Le classi come tecnica di distribuzione nel concordato in continuità tra dimensione “orizzontale” e “verticale”. Una prospettiva applicativa *
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Saggio

Le classi come tecnica di distribuzione nel concordato in continuità tra dimensione “orizzontale” e “verticale”. Una prospettiva applicativa *

Luigi Pecorella, Dottorando di ricerca in Diritto, Mercato e Persona presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia

17 Maggio 2024

*Il saggio è stato sottoposto in forma anonima alla valutazione di un referee.
Il lavoro esamina la disciplina delle classi dei creditori incidente sulle regole di distribuzione del concordato in continuità nell’ottica di stabilire fino a che punto il proponente possa avvalersene al fine di differenziare i termini del soddisfacimento tra i creditori sia in senso “orizzontale” (i.e., con riferimento al trattamento dei creditori di pari rango), sia in senso “verticale” (i.e., con riferimento al trattamento dei creditori di rango diverso). A tal fine, in premessa, viene illustrata la ratio della previsione delle classi nell’ambito della disciplina del concordato in continuità anche alla luce della disciplina del c.d. piano di ristrutturazione prevista dalla Direttiva 1023/2019, nonché la funzionalità dell’utilizzo delle classi come tecnica di distribuzione ad una più efficiente ristrutturazione dell’impresa. In secondo luogo, vengono analizzate alcune questioni applicative emergenti dalla considerazione della disciplina delle classi alla luce dei principi che presiedono alla tutela del credito nel concordato, tra cui, in particolare, il c.d. parametro dell’assenza di pregiudizio. Da ultimo, si analizza, in chiave critica, la ratio del riferimento alle classi nell’ambito della regola della priorità relativa di cui all’art. 84, comma 6, CCII In tale contesto, l’analisi si interroga, in particolare, sulla possibilità di operare trattamenti differenziati tra classi contestualmente all’applicazione di tale regola, avendo riguardo, nell’ambito di quest’ultima, al significato e alla funzione della c.d. regola di non discriminazione. 

 
The essay examines the legal rules concerning classes of creditors which affect the distribution rules within the framework of the composition with creditors on an ongoing basis, with the aim of determining to what extent the proposer is allowed to leverage on such rules to differentiate the creditor treatment amongst creditors both in a “horizontal” sense (i.e., with reference to the treatment of creditors of equal rank), and in a “vertical” sense (i.e., with reference to the treatment of creditors of different ranks). To this end, the rationale for the provision of classes within the abovementioned framework is illustrated in the premise, also in light of the discipline of the so-called restructuring plan provided for by Directive 1023/2019, as well as the functionality of the use of classes as a distribution technique for a more efficient restructuring of the enterprise. Secondly, some practical issues emerging from the consideration of the rules of classes in light of the principles concerning credit protection are analyzed, including, in particular, the so-called parameter of the absence of prejudice. Finally, the rationale for referring to classes within the relative priority rule provided for by art. 84, comma 6, CCII is critically analyzed. In this context, the analysis specifically assesses the possibility of differentiating creditors’ treatment amongst classes concurrently with the application of this rule, having regard, within the framework of the latter, to the meaning and the function of the so-called non-discrimination rule.
Riproduzione riservata

Sommario:

1 . Uno sguardo d’insieme: le ragioni dell’indagine e l’impatto della Direttiva Insolvency sulla ratio delle classi nel concordato in continuità

1.1 . Segue. Le classi come tecnica di distribuzione “efficiente”: l’opportunità di un’interpretazione “orientata alle conseguenze” come metodo

2 . Le classi come tecnica di distribuzione sul piano “orizzontale”: alcune inevitabili considerazioni “di vertice” sul rapporto tra classi e par condicio creditorum

2.1 . L’attribuzione di trattamenti “quantitativamente” differenziati: il rilievo del parametro della c.d. assenza di pregiudizio nell’utilizzo delle classi. La questione dell’ammissibilità delle c.d. classi a costo zero

2.1.1 . Segue. La (sostanziale) impraticabilità di trattamenti differenziati tra classi in assenza di un valore eccedente quello di liquidazione

2.2 . L’attribuzione di trattamenti “qualitativamente” differenziati (cenni)

3 . Le classi come tecnica di distribuzione sul piano “verticale”: l’affermazione della RPR ex art. 84, comma 6, CCII come alterazione dell’ordine delle cause legittime di prelazione e l’inconferenza delle classi a tal fine

4 . Sulla possibilità di attribuire trattamenti differenziati contestualmente all’applicazione della RPR: il significato della c.d. regola di non discriminazione e il suo problematico coordinamento con l’art. 85, comma 1, CCII

4.1 . Prove di coordinamento alla luce della Direttiva Insolvency: criticità applicative e teoriche della soluzione che riconduce la ratio della RPR ex art. 84, comma 6 CCII a quella della RPR ex art. 112, comma 2, lett. b), CCII

4.2 . Segue. Prove di coordinamento interne alla disciplina della distribuzione concordataria alla luce dell’affermazione della RPR ex art. 84, comma 6, CCII come condizione di ammissibilità alla procedura

4.3 . Criticità de jure condito e de jure condendo della doppia previsione della RPR agli artt. 84, comma 6 e 112, comma 2, lett. b), CCII e una proposta applicativa “intermedia” a salvaguardia dell’efficienza della distribuzione e della razionalità del sistema

