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ItaliaOggi - Numero 110   pag. 9  del 10/05/2024
politica

Salari troppo bassi in Italia? Anche colpa nostra

Andrea Ichino, economista EUI e Università di Bologna: burocrazia asfissiante, contrattazione troppo rigida, ricerca insufficiente. E una struttura sociale che non rinuncia alla famiglia

di Alessandra Ricciardi





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Andrea Ichino

In Italia oggi i salari reali sono più bassi del 1990, trent’anni in cui gli italiani si sono impoveriti. Unici in Unione europea. Le cause? «Una burocrazia asfissiante, che disincentiva gli investimenti. Una contrattazione collettiva troppo rigida, che non tiene conto del potere d’acquisto sul territorio. Una insufficiente ricerca e sviluppo nelle imprese. Ma anche una struttura sociale che preferisce la famiglia a un mercato del lavoro efficiente», ragiona Andrea Ichino, economista della European University Institute di Fiesole e dell'Università di Bologna. «Guardiamoci negli occhi», dice Ichino, «saremmo disposti a rinunciare a quello che la famiglia ci offre per avere livelli di produttività quali quelli americani, ma perdendo le nostre origini? Scelta difficile, ma certamente non possiamo pretendere di salvare capra e cavoli».

Domanda. Secondo l'ultimo rapporto Ocse, l'Italia è tra i paesi UE l'unico in cui i salari reali sono più bassi del 1990. Sembra quasi impossibile crederlo.

Risposta. Quanto affermato dall’Ocse non è certo una sorpresa: sappiamo da tempo che il nostro Paese non è di fatto cresciuto negli ultimi quarant’anni e questa carenza, che ci differenzia rispetto ad altre economie, si riflette ovviamente anche nei salari reali pagati ai lavoratori.

D. Tutta colpa dei contratti collettivi e dei sindacati?

R. Non è solo colpa dei contratti collettivi e dei sindacati, che sono una delle ragioni della nostra incapacità di incrementare la produttività del lavoro. Sono responsabili anche gli imprenditori i quali, tranne alcune troppo rare eccellenze, non sono sufficientemente capaci di fare ricerca e sviluppo e di innovare le strategie.

È responsabile anche, e forse soprattutto, la pubblica amministrazione che da anni vincola i cittadini con una burocrazia asfissiante e del tutto inefficiente in ogni ambito della vita e delle attività produttive.

D. Esempi?

R. Gli esempi sono esperienza comune di tutti e mi sembra inutile ricordarli ai lettori. L’elemento comune in tutti questi esempi è l’ostinazione dello stato a imporre vincoli formali “ex ante” per poter fare qualsiasi cosa, invece di lasciare maggiore libertà di iniziativa punendo poi severamente chi danneggia la collettività. Le imprese straniere, abituate a un atteggiamento ben diverso delle loro amministrazioni pubbliche, sono spaventate da quanto complicato sia operare in Italia e questo ci priva di investimenti che sarebbero invece altamente produttivi.

Ma forse la colpa è anche di noi stessi in prima persona.

D. In che senso?

R. Tutti, più o meno, preferiamo una struttura sociale centrata sulla famiglia, che produce molti beni e servizi “in casa”, ma in modo inefficiente e con conseguenze negative anche per la produttività del lavoro “nel mercato”.

D. Qui gli esempi sarebbero utili per i lettori: può farne qualcuno?

R. È il tema di un mio libro ( “L’Italia fatta in casa”, Rizzoli, ndr) che ho scritto insieme ad Alberto Alesina. Se contassimo nel Prodotto Interno Lordo tutto quello che le famiglie italiane (ma non le americane) producono in casa (dalle marmellate, al bricolage, ai servizi di welfare), la distanza di reddito pro-capite con gli USA quasi si dimezzerebbe. Incentrare sulle famiglie tutte queste funzioni ha però effetti negativi sulla produttività e sui salari reali.

In primo luogo, il ruolo nel quale vengono confinate le donne, colonne del welfare familiare che compensa le deficienze dello Stato, ma che in questo modo sono condannate a bassi tassi di occupazione nel mercato e comunque a occupazioni meno produttive di quelle potenziali.

D. In secondo luogo?

R. In secondo luogo, un mercato del lavoro che richiede almeno un posto di lavoro stabile a vita in ogni famiglia, per finanziare i servizi di welfare, generalmente occupato da maschi adulti spesso non molto produttivi. Questo posto fisso riservato agli adulti toglie opportunità ai giovani più produttivi i quali devono attendere, nel precariato, che i vecchi lascino il campo.

