustizieri del Regno di invitare a Napoli i conti, baroni e rappresentanti delle città per celebrare un Parlamento generale, nel corso del quale avrebbe armato cavaliere il primogenito. Il secondogenito Ludovico, nato nel 1275, si trovava insieme a Roberto, nato nel 1278, e Raimondo Berengario come ostaggio in Catalogna. Tutta la politica di C. II mirava dunque alla liberazione dei figli, alla quale doveva servire anche la tregua di Gaeta.

Da Gaeta C. tornò a Napoli, dove, come stabilito, Carlo Martello fu armato cavaliere e nominato principe di Salerno e signore dell'onore di Monte Sant'Angelo. A Napoli confermò i capitoli di San Martino e cercò di migliorarli aggiungendovi nuove leggi allo scopo di offrire alla popolazioni maggiori garanzie contro gli abusi dei funzionari regi.

Secondo le nuove disposizioni i castellani regi non dovevano più arrogarsi poteri che andassero oltre le loro competenze e ai soldati del presidio veniva proibito di portare armi fuori del castello se non per il servizio della corte. Nessuno poteva essere arrestato senza preciso mandato del re, come non potevano essere sequestrati beni senza l'autorizzazione regia. Ai funzionari era proibito di requisire animali per il proprio uso. Un altro capitolo vietava l'occupazione da parte dei familiari regi degli alloggi assegnati loro dal maresciallo o dal suo sostituto oltre i periodi di presenza della corte contro il volere dei proprietari. Ai giustizieri e agli altri funzionari veniva nuovamente ingiunto di non accettare doni. Inoltre veniva stabilito che il maestro giustiziere e i giudici della Magna Curia si dovevano recare periodicamente nelle singole province, a questo scopo suddivise di nuovo, per indagare sugli abusi dei giustizieri e degli altri funzionari e porvi rimedio. Se c'era necessità di rimuovere dai loro uffici il giustiziere o altri funzionari, il re o il suo vicario doveva essere immediatamente informato per iscritto. Per impedire la corruzione dei giustizieri, giudici e notai furono raddoppiati i loro stipendi, pagati dal Tesoro regio.

Veniva inoltre decisa l'istituzione di due registri dove erano trascritte tutte le proprietà e i loro confini: a tali registri si doveva ricorrere in tutte le controversie riguardanti le proprietà del re, della Chiesa, dei conti e dei baroni. La tortura, usata troppo spesso dai funzionari, era limitata a pochi casi, come il crimine di lesa maestà, il brigantaggio e alcuni delitti meno comuni, e doveva essere applicata solo quando a carico dell'imputato vi fossero indizi sufficienti; venivano regolate anche la procedura da seguire in caso di arresto e di rilascio del carcerato, ed altre materie come i diritti di successione.

Nel complesso, i primi capitoli promulgati da C. II nella sua veste di re dimostrano chiaramente che egli era fermamente deciso a proseguire sulla strada imboccata già a San Martino. Aveva soprattutto l'intenzione di dare alla popolazione garanzie contro gli abusi dell'amministrazione e di punire coloro che si erano resi colpevoli di vessazioni nei confronti dei sudditi, allo scopo di mitigare il peso della dominazione francese. Tuttavia, per fare rispettare le nuove leggi, egli non si sarebbe più dovuto allontanare dal Regno, cosa impossibile finché durava la guerra con Alfonso d'Aragona e Giacomo di Sicilia: per concludere la pace e per liberare i suoi figli era costretto a continuare le sue trattative con il papa, i Francesi e gli Inglesi, doveva cioè abbandonare il suo Regno. Non si sentiva ancora sciolto dal giuramento prestato ad Alfonso per ottenere la sua liberazione, era convinto di dover tornare in prigionia, visto che non era riuscito a concludere la pace: non lo tranquillizzavano neanche le iniziative prese da Niccolò IV. Prima della partenza nominò Carlo Martello suo vicario (settembre 1289) e il cugino Roberto conte di Artois, che più tardi fu sostituito da Giovanni di Montfort conte di Squillace, capitano generale del Regno.