1 . Uno sguardo d’insieme: le ragioni dell’indagine e l’impatto della Direttiva Insolvency sulla ratio delle classi nel concordato in continuità
Il presente scritto si propone di studiare la disciplina delle classi dei creditori incidente sulle regole della distribuzione del concordato in continuità, assumendo, a tal fine, la prospettiva del soggetto proponente la domanda di concordato che intenda avvalersi in concreto di tale disciplina. L’opportunità di una tale indagine si fonda sull’osservazione derivante dall’esperienza – che, in quanto tale, non sembra necessitare di particolari dimostrazioni – che le classi possono rappresentare un elemento di flessibilità della distribuzione concordataria che, se adeguatamente impiegato dal proponente, incrementa esponenzialmente le chances di successo della procedura e, di conseguenza, del processo di ristrutturazione dell’impresa. Alla luce di tale evidenza, l’adozione di una prospettiva applicativa è quindi quella più confacente allo scopo di definire gli “spazi di manovra” che la nuova disciplina del concordato in continuità offre al proponente che intenda avvalersi delle classi come tecnica di distribuzione in funzione della ristrutturazione dell’impresa. 
Non si tratta di una tipologia di indagine di per sé innovativa, se si considera che le classi, sin dalla loro originaria introduzione nell’ordinamento concorsuale risalente ormai a più di vent’anni fa[1], si sono sempre contraddistinte e, di conseguenza, sono state studiate per la loro vocazione ad incidere sulle ordinarie regole della distribuzione concordataria. Il riferimento è, ovviamente, alla tradizionale previsione, oggi contenuta all’art. 85, comma 1, CCII, che riconosce la facoltà del proponente di attribuire trattamenti differenziati tra classi di creditori appartenenti allo stesso rango dell’ordine delle cause legittime di prelazione, costituendo, in tal modo, una fattispecie in deroga alla generale regola della parità di trattamento (o par condicio creditorum) nella disponibilità del proponente[2]. 
Ferma questa analogia con il previgente quadro normativo, nondimeno, sono diverse e significative le innovazioni apportate dal Codice della Crisi, sia rispetto alla disciplina che alla ratio della previsione delle classi, che giustificano l’opportunità di riprendere tale indagine alla luce del nuovo dato positivo. 
Quanto alla disciplina, infatti, è noto che le classi costituiscono ora anche un presupposto ai fini dell’applicazione della relative priority rule (in seguito anche solo “RPR”) rispetto al “valore eccedente quello di liquidazione”, ai sensi dell’art. 84, comma 6, CCII La RPR, d’altro canto, rappresenta una deroga o, se si preferisce, un’alternativa, alla absolute priority rule (in seguito, “APR”), quest’ultima intesa come la regola che presiede al rispetto dell’ordine delle cause legittime di prelazione in sede di distribuzione. Ciò giustifica di per sé la possibilità, almeno ai fini espositivi, di considerare le classi nel concordato in continuità come una tecnica di distribuzione impiegabile dal proponente al fine di poter incidere, non più solo sul piano “orizzontale” dell’ordine delle cause legittime di prelazione (ossia, sul piano del rapporto tra creditori di pari grado, attraverso l’art. 85, comma 1, CCII), ma anche sul piano “verticale” (ossia, sul piano del rapporto tra creditori di diverso grado, attraverso l’art. 84, comma 6, CCII)[3]. 
Quanto alla ratio della previsione delle classi, invece, si osserva il passaggio da una concezione dell’istituto, riscontrabile nella legge fallimentare, come di uno strumento meramente funzionale ad un interesse del proponente a quella, riscontrabile nel Codice, di elemento tipologico della disciplina del concordato in continuità. In particolare, che nella legge fallimentare le classi fossero asservite ad un interesse del solo proponente era circostanza riscontrabile nel dato che la suddivisione dei creditori in classi fosse stata concepita nei termini di una mera facoltà di quest’ultimo[4] e non, invece, di un obbligo[5]. In quel contesto, pertanto, era pressoché unanime tra gli interpreti l’opinione secondo cui la ratio della previsione delle classi, sul piano della distribuzione[6], fosse da rinvenirsi nell’opportunità per il proponente di formulare una proposta comportante una distribuzione concordataria in deroga alla regola della par condicio creditorum, nel senso appeno visto (cfr. melius infra sub § 2). 
Viceversa, nel Codice, è proprio la previsione delle classi come elemento indefettibile della proposta di concordato in continuità che giustifica l’affermazione per cui l’istituto sia divenuto un elemento tipologico di tale strumento asservito, come tale, anche al perseguimento di interessi del “sistema”, che prescindono, pertanto, dalle valutazioni di opportunità del proponente. Nello specifico, la norma che, tra le altre, segna tale rinnovamento della ratio delle classi è l’art. 85, comma 3, CCII, a mente del quale «nel concordato in continuità aziendale la suddivisione dei creditori in classi è in ogni caso obbligatoria». 
Su tale disposizione è opportuno soffermarsi preliminarmente, in quanto la sua considerazione rileva ai fini dell’analisi della disciplina in esame in una prospettiva sia ermeneutica che sistematica. 
In una prospettiva ermeneutica, infatti, essa, essendo enunciata con esclusivo riferimento al concordato in continuità, concorre a giustificare l’opportunità di considerare tale strumento come un tipo da distinguere dal concordato liquidatorio[7]: opportunità che si ritiene in pieno di accogliere anche ai limitati fini del presente scritto. 
In una prospettiva sistematica, invece, la stessa costituisce uno dei punti di collegamento diretto più evidenti tra la disciplina del concordato in continuità e le disciplina del c.d. piano di ristrutturazione prevista dalla Direttiva (UE) 2019/1023 (in seguito anche solo la “Direttiva” o “Direttiva Insolvency”), pubblicata in data 20 giugno 2019 e recepita, come noto, con il D.Lgs. 17 gennaio 2022, n. 83 (in seguito anche solo “D.Lgs. n. 83/2022”) nell’ambito del Codice della Crisi. 
Tale circostanza riveste una specifica importanza ai fini dell’inquadramento giuridico delle classi, in quanto implica che tale operazione non può più prescindere dalla considerazione che l’istituto, per diversi e non trascurabili aspetti della sua disciplina, trova ormai le proprie radici nel diritto europeo. 
È proprio da ricondurre alla Direttiva, in particolare, il superamento della concezione delle classi vigente con la legge fallimentare e, nello specifico, all’art. 9, par. 4, della medesima, laddove ha imposto agli Stati Membri di provvedere “affinché le parti interessate siano trattate in classi distinte che rispecchiano una sufficiente comunanza di interessi, basata su criteri verificabili, a norma del diritto nazionale”, disponendo, al contempo, alcune specifiche ipotesi di classificazione obbligatoria[8] e facoltativa[9]. Tale norma, corredata dai relativi considerandi[10], evidenzia chiaramente, infatti, come, nell’ottica della Direttiva, poi recepita dal legislatore italiano, la previsione delle classi come elemento tipologico del piano sia funzionale alla tutela delle c.d. parti interessate e non ad un interesse del proponente. 
Tale cambio di prospettiva non è privo di implicazioni sia teoriche che applicative e, pertanto, la sua comprensione costituisce la premessa necessaria di ogni tipologia di analisi dell’istituto nel concordato in continuità. 
In una prospettiva teorica, infatti, esso implica che la classificazione dei creditori, prima che qualificarsi come tecnica di distribuzione nella disponibilità del proponente, costituisce un presupposto indefettibile della votazione, in particolare, ai fini della corretta applicazione del principio maggioritario e della conseguente applicazione dell’eterotutela del giudice in sede di omologazione[11]. 
In una prospettiva applicativa, invece, e come conseguenza del precedente rilievo, lo stesso implica che la previsione delle classi prescinde dalla circostanza che il proponente se ne sia servito al fine di operare trattamenti differenziati ovvero di dare applicazione alla RPR. In altri termini, le classi vengono in rilievo come “tecnica di deliberazione” indefettibile della disciplina del piano di ristrutturazione e, di conseguenza, del concordato in continuità aziendale, indipendentemente dalla circostanza che esse siano impiegate anche come “tecnica di distribuzione”[12]. 
Che la Direttiva abbia una considerazione delle classi come “tecnica di deliberazione” e, di conseguenza, di “eterotutela” da attuarsi in sede di omologazione del piano, si osserva nel dato per cui essa reca una disciplina puntuale delle classi solo in riferimento alla fase della votazione (cfr. art. 9), oltre che dell’omologazione (cfr. artt. 10 e 11). A ben vedere, invece, la Direttiva non sembra occuparsi in via diretta delle classi come tecnica impiegabile in deroga alle regole di distribuzione ordinarie. Il che non significa, ovviamente, che essa non presupponga che le classi possano essere e siano ordinariamente utilizzate a tal fine, ma, più semplicemente, che essa ha riguardo alla distribuzione e al ruolo delle classi in tale contesto solo in funzione dell’omologazione, non in funzione dell’ammissione alla procedura. In una diversa prospettiva, si può osservare che la Direttiva sembra preoccuparsi solo di tutelare le parti interessate “a valle” della votazione, ossia nella fase di omologazione, nell’eventualità in cui alcune di esse non abbiano votato a favore della proposta, non imponendo invece “a monte” alcun criterio di distribuzione indisponibile all’autonomia delle parti. Invero, come è stato evidenziato, la Direttiva, in fase di ammissione alla procedura del piano di ristrutturazione, presuppone proprio il paradigma dell’autonomia nell’ambito della scelta dei criteri di distribuzione, mentre, in fase di omologazione, impone il paradigma dell’eteronomia a tutela delle parti interessate che non abbiano accettato tali criteri negando il loro consenso alla proposta[13].  
Se tale lettura è condivisibile, allora, è utile sin da ora ricordare come tale approccio, adottato dalla Direttiva nell’ambito della disciplina di unico strumento (i.e. il piano di ristrutturazione), sia stato recepito dal legislatore italiano nell’ambito di disposizioni del Codice attinenti a due diversi strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza[14]. Da un lato, infatti, il legislatore italiano ha assecondato il paradigma dell’autonomia nella scelta dei criteri di distribuzione in fase di ammissione nell’ambito della disciplina del piano di ristrutturazione soggetto ad omologazione (in seguito, il “PRO”). Quest’ultima, infatti, consente, come noto, una distribuzione in deroga agli artt. 2740 e 2741 c.c. ove il piano sia approvato dall’unanimità delle classi. Dall’altro lato, ha recepito il paradigma dell’eteronomia nell’ambito della disciplina del concordato in continuità. Ha previsto, cioè, nell’ambito di tale strumento e sulla base della Direttiva, un meccanismo idoneo a consentire l’omologazione del piano anche nel caso esso non sia stato approvato dall’unanimità delle classi, subordinatamente alla verifica del rispetto di determinate condizioni poste a tutela delle ragioni delle classi dissenzienti, oltre che dei creditori dissenzienti appartenenti ad una classe assenziente. 
Non è compito del presente scritto commentare tale modalità di recepimento della disciplina della Direttiva, la quale si basa, del resto, su una valutazione di opportunità del legislatore italiano del tutto compatibile con quest’ultima[15]. Tuttavia, ai fini della presente analisi, è utile muovere dall’evidenza che la conseguenza di tale recepimento “scomposto” della disciplina della Direttiva è la mancanza nel Codice di uno strumento che, sulla falsa riga del c.d. piano di ristrutturazione, si regga contestualmente sul paradigma dell’autonomia in fase di ammissione e su quello dell’eteronomia in fase di omologazione. Con specifico riferimento al concordato in continuità, pertanto, tale dato si riflette anche nella previsione di limitazioni eteronome alla distribuzione il cui rispetto costituisce oggetto di accertamento già in fase di ammissione, concorrendo, pertanto, a definire tale “tipo” di strumento. 
Tali osservazioni, seppur appena abbozzate, rilevano in quanto la considerazione della ratio delle classi nell’ambito della disciplina del piano di ristrutturazione della Direttiva, da un lato, e del recepimento “scomposto” di tale disciplina da parte del legislatore italiano, dall’altro, implica l’obbligo per l’interprete di discernere le disposizioni della disciplina del concordato in continuità “ammantate” dalla particolare protezione derivante dalla loro derivazione euro-unitaria da quelle da ricondurre, invece, ad un’autonoma scelta del legislatore nazionale. Tale distinzione non ha una portata meramente descrittiva, bensì sostanziale. Come noto, infatti, le norme relative alla prima tipologia di disposizioni sono, linea di massima, indisponibili tanto al legislatore quanto all’interprete, se non in maniera conforme all’obiettivo imposto dalla Direttiva, mentre, le altre, oltre ad essere modificabili, ove opportuno, dal legislatore[16], sono anche suscettibili di un’interpretazione volta, se necessario, a ricondurre ad unità il sistema. 
A tal riguardo, alla luce di quanto premesso, si può constatare il dato generale per cui la scelta di prevedere una disciplina delle classi incidente in via diretta sul piano della distribuzione nel concordato in continuità, rilevante anche ai fini dell’accesso alla procedura, non pare riconducibile alla necessità di dare attuazione alla Direttiva. Più nello specifico, ai fini del presente lavoro, non è sicuramente di derivazione euro-unitaria la norma di cui all’art. 85, comma 1, CCII, che stabilisce il possibile ricorso alle classi come tecnica di distribuzione sul piano “orizzontale”. Quest’ultima norma, che, come si è visto, costituisce nient’altro che una conferma nel Codice di una tradizionale previsione dell’ordinamento italiano, non gode pertanto della particolare protezione che caratterizza le norme attuative delle Direttive dell’Unione Europea[17]. Quanto alla dimensione “verticale”, invece, si osserva che l’art. 84, comma 6, CCII, laddove enuncia la RPR contemplandovi le classi come presupposto applicativo, contiene una norma la cui introduzione è stata, quanto meno, propiziata dalla necessità di dare attuazione alla Direttiva Insolvency. Invero, è noto che, nell’ambito della Direttiva, la RPR è prevista dall’art. 11, par. 1, lett. c), come condizione da accertare ai fini della ristrutturazione trasversale del piano non approvato dall’unanimità delle classi. Tuttavia, è altrettanto noto che tale ultima disposizione, attenendo ad una fase successiva, oltre che meramente eventuale, alla votazione, è stata propriamente attuata dal legislatore italiano mediante l’art. 112, comma 2, lett. b), CCII, ossia nell’ambito della disposizione che disciplina il giudizio di omologazione del concordato preventivo. A fronte di questa evidenza, sarebbe pertanto sbagliato ritenere aprioristicamente che l’art. 84, comma 6, CCII sia norma che sia stata, non solo propiziata, ma anche imposta dalla Direttiva Insolvency, con tutto ciò che ne consegue quanto alla sua natura. Si conviene pertanto di rinviare il giudizio su tale disposizione al prosieguo dell’analisi, rilevando sin da ora solo come lo stesso sia idoneo a restringere o ad ampliare notevolmente la discrezionalità del proponente (e dell’interprete) nell’utilizzo delle classi su entrambi i piani della distribuzione.
1.1 . Segue. Le classi come tecnica di distribuzione “efficiente”: l’opportunità di un’interpretazione “orientata alle conseguenze” come metodo
Oltre a quanto detto in ordine alla ratio e all’origine delle disposizioni in tema di classi nel concordato in continuità, in premessa alla presente indagine e ai fini della sua impostazione, è utile osservare come tale istituto abbia la vocazione ad improntare la distribuzione concordataria ad un principio di efficienza paretiana[18]. 
Tale caratteristica si può chiaramente riscontrare sia sul piano orizzontale che su quello verticale della distribuzione concordataria. Sul piano orizzontale, infatti, l’art. 85, comma 1, CCII abilita il proponente a differenziare i termini dell’adempimento del credito rispetto a creditori che, in mancanza dell’esercizio di tale facoltà, dovrebbero ricevere il medesimo trattamento ai sensi dell’art. 2741 c.c. (cfr. infra sub § 2). Sotto questo punto di vista, pertanto, la tecnica delle classi consente di distribuire ad alcuni creditori qualcosa in più rispetto a ciò che essi otterrebbero ove fossero trattati allo stesso modo degli altri creditori del loro rango. Quanto al piano “verticale”, invece, è evidente come l’introduzione della RPR abiliti il proponente a realizzare una distribuzione del valore eccedente quello di liquidazione in cui alcuni creditori ottengono di più, in termini di soddisfacimento, rispetto a ciò che essi otterrebbero dall’applicazione su tale valore della APR (cfr. infra sub § 3). 
A tali caratteristiche della distribuzione attuata secondo la tecnica delle classi bisogna aggiungere quella, fondamentale ai fini della valutazione della sua efficienza[19], per cui tale risultato è realizzabile dal proponente senza che sia arrecato un pregiudizio, né in senso orizzontale, né in senso verticale, al diritto dei creditori al soddisfacimento delle loro pretesa. Infatti, l’evoluzione del quadro giuridico giustifica ormai ampiamente l’affermazione secondo cui il diritto dei creditori nel concordato non è riconducibile né ad un generico interesse degli stessi ad essere trattati alla pari degli altri creditori del medesimo rango (sul piano orizzontale), né a quello a che il valore eccedente quello di liquidazione sia a loro distribuito almeno in una misura sufficiente a soddisfare il valore nominale del loro credito prima che esso possa essere distribuito a creditori di rango inferiore (sul piano verticale). Al contrario, come da tempo rilevato dalla dottrina più attenta[20] e oggi espressamente previsto dall’art. 84, comma 1, CCII, il diritto di credito identifica una pretesa all’ottenimento di un valore “fisso” calcolabile alla stregua del parametro della c.d. assenza di pregiudizio, il quale, a tal fine, riferisce tale pretesa al grado di soddisfacimento che ciascun creditore concordatario conseguirebbe nello scenario della liquidazione giudiziale. 
Nella prospettiva in esame, quindi, può semplicemente affermarsi che, fintanto che il livello di soddisfacimento minimo prescritto dall’art. 84, comma 1, CCII sia assicurato ad ogni creditore, una distribuzione che attribuisca ad alcuni creditori un determinato ammontare di risorse è da valutarsi come più efficiente rispetto ad una distribuzione che, ceteris paribus, attribuirebbe ai medesimi creditori un ammontare di risorse inferiore[21]. 
Tanto premesso, è evidente come la possibilità di conseguire una distribuzione in tal senso “efficiente”[22] possa consentire il soddisfacimento di stakeholders, creditori o meno, che, ove venissero applicate le regole ordinarie che governano la distribuzione concordataria – ossia, la regola della parità di trattamento, sul piano orizzontale, e la APR, sul piano verticale – non otterrebbero alcunché ovvero otterrebbero qualcosa in meno. 
Si tratta di un rilievo dal forte impatto applicativo, sia nell’ottica di chi valuti tale risultato in funzione delle sue conseguenze operative sulla modalità della ristrutturazione[23], sia nell’ottica di chi lo valuti in funzione della possibilità di destinare parte delle risorse derivanti dalla ristrutturazione al soddisfacimento di c.d. interessi “altri” rispetto a quelli dei creditori (ivi compresi i soci[24], ma sino ad includere gli stakeholders più spesso associati ad una logica di c.d. “sostenibilità” sociale, quali, ad esempio, i lavoratori[25]). 
È peraltro indubitabile che la misura del livello di efficienza della distribuzione accresca nel caso in cui le classi siano impiegate contestualmente, spiegando tutto il loro potenziale di flessibilità sia sul piano verticale che su quello orizzontale della distribuzione, consentendo a quanti più stakeholders possibile di beneficiare dei risultati della ristrutturazione. Se si condivide tale osservazione, allora, si può con ragione ritenere che tale modalità d’impiego delle classi costituisca, in ogni caso, una caratteristica virtuosa del nuovo sistema, meritevole di essere valorizzata e preservata fin dove è possibile nell’ambito dell’esegesi del dato normativo, assecondando, a tal fine, una logica interpretativa “orientata alla conseguenze”[26].
2 . Le classi come tecnica di distribuzione sul piano “orizzontale”: alcune inevitabili considerazioni “di vertice” sul rapporto tra classi e par condicio creditorum
Si è già visto che, sul piano orizzontale, le classi costituiscono una tecnica atta a consentire l’attribuzione di trattamenti differenziati tra creditori appartenenti allo stesso rango dell’ordine delle cause legittime di prelazione, secondo il disposto dell’art. 85, comma 1, CCII 
