Ai fini di quanto detto in conclusione del precedente paragrafo, l’analisi non può prescindere dalla preliminare considerazione, sostenuta dalla dottrina più accreditata, per cui l’introduzione dell’art. 84, comma 6, CCII ha costituito una modalità di recepimento dell’art. 11 della Direttiva Insolvency[65]. Tale norma, come in parte anticipato e comunque noto, delinea le condizioni ai fini dell’applicazione della c.d. ristrutturazione trasversale dei debiti, ossia, il procedimento di verifica che il tribunale è tenuto a seguire ai fini dell’omologazione di un piano di ristrutturazione che non sia stato approvato dall’unanimità delle classi, secondo quanto previsto dall’art. 9, par. 6, della Direttiva. Rispetto a tale procedimento, è in questa sede sufficiente rilevare che l’art. 11, par. 1, lett. c) della Direttiva enuncia la RPR quale specifica condizione che il tribunale è tenuto ad accertare, inter alia, ai fini dell’omologazione del piano[66].
A tal riguardo, si osserva che, proprio in quanto tale procedimento attiene a una fase successiva alla votazione, la RPR non è enunciata dalla Direttiva in termini “assoluti”, ossia quale regola la cui verifica di conformità debba essere operata con riferimento al trattamento attribuito ad ogni classe di creditori, ma in termini “relativi”, ossia richiedendo di avere esclusivo riguardo, ai fini di tale verifica, al trattamento attribuito alle classi di creditori dissenzienti. Si tratta, in altri termini, di una regola comparativa i cui termini di confronto non sono predeterminabili prima della votazione dei creditori, in quanto eventuali – ossia, dipendenti dalla mancata approvazione unanime delle classi – e variabili – ossia, dipendenti dall’identificazione delle classi dissenzienti e, di conseguenza, dal rango di appartenenza di tali classi. Nell’ottica della Direttiva, in definitiva, la RPR e, con essa, la verifica del rispetto delle condizioni che la presuppongono, tra cui la regola della non discriminazione, attiene inequivocabilmente solo a una fase eventuale del giudizio di omologazione.
A fronte di tale evidenza, si riscontra che il legislatore italiano se, da un lato, ha recepito l’art. 11 della Direttiva nell’ambito della disciplina del giudizio di omologazione di cui all’art. 112 CCII[67], replicandone l’impostazione appena vista, dall’altro lato, ha riprodotto la RPR anche in seno all’art. 84 CCII, il quale si occupa di definire le finalità e le tipologie del concordato. Tuttavia, a ben vedere, nell’ambito dell’art. 84, comma 6, CCII, la RPR sembra assumere il significato di condizione tipologica della distribuzione del surplus concordatario, come può evincersi dal fatto che essa è enunciata in termini “assoluti”, non in quelli “relativi” impiegati dall’art. 11 della Direttiva e, quindi, dell’art. 112, comma 2, lett. b), CCII
Al di là della sua formulazione, in ogni caso, l’introduzione della RPR nella sedes materiae dell’art. 84 CCII, e non solo nell’art. 112 CCII, non è di per sé astrattamente priva di conseguenze, se si considera che l’accertamento delle condizioni tipologiche del contenuto del concordato, sia esso liquidatorio o in continuità aziendale, costituisce oggetto del controllo del tribunale già in fase di ammissione. Con riferimento al concordato in continuità, come ricordato, l’oggetto di tale controllo è previsto dall’art. 47 comma 1, lett. b), CCII, ed ha riguardo, inter alia, alla “ritualità della proposta”, la quale, pur non essendo estesa al merito del contenuto della proposta ricomprende sicuramente la verifica della regolarità formale e sostanziale del contenuto del piano[68]. In questa prospettiva, quindi, l’inclusione della RPR nell’ambito dell’art. 84 CCII sembra comportare che la verifica in ordine al rispetto dei suoi presupposti vada effettuata dal tribunale già in sede di ammissione alla procedura.