Il 1º nov. 1289 C. II si presentò al colle di Panizar sul confine aragonese, per tornare in prigionia. Ma nessuno lo aspettava. Si fece dunque attestare di avere rispettato le clausole del trattato, e poi si mise in viaggio per Parigi con l'intenzione di tentare ancora una volta di convincere Filippo il Bello e Carlo di Valois a concludere la pace.

Nel 1290 morì Ladislao IV d'Ungheria, l'ultimo re della dinastia degli Arpadi. La sua eredità fu rivendicata da due suoi parenti, da Andrea il Veneziano e da Maria, moglie di C., la quale il 21 settembre 1290 mandò in Ungheria i suoi procuratori per ricevere il giuramento di fedeltà dalla popolazione; intendeva salvaguardare i suoi diritti nell'interesse del figlio maggiore Carlo Martello. Ma anche il re de' Romani Rodolfo d'Asburgo rivendicava diritti sul Regno ungherese in quanto, a suo dire, feudo dell'Impero, e ne investì il figlio Alberto d'Austria. Papa Niccolò IV dal canto suo dichiarava che l'Ungheria apparteneva alla Chiesa romana, visto che la corona era stata mandata agli Ungheresi da Gregorio V, e difendeva i diritti di Carlo Martello.

Nel frattempo C. II fece una nuova proposta a Filippo il Bello: Carlo di Valois avrebbe dovuto sposare una sua figlia, alla quale avrebbe dato in dote le contee di Angiò e di Maine. La proposta alla fine fu accettata e così nel 1291, a Tarascona, si venne alla conclusione di una pace separata tra la Francia e l'Aragona con le clausole seguenti: Alfonso doveva sottomettersi al papa, che l'avrebbe perdonato, e liberare gli ostaggi; Carlo di Valois avrebbe rinunciato alle sue rivendicazioni sull'Aragona in cambio dell'Angiò e del Maine; anche Giacomo di Sicilia si doveva sottomettere al papa. Se si fosse rifiutato, Alfonso non avrebbe più sostenuto né il fratello né i Siciliani. Il negoziato si svolse nel febbraio, ma il 3 giugno 1291 sopravvenne improvvisamente la morte di Alfonso d'Aragona cui successe il fratello Giacomo, e questi tenne unite nelle sue mani la Sicilia e l'Aragona e nominò luogotenente in Sicilia il fratello Federico che vi esercitò il governo insieme con la madre Costanza e l'ammiraglio Ruggiero di Lauria. Giacomo fece subito sapere di essere pronto a negoziare, senza però sentirsi vincolato dagli accordi di Tarascona. C. venne dunque costretto a fare nuove proposte. Giacomo preferì per il momento concludere un'alleanza con la Castiglia impegnandosi a sposare Isabella, figlia di re Sancho. Gli accordi furono ratificati il 28 nov. 1291.

Il 6 genn. 1292 la regina Maria, che in quel momento si trovava insieme con il marito ad Aix-en-Provence, mandò a Napoli un diploma con cui investì il figlio Carlo Martello del regno d'Ungheria. Il 7 febbr. seguente C. informò i prelati, i grandi, i nobili e il pppolo ungherese che la moglie Maria aveva ceduto al figlio Carlo Martello il regno e li invitò a riconoscerlo come loro sovrano. Dal 17 aprile Carlo Martello cominciò a contare gli anni del suo regno in Ungheria.