A tal riguardo, è utile ricordare che le ragioni di opportunità sottese a tale facoltà del proponente sono da sempre state associate alla possibilità di favorire, conformando il trattamento previsto nella proposta agli specifici interessi economici di ciascuna classe[27], la flessibilità del piano e la sua capacità di adattamento alle caratteristiche dell’indebitamento ed alle specifiche esigenze di composizione della crisi[28], anche in un’ottica di incentivazione dei creditori all’approvazione della proposta. In considerazione di ciò, in una prospettiva applicativa, è quindi d’interesse stabilire fino a che punto il dato positivo abiliti il proponente ad incidere sulla regola di parità orizzontale tra i creditori a tal fine. Nell’ambito di tale verifica, pare opportuno limitare l’attenzione alle disposizioni del Codice che, in maniera innovativa rispetto alla legge fallimentare, incidono sulla facoltà del proponente di determinare discrezionalmente il grado o il tipo di soddisfacimento da riservare ai creditori. Al di là di tali disposizioni di cui si darà conto, infatti, la nuova disciplina si pone in sostanziale continuità con quella previgente, per cui non sembra utile in questa sede soffermarcisi oltremodo (si pensi, ad esempio, all’art. 84, comma 5, CCII, che ripropone la disciplina già prevista dall’art. 160, comma 2, L. fall. ai fini della determinazione del trattamento dei creditori privilegiati, con tutto il carico di problemi a cui tale questione dà spesso luogo[29], salva la specificazione in chiusura della disposizione, sicuramente utile oltre che rilevante sul piano applicativo, che stabilisce il trattamento concordatario dei crediti prelatizi per la parte non coperta dalla prelazione[30]) 
Peraltro, ove si volesse operare un’analisi delle classi in rapporto alla regola della par condicio che avesse almeno la parvenza della completezza, occorrerebbero sforzi ben ulteriori. Sarebbe, cioè, necessario soffermarsi preliminarmente su alcune non trascurabili questioni di “vertice” su cui la stessa si regge, le quali esorbitano indubbiamente i limiti, oltre che le capacità, del presente scritto. 
In primo luogo, in particolare, dovrebbe darsi conto del fatto che la distribuzione concordataria si fonda sulla regola generale della par condicio e, pertanto, sull’art. 2741 c.c. Tale affermazione, peraltro, sembrerebbe a sua volta presuppore una preliminare, magari implicita, presa di posizione sulla discussa[31] questione in ordine all’inquadramento o meno del concordato tra le procedure attuative della responsabilità patrimoniale del debitore, di cui l’art. 2741 c.c. costituisce, come noto, uno dei due “pilastri” insieme al principio dell’universalità della responsabilità di cui all’art. 2740 c.c.[32] 
In secondo luogo, e come conseguenza, bisognerebbe altresì considerare la necessità, rilevata da autorevole dottrina[33], di fornire una “giustificazione costituzionale” delle classi come fattispecie in deroga alla par condicio creditorum di cui all’art. 2741 c.c., non potendo ignorare il (per vero, assai controverso[34] e ormai superato[35]) presupposto teorico secondo cui qualsiasi deroga alla regola della parità di trattamento richiede il confronto con il parametro costituzionale di cui all’art. 3 Cost. e le condizioni enucleate dalla giurisprudenza costituzionale ai fini della sua applicazione. 
Si tratta, come è evidente, di questioni “ingombranti” che, nondimeno, per la ragioni di seguito esposte, si ritiene non rilevino eccessivamente nella prospettiva applicativa qui perseguita. 
Quanto alla prima questione, infatti, non pare che sia necessario transitare da una preliminare presa di posizione sulla questione della riconducibilità o meno del concordato ai mezzi attuativi della responsabilità patrimoniale del debitore per constatare che l’art. 2741 c.c. è la regola che presiede generalmente alla distribuzione concordataria. A tal fine, infatti, per quanto possa apparire banale, pare sufficiente l’osservazione per cui la regola che abilita il proponente ad operare trattamenti differenziati tra creditori costituisce essa stessa indice dell’esistenza di una regola che, all’opposto, impone generalmente di trattare i creditori egualmente tra di loro. Che, poi, tra tale generica regola di parità di trattamento, ricavabile a contrario dall’art. 85, comma 1, CCII, e la par condicio creditorum ex art. 2741 c.c. sussista un rapporto di univocità agli occhi del legislatore è evidente se si considera che, ove il legislatore ha inteso disapplicare i principi costitutivi della responsabilità patrimoniale del debitore (tra cui, pertanto, l’art. 2741 c.c.) nell’ambito della procedura concordataria, lo ha fatto espressamente, secondo il noto principio ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit[36]. Il riferimento, a tal riguardo, è alla disciplina del concordato liquidatorio di cui all’art. 84, comma 4, CCII, la quale, come noto, contiene una deroga espressa agli artt. 2740 e 2741 c.c. con riguardo alla distribuzione delle risorse esterne che devono essere previste dalla proposta ai fini ivi indicati. Si tratta di una deroga significativa in una prospettiva ermeneutica, in quanto essa è prevista dalla medesima disposizione che regola e definisce il concordato in generale, ivi compreso il concordato in continuità. Per cui, per quanto il legislatore del Codice sia stato spesso e a ragione criticato in punto di tecnica legislativa, l’esigenza di preservare una coerenza logica almeno interna alla lettera dell’art. 84 CCII impone di ritenere che gli artt. 2740 e 2741 c.c. siano le norme che presiedono in via generale alla distribuzione concordataria, salvo, appunto, nel caso del concordato liquidatorio ivi previsto[37]. 
Ciò posto, per quel che può rilevare in questa sede, si ritiene che l’affermazione della generale applicabilità degli artt. 2740 e 2741 c.c. al concordato si ponga, in ogni caso, in termini di indifferenza rispetto alla questione della riconducibilità di tale strumento alle procedure attuative della responsabilità patrimoniale del debitore. Sembra corretto, infatti, ritenere che i riferimenti, seppur indiretti, a tali norme nell’ambito della disciplina della distribuzione concordataria non siano idonei ad espletare un effetto normativo, bensì un effetto meramente descrittivo, e che, pertanto, tale questione sia da risolvere sulla base di un metodo di ragionamento diverso (si potrebbe dire, tipologico): avendo, cioè, riguardo, a tal fine, alle caratteristiche e alla funzione della procedura concordataria in rapporto alla ratio dell’istituto della responsabilità patrimoniale[38]. Se si accoglie questa prospettiva, allora, tale questione “di vertice” si muove su un binario del tutto parallelo a quello delle classi, nel senso che la sua risoluzione occorre solo a giustificare l’esistenza di eventuali deroghe implicite agli artt. 2740 e 2741 c.c. ulteriori a quella già prevista in via espressa dall’art. 85 CCII, ai soli fini di tale norma, rispetto all’art. 2741 c.c. 
Quanto alla giustificazione costituzionale delle classi, invece, sembra davvero sufficiente rilevare come quest’ultima costituisca una questione dal forte fascino teorico che, tuttavia, a fronte di vent’anni di incessante applicazione dell’istituto nella realtà delle procedure concordatarie, si può ragionevolmente ritenere sia stata risolta in via di fatto. In altri termini, ritenere che l’art. 85, comma 1, CCII sia norma costituzionalmente legittima risponde, anzitutto, ad un principio di sano “realismo giuridico”, prima ancora che ad una dimostrazione teorica, che, in ogni caso, è stata già efficacemente prospettata in passato in dottrina in termini che trovano sicuro riscontro anche nel nuovo dato normativo[39].
2.1 . L’attribuzione di trattamenti “quantitativamente” differenziati: il rilievo del parametro della c.d. assenza di pregiudizio nell’utilizzo delle classi. La questione dell’ammissibilità delle c.d. classi a costo zero
Tanto (doverosamente) premesso ai fini dell’inquadramento del rapporto tra classi e par condicio, ai fini della delimitazione della portata della facoltà di cui all’art. 85, comma 1, CCII, è utile dare conto del significato attribuito dal legislatore al lemma “trattamenti differenziati”. 
A tal riguardo, già nella vigenza della legge fallimentare, era opinione comune quella per cui, in forza di tale formulazione, la differenziazione del trattamento potesse inerire tanto alla misura del soddisfacimento, ossia al suo aspetto quantitativo (i.e. il quantum), quanto alle modalità dello stesso, ossia al suo aspetto qualitativo (i.e. il quomodo)[40]. Rispetto ad entrambi tali profili, il Codice reca delle significative precisazioni laddove afferma, in particolare[41], all’art. 84, comma 3, che, nel concordato in continuità “la proposta di concordato prevede per ciascun creditore un’utilità specificamente individuata ed economicamente valutabile, che può consistere anche nella prosecuzione o rinnovazione di rapporti contrattuali con il suo avente causa”. 
La prima specificazione ricavabile da tale norma attiene, in particolare, alla misurazione del grado di soddisfacimento del credito, ossia al quantum del trattamento. A ben vedere, infatti, la necessità di assicurare a ciascun creditore un’utilità economicamente valutabile si traduce, di fatto, nell’impossibilità di poter prevedere, in relazione ad una specifica classe di creditori, un soddisfacimento irrisorio (ossia, appunto, non economicamente valutabile)[42] o addirittura pari a zero[43]. A tal riguardo, va evidenziato come il divieto di escludere del tutto dal soddisfacimento uno o più creditori concordatari, mediante la costituzione di c.d. classi a costo zero, non paia superabile nemmeno ove un tale trattamento corrisponda a quello che tali creditori riceverebbero nell’ambito della liquidazione giudiziale, ossia qualora tale trattamento sia conforme al parametro dell’assenza di pregiudizio di cui all’art. 84, comma 1, CCII Invero, pare ancora attuale l’insegnamento della giurisprudenza di legittimità secondo cui il riconoscimento di una minimale (anche simbolica) forma di soddisfacimento di ogni creditore costituisce un presupposto inerente direttamente alla causa concreta del concordato preventivo in continuità aziendale, consistente nel superamento della situazione di crisi dell’imprenditore, da un lato, e nell’assicurazione di un soddisfacimento dei creditori, da un altro[44]. Se si condivide la perdurante attualità di tale insegnamento, allora, pare corretto ritenere che la norma in esame funga proprio da limite esterno ad una rigorosa applicazione del parametro dell’assenza di pregiudizio nei confronti di quelle categorie di creditori (i.e. i chirografari, oltre, ovviamente, ai postergati) che nella liquidazione giudiziale non otterrebbero niente e, rispetto alle quali la previsione di un trattamento concordatario pari a zero sarebbe astrattamente “giusta” nella prospettiva aritmetico-finanziaria di tale parametro. 
Tuttavia, il rapporto tra le due norme potrebbe anche interpretarsi al fine di sostenere soluzioni antitetiche a quest’ultima. In particolare, potrebbe ritenersi che l’art. 84, comma 3, CCII stabilisca di riservare a ciascun creditore un’utilità economicamente valutabile, sul presupposto, enunciato, significativamente, al comma 1 della medesima disposizione, che i creditori debbano essere destinatari di qualcosa solo se ciò è demandato dall’applicazione del parametro dell’assenza di pregiudizio. Ancora, in una prospettiva diversa, potrebbe sostenersi che ciò che rileva ai fini dell’art. 84, comma 3, CCII sia il carattere della “determinatezza” e, di conseguenza, della “valutabilità” del trattamento; talché, nei confronti dei creditori suscettibili di un trattamento pari a zero ai sensi dell’art. 84, comma 1, CCII, esso imporrebbe al proponente solo di esplicitare in maniera inequivocabile la sua intenzione di conformarsi al parametro dell’assenza di pregiudizio, cosicché essi possano orientare il loro voto di conseguenza[45]. 
Si tratterebbe di una soluzione dal carattere provocatorio, che, nondimeno, si reggerebbe su una possibile interpretazione letterale dell’art. 84 CCII che, ove condivisa, implicherebbe un sostanziale superamento della concezione “satisfattiva” della causa del concordato, affermatasi prima dell’immissione nella disciplina del parametro dell’assenza di pregiudizio, in favore della concezione “finanziaria” del trattamento dei creditori concordatari insita in tale parametro. 
A fronte di tale possibilità – qui paventata a mo’ di prova di resistenza della prima tesi – si osserva come, in ogni caso, un’interpretazione che avalli una tale applicazione “indiscriminata” del parametro dell’assenza di pregiudizio sia insostenibile in un’ottica di sistema. A tal fine, pare decisiva l’osservazione per cui, se si ammettesse la possibilità di prevedere c.d. classi a costo zero nel concordato, l’“appiattimento” della misura del soddisfacimento dei relativi creditori a quello che essi riceverebbero nella liquidazione giudiziale darebbe luogo, a seguito dell’omologazione, ad una sostanziale esdebitazione del debitore nei confronti di tali creditori (assumendo, come è normale, che essi non abbiano in tal caso prestato il loro consenso all’approvazione della proposta)[46]. In tale eventualità, pertanto, i creditori appartenenti alle c.d. classi a costo zero sarebbero trattati esattamente come se si trovassero nella liquidazione giudiziale, ma ciò senza che l’esdebitazione ad essi imposta, in assenza di una controprestazione satisfattiva, sia subordinata al rispetto delle condizioni temporali e oggettive previste in tale procedura dagli artt. 279 e 280 CCII[47]. In definitiva, l’omologazione del concordato che prevedesse c.d. classi a costo zero determinerebbe una disparità di trattamento tra i creditori concordatari appartenenti a tali classi, da un lato, e i creditori destinatari del medesimo trattamento nella liquidazione giudiziale, dall’altro, riscontrabile nel fatto che solo i secondi  possono beneficiare della tutela accordata dalla disciplina della esdebitazione. Come è evidente, una disciplina che consenta il verificarsi di una tale situazione, comportante un trattamento diversificato tra soggetti versanti in condizioni oggettivamente identiche, sarebbe con ogni probabilità da valutarsi come incostituzionale in relazione al parametro dell’art. 3 cost., in quanto non sorretta da alcuna apparente ragionevolezza. Se si condivide tale rilievo, allora, in un’ottica conservativa dell’attuale sistema, deve a fortiori concludersi nel senso dell’inammissibilità di c.d. classi a costo zero e, di conseguenza, dell’impossibilità per il proponente di dilatare la differenziazione del trattamento tra classi sino a tal punto. 
2.1.1 . Segue. La (sostanziale) impraticabilità di trattamenti differenziati tra classi in assenza di un valore eccedente quello di liquidazione
Soffermandosi ancora per un momento sul significato del parametro dell’assenza di pregiudizio ex art. 84, comma 1, CCII in rapporto alla facoltà di attribuzione di trattamenti differenziati ex art. 85, comma 1, CCII, è possibile ricavare un’altra caratteristica della norma che rileva sul piano applicativo, oltre che, come si vedrà, su quello teorico. A tal fine, si deve partire dalla considerazione per cui, come noto, alla previsione di cui all’art. 84, comma 1, CCII fa da pendant quella di cui all’art. 87, comma 1, lett. c), CCII, che impone al debitore di indicare nel piano il c.d. “valore di liquidazione”, definito come “il valore di liquidazione del patrimonio, alla data della domanda di concordato, in ipotesi di liquidazione giudiziale”. In questo senso, quindi, come è stato osservato, la previa indicazione di tale valore nel piano è finalizzata a stabilire ex ante il grado di soddisfacimento da destinare inderogabilmente a ciascun creditore sulla base del parametro dell’assenza di pregiudizio[48]. 
Nella prospettiva dell’art. 85, comma 1, CCII, tale rilievo giustifica, pertanto, l’affermazione secondo cui non è possibile praticare trattamenti differenziati tra classi se il piano non è ex ante progettato per incrementare il valore di liquidazione indicato alla data di presentazione del piano. Infatti, come si è visto, il parametro dell’assenza di pregiudizio è atto a definire una pretesa “fissa”, come tale, indisponibile alla discrezionalità del proponente, per cui egli non potrebbe differenziare quantitativamente il trattamento sul valore di liquidazione senza incorrere nella violazione di tale parametro; ciò, deve precisarsi, sul presupposto – che può darsi per scontato – che tale valore sia ampiamente inferiore alla somma dei valori nominali dei crediti concordatari (circostanza che, invece, sul piano teorico, consentirebbe al proponente di differenziare i trattamenti anche se il valore della ristrutturazione coincidesse con il valore di liquidazione). Al di là di tale ipotesi astratta, o, comunque, rara, quindi, l’obbligo per il proponente di rispettare il parametro dell’assenza di pregiudizio implica che la differenziazione del trattamento può di fatto intervenire solo sulla quota del valore di ristrutturazione destinabile ai creditori in eccesso al valore di liquidazione. 
Tale peculiarità riscontrabile nell’applicazione della norma è, d’altro canto, coerente con la concezione, sottesa alla disciplina del Codice, del concordato come di uno strumento tipologicamente volto al soddisfacimento dei creditori e improntato a produrre una provvista utilizzabile a tal fine superiore a quella che si avrebbe all’esito della liquidazione giudiziale. Se è vero che questa concezione, in tal senso “produttivistica”, del concordato è espressamente sancita dalle norme solo rispetto al concordato liquidatorio[49], è altresì vero che una caratteristica analoga è osservabile, in una prospettiva sostanziale, anche rispetto al concordato in continuità. Infatti, anche nell’ambito di tale strumento, la produzione o, comunque, l’apporto di risorse ad incremento dell’attivo disponibile al momento della presentazione della domanda, pur non essendo (più)[50] prevista come condizione di legge ai fini dell’accesso alla procedura, rappresenta una previsione in mancanza della quale è sensato ritenere che il debitore non punterebbe sullo stesso le chances del proprio risanamento, sul presupposto che lo strumento sia effettivamente impiegato ai fini della regolazione di una situazione di crisi[51]. Ciò posto, anche se – per ipotesi, come pure è possibile – il proponente sia ammesso alla procedura con un piano il valore della cui provvista sia prospettato come coincidente con il valore di liquidazione, egli non potrebbe in via di fatto avvalersi dell’art. 85, comma 1, CCII al fine di differenziare il grado di soddisfacimento dei creditori: ciò proprio perché, nel momento in cui incrementasse il grado di soddisfacimento di una classe rispetto a quello risultante dall’applicazione del parametro dell’assenza di pregiudizio, ciò avverrebbe sempre a costo di un minore trattamento offerto ai creditori di un’altra classe pari-ordinata in violazione di tale stesso parametro. 
Se si condivide, quanto meno in una prospettiva sostanziale, tale caratteristica applicativa intrinseca alla previsione dei trattamenti differenziati, allora, è utile sin da ora osservare come il dato normativo sottenda la distinzione tra valore di liquidazione e valore eccedente quello di liquidazione, prevista espressamente ai fini dell’applicazione della RPR dall’art. 84, comma 6, CCII, anche ai fini dell’applicazione della regola di cui all’art. 85, comma 1, CCII 
Come anticipato, tale elemento di similarità riscontrabile nell’operazione di “messa a terra” di tali norme non ha una valenza meramente descrittiva, bensì sostanziale, anche ai fini speculativi della presente analisi. Infatti, come si avrà modo di vedere, da tale rilievo discende quello per cui la quota di patrimonio funzionale all’applicazione dell’art. 85, comma 1, CCII è, nei fatti, coincidente con la quota di patrimonio funzionale all’applicazione dell’art. 84, comma 6, CCII nella parte in cui prevede, in apparente e, nel caso, clamorosa contraddizione con la prima disposizione, che, ai fini dell’applicazione della RPR, “i creditori inseriti in una classe [debbano ricevere] complessivamente un trattamento almeno pari a quello delle classi dello stesso grado”. Se tale contraddizione sussista effettivamente, e se, in tal caso, possa essere risolta in modo conforme alla logica di efficienza del sistema osservata supra sub § 1.1., è valutazione che consegue necessariamente alla comprensione della ratio e dell’ambito di applicazione della RPR ex art. 84, comma 6, CCII, a cui sono dedicati i parr. 3 e 4.
2.2 . L’attribuzione di trattamenti “qualitativamente” differenziati (cenni)