Alla luce di tale sintetica ricognizione, quindi, ne discende che, ove il proponente applichi trattamenti differenziati ex art. 85, comma 1, CCII, prevedendo al contempo la distribuzione del surplus concordatario in deroga alla APR, a stretto rigore, la domanda non potrebbe che essere rigettata in limine dal tribunale ex art. 47, comma 1, lett. b), CCII per violazione di una delle condizioni di operatività della RPR, ossia, nello specifico, la regola della non discriminazione ex art. 84, comma 6. CCII
Se si condivide tale ricostruzione, si può allora agevolmente avanzare una prima proposta interpretativa che consenta l’applicazione congiunta della RPR con l’attribuzione di trattamenti differenziati ex art. 85, comma 1, CCII Si tratta, in particolare, di riconoscere la pertinenza della verifica di conformità della distribuzione concordataria alla RPR al solo giudizio di omologazione del piano non approvato dall’unanimità delle classi, in conformità a quanto previsto dalla Direttiva. Accogliendo questa soluzione, non per caso già autorevolmente sostenuta[69], infatti, il concordato potrebbe essere omologato anche nel caso in cui l’applicazione della RPR sul surplus concordatario comporti che talune classi che siano state trattate diversamente rispetto ad altre classi di pari rango, purché tutte le classi, ivi comprese quelle in questo senso “svantaggiate”, abbiano votato in favore della proposta. In altri termini, la verifica in ordine al rispetto della regola di non discriminazione demandata dalla RPR sarebbe da operare solo nel caso di mancata approvazione ad unanimità delle classi e, anche in tale (non remota) eventualità, dovrebbe operare, non in termini assoluti, ma in termini relativi, ossia avendo esclusivo riguardo al trattamento riservato alle classi dissenzienti, come previsto dall’art. 112, comma 2, lett. b), CCII sulla scorta dell’art. 11, par. 1, lett. c) della Direttiva.
Tale interpretazione, oltre ad essere utile a riassegnare alla RPR il ruolo demandatogli dall’art. 11, par. 1, lett. c) della Direttiva, avrebbe anche il merito di valorizzare ed incentivare in maniera virtuosa la discrezionalità del proponente nell’articolazione della proposta, rimettendo del tutto al “mercato” (del credito, quanto meno[70]) il giudizio sulla meritevolezza della stessa. Invero, in tal caso, nulla osterebbe a che il proponente articolasse una proposta che prevedesse, contestualmente, una distribuzione in deroga alla APR e l’attribuzione di trattamenti differenziati tra creditori di pari rango ove ciò rappresentasse una soluzione tanto più favorevole per tutte le classi rispetto a qualsiasi altra alternativa da meritare l’approvazione all’unanimità. Inoltre, per quel che rileva ai fini di questo lavoro, tale ricostruzione offrirebbe anche una ratio, seppur debole, al riferimento espresso alle “classi”, e non al “grado”, dei creditori nell’ambito della lettera dell’art. 84, comma 6, c.c.: infatti, proprio in quanto la RPR atterrebbe solo ad una fase eventuale dell’omologazione ed opererebbe solo relativamente al trattamento attribuito alle classi dissenzienti, si comprenderebbe la scelta del legislatore di inserire, anche all’art. 84, comma 6°, CCII, il riferimento al trattamento di ciascuna “classe” e non, genericamente, al rango dei creditori.
Tuttavia, come è facilmente comprensibile soprattutto agli occhi di un operatore, tale ultime osservazioni rivelano anche tutti i limiti della ricostruzione appena proposta. Invero, se essa ha il merito di ricondurre, in un’ottica apparentemente teleologica, la disciplina del Codice sui “binari” della Direttiva, allo stesso tempo, essa dà subito luogo ad una serie di ostacoli tali da renderne sostanzialmente inutile la proposizione.
I primi ostacoli sono di ordine eminentemente “pratico”, ma non per questo meno rilevanti. In particolare, si osserva che subordinare la compatibilità della RPR con l’attribuzione di trattamenti differenziati all’eventuale approvazione unanime delle classi – e, in ogni caso, di quelle svantaggiate dall’esercizio di quest’ultima facoltà – costituisce una soluzione che, per diverse ragioni, mina all’origine la razionalità del ricorso al concordato per chi intenda effettivamente avvalersi di tali facoltà su entrambi i piani della distribuzione.