Per accelerare le trattative, C. si recò di nuovo nelle vicinanze del confine aragonese, e nell'aprile del 1293 si incontrò con Giacomo a Pontoise, discutendo con lui i punti seguenti: Giacomo e Federico d'Aragona, una volta conclusa la pace, dovevano essere sciolti dalla scomunica; Filippo il Bello e Carlo di Valois rinunciavano all'Aragona in cambio della Sicilia, che Giacomo avrebbe restituito agli Angioini, entro il termine massimo di tre anni dalla conclusione della pace; gli ostaggi dovevano invece essere rilasciati subito. Ma tutte queste proposte furono di nuovo messe in discussione nelle trattative successive. Nel dicembre del 1293 C. e Giacomo II si incontrarono nuovamente e furono discussi ancora una volta i vecchi progetti: la Sicilia doveva essere restituita alla Chiesa entro tre anni, e se i Siciliani si fossero opposti all'ordine del papa, Giacomo doveva impegnarsi a muovere loro guerra. Nello stesso tempo fu progettato un legame matrimoniale tra le due famiglie reali. Gli ostaggi dovevano essere liberati subito dopo la conclusione della pace.

In seguito C. cercò di ottenere consensi per questo accordo, fermandosi dal 21 al 29 marzo 1294 a Perugia, dove i cardinali, riuniti in conclave, dichiararono di non essere autorizzati a decidere sulla questione. Si mise allora di nuovo in viaggio e, passando per Sulmona, dove fece visita all'eremita Pietro del Morrone, giunse infine a Napoli. Poco tempo dopo i cardinali elessero papa, con un voto a sorpresa, proprio Pietro del Morrone, che assunse il nome di Celestino V. è molto probabile che C. II abbia influenzato questa scelta, favorevole a lui ma certamente poco conveniente per la Chiesa: il pio eremita, pur disponendo di qualche esperienza di amministrazione, non era minimamente preparato a reggere la Chiesa romana e il Patrimonio.

Dopo l'elezione C. si mise subito in contatto con Celestino V, che non si recò a Roma, ma invitò i cardinali a raggiungerlo all'Aquila, dove si trasferirono anche C. II con il primogenito Carlo Martello. In occasione dell'ingresso del papa in città a dorso di un asino, il re e Carlo Martello gli tennero le redini. Da allora tutte le decisioni del papa furono prese sotto la sua influenza; già il 13 ag. 1294, mentre si trovava ancora all'Aquila, Celestino V nominò il protonotaro del Regno, Bartolomeo da Capua, notaio pontificio. Un'annotazione nel registro dimostra chiaramente lo scopo da lui perseguito: "Bartolomeo fu recentemente assunto a notaio pontificio su nostra proposta e con il nostro consenso e supponiamo che in quest'ufficio ci recherà servizi non minori ma maggiori di prima". Poi C. II indusse il papa a trasferirsi a Napoli anziché a Roma, nella speranza di poter influenzare più agevolmente la prossima elezione pontificia: Celestino V infatti era già molto vecchio e nel luogo dove moriva un papa di solito si riuniva il conclave. Tuttavia i cardinali, che temevano proprio quest'evenienza, gli fecero giurare di non trattenere il pontefice nel Regno all'avvicinarsi della morte. Ma durante il viaggio a Napoli, a San Germano, C. convinse il papa ad annullare con una bolla questo giuramento perché contrario al regolamento del conclave; a Napoli riuscì a far nominare a cariche pontificie altre persone di sua fiducia ed addirittura nuovi cardinali pronti a sostenere la sua politica. Celestino V revocò anche la disposizione di Niccolò III che vietava l'elezione di re e principi a senatori di Roma, ma la cosa più importante era che dava il suo consenso ai progetti di C. per la pace: infatti già dall'Aquila il 1º ott. 1294, aveva dichiarato di approvare l'accordo concluso con Giacomo II per quel che riguardava la Chiesa romana. A Celestino V si rivolse anche per chiedere il suo consenso Ludovico, il giovane figlio di C. che aveva deciso in Catalogna, dove viveva come ostaggio, di ritirarsi in convento; il papa nel 1294 gli permise di entrare nell'Ordine dei francescani.