Prima di concentrarsi, ai fini menzionati, sul ruolo delle classi nell’ambito della RPR, pare utile, in quanto funzionale anche alla comprensione della lettera dell’art. 84, comma 6, CCII, dare sinteticamente conto dell’anticipata idoneità dell’art. 85, comma 1, CCII a consentire una differenziazione anche “qualitativa” del trattamento. Ai fini di questo lavoro, tali brevi considerazioni sono sufficienti, infatti, per constatare, sulla base delle norme, la consapevolezza che il legislatore ha dimostrato di avere in ordine alla distinzione tra quantum e quomodo (ivi incluso il quando) del soddisfacimento del credito. Come detto, si tratta di un appunto utile ai fini dell’interpretazione dell’art. 84, comma 6, CCII, in particolare, nella parte in cui stabilisce che, ai fini della RPR, “i creditori inseriti in una classe [debbano ricevere] complessivamente un trattamento almeno pari a quello delle classi dello stesso grado”. Alla luce della rilevanza di tale distinzione riscontrabile nel Codice, infatti, un’interpretazione letterale del dato normativo imporrebbe di ritenere che tale disposizione, in virtù dell’uso dell’aggettivo “pari”, abbia riguardo al solo aspetto “quantitativo” del trattamento, ammettendo, per contro, la possibilità che, ai fini della RPR, le classi di pari grado possano ricevere un trattamento differenziato rispetto al quomodo o al quando dell’adempimento. 
In questa prospettiva funzionale all’indagine, è a tal fine sufficiente considerare, ad esempio, gli artt. 84, comma 3 e 86 CCII 
A tal riguardo, infatti, l’art. 84, comma 3, CCII rileva, oltre che, come si è visto supra sub § 2.1., sul piano del quantum del soddisfacimento, anche su quello del quomodo laddove riconosce espressamente la possibilità che l’utilità da attribuire ai creditori possa consistere anche “nella prosecuzione o rinnovazione di rapporti contrattuali con il debitore o con il suo avente causa”. Anche quest’ultima previsione, in realtà, non costituisce una vera e propria novità, quanto la conferma in via normativa di quanto sia la dottrina che giurisprudenza avevano già sostenuto nella vigenza della legge fallimentare, con riferimento all’art. 161, comma 2, lett. e), L. fall.[52]. Si tratta, invero, di una regola che muove dall’evidenza empirica che, per talune categorie di creditori (tipicamente, i fornitori), la prosecuzione del rapporto contrattuale con l’impresa debitrice assume un valore preminente e più strategico rispetto a quello della mera soddisfazione monetaria del credito concordatario[53]; circostanza che, proprio attraverso il ricorso combinato da parte del proponente agli artt. 85, comma 1, e 84, comma 3, CCII, può oggi trovare sicuro riconoscimento nella proposta. 
Desta senz’altro più interesse, invece, la considerazione della possibilità per il proponente di incidere sul trattamento delle classi intervenendo sul quando del soddisfacimento del credito. Come noto, tale facoltà è esercitabile, rispetto alle classi di creditori chirografari (e, a fortiori, di creditori postergati), senza limiti espliciti, e, rispetto a quelle dei creditori privilegiati, in conformità all’art. 86 CCII Tale disposizione, infatti, reca la disciplina della c.d. moratoria per il pagamento dei crediti privilegiati in generale, oltre che, nello specifico, dei crediti assistiti dal privilegio previsto dall’art. 2751-bis c.c., ossia dei crediti giuslavoristici. Rispetto ai primi, è ora espressamente prevista la possibilità di stabilire nel piano una moratoria del pagamento entro un termine la cui indicazione è rimessa alla piena discrezionalità del debitore, non stabilendo la norma un termine massimo a pena di inammissibilità della domanda[54]. Sotto questo punto di vista, pertanto, l’art. 86 CCII supera i dubbi che si erano posti nella vigenza dell’art. 186 bis, comma 2, lett. c), L. fall., il quale limitava la durata della moratoria per tali creditori “sino ad un anno dall’omologazione”, salvo che fosse prevista la liquidazione dei beni o diritti sui quali sussiste la causa di prelazione, con la previsione ulteriore per cui, “in tal caso”, tali creditori non avessero diritto di voto. Quest’ultima disposizione, infatti, aveva dato adito ad opposte interpretazioni in ordine all’ammissibilità di una moratoria ultrannuale, solo in parte pacificate dalla giurisprudenza di legittimità[55] nel senso della sua ammissibilità e del riconoscimento, in tal caso, del diritto di voto. Nell’ambito del Codice, alla medesima soluzione è possibile risalire, questa volta senza ombra di equivoco, in ragione di un’interpretazione coordinata delle norme contenute agli artt. 86 e 109 CCII necessitata dalla clausola di riserva contenuta nella prima disposizione in favore della seconda. Invero, l’art. 109 CCII, che è la disposizione che disciplina il voto nel concordato, al comma 5, riservato al concordato in continuità, esclude il diritto di voto dei creditori privilegiati rispetto ai quali sia previsto un soddisfacimento in denaro entro centottanta giorni dall’omologazione e “purché la garanzia reale che assiste il credito ipotecario o pignoratizio resti ferma fino alla liquidazione, funzionale al loro pagamento, dei beni e diritti sui quali sussiste la causa di prelazione”. Dacché, se ne desume che, a tali condizioni, l’adempimento si considera esatto e che, in ogni caso, la previsione di una moratoria (ossia, quindi, di un termine per il pagamento integrale superiore ai centottanta giorni) si traduce nel solo riconoscimento del diritto di voto ai relativi creditori, per la parte del credito “capiente” [56], e, per la parte “incapiente”, nell’inserimento di tali crediti in una classe distinta, anch’essa ammessa al voto. 
Il discorso cambia in riferimento ai creditori assistiti dal privilegio di cui all’art. 2751 bis, n. 1, c.c. Rispetto ad essi, infatti, l’art. 86 CCII, assecondando una ratio di maggior favor per il trattamento dei crediti giuslavoristici, indica un termine massimo della moratoria non superabile dal proponente, pena l’inammissibilità alla procedura, pari a sei mesi dall’omologazione, con l’ulteriore previsione, derivante dall’accordo con l’art. 109, comma 5, CCII, che riconosce a tali creditori il diritto di voto nel caso la moratoria sia superiore a trenta giorni dall’omologazione. 
Ai fini dell’applicazione della disciplina in esame, mette conto, da ultimo, sottolineare la rilevanza dell’affermazione della distinzione giuridica tra la nozione di “moratoria” e quella di “dilazione” affermata da parte della dottrina[57] e riconosciuta, già nella vigenza della legge fallimentare, dalla giurisprudenza di legittimità[58]. Sulla base di tale distinzione, infatti, solo la “moratoria” identifica la sospensione e il differimento dell’adempimento delle obbligazioni pecuniarie assunte con il concordato ad una data successiva a quella dell’omologazione, mentre la “dilazione” identifica semplicemente una proroga del termine di scadenza dell’obbligazione ovvero una distribuzione nel tempo dell’adempimento rispetto all’omologazione. Tale distinzione, sottesa alla disciplina degli artt. 86 e 109 CCII, si traduce, infatti, sul piano applicativo, nella possibilità per il proponente di prevedere contestualmente nella proposta una moratoria e una dilazione in riferimento al medesimo credito, privilegiato o meno, dilatando ulteriormente, sotto questo specifico punto di vista, la portata dell’art. 85, comma 1, CCII[59] (si pensi, ad esempio, alla previsione di una moratoria dell’obbligazione nascente dall’omologazione ad una data al cui raggiungimento non segua il pagamento integrale, ma dei pagamenti rateizzati con una dilazione del termine ultimo di adempimento). 
3 . Le classi come tecnica di distribuzione sul piano “verticale”: l’affermazione della RPR ex art. 84, comma 6, CCII come alterazione dell’ordine delle cause legittime di prelazione e l’inconferenza delle classi a tal fine
L’analisi condotta finora rispetto alla funzione distributiva delle classi sul piano “orizzontale”, per quanto stimolata dalla lettura del nuovo dato normativo, non muove dalla considerazione di alcuna sua caratteristica o finalità inedita rispetto a quelle che si ravvisavano nella legge fallimentare. Come anticipato, invece, una vera e propria novità impattante sulla tassonomia delle funzioni delle classi è costituita dalla facoltà riconosciuta al proponente di incidere anche sul piano “verticale” della distribuzione mediante la RPR. 
Al fine di indagare la funzione assolta dalle classi nel contesto della RPR, è necessario definire la sua portata applicativa alla luce dell’art. 84, comma 6, CCII In quest’ottica, è noto che l’inquadramento dogmatico di tale regola, negli innumerevoli interventi che se ne sono occupati[60], è spesso preceduto dalla considerazione del dibattito che, già nella vigenza della legge fallimentare, si interrogava sull’ammissibilità della RPR quale possibile variante interpretativa della lettera dell’art. 160, comma 2, L. fall., nella parte in cui stabilisce che, in ogni caso, “il trattamento stabilito per ciascuna classe non può avere l’effetto di alterare l’ordine delle cause legittime di prelazione”[61]. In tale contesto, in particolare, la RPR rappresentava la versione “debole” della regola dell’ordine delle cause di prelazione posta dall’art. 160, comma 2, L. fall, in contrapposizione alla versione “forte” rappresentata dall’APR, a mente della quale, come ampiamento noto, non è ammessa la soddisfazione del creditore di grado successivo qualora non sia stato integralmente soddisfatto quello di grado precedente[62]. 
Alla luce di tale rilievo, è facile avvedersi dell’influenza che tale prolungato dibattito ha avuto sulla gestazione delle disposizioni in tema di distribuzione nel concordato in continuità e che si riflette, appunto, nella concezione del rapporto tra RPR e APR osservabile nel Codice a seguito delle modifiche apportatevi dal D.Lgs. n. 83/2022. 
In particolare, che nel Codice la RPR sia intesa come un’espressa deroga alla APR e che, di converso, tale ultima regola costituisca il paradigma della distribuzione “verticale” conforme all’ordine delle cause legittime di prelazione è circostanza confermata da una serie di indici normativi. In primo luogo, dall’art. 84, comma 6, CCII, che, significativamente, non enuncia la APR nei suesposti termini, ma la presuppone, all’evidenza, come condizione indefettibile ai fini del “rispetto della graduazione delle cause legittime di prelazione” nell’ambito della distribuzione del valore di liquidazione. In secondo luogo, dall’art. 85, comma 4, CCII, che, mediante la clausola di riserva “fermo quanto previsto dall’articolo 84, commi 5, 6 e 7”, presuppone che qualsiasi deviazione dall’APR in sede di distribuzione costituisca un’“alterazione dell’ordine delle cause legittime di prelazione”. 
In questa prospettiva, pertanto, i comma 5, 6 e 7 dell’art. 84 CCII delineano le condizioni nel rispetto delle quali il proponente è abilitato ad alterare l’ordine delle cause legittime di prelazione, senza incorrere nella violazione dell’art. 85, comma 4, CCII In tale quadro, quindi, l’art. 84, comma 6, per quel che rileva in questa sede, stabilisce che la distribuzione concordataria possa operare in deroga alla APR, alterando, nel senso appeno visto, l’ordine delle cause legittime di prelazione, al ricorrere di tre precisate condizioni: (i) in primo luogo, la condizione secondo cui la deroga può trovare luogo solo con riferimento al “valore eccedente quello di liquidazione”; (ii) in secondo luogo, la condizione per cui, ai fini della distribuzione di tale valore, i crediti inseriti in una classe devono ricevere “complessivamente un trattamento almeno pari a quello delle classi dello stesso grado”; (iii) da ultimo, quella per cui tale medesimo trattamento deve essere “più favorevole rispetto a quello delle classi di grado inferiore”. 
Tanto premesso, la considerazione congiunta di tali condizioni, anche in relazione ai termini del dibattito a cui si è assistiti nella vigenza della legge fallimentare, è di per sé sufficiente per accorgersi dell’inconferenza del riferimento alle classi ai fini dell’applicazione della RPR sul piano della distribuzione. Più in particolare, assecondando, per un momento, una lettura “laica” del dato positivo, non è dato comprendere perché il legislatore abbia scelto di riferirsi al trattamento riservato alle classi ai fini della definizione e dell’operatività della RPR, quando, ai fini del rispetto di ciascuna delle tre condizioni menzionate, sarebbe stato sufficiente riferirsi genericamente al “grado dei creditori”. Tale rilievo comporta la necessità di recuperare il significato del riferimento alle (e, con esso, la funzione delle) classi nell’ambito della RPR al di fuori della lettera dell’art. 84, comma 6°, CCII, se non si vuole ridurlo ad un mero pleonasmo figlio di un’errata tecnica legislativa. 
A tal riguardo, è noto come il legislatore sia stato indotto all’inclusione del riferimento alle classi in seno all’art. 84, comma 6, CCII, dalla formulazione della RPR “europea” contenuta all’art. 11, par. 1, lett. c) della Direttiva. Tuttavia, come si osserverà nel seguente paragrafo, il tentativo di riflettere la formulazione di tale regola della Direttiva nel contesto di tale disposizione del Codice, di là della sua dubbia utilità, restituisce agli occhi dell’interprete e degli operatori un’immagine “deforme” della medesima, idonea, se presa alla lettera, a produrre effetti distorti rispetto a quelli voluti dalla regola europea.
4 . Sulla possibilità di attribuire trattamenti differenziati contestualmente all’applicazione della RPR: il significato della c.d. regola di non discriminazione e il suo problematico coordinamento con l’art. 85, comma 1, CCII
Alla preoccupazione di attribuire un significato normativo al riferimento alle classi in seno all’art. 84, comma 6, CCII, si aggiunge anche quella di risolvere, come anticipato, un’apparente, ma vistosa, contraddizione che sembrerebbe emergere nel dato normativo dalla considerazione dell’eventuale contestuale ricorso alle classi da parte del proponente come tecnica distributiva sia sul piano verticale che su quello orizzontale. 
Al fine di comprendere la portata di tale contraddizione, è necessario dare preliminarmente conto del significato delle condizioni sub (i) e (ii), in precedenza menzionate, costitutive della RPR. In questa prospettiva, quanto alla condizione sub (i), la lettura della norma più accredita in dottrina, qui condivisa, è quella per cui il “valore eccedente quello di liquidazione”, a cui è limitata l’eventuale applicazione della RPR, è rappresentato dalla differenza tra l’importo complessivo del valore messo a disposizione dei creditori nel piano di concordato ed il valore di liquidazione, quest’ultimo come determinato dal proponente nel piano ai sensi dell’art. 87, comma 1, lett. c), CCII (il c.d. surplus concordatario)[63]. Quanto alla condizione sub (ii), ossia la c.d. regola di non discriminazione tra classi di pari rango, invece, la dottrina che si è occupata di indagare il fondamento dell’analoga regola prevista, sempre ai fini della RPR, dall’art. 11, par. 1, lett. c) della Direttiva Insolvency, ha spiegato come essa debba essere accertata avendo riguardo alla sola distribuzione del surplus concordatario, non, invece, alla distribuzione complessiva (comprensiva, pertanto, anche del valore di liquidazione) [64]. 
In ultima analisi, le due condizioni, per come formulate all’art. 84, comma 6, CCII, secondo gli orientamenti preferibili, concorrono a stabilire la regola per cui, ai fini dell’applicazione della RPR, il surplus concordatario deve essere distribuito in conformità ad una regola di parità di trattamento tra classi di pari rango. 
Ciò rende di per sé evidente come l’applicazione della RPR al surplus concordatario possa interferire, sul piano della distribuzione, con quella dell’art. 85, comma 1, CCII L’applicazione di quest’ultima regola, infatti, allo stesso modo della regola di non discriminazione ex art. 84, comma 6, CCII, ha riguardo alla dimensione orizzontale della distribuzione e, come si è visto supra sub § 2.1.1. è di fatto anch’essa limitata al solo valore eccedente quello di liquidazione. Come è facile ora osservare, quindi, la ricaduta pratica derivante dalla necessità di assicurare il rispetto della regola di non discriminazione nell’ambito della distribuzione del surplus concordatario secondo la RPR si risolve in un sostanziale svuotamento della previsione che facoltizza il proponente ad operare trattamenti differenziati tra creditori di pari rango. Ciò in quanto la condizione secondo cui, ai fini della RPR, è “sufficiente che i crediti inseriti in una classe ricevano complessivamente un trattamento almeno pari a quello delle classi dello stesso grado”, poiché sarebbe da accertare rispetto al trattamento attribuito a ciascuna delle classi di creditori dello stesso grado, si traduce, di fatto, in una regola di parità di trattamento tra tali classi. Altrimenti detto – al fine di chiarire definitivamente la conseguenza applicativa di tale rilievo – la distribuzione del surplus concordatario sul piano verticale, coinvolgendo “a cascata” classi di creditori di diverso rango, sembra conseguire l’effetto di ripristinare, attraverso la regola della non discriminazione, appunto, il principio della parità di trattamento che la suddivisione dei creditori in classi consente, al contrario, di derogare tramite l’art. 85, comma 1, CCII 
Se è vero che tale “cortocircuito” applicativo si determinerebbe solo nell’eventualità in cui il proponente sia intenzionato ad avvalersi di entrambe le facoltà – per cui, assecondando tale lettura, delle due l’una: o il proponente decide di distribuire il surplus concordatario nei termini della RPR, precludendosi la possibilità di operare trattamenti differenziati, oppure decide avvalersi di tale ultima facoltà, precludendosi il ricorso alla RPR – allo stesso tempo, come si è visto supra sub § 1.1., sarebbe veramente disfunzionale alla logica di efficienza del sistema, nonché al successo del ristrutturazioni concordatarie in generale, precludere al proponente la possibilità di ricorrere ad entrambe le stesse nell’ambito della stessa proposta. 
Il problema, che emerge chiaramente, come si è detto, dalla considerazione del significato dell’art. 84, comma 6, CCII in rapporto a quello dell’art. 85, comma 1, CCII, è finora stato ignorato dalla dottrina, che, forse troppo conscia dell’origine e della ratio della RPR nel Codice, non sembra averlo assunto come presupposto ineludibile, in quanto derivante da un’interpretazione letterale del dato normativo, di un’analisi volta, se possibile, a risolverlo. Da ciò, l’opportunità di verificare se esista una diversa interpretazione del dato positivo che, muovendo dalla constatazione di tale problema applicativo, consenta e, nel caso, in che misura, il ricorso alle classi come tecnica di attuazione di una distribuzione “flessibile” sia sul piano verticale che su quello orizzontale nell’ambito della stessa proposta.
4.1 . Prove di coordinamento alla luce della Direttiva Insolvency: criticità applicative e teoriche della soluzione che riconduce la ratio della RPR ex art. 84, comma 6 CCII a quella della RPR ex art. 112, comma 2, lett. b), CCII
Ai fini di quanto detto in conclusione del precedente paragrafo, l’analisi non può prescindere dalla preliminare considerazione, sostenuta dalla dottrina più accreditata, per cui l’introduzione dell’art. 84, comma 6, CCII ha costituito una modalità di recepimento dell’art. 11 della Direttiva Insolvency[65]. Tale norma, come in parte anticipato e comunque noto, delinea le condizioni ai fini dell’applicazione della c.d. ristrutturazione trasversale dei debiti, ossia, il procedimento di verifica che il tribunale è tenuto a seguire ai fini dell’omologazione di un piano di ristrutturazione che non sia stato approvato dall’unanimità delle classi, secondo quanto previsto dall’art. 9, par. 6, della Direttiva. Rispetto a tale procedimento, è in questa sede sufficiente rilevare che l’art. 11, par. 1, lett. c) della Direttiva enuncia la RPR quale specifica condizione che il tribunale è tenuto ad accertare, inter alia, ai fini dell’omologazione del piano[66]. 
A tal riguardo, si osserva che, proprio in quanto tale procedimento attiene a una fase successiva alla votazione, la RPR non è enunciata dalla Direttiva in termini “assoluti”, ossia quale regola la cui verifica di conformità debba essere operata con riferimento al trattamento attribuito ad ogni classe di creditori, ma in termini “relativi”, ossia richiedendo di avere esclusivo riguardo, ai fini di tale verifica, al trattamento attribuito alle classi di creditori dissenzienti. Si tratta, in altri termini, di una regola comparativa i cui termini di confronto non sono predeterminabili prima della votazione dei creditori, in quanto eventuali – ossia, dipendenti dalla mancata approvazione unanime delle classi – e variabili – ossia, dipendenti dall’identificazione delle classi dissenzienti e, di conseguenza, dal rango di appartenenza di tali classi. Nell’ottica della Direttiva, in definitiva, la RPR e, con essa, la verifica del rispetto delle condizioni che la presuppongono, tra cui la regola della non discriminazione, attiene inequivocabilmente solo a una fase eventuale del giudizio di omologazione. 