Infine, il ruolo della famiglia fa sì che nessuno se ne voglia allontanare, ad iniziare dai figli che rimangono a casa fino a ben oltre i trent’anni, anche perché il lavoro si trova soprattutto attraverso i contatti familiari. Questo attaccamento alle origini si riflette in una immobilità geografica e settoriale della forza lavoro che dà alle imprese quello che gli economisti chiamano un “potere di monopsonio”.

D. Cioè?

R. Così come il monopolista vende i suoi prodotti a prezzi più alti di quelli concorrenziali perché sa che i consumatori non hanno alternative, il monopsonista paga i lavoratori meno di quello a cui potrebbero aspirare perché sa che accetteranno salari inferiori pur di non perdere i benefici offerti dalla famiglia.

Guardiamoci negli occhi: saremmo disposti a rinunciare a quello che la famiglia ci offre per avere livelli di produttività quali quelli americani, ma perdendo le nostre origini? Scelta difficile, ma certamente non possiamo pretendere di avere capra e cavoli. Bisogna trovare una strategia onnicomprensiva per conservare parte dei vantaggi dell’“Italia fatta in casa”, senza rinunciare alla crescita di cui abbiamo bisogno

D. Ha un peso anche il lavoro nero?

R. Distinguiamo: c’è un lavoro nero di natura criminale che va combattuto e forse raccoglierebbe meno giovani se i salari reali fossero più attraenti. C’è poi un lavoro nero inteso come strumento di evasione fiscale e qui è necessaria una rivoluzione culturale per combatterlo aumentando il senso civico degli italiani. Infine, c’è un lavoro nero generato dalla necessità di aggirare l’inutile burocrazia statale; ma in questo caso il lavoro nero è solo il sintomo: il problema, come detto sopra, sta in quella burocrazia.

D. Sul banco degli imputati è finita anche l'inflazione. In Francia ci sono sistemi per agganciare l'inflazione. Perché in Italia no?

R. Abbiamo imparato a nostre spese, dalla scala mobile degli anni ’80, che meccanismi automatici di adeguamento dei salari ai prezzi sono molto pericolosi. Meglio affidare alla contrattazione collettiva e individuale questo adeguamento. Un mio studente sta lavorando a una ricerca che mostra che gli shocks recenti ai prezzi dell’energia vengono recuperati rapidamente dai lavoratori tedeschi ma non in modo automatico, bensì in relazione all’incidenza dell’incremento di spesa energetica che ciascun lavoratore subisce. Come fanno i lavoratori a recuperare? Grazie alla minaccia di andarsene altrove (non necessariamente in termini geografici, ma anche in termini di settore o azienda). Le imprese tedesche hanno quindi un “potere di monopsonio” inferiore rispetto a quello delle imprese italiane.

D. Lei sa che il discorso di agganciare gli aumenti anche nel pubblico impiego al costo della vita sul territorio non piace a sinistra. Subito scatta l'accusa di voler reintrodurre le gabbie salariali. O di voler spaccare il Paese.

R. A questo proposito ciò che sorprende è che proprio coloro che vorrebbero vincolare meccanicamente i salari nominali all’inflazione, ossia alla variazione nel tempo dei prezzi, si rifiutano di vedere che esiste un problema anche in termini di variazione dei prezzi nello spazio. È una forma di pensiero schizofrenico che proprio non riesco a spiegarmi. Il tempo e lo spazio sono le dimensioni del nostro esistere. Perché dovremmo desiderare adeguamenti dei salari ai prezzi nel tempo e non nello spazio?

Comunque, anche nel caso delle variazioni del costo della vita tra zone del paese (sud-nord, ma anche città e campagna), insieme a Enrico Moretti, Tito Boeri e Johanna Posh abbiamo spiegato che la soluzione non è un adeguamento meccanico, ossia le cosiddette“gabbie salariali. La soluzione è la contrattazione collettiva locale.

D. C'è chi a sinistra fa la battaglia per il salario minimo, chi a destra punta su bonus e decontribuzione. Cosa ne pensa?

R. Il salario minimo è una battaglia sacrosanta, che avrebbe numerosi benefici per i lavoratori più deboli ma anche per il paese nel suo complesso: sono molti gli economisti convinti di questo. Bonus e decontribuzioni sono soldi buttati via perché nella quasi totalità finanziano le imprese per scelte che avrebbero fatto comunque. Un regalo, quindi, alle imprese, il cui beneficio netto marginale è quasi certamente irrilevante.

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