A Napoli anche Celestino V si rese conto di essere poco atto a reggere la Chiesa e decise di dimettersi. Quando C. seppe di questa intenzione gli suggerì di trasmettere il potere pontificio a tre cardinali che l'avrebbero esercitato collegialmente, e il papa fece preparare una minuta in questo senso; ma quando il cardinale Matteo Orsini ne venne a conoscenza gli dichiarò che una cosa del genere era del tutto impossibile. Così si venne all'abdicazione di Celestino e all'elezione di Benedetto Caetani, che assunse il nome di Bonifacio VIII.

Dopo la sua elezione Bonifacio VIII trasferì la residenza pontificia da Napoli a Roma e i funzionari che C. era riuscito ad inserire nell'ammistrazione pontificia dovettero ritirarsi, ma il re dette il suo appoggio anche al nuovo papa e lo accompagnò, insieme a Carlo Martello e a Bartolomeo da Capua, fino a Roma. In occasione della sua incoronazione il 23 genn. 1295, il re e il figlio tennero le briglie del cavallo bianco sul quale Bonifacio VIII si recò a S. Pietro e servirono il papa, loro signore feudale, durante il banchetto che seguì. Il papa dal canto suo gli prorogò il pagamento del censo non pagato e da pagare nei prossimi anni.

BonifacioVIII appoggiò anche, come aveva già fatto Celestino V, i progetti di C. II per giungere alla conclusione della pace, assumendo egli stesso la direzione delle trattative. Il 31 maggio 1295 invitò Federico d'Aragona a rinunciare all'isola di Sicilia e fece anche pressione sul re di Francia, che con i propri progetti metteva in pericolo i negoziati; ma soprattutto esortò Giacomo II a realizzare al più presto il suo matrimonio con la figlia di C., Bianca. Così nel giugno 1295 ad Anagni fu definita la pace con una serie di clausole particolari: Giacomo sposa Bianca; tutti gli ostaggi vengono liberati; Giacomo II restituisce a C. II i territori occupati in terraferma con le isole annesse e libera tutti i prigionieri; C. si adopera presso il papa per la revoca della scomunica e dell'interdetto lanciato contro l'Aragona e contro la Sicilia; Filippo il Bello e Carlo di Valois rinunciano all'Aragona, il papa riconosce Giacomo in tutti i diritti e i regni posseduti da Pietro III d'Aragona prima della sua scomunica; Giacomo II cede la Sicilia e le isole annesse alla Chiesa e ne revoca tutti i suoi funzionari.

Il 19 ag. 1295morì Carlo Martello preceduto di poco dalla moglie. Poco dopo i figli minori di C., liberati, fecero ritorno nel Regno. Ludovico nel 1296vestì l'abito dei francescani nellachiesa romana dell'Aracoeli, alla presenza del padre e di Bonifacio VIII e rinunciò a tutti i suoi diritti di successione nel Regno a favore del fratello Roberto. In seguito il papa lo consacrò vescovo di Tolosa. La pace, tuttavia, fu rotta già all'inizio del 1296, quando i Siciliani, nel corso di un Parlamento a Catania, elessero all'unanimità Federico d'Aragona loro re. Il 2 febbr. 1296 Roberto d'Angiò fu armato cavaliere; il 13 febbraio C. II lo nominò duca di Calabria e vicario generale del Regno. La guerra intanto si riaccese di nuovo. Il 20 ott. 1296 le navi di Federico sconfissero la flotta angioina presso Ischia. Si era dunque verificato il caso previsto nelle clausole della pace: Giacomo II doveva combattere contro i Siciliani, e anche contro il proprio fratello. Nel 1297 egli fu nominato gonfaloniere e grande ammiraglio della Chiesa. Nello stesso anno Roberto sposò la sorella di Giacomo, Violante. Ludovico d'Angiò, che aveva raggiunto Tolosa, decise di rinunciare al suo vescovato per vivere in un convento del suo Ordine, morì durante il viaggio a Roma, il 19 ag. 1298.