A fronte di tale evidenza, si riscontra che il legislatore italiano se, da un lato, ha recepito l’art. 11 della Direttiva nell’ambito della disciplina del giudizio di omologazione di cui all’art. 112 CCII[67], replicandone l’impostazione appena vista, dall’altro lato, ha riprodotto la RPR anche in seno all’art. 84 CCII, il quale si occupa di definire le finalità e le tipologie del concordato. Tuttavia, a ben vedere, nell’ambito dell’art. 84, comma 6, CCII, la RPR sembra assumere il significato di condizione tipologica della distribuzione del surplus concordatario, come può evincersi dal fatto che essa è enunciata in termini “assoluti”, non in quelli “relativi” impiegati dall’art. 11 della Direttiva e, quindi, dell’art. 112, comma 2, lett. b), CCII 
Al di là della sua formulazione, in ogni caso, l’introduzione della RPR nella sedes materiae dell’art. 84 CCII, e non solo nell’art. 112 CCII, non è di per sé astrattamente priva di conseguenze, se si considera che l’accertamento delle condizioni tipologiche del contenuto del concordato, sia esso liquidatorio o in continuità aziendale, costituisce oggetto del controllo del tribunale già in fase di ammissione. Con riferimento al concordato in continuità, come ricordato, l’oggetto di tale controllo è previsto dall’art. 47 comma 1, lett. b), CCII, ed ha riguardo, inter alia, alla “ritualità della proposta”, la quale, pur non essendo estesa al merito del contenuto della proposta ricomprende sicuramente la verifica della regolarità formale e sostanziale del contenuto del piano[68]. In questa prospettiva, quindi, l’inclusione della RPR nell’ambito dell’art. 84 CCII sembra comportare che la verifica in ordine al rispetto dei suoi presupposti vada effettuata dal tribunale già in sede di ammissione alla procedura. 
Alla luce di tale sintetica ricognizione, quindi, ne discende che, ove il proponente applichi trattamenti differenziati ex art. 85, comma 1, CCII, prevedendo al contempo la distribuzione del surplus concordatario in deroga alla APR, a stretto rigore, la domanda non potrebbe che essere rigettata in limine dal tribunale ex art. 47, comma 1, lett. b), CCII per violazione di una delle condizioni di operatività della RPR, ossia, nello specifico, la regola della non discriminazione ex art. 84, comma 6. CCII 
Se si condivide tale ricostruzione, si può allora agevolmente avanzare una prima proposta interpretativa che consenta l’applicazione congiunta della RPR con l’attribuzione di trattamenti differenziati ex art. 85, comma 1, CCII Si tratta, in particolare, di riconoscere la pertinenza della verifica di conformità della distribuzione concordataria alla RPR al solo giudizio di omologazione del piano non approvato dall’unanimità delle classi, in conformità a quanto previsto dalla Direttiva. Accogliendo questa soluzione, non per caso già autorevolmente sostenuta[69], infatti, il concordato potrebbe essere omologato anche nel caso in cui l’applicazione della RPR sul surplus concordatario comporti che talune classi che siano state trattate diversamente rispetto ad altre classi di pari rango, purché tutte le classi, ivi comprese quelle in questo senso “svantaggiate”, abbiano votato in favore della proposta. In altri termini, la verifica in ordine al rispetto della regola di non discriminazione demandata dalla RPR sarebbe da operare solo nel caso di mancata approvazione ad unanimità delle classi e, anche in tale (non remota) eventualità, dovrebbe operare, non in termini assoluti, ma in termini relativi, ossia avendo esclusivo riguardo al trattamento riservato alle classi dissenzienti, come previsto dall’art. 112, comma 2, lett. b), CCII sulla scorta dell’art. 11, par. 1, lett. c) della Direttiva. 
Tale interpretazione, oltre ad essere utile a riassegnare alla RPR il ruolo demandatogli dall’art. 11, par. 1, lett. c) della Direttiva, avrebbe anche il merito di valorizzare ed incentivare in maniera virtuosa la discrezionalità del proponente nell’articolazione della proposta, rimettendo del tutto al “mercato” (del credito, quanto meno[70]) il giudizio sulla meritevolezza della stessa. Invero, in tal caso, nulla osterebbe a che il proponente articolasse una proposta che prevedesse, contestualmente, una distribuzione in deroga alla APR e l’attribuzione di trattamenti differenziati tra creditori di pari rango ove ciò rappresentasse una soluzione tanto più favorevole per tutte le classi rispetto a qualsiasi altra alternativa da meritare l’approvazione all’unanimità. Inoltre, per quel che rileva ai fini di questo lavoro, tale ricostruzione offrirebbe anche una ratio, seppur debole, al riferimento espresso alle “classi”, e non al “grado”, dei creditori nell’ambito della lettera dell’art. 84, comma 6, c.c.: infatti, proprio in quanto la RPR atterrebbe solo ad una fase eventuale dell’omologazione ed opererebbe solo relativamente al trattamento attribuito alle classi dissenzienti, si comprenderebbe la scelta del legislatore di inserire, anche all’art. 84, comma 6°, CCII, il riferimento al trattamento di ciascuna “classe” e non, genericamente, al rango dei creditori. 
Tuttavia, come è facilmente comprensibile soprattutto agli occhi di un operatore, tale ultime osservazioni rivelano anche tutti i limiti della ricostruzione appena proposta. Invero, se essa ha il merito di ricondurre, in un’ottica apparentemente teleologica, la disciplina del Codice sui “binari” della Direttiva, allo stesso tempo, essa dà subito luogo ad una serie di ostacoli tali da renderne sostanzialmente inutile la proposizione. 
I primi ostacoli sono di ordine eminentemente “pratico”, ma non per questo meno rilevanti. In particolare, si osserva che subordinare la compatibilità della RPR con l’attribuzione di trattamenti differenziati all’eventuale approvazione unanime delle classi – e, in ogni caso, di quelle svantaggiate dall’esercizio di quest’ultima facoltà – costituisce una soluzione che, per diverse ragioni, mina all’origine la razionalità del ricorso al concordato per chi intenda effettivamente avvalersi di tali facoltà su entrambi i piani della distribuzione. 
In primo luogo, in quanto nessun proponente si arrischierebbe a presentare una domanda di concordato che non sia originariamente e astrattamente idonea a superare il procedimento di ristrutturazione trasversale, salvo circostanze eccezionali per cui gli possa nutrire l’aspettativa all’ottenimento di un consenso unanime delle classi; le quali, in ogni caso, indurrebbero a domandarsi perché egli scelga di optare per lo strumento concordatario quando, liberandosi di ulteriori vincoli, potrebbe optare per il PRO o, comunque, per una soluzione propriamente negoziale alla propria crisi. 
In secondo luogo, in quanto proprio la condizione dell’approvazione unanime delle classi a tal fine costituirebbe, a prescindere dall’abilità del proponente a strutturare una proposta che soddisfi gli interessi economici di tutte le classi, un ineliminabile e ulteriore incentivo per alcune classi a votare “contro”, in una logica opportunista, affossando il tentativo di ristrutturazione. Se è vero che il rischio di una condotta opportunistica dei creditori costituisce un fattore ineliminabile anche del PRO (e, in generale, di tutti gli strumenti “negoziali”), tuttavia, si osserva che le ricadute pratiche derivanti dalla concretizzazione di tale rischio differiscono e di molto tra tale strumento e il concordato in continuità. Nel PRO, infatti, la conseguenza del voto contrario di una classe non pregiudica il tentativo di ristrutturazione dell’impresa, in quanto il proponente è comunque sempre ammesso a modificare la domanda formulando una proposta di concordato ai sensi dell’art. 64-quater CCII Diversamente, il medesimo rischio, se calato nel contesto del concordato in continuità, può tradursi nel diniego dell’omologazione del piano e nella conseguente apertura della liquidazione giudiziale ove il voto contrario provenga da una classe rispetto alla quale non sarebbe accertato il rispetto delle condizioni di cui all’art. 112, comma 2, lett. b), CCII, compromettendo, pertanto, il procedimento di ristrutturazione (salva la sua prosecuzione, ma secondo logiche completamente diverse, come noto, nella liquidazione giudiziale). In sostanza, quindi, per come è stato concepito il sistema, è il PRO lo strumento deputato ai tentativi di ristrutturazione basati su criteri di distribuzione asimmetrici – e, pertanto, sul necessario consenso unanime delle classi – il cui insuccesso, in ogni caso, non pregiudica in maniera definitiva l’obiettivo della viability dell’impresa. Nella medesima prospettiva, invece, sarebbe incoerente con la logica del sistema stabilita dal legislatore – e con la stessa previsione di uno strumento come il PRO alternativo al concordato in continuità – ammettere la stessa identica possibilità nell’ambito del concordato in continuità. Tale circostanza, di contro, giustifica ed evidenzia la razionalità, nella logica di tale sistema, della previsione nel concordato di un controllo ex ante sulle regole di distribuzione (ivi compresa la RPR sul surplus concordatario) a presidio dell’astratta omologabilità del piano[71]. 
Da ultimo – e in stretta connessione con il punto precedente – la soluzione che “riduce” la RPR ex art. 84, comma 6, CCII alla RPR ex art. 112, comma 2, lett. b), CCII non convince in quanto imporre al tribunale di non vagliare il formale rispetto della RPR nella proposta in sede di ammissione costituisce una soluzione sconveniente in termini di “economia processuale” ed eventualmente dannosa per il sistema complessivamente considerato. Invero, essa imporrebbe l’ammissione alla procedura di domande di concordato l’omologazione del cui piano si baserebbe su nient’altro che la “scommessa”, sia del proponente che del tribunale, dell’approvazione unanime delle classi[72]. Il che, anche volendo assecondare una logica di massima fiducia nel “mercato”, e, cioè, nelle capacità del proponente in sede di articolazione della proposta e nella razionalità dei creditori in sede di votazione, sembra francamente troppo, considerato che, come si è visto, in questo caso, il rischio del “fallimento” della scommessa è il fallimento (recte la liquidazione giudiziale) dell’impresa. Ciò è vero, a maggior ragione, proprio alla luce della previsione da parte del legislatore di un distinto strumento – il PRO, appunto – con cui il proponente, sulla base delle medesime premesse, potrebbe conseguire un risultato analogo e, anzi, più vantaggioso, in quanto rimesso in tutto e per tutto al paradigma dell’autonomia (cfr. supra sub § 1). 
A tali inconvenienti pratici, si aggiunge la considerazione, di stampo ermeneutico, per cui la soluzione volta a tracciare un collegamento tra la ratio della RPR ex art. 84, comma 6, CCII e quella della RPR prevista dall’art. 11, par. 1, lett. c) della Direttiva, e, quindi, all’art. 112, comma 2, lett. b), CCII, appare alquanto arbitraria per almeno due ragioni. 
In primo luogo, in quanto la stessa, più che offrire un’interpretazione teleologicamente orientata dell’art. 84, comma 6, CCII, si risolve in una sostanziale abrogazione per via interpretativa di tale norma, laddove, di fatto, ritiene che essa debba essere ignorata al fine di fare applicazione del solo art. 112, comma 2, lett. b), CCII Una tale abrogazione implicita è, all’evidenza, inammissibile. Invero, a tal fine, in mancanza di un intervento legislativo, sarebbe necessario, innanzitutto, ammettere la contrarietà dell’art. 84, comma 6, CCII all’art. 11, par. 1, lett. c) della Direttiva Insolvency e, successivamente, come conseguenza, sollevare questione di legittimità costituzionale in via incidentale per contrarietà dell’art. 84, comma 6, CCII agli artt. 11 e 117, comma 1, cost., salva la possibile disapplicazione diretta della norma da parte del giudice in fase di ammissione per contrarietà della medesima alla Direttiva. 
In secondo luogo, in quanto non è stata dimostrata, anche ai fini del rilievo precedente, la contrarietà dell’art. 84, comma 6, CCII all’art. 11, par. 1, lett. c) della Direttiva Insolvency. Infatti, anche se, in generale, si può condividere il rilievo per cui l’introduzione, nonché la formulazione, della RPR nell’ordinamento concorsuale è stata indubbiamente propiziata dalla necessità di implementare la Direttiva Insolvency, nello specifico, non altrettanto condivisibile è l’assunto per cui la ratio della disposizione del Codice debba essere forzatamente ricondotta alla ratio di quella della Direttiva. Invero, la circostanza che la Direttiva preveda la RPR a determinati fini non implica che gli Stati Membri non abbiano conservato la legittimazione ad utilizzare la RPR nei rispettivi ordinamenti anche a fini diversi, purché, ben inteso, quest’ultimi non contrastino con quelli della Direttiva. In questa prospettiva, potrebbe allora ritenersi che il legislatore italiano abbia inteso attuare l’art. 11, par. 1, lett. c) della Direttiva mediante l’art. 112, comma 2, lett. b), CCII, e che l’introduzione della RPR all’art. 84, comma 6, CCII costituisca una scelta autonoma votata ad altri fini dell’ordinamento concorsuale. 
Un tale esegesi dell’origine e della natura della norma, peraltro, non pare arbitraria come quella che, tracciando un collegamento diretto tra l’art. 84, comma 6, CCII e l’art. 11 della Direttiva, mira a considerare la prima disposizione tamquam non esset al fine di giustificare l’applicazione del solo art. 112, comma 2, lett. b), CCII Ciò in quanto, in una prospettiva storica-evolutiva, non è difficile immaginare e sostenere che il legislatore abbia colto l’opportunità dell’implementazione della Direttiva al fine di prendere posizione rispetto al dibattito che si era sviluppato intorno all’interpretazione della regola di cui all’art. 160, comma 2, L. fall. (cfr. supra sub § 3), disciplinando autonomamente, nell’esercizio della propria sovranità, le regole di distribuzione del concordato in continuità a cui avere riguardo ai fini della valutazione in ordine al rispetto dell’ordine delle cause legittime di prelazione. 
Pertanto, si ritiene che non sia inutile analizzare la norma e il ruolo delle classi nella medesima anche in questa prospettiva, nel tentativo di recuperare la piena funzionalità dell’istituto con una soluzione coerente con la logica del sistema e volta a salvaguardarne la razionalità.
4.2 . Segue. Prove di coordinamento interne alla disciplina della distribuzione concordataria alla luce dell’affermazione della RPR ex art. 84, comma 6, CCII come condizione di ammissibilità alla procedura
Nella prospettiva poc’anzi proposta, si osserva, innanzitutto, che la legittimità dell’art. 84, comma 6, CCII, intesa come disposizione che introduce una condizione di ammissibilità del concordato in continuità, non pare possa essere revocata in dubbio dal solo fatto che essa contempla una funzione della RPR diversa e ulteriore rispetto a quella prevista dalla Direttiva. Invero, ove il legislatore europeo avesse inteso affermare il proprio monopolio sulla RPR, limitando la discrezionalità degli Stati Membri nell’utilizzo della medesima quale condizione della distribuzione del piano, pare ragionevole ritenere che lo avrebbe fatto intervenendo all’art. 8 della Direttiva, che contiene le condizioni indefettibili del contenuto del piano di ristrutturazione. A tal riguardo, tuttavia, tale disposizione stabilisce una serie di requisiti “minimi” che, oltre a non escluderne l’introduzione di ulteriori da parte degli Stati Membri, nulla hanno a che vedere con i criteri della distribuzione. Infatti, come osservato all’inizio della presente disamina, la Direttiva incide sulla c.d. questione distributiva, al più, in via indiretta, prevedendo determinate condizioni di trattamento rilevanti, non ai fini dell’ammissione, ma ai soli fini della omologazione del piano a seguito dell’approvazione dello stesso (cfr. in particolare, l’art. 10, par. 2) ovvero, come pure si è visto, della ristrutturazione trasversale a seguito della mancata approvazione unanime delle classi). Ne risulta, in conclusione, che l’inserimento della RPR nell’art. 84, comma 6, CCII quale condizione tipologica della distribuzione concordataria – e, quindi, di ammissibilità alla procedura – costituisce un’autonoma scelta del legislatore italiano che non si pone in contrasto formale con la Direttiva. 
A negazione di tale conclusione, non sembra nemmeno persuasiva l’obiezione per cui, inserendo la RPR come condizione tipologica della distribuzione del surplus concordatario ed intervenendo, quindi, in senso restrittivo nella fase di selezione dei piani “ammissibili”, il legislatore italiano avrebbe, di fatto, circoscritto il novero delle tipologie di piano astrattamente “omologabili” nell’ottica della Direttiva, contravvenendone, nella sostanza, gli obiettivi. 
In primo luogo, infatti, se è vero che la Direttiva non contiene alcuna concezione dei criteri distributivi come condizioni del contenuto del piano da valutarsi ai fini dell’accesso allo strumento[73], è altrettanto vero che l’introduzione di un controllo in fase di ammissione anticipatorio di quello che il tribunale dovrà, eventualmente, svolgere in fase di omologazione risponde ad una logica di “economia processuale”. Si tratta, quindi, di una scelta che, in quanto volta a selezionare “a monte” i piani che hanno probabilità di essere omologati “a valle” della votazione, non si pone in contrasto con la concezione di favor per l’omologazione insita nella Direttiva, ma, anzi, a presidio della stessa e di un’effettiva tutela delle c.d. parti interessate. Quindi, anche in questo senso, l’introduzione della RPR come condizione di ammissibilità valutabile dal tribunale ai fini dell’accesso alla procedura costituisce una legittima modalità di attuazione della Direttiva da parte del legislatore italiano che si pone, come si è visto, in armonia con il sistema[74]. 
In secondo luogo, tale obiezione è confutata, ancora una volta, dall’osservazione per cui il legislatore italiano ha, in ogni caso, recepito la logica della Direttiva mediante l’introduzione del PRO, il quale, come altrove ricordato, costituisce precisamente uno strumento della regolazione della crisi che, mediante l’approvazione all’unanimità delle classi, consente sempre e comunque la distribuzione in deroga agli artt. 2740 e 2741 c.c. Pertanto, non può affermarsi che il legislatore, mediante l’introduzione di tale strumento in aggiunta a quello del concordato in continuità, non abbia conseguito gli obiettivi imposti dalla Direttiva[75]. 
A conclusione della disamina sulla ratio della previsione dell’art. 84, comma 6, CCII, sembra allora che la questione della dubbia compatibilità tra una distribuzione conforme alle condizioni della RPR e l’attribuzione di trattamenti differenziati tra classi ex art. 85, comma 1, CCII, possa e, anzi, debba essere risolta, in prima battuta, sulla base della sola lettera di tale disposizione. 
Tale conclusione, se condivisa, non è di poco momento in una prospettiva ermeneutica. Invero, alla luce della disamina svolta, la stessa implica la possibilità di operare, ove applicabile, un’interpretazione dell’art. 84, comma 6, CCII “orientata alle conseguenze” e finanche, se necessario, correttiva della lettera di tale disposizione, la quale, al contrario, è in linea di massima preclusa rispetto alle disposizioni propriamente attuative della Direttiva, come ad esempio, l’art. 112, comma 2, CCII 
Ciò detto, al fine di preservare una contestuale applicazione di tali facoltà, si potrebbe, innanzitutto, valorizzare la lettera dell’art. 84, comma 6, CCII nella parte in cui prevede che, ai fini dell’accertamento della regola di non discriminazione, è sufficiente che i crediti inseriti in una classe ricevano complessivamente un trattamento “almeno pari” a quello delle classi dello stesso grado. La circostanza che tale regola si regga sul presupposto di una condizione di “parità”, e non di assoluta “identità”, del trattamento consente infatti, come anticipato, di avanzare l’ipotesi per cui, ai fini della verifica sul rispetto della RPR, sia sufficiente avere riguardo all’aspetto del quantum del soddisfacimento del credito (ossia, la percentuale di soddisfacimento). Resterebbero sottratti a tale verifica, invece, le disparità di trattamento “qualitative”, ossia quelle riguardanti aspetti diversi dal grado di soddisfacimento del credito, ma che pure incidono sul suo trattamento nel senso visto supra sub § 2.2. In ultima analisi, il creditore potrebbe differenziare il trattamento tra classi dello stesso grado solo per quanto inerisce a tali aspetti, dovendo assicurare ad ognuna di esse, invece, la medesima percentuale di soddisfacimento del credito. 