In primo luogo, in quanto nessun proponente si arrischierebbe a presentare una domanda di concordato che non sia originariamente e astrattamente idonea a superare il procedimento di ristrutturazione trasversale, salvo circostanze eccezionali per cui gli possa nutrire l’aspettativa all’ottenimento di un consenso unanime delle classi; le quali, in ogni caso, indurrebbero a domandarsi perché egli scelga di optare per lo strumento concordatario quando, liberandosi di ulteriori vincoli, potrebbe optare per il PRO o, comunque, per una soluzione propriamente negoziale alla propria crisi.
In secondo luogo, in quanto proprio la condizione dell’approvazione unanime delle classi a tal fine costituirebbe, a prescindere dall’abilità del proponente a strutturare una proposta che soddisfi gli interessi economici di tutte le classi, un ineliminabile e ulteriore incentivo per alcune classi a votare “contro”, in una logica opportunista, affossando il tentativo di ristrutturazione. Se è vero che il rischio di una condotta opportunistica dei creditori costituisce un fattore ineliminabile anche del PRO (e, in generale, di tutti gli strumenti “negoziali”), tuttavia, si osserva che le ricadute pratiche derivanti dalla concretizzazione di tale rischio differiscono e di molto tra tale strumento e il concordato in continuità. Nel PRO, infatti, la conseguenza del voto contrario di una classe non pregiudica il tentativo di ristrutturazione dell’impresa, in quanto il proponente è comunque sempre ammesso a modificare la domanda formulando una proposta di concordato ai sensi dell’art. 64-quater CCII Diversamente, il medesimo rischio, se calato nel contesto del concordato in continuità, può tradursi nel diniego dell’omologazione del piano e nella conseguente apertura della liquidazione giudiziale ove il voto contrario provenga da una classe rispetto alla quale non sarebbe accertato il rispetto delle condizioni di cui all’art. 112, comma 2, lett. b), CCII, compromettendo, pertanto, il procedimento di ristrutturazione (salva la sua prosecuzione, ma secondo logiche completamente diverse, come noto, nella liquidazione giudiziale). In sostanza, quindi, per come è stato concepito il sistema, è il PRO lo strumento deputato ai tentativi di ristrutturazione basati su criteri di distribuzione asimmetrici – e, pertanto, sul necessario consenso unanime delle classi – il cui insuccesso, in ogni caso, non pregiudica in maniera definitiva l’obiettivo della viability dell’impresa. Nella medesima prospettiva, invece, sarebbe incoerente con la logica del sistema stabilita dal legislatore – e con la stessa previsione di uno strumento come il PRO alternativo al concordato in continuità – ammettere la stessa identica possibilità nell’ambito del concordato in continuità. Tale circostanza, di contro, giustifica ed evidenzia la razionalità, nella logica di tale sistema, della previsione nel concordato di un controllo ex ante sulle regole di distribuzione (ivi compresa la RPR sul surplus concordatario) a presidio dell’astratta omologabilità del piano[71].
Da ultimo – e in stretta connessione con il punto precedente – la soluzione che “riduce” la RPR ex art. 84, comma 6, CCII alla RPR ex art. 112, comma 2, lett. b), CCII non convince in quanto imporre al tribunale di non vagliare il formale rispetto della RPR nella proposta in sede di ammissione costituisce una soluzione sconveniente in termini di “economia processuale” ed eventualmente dannosa per il sistema complessivamente considerato. Invero, essa imporrebbe l’ammissione alla procedura di domande di concordato l’omologazione del cui piano si baserebbe su nient’altro che la “scommessa”, sia del proponente che del tribunale, dell’approvazione unanime delle classi[72]. Il che, anche volendo assecondare una logica di massima fiducia nel “mercato”, e, cioè, nelle capacità del proponente in sede di articolazione della proposta e nella razionalità dei creditori in sede di votazione, sembra francamente troppo, considerato che, come si è visto, in questo caso, il rischio del “fallimento” della scommessa è il fallimento (recte la liquidazione giudiziale) dell’impresa. Ciò è vero, a maggior ragione, proprio alla luce della previsione da parte del legislatore di un distinto strumento – il PRO, appunto – con cui il proponente, sulla base delle medesime premesse, potrebbe conseguire un risultato analogo e, anzi, più vantaggioso, in quanto rimesso in tutto e per tutto al paradigma dell’autonomia (cfr. supra sub § 1).