Le lotte degli anni successivi non decisero sul piano militare le sorti della guerra. Nell'agosto del 1298 Roberto d'Angiò, duca di Calabria, sbarcò nell'isola e poté impradonirsi di varie località sulla costa, mentre Giacomo d'Aragona pose l'assedio a Siracusa, senza tuttavia riuscire ad espugnarla. Infruttuosa rimase anche la successiva spedizione iniziata nel giugno del 1299 sempre sotto il comando di Giacomo d'Aragona e di Roberto di Calabria investito per l'occasione del titolo di vicario generale e perpetuo dell'isola di Sicilia. Il 1º dic. 1299 le truppe angioine, comandate da Filippo principe di Taranto che erano sbarcate vicino a Trapani, subirono una gravissima sconfitta presso Falconaria; il principe stesso cadde prigioniero. Queste iniziative di C. II suscitarono la più decisa opposizione di Bonifacio VIII; questi, il 9 genn. 1300 gli indirizzò una lettera, in cui deplorava aspramente il suo operato, minacciandogli la scomunica nel caso che avesse intavolato trattative con Federico III, e dichiarò nulli già in anticipo tutti i suoi eventuali accordi con Federico.

Nello stesso 1300 C. II chiese al pontefice la canonizzazione del figlio Ludovico e sempre nel 1300 iniziò anche la campagna contro la città saracena di Lucera, ordinando a Giovanni Pipino da Barletta di raderla al suolo cacciando i Saraceni insediativi da Federico II. La campagna ebbe pieno successo, e la città popolata di nuovi abitanti fu chiamata la città di Santa Maria.

Nel 1301 venne nel Regno Carlo di Valois per combattere contro la Sicilia, ma le trattative sulle modalità della spedizione si trascinarono fino al 1302; C. malgrado le grandi speranze che aveva suscitato, la campagna non ebbe il successo desiderato. Così il 31 ag. 1302 si arrivò alla pace di Caltabellotta, nella quale fu accordata a Federico d'Aragona la mano di una figlia di C. e il possesso della Sicilia vita natural durante.

In tal modo si era conclusa la guerra durata per due decenni, e C. II poté finalmente pensare ad altri progetti. Nel 1303 Bonifacio VIII mandò in Ungheria un cardinal legato, il quale assegnò il regno a Caroberto, primogenito di Carlo Martello. Già prima vi aveva rinunciato Alberto d'Austria, mentre Andrea il Veneziano era morto nel 1301. Gli Ungheresi però avevano eletto re dopo la sua morte il principe Venceslao di Boemia, e perciò si opponevano a Caroberto, il quale solo in seguito riuscì a crearsi più consistenti appoggi nel regno.

Nel 1305 Roberto duca di Calabria fu nominato capitano generale delle città guelfe di Toscana e alla testa di truppe guelfe assediò vanamente Pistoia. Nel frattempo era stato eletto a Perugia il papa francese Clemente V (5 giugno 1305), elezione certamente gradita e anche favorita da Carlo II. Il nuovo papa decise di non trasferirsi in Italia e di stabilire la sua residenza al Avignone. Per facilitare i rapporti con lui Roberto fu nominato vicario generale di Provenza e Forcalquier.

In Piemonte Manfredi di Saluzzo si era impadronito di gran parte dei possedimenti una volta in possesso di Carlo I. Tra il 1304 e il 1305 C. II riuscì a restaurarvi il dominio angioino con il passaggio dalla sua parte di numerose città della regione. Alla fine del 1304 nominò il figlio Raimondo Berengario conte di Piemonte e, dopo la sua morte improvvisa alla fine di ottobre del 1305, manda nella regione truppe, le quali, con l'appoggio di Asti, occuparono Cuneo: il 7 febbr. 1306 Manfredi di Saluzzo venne ai patti, riconoscendo le rivendicazioni angioine. Il 14 febbraio successivo il re unì la contea di Piemonte a quelle di Provenza e di Forcalquier, e da allora si intitolò anche conte di Piemonte.