Si tratta di una prima soluzione che, tuttavia, non consente ancora di dilatare in modo sostanziale la facoltà di attribuzione di trattamenti differenziati, specialmente, avendo riguardo alla posizione dei creditori chirografari. È rispetto a questi ultimi, infatti, che la differenziazione di un trattamento, anche e soprattutto in termini quantitativi, assume rilievo nella prospettiva della continuità aziendale. Ciò in quanto, come noto, è proprio la possibilità di differenziare i termini della falcidia dei creditori chirografari (ivi compresi i privilegiati “degradati” al chirografo) che costituisce il maggiore elemento di flessibilità nella disponibilità del proponente in fase di articolazione della proposta. Per quanto riguarda i creditori privilegiati, invece, la rinuncia all’attribuzione di trattamenti differenziati sul piano della percentuale di soddisfacimento non comporta costi eccessivamente onerosi in termini di flessibilità, se si considera che i margini di flessibilità ai fini della falcidia nei loro confronti sono comunque già circoscritti da altre disposizioni del Codice[76]. Ne discende che, allo scopo di salvaguardare l’effettiva ratio dell’art. 85, comma 1°, CCII, sarebbe utile, se possibile, leggere il dato normativo nel senso che la regola della non discriminazione implicata nella RPR debba essere valutata solo con riferimento al trattamento attribuito ai creditori privilegiati (nella sua accezione “quantitativa” poc’anzi vista, se condivisa, che consentirebbe comunque di ricorrere nei loro confronti alle facoltà ex artt. 84, comma 3, e 86 CCII[77]), mentre, rispetto alle classi creditori chirografari, sarebbe possibile differenziare “indiscriminatamente” il trattamento (ossia, intervenendo liberamente sul quantum, oltre che sul quomodo e il quando dello stesso). 
Se si condividesse l’opportunità di accedere ad una tale interpretazione delle norme, conforme all’impostazione di metodo proposta[78], si potrebbe allora valorizzare il lemma “grado”, presente nella formulazione della regola della non discriminazione, come indice normativo idoneo a riferire la regola di non discriminazione ai soli creditori privilegiati. Tale soluzione si reggerebbe sul presupposto, forse debole, che i creditori chirografari, non sono, contrariamente ai privilegiati, dotati di un “grado”. Tuttavia, per quanto apparentemente arbitraria, tale soluzione conserva una sua coerenza interna, quanto meno, alla disciplina del concordato preventivo, se si considera che ogniqualvolta il legislatore parla di “graduazione dei crediti”, lo fa all’esclusivo fine di riferirsi alla “graduazione delle cause legittime di prelazione”. Non sembra, pertanto, così impossibile sostenere che solamente i creditori privilegiati, in quanto titolari di una causa legittima di prelazione, siano assegnatari di un “grado” riferibile all’ordine dei privilegi. 
A sostegno di tale soluzione, deliberatamente volta a salvaguardare fino alla massima misura possibilità la facoltà di differenziare il trattamento delle classi dei chirografari (nonché dei chirografari postergati, e, aggiungasi, dei soci, in seguito tutti indicati come “creditori non privilegiati”), sembra muoversi, peraltro, anche la prima giurisprudenza di merito che ha avuto l’opportunità di pronunciarsi, in sede di omologazione, sulla disciplina del concordato in continuità post D.Lgs. n. 83/2022[79]. A tal riguardo, infatti, è già di per sé significativo rilevare che tali decisioni si sono pronunciate in favore dell’omologazione del concordato in continuità nonostante la proposta, nei casi di specie, comportasse l’uso delle classi quale tecnica di differenziazione del trattamento contestualmente all’applicazione della RPR sul surplus concordatario: il che presuppone, ovviamente, che, in ciascuno di tali casi, la domanda sia stata ritenuta “ritualmente” presentata ai fini dell’ammissione alla procedura e che, ai fini di tale valutazione, la regola di non discriminazione prevista dall’art. 84, comma 6, CCII non sia stata applicata, in quanto ritenuta applicabile solo ed eventualmente ai fini della ristrutturazione trasversale. Si tratta di un orientamento che, per quanto forse non ancora decisivo al fine di saggiare la reazione della giurisprudenza di merito rispetto al problema in esame, costituisce, se non altro, indice dell’esigenza percepita dagli operatori di salvaguardare tale facoltà del proponente e che, pertanto, avvalora ulteriormente l’opportunità di accedere all’interpretazione della norma proposta.
4.3 . Criticità de jure condito e de jure condendo della doppia previsione della RPR agli artt. 84, comma 6 e 112, comma 2, lett. b), CCII e una proposta applicativa “intermedia” a salvaguardia dell’efficienza della distribuzione e della razionalità del sistema
Teoricamente, la soluzione che ammette la applicazione della RPR sul surplus concordatario contestuale all’attribuzione di trattamenti differenziati tra classi pari-ordinate di creditori non privilegiati in sede di distribuzione si pone in termini di indifferenza rispetto alla funzione espletata dalla RPR nell’ambito del giudizio di omologazione. Si è visto, infatti, che, in tale contesto, la RPR opera come condizione ai fini della ristrutturazione trasversale avendo, a tal fine, riguardo, in termini “relativi”, al solo trattamento attribuito alle classi dissenzienti. Il sistema potrebbe pertanto tollerare (e, anzi, beneficiare di) una RPR il cui rispetto sia da accertare “a monte”, senza imporre, in quella sede, la verifica del rispetto della regola di non discriminazione, salvo poi recuperare tale verifica in sede di omologazione rispetto alle sole classi dissenzienti, come previsto dalla Direttiva. In altri termini, le due regole potrebbero teoricamente convivere ove la prima (ex art. 84, comma 6, CCII) fosse intesa come regola volta a “filtrare” (ex art. 47, comma 1, lett. b), CCII) le fattispecie distributive assoggettabili, a seguito del voto, alla seconda (ex art. 112, comma 2, lett. b), CCII), la quale espleterebbe la funzione propriamente assegnatagli dalla Direttiva Insolvency nell’ambito del meccanismo di ristrutturazione trasversale. Tuttavia, la possibilità di leggere il rapporto tra le due regole in questi termini nell’attuale quadro normativo è complicata, se non resa impossibile, dalla circostanza che la lettera dell’art. 84, comma 6, CCII, nella parte in cui formula la RPR, è la medesima dell’art. 112, comma 2, lett. b), CCII, salvo il riferimento in quest’ultima alle sole classi dissenzienti. Invero, al fine di preservare l’utilizzo delle classi su entrambi i piani della distribuzione, tale circostanza impone di verificare se, anche con riferimento a quest’ultima diposizione, possa essere riproposta l’interpretazione “orientata alle conseguenze” sostenibile per la prima. Ciò sul presupposto che, a prescindere dalla diversa ratio delle due regole, alla medesima formulazione della lettera delle relative disposizioni debba necessariamente conseguire l’identificazione della medesima fattispecie. Ove così non fosse, infatti, sostenere che le due norme abbiano riguardo, ai fini della loro applicazione, a fattispecie differenti a fronte dell’utilizzo della medesima lettera da parte del legislatore rappresenterebbe una forzatura eccessiva del dato normativo a danno della sua complessiva coerenza e, soprattutto, attendibilità. La questione attiene, in particolare, alla possibilità di riferire il lemma “grado” anche nel contesto dell’art. 112, comma 2, lett. b), CCII ai soli creditori privilegiati, posto che quello è l’unico “appiglio” normativo che, allo stato attuale, consente di giustificare la differenziazione del trattamento dei chirografari contestualmente all’applicazione della RPR senza dover accedere a soluzioni controproducenti, sia a livello pratico che teorico, per il sistema. 
Nell’ambito di tale disposizione, tuttavia, a differenza di quanto si è potuto sostenere con riferimento all’art. 84, comma 6, CCII, l’interprete non può muoversi senza fare i conti con l’art. 11, par. 1, lett. c) della Direttiva. Infatti, proprio in ragione del fatto che l’art. 112, comma 2, CCII è stato indubbiamente diretto all’attuazione della norma euro-unitaria, è necessario rifarsi, innanzitutto, al significato della regola di non discriminazione per come intesa nella Direttiva e, solo in un secondo momento, verificare se l’attuazione di tale regola da parte del legislatore italiano sia stata effettuata in modo conforme agli obiettivi e alla ratio della stessa. Ciò tenendo al contempo in considerazione, che, trattandosi di una disposizione di una Direttiva, il legislatore nazionale è rimasto abilitato a recepirla usando un certo margine di flessibilità al fine di conformare gli obiettivi del legislatore europeo alle caratteristiche dell’ordinamento nazionale. 
Impostata la questione in questi termini, si osserva subito che l’art. 11, par. 1, lett. c) della Direttiva formula la regola di non discriminazione stabilendo che essa “assicura che le classi di voto dissenzienti di creditori interessati ricevano un trattamento almeno tanto favorevole quanto quello delle altre classi dello stesso rango e più favorevole di quello delle classi inferiori” (identica nel significato è, peraltro, la versione inglese della norma, per cui ci si può concentrare in via esclusiva sulla versione italiana sicuri della sua attendibilità). 
Come è evidente, la regola formulata dalla Direttiva è idonea a ricomprendere nel proprio ambito di applicazione una fattispecie più estesa rispetto a quella italiana sotto almeno due punti di vista. Innanzitutto, infatti, la sua applicazione non pare limitata al solo quantum del trattamento, in quanto la norma si esprime in termini di “equivalenza” del trattamento tra classi ed è pertanto astrattamente idonea ad includerne tutti gli aspetti che ne possano comportare una sua valutazione “più favorevole” rispetto ad un altro, ivi compresi, quindi, il quomodo e il quando del soddisfacimento. Pertanto, già sotto questo punto di vista, vi è da chiedersi se la scelta del legislatore italiano di limitare il raggio di azione della regola di non discriminazione alla verifica della “parità” di trattamento costituisca una legittima modalità di implementazione della Direttiva. In secondo luogo, si osserva, l’art. 11, par. 1, lett. c) della Direttiva non contiene un riferimento specifico al “grado” delle classi, ma uno generico al “rango” (rank) delle medesime; il che è normale, se si considera che il concetto di “graduazione della scala dei privilegi” – su cui si può sostenere la (davvero flebile) distinzione concettuale tra “grado” e “rango” nel nostro ordinamento ai fini visti – non è sicuramente concetto proprio di tutti gli ordinamenti europei a cui la Direttiva è rivolta. Senza dover addentrarsi in una dispendiosa analisi comparativa, in ogni caso, ai fini in esame, la questione rilevante rispetto a tale punto della norma è la seguente: accertare se una disciplina nazionale astrattamente idonea, come si è tentato di dimostrare, ad escludere i creditori chirografari dalla verifica di conformità alla regola di non discriminazione sia conforme con l’obiettivo e la ratio della regola nella Direttiva. 
Procedendo con ordine, quanto al primo punto di divergenza tra la regola europea e quella italiana rilevato, non sembra che la limitazione della portata della regola di non discriminazione al solo quantum del soddisfacimento sia incompatibile con la Direttiva. Come è stato osservato[80], infatti, potrebbe ragionevolmente sostenersi che tale regola, non esprimendosi in termini di “identità”, bensì, come detto, di “equivalenza” del trattamento delle classi, ammetta alcune deviazioni alla regola della parità di trattamento. In fin dei conti, seguendo questa impostazione, ciò che rileverebbe agli occhi del legislatore europeo ai fini del rispetto della regola è solo il fatto che una classe (dissenziente) non sia “ingiustificatamente” trattata in maniera “meno favorevole” rispetto alle classi di pari rango, secondo una valutazione, in ogni caso, soggetta al sindacato del tribunale. In questa prospettiva, allora, può ritenersi che il legislatore italiano, impiegando il concetto di “parità” del trattamento non presente nel testo della Direttiva, abbia scientemente individuato il nucleo “rigido” del concetto dell’equivalenza di trattamento, sotteso all’art. 11, par. 1, lett. c), nel quantum del medesimo, rendendolo, al contempo, l’unico assoggettabile al sindacato del tribunale e indisponibile alla discrezionalità del proponente. Sotto questo punto di vista, pertanto, la disposizione del Codice, pur divergendo dalla Direttiva, ne costituisce una legittima modalità di implementazione, idonea a conformare l’obiettivo della Direttiva all’ordinamento nazionale. 
Venendo alla cruciale questione del “grado”, invece, non sembra vi sia spazio per un’interpretazione che giustifichi l’esclusione tout court del trattamento dei creditori non privilegiati dall’ambito di applicazione dell’art. 11, par. 1, lett. c) della Direttiva. A tal fine, infatti, bisognerebbe sostenere, con argomentazione analoga a quella del punto precedente, che la scelta di escludere tali creditori dalla portata applicativa della regola costituisca una legittima modalità di attuazione della medesima nell’ordinamento italiano; magari, giustificando tale conclusione sulla base dell’opportunità del legislatore italiano di preservare la tradizionale previsione che abilita il proponente ad operare trattamenti differenziati tra classi di pari rango. Tuttavia, in questo caso, tale conclusione si porrebbe in palese frizione con la ratio della regola della Direttiva, posto che essa, pur non essendo esplicitato, ha evidentemente riguardo anche e soprattutto alla posizione dei creditori non privilegiati. Infatti, come è stato osservato, la regola è precisamente volta ad evitare l’imposizione di trattamenti discriminatori a classi di titolari di pretese che hanno contrattato ex ante la medesima posizione giuridica (o, nell’ottica opposta, che hanno omesso di contrattare ex ante una posizione giuridica privilegiata) quando il consenso a detti trattamenti non sia stato raggiunto nella classe interessata[81]. Pertanto, ai fini della Direttiva, la regola di non discriminazione deve necessariamente operare in relazione a tutte le classi che non abbiano acconsentito ad una deviazione dalla regola di parità di trattamento nei loro confronti, ivi comprese, certamente, quelle dei creditori chirografari. 
Tale rilievo rappresenta, dunque, il limite estremo oltre al quale il legislatore nazionale, così come l’interprete, non può spingersi nel tentativo di conformare la regola di non discriminazione al sistema dell’ordinamento nazionale, e che, nel caso di specie, rende inequivocabile la conclusione per cui l’art. 112, comma 2, lett. b), CCII si applica a qualsiasi classe di creditori dissenziente che lamenti la violazione della regola di non discriminazione nei suoi confronti. 
Se è così, allora, al fine di preservare una coerenza interna al sistema, come detto, non ci sarebbe “grado” che tenga e l’art. 84, comma 6, CCII andrebbe interpretato alla stessa maniera dell’art. 112, comma 2, lett. b), CCII: ritenendo, cioè, che, anche ai fini di tale norma, la regola di non discriminazione debba trovare applicazione rispetto al trattamento di tutte le classi, ivi comprese quelle chirografarie. 
Ai fini della presente disamina, pertanto, tale conclusione segnerebbe il sostanziale svuotamento della facoltà di utilizzare delle classi come tecnica di distribuzione sul piano orizzontale, posto che, per tutto quanto detto, è corretto ritenere che l’art. 84, comma 6, CCII imponga la verifica della conformità della distribuzione del surplus concordatario alla RPR – e, suo tramite, allo stato attuale, anche alla regola di non discriminazione – anche ai fini dell’ammissione alla procedura. Ritenere il contrario, ossia, che tale verifica vada operata solo in fase di omologazione, implica, infatti, come si è visto supra sub § 4.1., una sostanziale ed implicita abrogazione dell’art. 84, comma 6, CCII, che si appalesa come del tutto arbitraria, oltre che incoerente con le scelte operate dal legislatore italiano ai fini dell’attuazione della Direttiva Insolvency e, pertanto, con il sistema complessivamente considerato. In questa prospettiva, quindi, l’interprete non può spingersi fino al punto di superare, ignorandola, la scelta del legislatore di riprodurre la RPR come elemento tipologico della distribuzione del concordato in continuità nella formulazione “europea”, comprensiva della regola di non discriminazione, trasformando inopinatamente (e forse, anche, involontariamente) quest’ultima in un canone “assoluto” da applicare indistintamente a tutte le classi. 
Non è più utile, probabilmente, indugiare sulle cause che possano aver condotto il legislatore a concepire la disposizione in questi termini. Pare utile, invece, considerare quel che potrebbe farsi per preservare la piena funzionalità del ricorso alle classi sul piano della distribuzione. 
De jure condendo, salvo (continuare a) considerare l’art. 84, comma 6, CCII come una disposizione avente una funzione meramente didascalica e non propriamente precettiva[82], come si è visto, sarebbe sufficiente espungere il riferimento alla regola di non discriminazione dalla stessa al fine di liberalizzare il ricorso alle classi come tecnica di distribuzione sul piano orizzontale. In tal modo, peraltro, la RPR potrebbe continuare a svolgere la funzione tipologica assegnatale dal legislatore italiano, occorrendo, cioè, a selezionare “a monte” i piani suscettibili di omologazione “a valle” della votazione. Come si è visto supra sub § 4.1., infatti, tale caratteristica funzione della RPR nel concordato in continuità, non presente nella Direttiva, si pone in armonia con un sistema che contempla anche il PRO. 
De jure condito, invece, la compatibilità tra la funzione distributiva orizzontale delle classi e la RPR, in ragione della previsione della regola di non discriminazione all’art. 84, comma 6, CCII, può sostenersi solo al costo di “forzare” il significato della lettera di tale disposizione a tal fine, come si è tentato di fare supra sub § 4.2. In ogni caso, e soprattutto, tale soluzione si reggerebbe sulla, in tal caso, inevitabile affermazione per cui l’art. art. 84, comma 6, CCII, a differenza dell’art. 112, comma 2, lett. b), CCII, non avrebbe riguardo, ai fini della RPR, al trattamento delle classi dei creditori non privilegiati, nonostante la lettera della seconda disposizione, identica a quella della prima, non ammetta tale risultato. Si tratta di una soluzione, come detto, poco felice, che, tuttavia, si ritiene che sia opportuno assecondare fintanto che il dato positivo non ne offra di migliori a salvaguardia dell’efficienza e della razionalità del sistema. 
A tal riguardo, si è visto come la prima giurisprudenza di merito riscontrabile sul punto abbia preservato, fino al massimo limite consentito, il ricorso alle classi ex art. 85, comma 1, CCII: ritenendo, cioè – come è corretto – che la regola di non discriminazione attenga alla ristrutturazione trasversale e, pertanto, al trattamento delle sole classi dissenzienti. Tuttavia, si tratta di un riscontro ancora molto debole, sia a livello numerico che a livello teorico, posto che le poche sentenze che hanno avallato tale soluzione hanno, di fatto, evitato di prendere “di petto” la questione sulla base di un’interpretazione letterale, prima ancora che teleologica o sistematica, delle norme. In ogni caso, l’urgenza di correggere il dato normativo rimane forte se si considera che, a fronte di tali prime pronunce sulla questione, non è dato sapere quante domande di concordato siano state rigettate perché ritenute “irrituali” in relazione all’art. 84, comma 6, CCII e, soprattutto, quante domande siano state e saranno formulate dalle imprese in crisi rinunciando alla facoltà di cui all’art. 85, comma 1, CCII nella convinzione – sacrosanta, alla luce della lettera dell’art. 84, comma 6, CCII – che essa sia incompatibile con l’applicazione della RPR al surplus concordatario. 
Ribadito questo appello al legislatore, è utile, infine, osservare come la soluzione “intermedia” qui proposta, sull’abbrivo della giurisprudenza di merito, consentirebbe di preservare nella massima misura possibile la discrezionalità del proponente nell’utilizzo delle classi in fase di articolazione della proposta, senza, al contempo, precludere ai creditori (in particolare, i chirografari) la tutela che l’art. 11, par. 1, lett. c) della Direttiva impone di riconoscergli. 
Tale soluzione comporterebbe, come è evidente, un sacrificio delle ragioni dell’”economia processuale” a fronte di un maggiore affidamento alle ragioni del “mercato”, quest’ultimo rappresentato dalla maggiore discrezionalità di cui il proponente beneficerebbe nella formulazione della proposta e dalla maggiore fiducia che verrebbe riposta nella razionalità del voto dei creditori nell’ambito della valutazione della stessa. La prima conseguenza si lega all’evidenza che, accogliendo tale soluzione, i tribunali, sulla falsa riga di quanto già riscontrato in giurisprudenza, sarebbero chiamati ad ammettere domande di concordato che, in quanto contemplanti classi destinatarie di trattamenti differenziati rispetto al surplus concordatario, potrebbero non superare la ristrutturazione trasversale nel caso una di tali classi si rivelasse dissenziente alla proposta. La seconda conseguenza, invece, è insita nella flessibilità che tale soluzione preserverebbe in fase di articolazione della proposta e di cui il proponente sarebbe abilitato ad avvalersi facendo affidamento alla propria capacità di ottenere, in tal modo, il consenso delle classi trattate in maniera deteriore rispetto ad altre dello stesso grado; ciò sul presupposto che il voto dei creditori non sia in tal caso inficiato da opportunismo o, come ancora più spesso accade, lassismo[83].

Note:

[1] 
Come noto, la disciplina delle classi è stata introdotta per la prima volta nel nostro ordinamento dalla legge di conversione del D.L. 23 dicembre 2003, n. 347 (c.d. decreto Marzano), per governare la procedura di amministrazione straordinaria del gruppo Parmalat, ed è poi stata recepita, con il processo di riforma della legge fallimentare che ha avuto luogo tra il 2005 e il 2007, nell’ambito della disciplina del concordato preventivo e del concordato fallimentare. Per un’analisi in chiave storico-comparata del significato dell’originaria introduzione di tale disciplina nell’ordinamento concorsuale, si veda, per tutti, M. Sciuto, La classificazione dei creditori nel concordato preventivo (un’analisi comparatistica), in Giur. Comm., 2007, I, p. 566 ss. 
[2] 
L’inquadramento della tematica delle classi nell’ambito di una riflessione sul ruolo e sui limiti della par condicio creditorum nel concordato preventivo ha, non per caso, rappresentato il principale metodo di studio dell’istituto impiegato dalla dottrina di quegli anni. Per un fulgido esempio di tale approccio, si vedano, tra i contributi monografici, O. De Cicco, Le classi di creditori nel concordato preventivo. Appunti sulla par condicio creditorum, Napoli, 2007 e E. Migliaccio, Parità di trattamento e concorso dei creditori, Napoli, 2012, pp. 52 ss., ove trovansi ampi riferimenti bibliografici sul tema. 
[3] 
Per un simile approccio “descrittivo” che valorizza la distinzione tra ordine “orizzontale” e “verticale” della distribuzione in riferimento, rispettivamente, alle regole della par condicio e della APR, si veda, tra gli ultimi, D. Galletti, Portata e razionalità economica dell’absolute priority rule, in D. Vattermoli (a cura di), La questione distributiva nel diritto della crisi e dell’insolvenza, Pisa, 2023, p. 41 ss. 
[4] 
La mancata introduzione di un obbligo di formazione delle classi da parte del legislatore è stata oggetto di numerose critiche. Tra i primi, si veda L. Stanghellini, Le crisi di impresa fra diritto ed economia, Bologna 2007, pp. 224 ss., il quale, in particolare, stigmatizzava come, in tal modo, il legislatore italiano non avesse minimamente considerato il fatto che la suddivisione dei creditori per gruppi di interessi omogenei fosse un presupposto necessario ai fini della corretta applicazione della regola di maggioranza nell’ambito della deliberazione ai fini dell’approvazione del piano. La questione involge quella in ordine al ruolo della regola di maggioranza nelle procedure concordatarie e alle condizioni al ricorrere delle quali tale regola è atta alla manifestazione della volontà di una comunità di soggetti, su cui è imprescindibile il riferimento a R. Sacchi, Il principio di maggioranza nel concordato e nell’amministrazione controllata, Milano, 1984. 
[5] 
L’assunto, peraltro, è stato notoriamente messo in discussione da chi, sia nella dottrina che nella giurisprudenza. ha ritenuto di poter leggere nelle disposizioni della legge fallimentare un obbligo di formazione delle classi in presenza di soggetti di interessi economici disomogenei al fine di rendere sindacabile anche la mancata formazione delle stesse da parte del giudice. La questione ha dato adito ad un prolungato dibattito che è stato, in ultima analisi, risolto, nel senso della facoltatività, dalla giurisprudenza di legittimità. Cfr. Cass., 10 febbraio 2011, n. 3274, in G. comm., 2012, II, p. 276 ss., con nota di M. Fabiani, a cui si rinvia per i riferimenti giurisprudenziali e dottrinali. 
[6] 
È noto, infatti, che le classi, ove previste, potessero svolgere un’ulteriore funzione sul piano della deliberazione e dell’omologazione del concordato. Su tale diverso “piano”, in particolare, la ratio della formazione delle classi si ravvisava nell’opportunità per il proponente di usufruire, indipendentemente dalla previsione di trattamenti differenziati, della regola della c.d. doppia maggioranza, allo specifico scopo di poter beneficiare, in caso di approvazione, della disciplina del cram-down. In questo modo, infatti, il proponente poteva mirare, in sede di omologazione, a neutralizzare il dissenso di una o più classi dissenzienti, nonché il dissenso dei creditori appartenenti a una classe che avesse complessivamente votato a favore della proposta. Per un’illustrazione di questa ratio delle classi, si veda, per tutti, D. Galletti, sub art. 160, in A. Jorio (diretto da) e M. Fabiani (coordinato da), Il nuovo diritto fallimentare, Bologna, 2007, p. 2286. 
[7] 
Per l’argomento a favore dell’esistenza di due diversi tipi di concordato e dell’estraneità sistematica della disciplina del concordato liquidatorio a quella del concordato in continuità a seguito dell’entrata in vigore del Codice, cfr., G. D’Attore, Manuale di diritto della crisi e dell’insolvenza, Torino, 2022, p. 96; B. Inzitari, Le mobili frontiere della responsabilità patrimoniale: distribuzione del valore tra creditori e soci nel concordato in continuità secondo la negozialità concorsuale del codice della crisi, in Dirittodellacrisi.it, 27.02.2023, p. 20. 
[8] 
Lo stesso art. 9(3) stabilisce che “come minimo, i creditori che vantano crediti garantiti e non garantiti sono trattati in classi distinte ai fini dell’adozione del piano di ristrutturazione”. 
[9] 
Sempre all’art. 9(3), si legge, ad esempio, che “Gli Stati membri [possano] altresì prevedere che i diritti dei lavoratori siano trattati in una specifica classe distinta”, così come, al contrario, che “il debitore che è una PMI possa scegliere di non trattare le parti interessate in classi distinte”. Si veda, inoltre, il considerando 44, secondo cui, in ogni caso, gli Stati membri “dovrebbero poter esigere che siano formate più di due classi di creditori, comprendenti classi diverse di creditori non garantiti o garantiti e classi di creditori con crediti subordinati […] [nonché] poter anche trattare in classi distinte altri tipi di creditori che non hanno una sufficiente comunanza di interessi, ad esempio le autorità fiscali o di previdenza sociale […] [nonché] poter altresì contemplare norme specifiche che promuovono la formazione delle classi qualora tale formazione possa giovare ai creditori non differenziati o altrimenti particolarmente vulnerabili come i lavoratori o i piccoli fornitori.” 
[10] 
Emblematico in tal senso è, in particolare, il considerando 44 laddove afferma che “affinché i diritti che sono sostanzialmente simili ricevano pari trattamento e i piani di ristrutturazione possano essere adottati senza pregiudicare ingiustamente i diritti delle parti interessate, le parti interessate dovrebbero essere trattate in classi distinte in funzione dei criteri di formazione delle classi previsti dal diritto nazionale. […]”. 
[11] 
In questo senso, la nuova concezione delle classi recepisce l’insegnamento per cui il principio di maggioranza non può essere calato come “un mantello di piombo” (così L. Stanghellini, ibidem) su tutti i creditori indistintamente, ma solo avendo riguardo a gruppi di interesse e posizione omogenei, secondo i presupposti tradizionalmente enucleati dalla dottrina ai fini dell’applicazione di tale principio (cfr. nota 4). 
[12] 
Per questo motivo, non si condivide la posizione che riferisce anche al concordato in continuità l’assunto per cui vi sia un collegamento diretto fra divisione in classi e diverso trattamento dei creditori, talché la previsione di un trattamento differenziato almeno rispetto ad una classe rappresenterebbe un presupposto indefettibile della suddivisione delle classi. In quest’ultimo senso, si veda S. Ambrosini, Classificazione del ceto creditorio, moratoria dei privilegiati e contenuti del piano e dell’attestazione nel concordato preventivo, in www.ristrutturazioniaziendali.ilcaso.it, 6 febbraio 2023, p 5. Per una ricognizione delle posizioni emerse intorno alla questione dell’ammissibilità della suddivisione in classi indipendentemente dalla previsione di trattamenti differenziati nella legge fallimentare, si rinvia a A. Audino, sub art. 85, in A. Maffei Alberti, Commentario breve alle leggi su crisi d’impresa e insolvenza, Milano, 2023, p. 613. 
[13] 
Il rapporto, riscontrabile nella Direttiva, tra il paradigma dell’autonomia e quello dell’eteronomia nell’ambito delle distribuzioni “asimmetriche” delle risorse del piano di ristrutturazione è messo in luce e giustificato da G. Ballerini, Le ricadute di diritto italiano della regola di non discriminazione nella Direttiva Restructuring, in Giur. Comm., 2021, 5, I, p. 991. 
[14] 
Per una ricognizione critica delle scelte operate dal legislatore italiano ai fini dell’attuazione della Direttiva, si veda, per tutti, L. Stanghellini, Il Codice della Crisi dopo il D.Lgs. n. 83/2022: la tormentata attuazione della direttiva europea in materia di “quadri di ristrutturazione preventiva”, in www.ristrutturazioniaziendali.ilcaso.it, 21 luglio 2022, p. 9 ss., che evidenzia, anche alla luce delle pertinenti diposizioni della Direttiva, come ai fini dell’attuazione della disciplina del piano di ristrutturazione nell’ambito di due strumenti diversi “sarebbe stato sufficiente che questi requisiti [del piano di ristrutturazione, n.d.a.] fossero rispettati in parte nell’uno e in parte nell’altro degli strumenti individuati, ma al tempo stesso sarebbe stato necessario che essi si integrassero fra loro per essere accessibili dal debitore in modo flessibile, dal punto di vista sostanziale e procedurale (Direttiva, art. 4, par. 5)”. 
[15] 
Ad ulteriore conferma di ciò, oltre all’art. 4(5), si veda il considerando 16, laddove prevede che la Direttiva “dovrebbe offrire flessibilità agli Stati membri affinché possano applicare questi principi comuni rispettando nel contempo i sistemi giuridici nazionali” e che, a tal fine, “gli Stati membri dovrebbero poter mantenere o introdurre nei rispettivi sistemi giuridici nazionali quadri di ristrutturazione preventiva diversi da quelli da quelli previsti dalla presente direttiva”. 
[16] 
E non è tal riguardo inutile ricordare che il legislatore, ove fosse opportuno o necessario, potrebbe agevolmente intervenire sulle disposizioni del Codice usufruendo della delega prevista dall’art. 1 della l. n. 20/2019, la cui data di scadenza è fissata nel secondo anno dalla data di entrata in vigore dell'ultimo dei decreti legislativi adottati in attuazione della delega di cui alla legge n. 155/2017: ossia, essendo il D.Lgs. n. 83/2022 l’ultimo decreto da prendere in considerazione a tal fine, il 15 luglio 2024. 
[17] 
E ciò anche se, come detto, la Direttiva presuppone indubbiamente che le classi siano utilizzate anche e soprattutto quale tecnica di distribuzione in deroga alla regola della parità di trattamento, come emerge dalla stessa previsione della c.d. regola di non discriminazione quale condizione ai fini della ristrutturazione trasversale (su cui v. infra sub § 4.1). 
[18] 
Per il rilievo dell’impronta “paretiana” del sistema del concordato in continuità unitariamente considerato, cfr., da ultimo, D. Vattermoli, Ristrutturazione trasversale dei debiti, in Id, op. cit., p. 87 s. Si tratta, peraltro, di un rilievo ricorrente negli interventi che, anche nella vigenza della legge fallimentare, si sono occupati a diversi fini di indagare le regole che presiedono alla distribuzione verticale delle risorse. 
[19] 
Ciò in quanto, secondo una tradizionale definizione, un’allocazione di risorse costituisce un miglioramento paretiano (e si dice, come tale, pareto-superiore) rispetto ad un’altra allocazione alternativa se e solo se nessun individuo ne è svantaggiato ed è migliorata l’allocazione di almeno un individuo. Così, letteralmente, tra i contributi più classici, J.L. Coleman, Efficiency, Auction and Exchange, in Markets, Morals and the Law, 1988, pp. 67, 72. In termini, si veda anche R. Posner, Economic Analysis of Law, Boston – Toronto, 1986, pp.  13-14, in cui un movimento Pareto-superiore è definito come “quello che migliora la situazione nel mondo di almeno una persona e non peggiora quella di nessuno”. 
[20] 
Si veda, per tutti, I. Donati, Crisi d’impresa e diritto di proprietà. Dalla responsabilità patrimoniale all’assenza di pregiudizio, in Riv. Soc., 2020, I, p. 164 ss., il quale ha evidenziato, anche alla luce degli insegnamenti della giurisprudenza europea, che l’estensione e le caratteristiche della tutela proprietaria dei creditori e, nel caso di ristrutturazione societaria, dei soci si sostanziano nel solo dovere di garantire l’invarianza economica delle posizioni di cui tali creditori e soci sono titolari. 
[21] 
In termini analoghi, cfr. M. Fabiani, Appunti sulla responsabilità patrimoniale “dinamica” e sulla de-concorsualizzazione del concordato preventivo, in S. Ambrosini (diretto da), Fallimento, soluzioni negoziate della crisi e disciplina bancaria, Bologna, 2017, p. 48, secondo cui la previsione che facoltizza una distribuzione asimmetrica delle risorse in rapporto a quella del parametro della c.d. assenza di pregiudizio fonda il principio per cui “se tutti stanno meglio rispetto ad un confronto con la dissoluzione dell’impresa, non importa che alcuni stiano meglio di altri”. 
[22] 
Che non significa che tali regole – e la RPR in particolare – non possano dare luogo ad una serie di “esternalità negative” che, nella misura in cui non siano disincentivate o rimosse, possano minare alla base la razionalità e l’efficienza del sistema. Per un’analisi costi-benefici in chiave critica dell’APR e della RPR, si veda D. Galletti, Portata e razionalità economica dell’absolute priority rule, cit., p. 41 ss. 
[23] 
Cfr., ad esempio, I. Donati, Le ricapitalizzazioni forzose, Milano, 2020, p. 268 ss., ove si rileva l’importanza dell’affermazione della contendibilità del surplus concordatario, sia in senso “orizzontale” che “verticale”, ai fini della praticabilità di operazioni di riorganizzazione societaria mediante il concordato. 
[24] 
Ciò, in particolare, alla luce della disciplina di cui all’art. 120-quater c.c.i.i. che, come noto, che, a determinate condizioni, il valore di ristrutturazione possa essere riservato anche ai soci anteriori alla presentazione della domanda. Sulla posizione dei soci nel concordato societario, si veda, per tutti, A. Rossi, I soci nella regolazione della crisi della società debitrice, in Fall., 2022, p. 948 ss. 
[25] 
Rispetto ai quali, si osserva, l’affrancamento dal fine del soddisfacimento del credito delle risorse del piano, conseguibile mediante un calibrato utilizzo delle classi sul piano della distribuzione, può acquisire una specifica e cogente rilevanza ai fini della determinazione della “misura possibile” della preservazione dei posti di lavoro che l’art. 84, comma 2, CCII enuncia tra gli obiettivi del concordato in continuità in subordine a quello del soddisfacimento dei creditori. Sul significato di tale importante norma e, in particolare, della locuzione “nella misura possibile”, si veda M. Ambrosini, Concordato preventivo e soggetti nel Codice della crisi dopo la Direttiva Insolvency: i creditori e i lavoratori, in ristrutturazioniaziendali.ilcaso.it, 1 giugno 2022, p. 8. 
[26] 
La locuzione è ripresa dal titolo del celebre saggio di L. Mengoni, L’argomentazione orientata alle conseguenze, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1994, p. 1 ss. Con essa ci si riferisce all’”argomento consequenzialista”, ossia l’operazione ermeneutica che sottopone gli strumenti concettuali con cui opera la dogmatica tradizionale a una verifica che ne ricostruisce la funzione e il senso in rapporto agli effetti positivi collegabili ai relativi istituti e agli effetti negativi che gli istituti stessi sono chiamati a prevenire. Come sostenuto da tale Illustre Autore, “questo modo appartiene allo strumentario giuspositivistico dell’interpretazione compendiato nell’art. 12 prel., essendo riducibile al canone logico-sistematico o al canone teleologico: esso sposta la discussione sulle conseguenze delle norme giuridiche all’interno del sistema integrandola nell’analisi della struttura linguistica e concettuale dei testi normativi” (p. 2). In termini, si veda anche F. Denozza, La struttura dell’interpretazione, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1995, p. 49. 
[27] 
Cfr., ex multis, G. Bozza, La facoltatività della formazione delle classi nel concordato preventivo, in Fall., 2009, p. 426, secondo cui la suddivisione in classi è diretta “a dare al debitore in crisi l’autonomia di trovare la giusta composizione fra gli interessi di cui sono portatori i diversi creditori”. 
[28] 
Cfr. V. Calandra Buonaura, Concordato preventivo (voce), in Enciclopedia del Diritto, Annali II, t. 2, Milano, 2008, p. 258. In generale, sulla ratio della previsione delle classi nella legge fallimentare, si rinvia a A. Audino, sub art. 85, in A. Maffei Alberti, Commentario breve alle leggi su crisi d’impresa e insolvenza, Milano, 2023, p. 613, ove ulteriori riferimenti. 
[29] 
Il riferimento è, in particolare, discusso tema della falcidiabilità dei crediti muniti di privilegio generale, che grava, cioè, sull’intero patrimonio del debitore. A tal riguardo, tenuto conto della ratio della disposizione volta ad equiparare il trattamento dei crediti assistiti da cause di prelazione a quello ottenibile nella liquidazione giudiziale, è da condividere l’orientamento secondo cui il soddisfacimento parziale di tale tipologia di crediti può trovare fondamento giustificativo solo nell’incapienza del patrimonio mobiliare del debitore, sicché il soddisfacimento dei creditori chirografari non può che dipendere, in tal caso, dalla presenza di beni immobili (ovviamente per la parte che non è deputata a garantire i creditori che vantino un titolo di prelazione su di essi) o da liquidità estranee al patrimonio del debitore stesso. In questo senso, in passato, vedasi, per la dottrina, A.M. Perrino, sub art. 169, in Lo Cascio (a cura di), Codice commentato del fallimento, Milano, 2017, p. 2026 ss. e, per la giurisprudenza, Cass. 8 giugno 2020, n. 10884, in Ilcaso.it. 
[30] 
Sul cui significato, considerato anche alla luce delle posizioni che erano emerse nella vigenza della legge fallimentare quanto al trattamento della quota di credito privilegiato “degradata”, si vedano A. Audino, sub art. 84, op. cit., p. 602 e F. Aliprandi – E. Mozeglio – E. Turchi, Voto e maggioranze nel concordato in continuità: una prima lettura con diversi punti interrogativi, in www.ristrutturazioniaziendali.ilcaso.it, 6 settembre 2022, p. 4 ss. 
[31] 
Si registra, invero, una progressiva tendenza in dottrina a negare il tradizionale inquadramento del concordato tra i mezzi attuativi della responsabilità patrimoniale in ragione dell’osservazione per cui il risultato che tale procedura è idonea a determinare sulla posizione giuridica dei creditori sembra difettare della natura di sanzione dell’inadempimento e di strumento per la realizzazione coattiva del diritto di credito. In questi termini, si vedano, ex multis, G. Ferri jr, Autonomia delle masse e trasferimenti di risorse nel concordato preventivo di gruppo, in Corr. Giur., 2020, pp. 289 ss.; A. Jorio, La riforma fallimentare: pregi e carenze delle nuove regole, in Giur. Comm., 2023, I, pp. 697 ss; I. Donati, Le ricapitalizzazioni forzose, cit., p. 227 ss. e, ivi, p. 230 (nota 8), a cui si rinvia per i riferimenti sul dibattito. Nel medesimo senso, da ultimo, G. Lener, Crisi d’impresa e regole di distribuzione del patrimonio, in Aa. Vv., Per i cento anni dalla nascita di Renato Scognamiglio, I, Napoli, 2022, pp. 567. 
[32] 
È infatti ricorrente l’affermazione per cui gli enunciati normativi di cui agli artt. 2740 e 2741 c.c. possano leggersi come norme che esprimano un’unica regola declinata in due principi, attenendo, rispettivamente, l’art. 2740 c.c. al punto di vista “oggettivo” della regola e l’art. 2741 c.c. a quello “soggettivo”. In tal senso, ad esempio, L. Follieri, Esecuzione forzata e autonomia privata, 2016, Torino, p. 17, a cui si rinvia per i dovuti riferimenti in materia, secondo cui “la prima norma sancisce il principio della illimitatezza, indivisibilità ed universalità della responsabilità patrimoniale, parametrandola alla totalità dei beni appartenenti al debitore, mentre la seconda opera l’estensione della regola alla generalità dei creditori, predicando l’uguaglianza indistinta del loro diritto di soddisfazione sui beni oggetto di responsabilità, individuata dal principio della par condicio omnium creditorum”. Per una completa ricostruzione storica dell’istituto della responsabilità patrimoniale del debitore, si veda, tra i più recenti, G. Marchetti, La responsabilità patrimoniale “negoziata”, Milano, 2017, p. 3 ss. 
[33] 
Tra la dottrina che si è occupa ex professo della questione della giustificazione delle classi in una prospettiva costituzionale, si vedano, in particolare, O. De Cicco, op. cit., passim; M. Fabiani, Contratto e processo nel concordato fallimentare, Torino, 2009, pp. 148 ss.; Id, La giustificazione delle classi nei concordati e il superamento della par condicio creditorum, in Riv. dir. civ., pp. 711 ss; Id, Sistema, principi e regole del diritto della crisi, Treviso, 2023, p. 13 ss; E. Migliaccio, Parità di trattamento e concorso dei creditori, Napoli-Roma, p. 46 ss., la quale enuncia chiaramente i termini della questione del rapporto tra art. 2741 c.c. e art. 3 Cost: “è chiaro che, se la par condicio creditorum è principio o comunque espressione diretta del principio costituzionale di eguaglianza, allora si porrà un problema di legittimità di ogni normativa che la limiti o la rimoduli e direttamente con riferimento ad esso. Se invece essa è semplice regola, il problema è quello di verificare quanto le nuove discipline incidano sul baricentro del sistema, mentre la loro legittimità risulta irrevocabile in dubbio soltanto sotto il profilo della ragionevolezza e adeguatezza delle singole soluzioni in relazione ad un determinato assetto di interessi”. 
[34] 
Ciò in quanto l’identificazione di un rapporto diretto tra l’art. 2741 c.c. e l’art. 3 Cost., a guisa del quale la prima disposizione costituirebbe diretta espressione nel dato normativo del principio costituzionale, fonda le sue origine nel risalente orientamento che, attuando una “mitizzazione” della par condicio, ha considerato quest’ultima come “un principio superiore e pregiudico, riconducile all’eguaglianza e all’ideale di giustizia da essa implicato, principio immanente nel sistema o appartenente al diritto naturale” (così E. Migliaccio, op. cit., pp. 43 ss., ove ulteriori riferimenti,). In tal senso, si vedano, per tutti, Gior. Tarzia, La tutela dei creditori concorsuali dopo la riforma, in Fall., 1984; conf. V. Colesanti, Mito e realtà della par condicio creditorum, ivi, p. 46. Si trattava, tuttavia, di un orientamento già ai tempi recessivo rispetto a quello che qualificava l’art. 2741 c.c. come un mero principio generale dalla valenza tecnica. In questo senso, si veda, ex multis, P.G. Jaeger, Par condicio creditorum, ivi, p. 52 ss. e L. Barbiera, Responsabilità patrimoniale, in P. Schlesinger (diretto da), Il Codice Civile. Commentario, 1991, Milano, p 89 ss., il quale pure nega recisamente il collegamento tra l’art. 3 cost. e l’art. 2741 c.c. 
[35] 
Che, nondimeno, è alla base della giustificazione delle classi autorevolmente teorizzata, nella vigenza della legge fallimentare, da M. Fabiani, Contratto e processo nel concordato fallimentare, cit., p. 151, secondo cui: “non va trascurato come la disposizione codicistica affondi la sua legittimazione – per non trascurabili settori della letteratura – in un principio di parità di trattamento che trova un preciso referente normativo nella carta costituzionale (e cioè nel principio di eguaglianza di cui all’art. 3 Cost.), o, se si vuole in un ancor più risalente principio di ‘diritto naturale’”. La medesima impostazione è stata, peraltro, riproposta dal medesimo Autore a seguito dell’entrata in vigore del Codice in Id, Sistema, principi e regole del diritto della crisi d’impresa, cit., 2023, p. 13 s. 
[36] 
Si ritiene, pertanto, che gli artt. 2740 e 2741 c.c. trovino applicazione nel concordato preventivo, nei limiti in cui non siano espressamente o implicitamente derogati. Contra, seppur con una valutazione da riferire al quadro normativo previgente all’intervento del D.Lgs. n. 83/2022 sulla materia concordataria, I. Donati, op. ult. cit., p. 237, il quale, giunge a conclusione opposta argomentando dell’estraneità tipologica del concordato a un mezzo di attuazione della responsabilità patrimoniale. Come precisato nel testo, si ritiene che le due letture non siano necessariamente incompatibili, ossia che sia possibile affermare la generale applicabilità degli artt. 2740 e 2741 c.c. al concordato, in quanto prevista dal legislatore, lasciando impregiudicata la questione della sua attitudine ad attuare la responsabilità patrimoniale, e, con essa, la possibilità di una disapplicazione, se del caso implicita, delle norme costitutive di tale istituto. 
[37] 
Per un argomento analogo, cfr. A. Turchi, Il valore di liquidazione alla luce delle prime pronunce di merito, in Dirittodellacrisi.it, 11 dicembre 2023, p. 5. 
[38] 
A tal riguardo, piace ed è utile, in quanto pertinente a tale specifica questione, ricordare la nota distinzione “ascarelliana” tra concetti “tipologici”, come concetti designanti fattispecie giuridiche, e concetti “normativi”, come designanti la risposta dell’ordinamento al verificarsi della fattispecie. Sul ragionamento tipologico, nonché sull’effettiva riconducibilità di tale distinzione al (nonché della univocità della stessa nel) pensiero di Tullio Ascarelli si vedano, da ultimo, i contributi contenuti in Aa.Vv., Tullio Ascarelli e il ragionamento tipologico, a cura di G. Ferri jr e M. Stella Richter, Milano, 2022. 
[39] 
E che muovono dalla condivisibile considerazione del rapporto intercorrente tra l’art. 2741 e l’art. 3 Cost., tale per cui “in definitiva, […] la par condicio creditorum non è regola (corrispondente al principio) di uguaglianza ma regola (ispirata al criterio) di ragionevolezza, quale esito del giudizio comparativo tra gli interessi dei singoli creditori in concorso […]”. Così, E. Migliaccio, op. cit., p. 70 ss. e 77, a cui si rinvia. In precedenza, F. D’Alessandro, Interesse pubblico alla conservazione dell’impresa e diritti privati sul patrimonio dell’imprenditore, in Fall., 1984, p. 82, aveva già acutamente rilevato che il rapporto tra par condicio e norma costituzionale investe una tutela del principio di “secondo grado”, non diretta. 