Nello stesso periodo Filippo di Taranto poté acquistare il dominio sul principato di Acaia, che già il nonno Carlo I aveva rivendicato nella sua qualità di erede dei diritti della nuora, moglie del figlio Filippo morto in giovane età. Il figlio omonimo di C. II, aveva anch'egli acquistato, mediante il suo matrimonio con Caterina di Valois, diritti in Acaia e cercò dunque di consolidare il suo possesso. Tramite i figli, C. cercò dunque di estendere il suo dominio, sia al Nord sia in Oriente.

In campo economico, C. seguì, come il padre, le tradizioni sveve. Da buoni mercanti, i re angioini sapevano bene fare i conti, come dimostra la politica monetaria; C. aveva promesso a San Martino di non alterare le monete e Onorio IV, nelle sue costituzioni, aveva vietato il loro cambio troppo frequente. Il re poteva coniare nuova moneta una sola volta nel corso del suo regno, dopo aver ascoltato gli esperti, ma in realtà nel solo periodo tra il 1301 e il 1302 il peso dei carlini d'oro fu cambiato ben tre volte; nel 1303 C. II lo modificò ancora, procurandosi vantaggi temporanei, con una politica, però, che finiva per essere dannosa per l'economia del Regno. Per il resto il re cercò di esercitare un controllo positivo sulla vita economica: furono creati pesi di controllo, con i quali i bottegai dovevano confrontare i propri, e nel 1299 il re esortò esplicitamente i cittadini d'Aversa a rispettare questa disposizione, ripetuta nel 1305 ancora una volta.

Tuttavia nelle città le lotte tra fazioni impedivano un deciso sviluppo delle attività mercantili: nel 1305, ad es., Napoli fu turbata da un sanguinoso conflitto tra fazioni nobiliari. Inoltre, nelle campagne il commercio era gravemente ostacolato dalle numerose bande di briganti che controllavano molte strade. Per combattere il banditismo C. permise contro i briganti la pratica della tortura.

Per quanto riguarda le attività manifatturiere, già favorite da Federico II e Carlo I, C. II sostenne soprattutto quelle dei panni. A tale scopo si rivolse all'Ordine degli umiliati, fondato nel 1196 a Milano, che prescriveva ai suoi appartenenti il lavoro manuale, e che a Firenze esercitava la manifattura; il 23 giugno 1308 concluse un accordo con il frate Daniele, il quale si impegnò a insediare a Napoli e nei luoghi vicini frati e maestri esperti in tale arte. Nell'agricoltura il sovrano cercò anzitutto di tutelare i contadini contro gli abusi dei funzionari regi: uno dei capitoli di San Martino ordinava infatti di stabilire i confini delle foreste regie per evitare che i contadini confinanti fossero molestati dai forestari. Naturalmente l'agricoltura era considerata anche sotto l'aspetto militare: erano sottoposti a controllo specialmente gli animali utili per la guerra, come i muli e i cavalli, di cui era proibita l'esportazione, mentre quella di altri animali era libera. Nei capitoli del 1282 veniva perciò ordinato ai magistri passuum di sorvegliare severamente i confini.

Il commercio interno del Regno si svolgeva soprattutto nelle zone lungo la costa, e perciò fu stabilito nei capitoli di San Martino che ai prelati, baroni e cittadini era permesso di trasportare grano da un porto all'altro senza dover pagare pedaggi; la stazza delle navi tuttavia doveva essere modesta e dovevano essere utilizzati solo i porti previsti dal decreto. Per tutti gli altri trasporti su nave si dovevano pagare tributi che venivano fissati anno per anno, ma che qualche volta cambiavano anche durante l'anno, come avvenne per esempio, nel 1299.