[40] 
Cfr., ex multis, F. D’Alessandro, La crisi delle procedure concorsuali e le linee della riforma: profili generali, in Giust. civ., 2006, II, p. 340; A. Gentili, Autonomia assistita ed effetti ultra vires nell'accettazione del concordato, in G. comm., 2007, I., p. 359. 
[41] 
Un’altra disposizione che rileva indubbiamente nell’esercizio della facoltà ex art. 85, comma 1, CCII, come limite alla differenziazione orizzontale del trattamento, è, come noto, l’art. 88, comma 1. Quest’ultima, infatti, disciplina il trattamento dei crediti tributari e contributivi nell’ambito della c.d. transazione fiscale, stabilendo, in particolare che “se il credito tributario o contributivo ha natura chirografaria, anche a seguito di degradazione per incapienza, il trattamento non può essere differenziato rispetto a quello degli altri crediti chirografari ovvero, nel caso di suddivisione in classi, dei crediti rispetto ai quali è previsto un trattamento più favorevole”. Sul significato e sull’impatto di tale norma, si veda, da ultimo, in chiave critica, L. De Bernardin, Ristrutturazione trasversale e transazione fiscale: non ce lo chiede il legislatore…e neanche l’Europa, in Dirittodellacrisi.it, 29 gennaio 2024. 
[42] 
In quanto, se valutabile, ancorché meramente simbolica, la misura del grado e la valutazione della modalità di soddisfacimento proposta ai creditori non è sindacabile dal tribunale ai fini della non inammissibilità del concordato. In tal senso, a seguito dell’entrata in vigore del Codice, Trib. Tempio Pausania, 14 febbraio 2023, in Ilcaso.it.
[43] 
La questione dell’ammissibilità della c.d. classe a costo zero era, invece, discussa nella vigenza della legge fallimentare, con particolare riferimento ai creditori chirografari e postergati. Nel senso dell’ammissibilità, si vedano, in dottrina D. Galletti, sub art. 160, in Cavallini, (diretto da), Commentario alla legge fallimentare, II, Milano, 2010., pp. 359 ss; O. De Cicco, op. cit., p. 111 s.; contra C. Proto, Le classi dei creditori nel concordato preventivo, Milano, 2010, pp. 62 ss. 
[44] 
Cfr., per tutte, Cass. S.U., 25.01.2013, n. 1521, in www.ilcaso.it. Le implicazioni di tale importante pronuncia sulla questione della causa del concordato sono efficacemente messe in luce da M. Fabiani, Guida rapida alla lettura di Cass. s.u. 1521/2013, in Ilcaso.it, 30.01.2013. Per i riferimenti del dibattito sulla causa del concordato nella legge fallimentare e sulla considerazione della sua attualità nell’attuale quadro normativo, si rinvia a A. Audino, op. ult. cit., p. 587 s. 
[45] 
Si tratta, peraltro, di un orientamento che, seppur in accezione più sfumata, era già stato autorevolmente sostenuto nella vigenza della legge fallimentare. Cfr. Cass., 8 febbraio 2019, n. 3863, in Fall., p. 99 s. con nota di L.A. Bottai dal titolo “La percentuale irrisoria nel concordato è legittima”. 
[46] 
Nel medesimo senso, A. Audino, ibid, secondo cui “il comma 1 dell’art. 84 prevede una finalità di soddisfacimento dei creditori che, per quanto parametrabile, nella sua misura, a quella realizzabile nell’alternativa della liquidazione giudiziale, non potrebbe tradursi in una esdebitazione, che consegue all’estinzione dei diritti di credito, in assenza di una prestazione satisfattiva”. 
[47] 
Sulla ratio dell’esdebitazione nel Codice, si veda, da ultimo, G. Angiolillo, Considerazioni critiche sulle condizioni soggettive per l’esdebitazione nel Codice della Crisi, in Dirittodellacrisi.it, 5 settembre 2023, p. 2 s., ove il rilievo per cui “non rientrano, tecnicamente, nella sfera della esdebitazione la liberazione dei debiti conseguente a procedure negoziali, quali il concordato preventivo, il concordato minore, l’accordo di ristrutturazione, gli accordi in esecuzione di piano attestato di risanamento. In tali casi, infatti, non viene dichiarata la inesigibilità del debito, ma ricorre un vero e proprio effetto estintivo dei debiti, sinallagmaticamente ricollegato all’adempimento della proposta fatta ai creditori.” 
[48] 
Per una ricognizione della giurisprudenza di merito e della dottrina espressasi circa la definizione di tale valore, si veda A. Turchi, op. cit., passim, e, ivi, p. 4., ove il rilievo per cui “il raffronto tra la misura di soddisfacimento prevista nella proposta concordataria e quella ricavabile nell’alternativo scenario dell’apertura della liquidazione giudiziale presuppone l’identificazione e determinazione della somma ripartibile a favore di ciascun creditore sulla base dell’attivo ottenibile in tale scenario liquidatorio, che, corrisponde al valore di liquidazione da indicarsi nel piano ai sensi dell’art. 87, comma 1, lt. C), CCII”. Contra F. Lamanna, “Valore di liquidazione” e “valori eccedenti” nel concordato preventivo: come calcolarli e distribuirli, in IUS Crisi d’impresa, 13 ottobre 2023, secondo cui il valore di liquidazione “è apparentemente destinato solo a misurare il valore degli assets ricompresi nell’attivo patrimoniale distribuibile ai creditori concordatari, al netto dell’eventuale surplus da continuità e da eventuali apporti gratuiti provenienti da terzi”, non potendo costituire, invece, la base applicativa del parametro dell’assenza di pregiudizio. Il rilievo muove dall’assunto, sostenuto e argomentata dall’Autore, secondo cui il valore di liquidazione di cui all’art. 87, comma 1, lett. c),CCII non ricomprende il valore conseguibile a mezzo dell’esercizio delle azioni risarcitorie e recuperatorie nella liquidazione giudiziale, oggetto di separata indicazione nel piano ai sensi della lett. h) della medesima disposizione. 
[49] 
Che, come noto, subordina l’ammissione alla procedura alla previsione di un apporto di risorse esterne che incrementino di almeno il 10% il valore dell’attivo disponibile al momento della domanda: ciò proprio perché, in mancanza di tale apporti in aggiunta al valore di liquidazione, è preferibile, secondo la valutazione del legislatore, che la soddisfazione dei creditori passi dalla (meno costosa) liquidazione giudiziale. Cfr., ex multis, S. Leuzzi, sub art. 84, in F. Di Marzio (diretto da), Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, Milano, 2022. 
[50] 
Nella legge fallimentare, come noto, la circostanza che il concordato in continuità dovesse essere funzionale al “miglior soddisfacimento dei creditori” ai sensi dell’art. 186 bis, comma 2, lett. b), L. fall. comportava la necessità che, ai fini dell’ammissione alla procedura, la soddisfazione dei creditori conseguibile attraverso il concordato fosse, almeno in termini di “superlativo relativo”, la migliore possibile tra le alternative individuali, ivi compresa ovviamente l’ipotesi del fallimento. Cfr. A. Rossi, Il miglior soddisfacimento dei creditori (quattro tesi), in Fall., 2017, p. 642 ss.; A. Patti, Il miglior soddisfacimento dei creditori: una clausola generale per il concordato preventivo?, in Fall., 2013, p. 1100 ss. 
[51] 
Ciò anche senza considerare, che, in tale eventualità, sarebbe davvero difficile immaginare come il piano possa superare il vaglio di ritualità di cui all’art. 47, comma 1, lett. b), CCII, che impone di valutarne la non manifesta inidoneità, oltre che alla “soddisfazione dei creditori”, anche alla “conservazione dei valori aziendali”. Per cui, anche immaginando, nell’ipotesi di un’impresa societaria, un piano in continuità diretta basato interamente su un’operazione sull’organizzazione dell’impresa quale tecnica di soddisfacimento dei creditori, la rassicurazione in ordine alla “conservazione dei valori aziendali” in generale non potrebbe che essere rappresentata da un quid pluris rispetto al valore di liquidazione già interamente utilizzato, in tal modo, per il soddisfacimento dei creditori. 
[52] 
In termini, cfr. A. Zuliani, Continuità diretta e continuità indiretta: presupposti, regole, criticità, in Dirittodellacrisi.it, 3 marzo 2022, p. 19. Sul significato attribuito dalla dottrina all’art. 161, co. 2, lett. e), L. fall., si rinvia a A. Audino, sub art. 84, op. cit., p. 594. 
[53] 
Così come, nel caso, l’attribuzione di titoli di partecipazione (azioni, quote o strumenti finanziari partecipativi) al rischio d’impresa, in esecuzione, qualora il piano preveda la soddisfazione dei crediti secondo la modalità indicata dall’art. 87, comma 1, lett. d), CCII. 
[54] 
Tuttavia, ritiene che la durata della moratoria debba essere indicata secondo criteri di ragionevolezza ricollegabili al contenuto del piano e comparabili con l’alternativa liquidatoria, non potendosi consentire una compressione ad libitum dei diritti dei creditori, Bosticco, in www.ilfallimentarista.it, 16.06. 2022, p. 5. Sul tema, si vedano anche F. Lamanna, Il codice della crisi e dell’insolvenza dopo il secondo correttivo, Milano, 2022 p. 470, il quale ritiene che, in ogni caso, la moratoria non possa estendersi oltre il termine di attuazione del piano, e A. Farolfi, sub art. 86, in F. Di Marzio, cit., p. 470, secondo la previsione di termini eccessivi e ingiustificati potrebbe incidere sulla “ritualità” della proposta, sindacabile dal tribunale ex art. 47, co. 1, lett. b), e dare luogo ad un provvedimento di inammissibilità della domanda, in quanto renderebbe il piano inattendibile. 
[55] 
Cfr. Cass., 18 giugno 2020, n. 11882, in DeJure. In termini, cfr. G. Grasso, La Corte di Cassazione conferma l’ammissibilità di moratoria ultrannuale in materia concordataria (nota a Cass., Sez. I, n. 11882/20), in Dirittodellacrisi.it, 1° luglio 2021. 
[56] 
Sulla questione della misura del voto dei privilegiati, si veda, per tutti, S. Ambrosini, Classificazione del ceto creditorio, moratoria dei privilegiati e contenuti del piano e dell’attestazione nel concordato preventivo, cit., p. 10 s. In giurisprudenza, da ultimo, cfr. Trib. Treviso, 10 gennaio 2024, in Dejure, per l’argomento secondo cui il diritto di voto della classe del credito privilegiato “capiente” va commisurato all’intero credito, anziché all’entità della perdita economica conseguente il ritardo dell’inadempimento. 
[57] 
Cfr. da ultimo, F. Santangeli – M. Spadaro, sub art. 86, in F. Santangeli (a cura di), Il Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, p. 564. 
[58] 
Cfr. Cass. 28 ottobre 2019, n. 27544; 3 luglio 2019, n. 17834, entrambe in DeJure
[59] 
Dovendosi considerare, inoltre, l’opinione secondo cui la moratoria, a differenza della dilazione, comporta anche la sospensione degli interessi corrispettivi o moratori, sostanziandosi in una eccezione alla regola risultante dal combinato disposto degli artt. 153 e 154 CCII. Per i termini del dibattito, cfr. F. Santangeli – M. Spadaro, cit., p. 563 ss., secondo cui, anche alla luce della distinzione tra moratoria e dilazione sottesa alla disciplina di cui agli artt. 86, comma 1, CCII e 109, comma 5, CCII, la moratoria, a differenza della dilazione, non comporta l’obbligo di corrispondere interessi di qualsiasi tipo. 
[60] 
Cfr., tra gli ultimi e senza pretesa di esaustività, F. Lamanna, Priorità assoluta e relativa nel concordato preventivo secondo il Codice della Crisi, in ilFallimentarista.it, 6 febbraio 2023; A. Guiotto, Il valore riservato ai soci nel concordato in continuità aziendale, in Dirittodellacrisi.it, 13 aprile 2023; B. Inzitari, Le mobili frontiere della responsabilità patrimoniale: distribuzione del valore tra creditori e soci nel concordato in continuità secondo la negozialità concorsuale del codice della crisi, 27 febbraio 2023; A. Auricchio – G. Covino – L Jeantet – P. Vallino, Absolute e relative priority rule a confronto nel Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, ivi, 6 ottobre 2022; G. Acciaro – A. Turchi, Le regole di distribuzione tra passato e futuro, in Ilcaso.it, 16 aprile 2022; G.P. Macagno, La distribuzione di valore tra regole di priorità assoluta e relativa. Il plusvalore da continuità, in Dirittodellacrisi.it, 6 aprile 2022; G. Lener, Considerazioni intorno al plusvalore da continuità e alla “distribuzione” del patrimonio (tra regole di priorità assoluta e regole di priorità relativa), in Dirittodellacrisi.it, 25 febbraio 2022; G. D’Attorre, Le regole di distribuzione del valore, in Fall., 2022, p. 1223; Id, La distribuzione del patrimonio del debitore tra absolute priority rule e relative priority rule, in Fall., 2020, p. 1072 ss.; G. Ballerini, La distribuzione del plusvalore concordatario tra autonomia ed eteronomia, Tesi di Dottorato, Università Bocconi, 2021, reperibile presso https://iris.unibocconi.it/handle/11565/4039496, passim e, in particolare, pp. 55 ss; Id, La distribuzione del (plus)valore ricavabile dal piano di ristrutturazione nella Direttiva (UE) 2019/1023 e l’alternativa fra absolute priority rule e relative priority rule, in Riv. dir. comm., 2021, pp. 367 ss.; Id, Art. 160, comma 2, L. fall. (art. 85 c.c.i.i.), surplus concordatario e soddisfazione dei creditori privilegiati nel concordato preventivo, in Nuove leggi civ. comm., 2021, p. 391 ss. F. Viola, Rapporti tra creditori e tra soci e creditori nella distribuzione del patrimonio di società in concordato preventivo, tra priorità assoluta e relativa, in Orizzonti, 2020, pp. 841 ss. 
[61] 
Per una ricostruzione del dibattito, si vedano, in particolare, G. D’Attorre, op. ult. cit., p. 1072 ss., G. Lener, op. ult. cit., p. 10 ss.; G. Ballerini, op. ult. cit., p. 391 ss. 
[62] 
Salvo il ricorso a risorse finanziarie costituenti apporti terzi “neutri” rispetto al patrimonio assoggettato al concorso Sulle regole di distribuzione della finanza esterna, si veda, in giurisprudenza, per tutte, Cass. civ., 8 giugno 2012, n. 9373, in Fall., 2012, pp. 1409 ss. con nota di Bianchi e, in dottrina, G. D’Attorre, La finanza esterna tra vincoli all’utilizzo e diritto di voto dei crediti, in Ilcaso.it, 20 maggio 2014 e G. Bozza, L’utilizzo della nuova finanza nel concordato preventivo, in Fall., 2019, 1441 ss. 
[63] 
Cfr., da ultimo,  S. Leuzzi, L’omologazione del concordato preventivo in continuità, Dirittodellacrisi.it, 16 febbraio 2023, p. 23 e nota 59; G. D’Attorre, Relative priority rule(s), in D. Vattermoli, cit., p. 75, ove ulteriori riferimenti. Le maggiori difficoltà ai fini della corretta individuazione del surplus concordatario si registrano, come noto, nell’ambito della fattispecie di continuità indiretta, ove si discute se il prezzo di cessione dell’azienda in eccesso al valore di liquidazione della stessa debba o meno qualificarsi in tal modo. A tal riguardo, per l’orientamento secondo cui tutto ciò che eccede il valore di liquidazione dell’azienda, nonché dei beni non funzionali al suo esercizio, come preventivamente determinato dal debitore nel piano, vada qualificato come “valore eccedente la liquidazione”, nonostante tale maggior valore derivi dall’effettiva liquidazione di tali beni, cfr. A. Audino, op. ult cit., p. 607; M. Binelli, L’omologazione del concordato non approvato, Dirittodellacrisi.it, 27 dicembre 2022, p. 8; contra A. Pezzano – M. Ratti, Le regole di distribuzione, in Dirittodellacrisi.it, 6 settembre 2022, secondo i quali l’eventuale eccedenza è sempre da qualificare come “valore di liquidazione”. 
[64] 
Cfr., G. Ballerini, Le ricadute di diritto italiano della regola di non discriminazione nella Direttiva Restructuring, cit., p. 974 s., secondo cui “sebbene la regola di non discriminazione (così come la APR e la RPR) regoli complessivamente la distribuzione di tutto il valore di ristrutturazione, l’effetto della sua applicazione rileva più propriamente con riguardo all’allocazione del (solo) surplus ricavabile grazie al piano, e cioè del maggior valore (il “delta”), che il piano di ristrutturazione è in grado di generare rispetto al valore di liquidazione (come sopra definito). Questo perché, come appena osservato, la Direttiva prevede espressamente che ogni creditore dissenziente abbia diritto a ricevere almeno il valore di liquidazione (come sopra definito) secondo l’ordine – verticale e orizzontale – delle priorità legali. Posto che ogni singolo creditore (a prescindere dal fatto che la sua classe di appartenenza voti in senso favorevole o contrario al piano) ha diritto almeno al valore di liquidazione della sua pretesa (o al valore che otterrebbe nel migliore scenario alternativo) secondo l’ordine delle priorità applicabile ex lege (e cioè secondo il proprio rango) la regola di discriminazione rileva, dunque, in punto di distribuzione (solamente) del surplus ricavabile dal piano, che, appunto, rappresenta la differenza tra il valore totale di ristrutturazione (cioè, tutto il (plus)valore ricavabile dal piano) e il valore di liquidazione del patrimonio del debitore (come sopra definito)”. 
[65] 
Cfr., per tutti, G. D’Attore, op. ult. cit., p. 72, secondo cui “la scelta base contenuta nell’art. 11 Direttiva UE 1023/2021 è stata recepita dal legislatore italiano con il D.Lgs. 17 giugno 2022, n. 83, che ha introdotto nel CCII le disposizioni degli artt. 84, comma 6 e 112, comma 2, lett b., CCII, nonché – con riferimento ai soci – gli artt. 120 ter e art. 120 quater c.c.”. 
[66] 
Per un’esauriente analisi della disciplina e della ratio della ristrutturazione trasversale dei debiti, si rinvia a D. Vattermoli, op. cit., p. 86 ss. 
[67] 
In particolare, per quel che riguarda la condizione in ordine alla verifica del rispetto della RPR, al comma 2, lett. b) di tale articolo. 
[68] 
Cfr. S. Leuzzi, op. ult. cit., p. 5. 
[69] 
Cfr. G. D’Attorre, op. ult. cit., p. 82 s., il quale argomenta tale soluzione anche e proprio sulla base della funzione attribuita alla RPR dall’art. 11, par. 1, lett. c) della Direttiva. 
[70] 
La precisazione si deve alla rilevanza dell’orientamento che critica la considerazione della decisione dei creditori sul merito della proposta alla stregua della decisione del mercato sul destino dell’impresa. Sul punto, si veda F. Di Marzio, Obbligazione, insolvenza, impresa, Milano, 2019, p. 19 ss., ove l’argomento per cui la ristrutturazione del debito non coincide con la ristrutturazione dell’impresa e, di conseguenza, la tutela dell’impresa non coincide (almeno non solo) con la tutela dei creditori. 
[71] 
In questa prospettiva (ossia, nella prospettiva di un sistema che preveda il PRO come strumento distinto dal concordato in continuità) non si condivide il rilievo di G. D’Attorre, op. ult. cit., p, 83, secondo cui, nel concordato in continuità, “se tutte le classi approvano la proposta, le regole distributive non si applicano e l’intero valore, sia quello di liquidazione sia quello eccedente, può essere distribuito liberamente, ferma la tutela minima del diritto di opposizione attribuito a ciascun creditore dissenziente per contestare il pregiudizio ad esso arrecato rispetto all’alternativa della liquidazione giudiziale”, da cui la conclusione per cui nel sistema delineato dal CCII, a differenza di quello della legge fallimentare, la verifica in ordine al rispetto delle regole distributive non rappresenta una condizione di ammissibilità della proposta di concordato la cui violazione determinava l’inammissibilità della domanda. Tale conclusione, qui non condivisa per le ragioni predette, pare, peraltro, allo stato, smentita dalla giurisprudenza di merito che, in continuità con il sistema della legge fallimentare, ritiene che la verifica del rispetto dell’ordine delle cause legittime di prelazione – e, pertanto, della APR e della RPR, come si è visto – debba essere operata ex ante ai fini dell’apertura della procedura (cfr. nota successiva). 
[72] 
Considerando peraltro che, proprio per questo motivo, anche a seguito dell’entrata in vigore del Codice, il vaglio sulla ritualità della domanda è stato interpretato nell’ottica di riprodurre in sede di ammissione il controllo che il tribunale sarà eventualmente chiamato a svolgere in sede di omologazione. Cfr., da ultimo, Trib. Bari, 9 gennaio 2024, reperibile in Dirittodellacrisi.it, il quale ha ritenuto che “il vaglio di ritualità della proposta non sia limitato alla legittimità formale, ossia alla legittimazione alla domanda e alla regolarità e completezza della documentazione depositata, ma si estenda anche alla legittimità sostanziale, rendendosi così necessario (anche in un’ottica di economia procedimentale rispetto alle verifiche necessarie nella successiva fase dell’omologazione) esaminare i profili, propri del vaglio di ammissibilità, espressamente previsti dalla legge, tra cui anche la corretta formazione delle classi anche con riferimento al rispetto dell’ordine delle cause legittime di prelazione [corsivo aggiunto] […]”. Conf. Trib. Siena, 30 giugno 2023, reperibile in Dirittodellacrisi.it .
[73] 
Per vero, sembra che la Direttiva abbia riguardo alla fase di accesso ai quadri di ristrutturazione preventiva – e al ruolo dell’autorità giudiziaria (o amministrativa) a tal fine – al solo scopo di prevedere la verifica della sostenibilità economica dell’impresa come condizione di accesso. Si vedano, in particolare, il considerando 26, secondo cui “gli Stati membri dovrebbero poter introdurre una verifica della sostenibilità economica come condizione di accesso alla procedura di ristrutturazione preventiva di cui alla presente direttiva” e, soprattutto, l’art. 4(1), secondo cui “gli Stati membri provvedono affinché, qualora sussista una probabilità di insolvenza, il debitore abbia accesso a un quadro di ristrutturazione preventiva che gli consenta la ristrutturazione, al fine di impedire l'insolvenza e di assicurare la loro sostenibilità economica, fatte salve altre soluzioni volte a evitare l'insolvenza, così da tutelare i posti di lavoro e preservare l'attività imprenditoriale”. Si tratta, pertanto, di un obbligo positivo, volto ad imporre agli Stati Membri almeno tale verifica, e non di un obbligo negativo, volto a precludere l’introduzione agli Stati Membri di qualsiasi altra condizione di accesso. 
[74] 
Considerando, peraltro, che, ai sensi dell’art. 4(6) della Direttiva, “gli Stati membri possono prevedere disposizioni che limitino la partecipazione dell'autorità giudiziaria o amministrativa a un quadro di ristrutturazione preventiva ai casi in cui è necessaria e proporzionata, garantendo nel contempo la salvaguardia dei diritti delle parti interessate e dei pertinenti portatori di interessi”. Anche in questo caso, come è evidente, la norma non è volta a precludere gli Stati Membri l’introduzione di un controllo giudiziale ai fini dell’accesso alla procedura, ma, al contrario, sottende la concezione per cui tale controllo possa essere funzionale (e, a volte, necessario) alla tutela dei diritti delle parti interessate e dei pertinenti portatori di interessi. 
[75] 
Decidendo di non rinunciare al concordato al costo di sacrificare la linearità del sistema immaginato dalla direttiva. Cfr., a tal riguardo, i rilievi critici di L. Stanghellini, Il codice della crisi dopo il D.Lgs. n. 83/2022: la tormentata attuazione della direttiva europea in materia di "quadri di ristrutturazione preventiva, cit., p. 10, secondo cui “attuare la Direttiva mediante più strumenti di ristrutturazione già esistenti avrebbe avuto un minore impatto sistematico, ma sarebbe stato complesso dal punto di vista tecnico, in quanto gli adeguamenti avrebbero dovuto essere coordinati in un quadro unitario, anche al fine di assicurare la fluidità e modularità della ristrutturazione delle quali si è detto”. 
[76] 
Il riferimento è, in particolare, all’art. 84, comma 5, CCII, che, come si è visto, riproponendo la regola di cui all’art. 160, comma 2, L. fall. in tema di falcidiabilità del credito privilegiato, costituisce un limite alla discrezionalità del proponente ai fini di una possibile differenziazione quantitativa del loro trattamento. 
[77] 
Cfr. supra sub § 2.2. 
[78] 
Cfr. supra sub. § 1.1. 
[79] 
Cfr., da ultimo, Trib. Treviso, 10 gennaio 2024, cit. e Trib. Bari, 9 gennaio 2024, cit., il quale ha affermato la legittimità del trattamento differenziato tra classi ex art. 85, comma 1, CCII, proprio sulla base del rilievo che le classi interessate a tal riguardo erano “relative tutte a creditori chirografari ab origine ovvero a seguito di degrado”. 
[80] 
Cfr. G. Ballerini, op. ult. cit., p. 986 s., la quale avanza tale conclusione anche a seguito di una compiuta analisi comparata avente ad oggetto il significato attribuito dalla dottrina e dalla giurisprudenza statunitense alla regola di “no unfair discriminarion” prevista dall’art. 1129(b)(1) del Chapter 11 del Bankruptcy Code, da cui quella europea ha tratto ispirazione. 
[81] 
Così, letteralmente, G. Ballerini, op. ult. cit., p. 994. 
[82] 
È questa, infatti, l’implicazione sottesa all’opinione secondo cui nel concordato in continuità l’approvazione all’unanimità delle classi consente una distribuzione delle risorse in deroga alle regole che presiedono al rispetto dell’ordine delle cause legittime di prelazione. In questa prospettiva, più precisamente, l’art. 84, comma 6, CCII svolgerebbe quindi la funzione meramente didascalica di esplicitare agli operatori e agli interpreti il significato della RPR in rapporto alla APR nella disposizione che apre il Capo III relativo al concordato preventivo. Tuttavia, si osserva, se davvero fosse stato questo lo scopo del legislatore, di là della discutibilità di una disposizione di questo tipo, allora si sarebbe dovuto enunciare la RPR nell’ambito della più consona sede delle “definizioni”, le quali costituiscono una tecnica che risponde ad un principio di economia legislativa non direttamente incidente, tuttavia, sul piano dell’interpretazione delle norme. Sul significato delle definizioni nel Codice della Crisi, cfr. C. Avolio, sub art. 2, in A. Maffei Alberti, op. cit., pp. 11 ss., ove ulteriori riferimenti. 
[83] 
In considerazione del fatto che, come noto, nel concordato preventivo il voto non espresso equivale a un voto contrario. Sulla ratio di tale principio, già presente nella legge fallimentare e confermato dal Codice, e sul suo evidente impatto nell’ambito dell’approvazione della proposta, si rinvia a M. Chierici, sub art. 107, in A. Maffei Alberti, cit., p. 774, ove ulteriori riferimenti. 
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