Sull'esempio del padre, C. II concesse privilegi ai principali porti del Regno. Nel 1301 confermò i privilegi di Manfredonia, città che viveva soprattutto del commercio del grano. Altri porti importanti sulla costa orientale erano Trani, Barletta, Bari, Brindisi e Villanova, che durante la guerra del Vespro avevano subito le incursioni dei Siciliani. Nel 1306 C. II fece riparare il porto di Trani, diminuendo contemporaneamente i tributi della Comunità.

Tra tutte le città del Regno la più importante era Napoli, e alla sua capitale C. II dedicò cure particolari. Il porto fu ampliato; i lavori cominciarono nel 1302 sotto la direzione del protomagister Riccardo Primario da Napoli; erano controllati da una commissione di nobili e cittadini ragguardevoli e, nonostante la grande tempesta del 1305, erano quasi terminati al momento della morte del sovrano. Per finanziarli questi aveva dovuto imporre un'imposta speciale, contro la quale la cittadinanza di Napoli protestò nel 1306. Nella capitale furono anche creati nuovi quartieri vicini al mare e alla residenza regia, nei quali andavano ad abitare soprattutto i forestieri, fiorentini, pisani, marsigliesi, genovesi ed amalfitani.

Come già il padre C. II favorì la attività di mercanti stranieri. Nel 1299 permise a quelli catalani di fondare proprie case a Napoli e in "altre famose città" del Regno, dove avevano filiali anche i mercanti dell'Italia centrale e settentrionale. Nel 1301 fu concluso un accordo speciale con Venezia; alcuni mercanti veneziani avevano le proprie case a Napoli, altri commerciavano nei porti pugliesi. Esportavano dal Regno olio d'oliva, carne in salamoia, sale e grano, e importavano stoffe ed armi. Ma la potenza commerciale più importante per C. era Firenze, la quale gli aveva prestato le somme necessarie per la guerra siciliana. Già durante la prigionia era stato aiutato dagli Acciaiuoli, e tra i mercanti fiorentini attivi nel Regno vanno ricordati inoltre i Mozzi, i Bardi, i Peruzzi, gli Scali, gli Aldobrandini e i Visdomini. Dopo la pace di Caltabellotta altri impegni richiedevano denaro: l'abbellimento della capitale, l'ampliamento del suo porto, la costruzione di chiese, come S. Luigi di Aversa, S. Agostino e S. Maria Maddalena a Napoli, e della cattedrale di S. Maria a Lucera, che erano tutte chiese decorate da artisti toscani e romani. Anche le decorazioni dei palazzi di Casanova, Carbonara e Castelnuovo furono molto costose. Le trattative condotte da Carlo Martello riguardo all'Ungheria e quelle di Filippo principe di Taranto riguardo all'Acaia furono in parte finanziate da fiorentini, che, come per esempio i Peruzzi, concessero prestiti quasi illimitati ottenendo in cambio monopoli e altri privilegi; C. II e il figlio Roberto accordarono loro inoltre protezione militare. Spesso i rapporti divennero molto stretti: vari mercanti, infatti, sedevano nel Consiglio dei familiari del re.C. II non fu stimato da molte delle persone che gli erano vicine. Soprattutto suo padre e papa Bonifacio VIII, tutt'e due politici molto attivi, gli mossero rimproveri di ogni genere e spesso lo accusarono di debolezza. La sua religiosità era forse inconsueta per un uomo politico e i cavalieri probabilmente la deridevano. Ma proprio grazie al suo carattere egli riuscì di accattivarsi il consenso di buona parte della popolazione. Egli infatti, più di altri sovrani del suo secolo, rispettò i diritti dei suoi sudditi, e ancora nel suo testamento del 1308 dispose che, se la colletta generale che veniva imposta annualmente fosse risultata illegittima, si sarebbe dovuto abolirla a tutti i costi.

C. morì il 5 maggio 1309 a Napoli. Il figlio e successore Roberto scrisse che egli era vissuto "come un principe cattolico, onorevolmente ed esemplarmente".

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