A tali inconvenienti pratici, si aggiunge la considerazione, di stampo ermeneutico, per cui la soluzione volta a tracciare un collegamento tra la ratio della RPR ex art. 84, comma 6, CCII e quella della RPR prevista dall’art. 11, par. 1, lett. c) della Direttiva, e, quindi, all’art. 112, comma 2, lett. b), CCII, appare alquanto arbitraria per almeno due ragioni.
In primo luogo, in quanto la stessa, più che offrire un’interpretazione teleologicamente orientata dell’art. 84, comma 6, CCII, si risolve in una sostanziale abrogazione per via interpretativa di tale norma, laddove, di fatto, ritiene che essa debba essere ignorata al fine di fare applicazione del solo art. 112, comma 2, lett. b), CCII Una tale abrogazione implicita è, all’evidenza, inammissibile. Invero, a tal fine, in mancanza di un intervento legislativo, sarebbe necessario, innanzitutto, ammettere la contrarietà dell’art. 84, comma 6, CCII all’art. 11, par. 1, lett. c) della Direttiva Insolvency e, successivamente, come conseguenza, sollevare questione di legittimità costituzionale in via incidentale per contrarietà dell’art. 84, comma 6, CCII agli artt. 11 e 117, comma 1, cost., salva la possibile disapplicazione diretta della norma da parte del giudice in fase di ammissione per contrarietà della medesima alla Direttiva.
In secondo luogo, in quanto non è stata dimostrata, anche ai fini del rilievo precedente, la contrarietà dell’art. 84, comma 6, CCII all’art. 11, par. 1, lett. c) della Direttiva Insolvency. Infatti, anche se, in generale, si può condividere il rilievo per cui l’introduzione, nonché la formulazione, della RPR nell’ordinamento concorsuale è stata indubbiamente propiziata dalla necessità di implementare la Direttiva Insolvency, nello specifico, non altrettanto condivisibile è l’assunto per cui la ratio della disposizione del Codice debba essere forzatamente ricondotta alla ratio di quella della Direttiva. Invero, la circostanza che la Direttiva preveda la RPR a determinati fini non implica che gli Stati Membri non abbiano conservato la legittimazione ad utilizzare la RPR nei rispettivi ordinamenti anche a fini diversi, purché, ben inteso, quest’ultimi non contrastino con quelli della Direttiva. In questa prospettiva, potrebbe allora ritenersi che il legislatore italiano abbia inteso attuare l’art. 11, par. 1, lett. c) della Direttiva mediante l’art. 112, comma 2, lett. b), CCII, e che l’introduzione della RPR all’art. 84, comma 6, CCII costituisca una scelta autonoma votata ad altri fini dell’ordinamento concorsuale.
Un tale esegesi dell’origine e della natura della norma, peraltro, non pare arbitraria come quella che, tracciando un collegamento diretto tra l’art. 84, comma 6, CCII e l’art. 11 della Direttiva, mira a considerare la prima disposizione tamquam non esset al fine di giustificare l’applicazione del solo art. 112, comma 2, lett. b), CCII Ciò in quanto, in una prospettiva storica-evolutiva, non è difficile immaginare e sostenere che il legislatore abbia colto l’opportunità dell’implementazione della Direttiva al fine di prendere posizione rispetto al dibattito che si era sviluppato intorno all’interpretazione della regola di cui all’art. 160, comma 2, L. fall. (cfr. supra sub § 3), disciplinando autonomamente, nell’esercizio della propria sovranità, le regole di distribuzione del concordato in continuità a cui avere riguardo ai fini della valutazione in ordine al rispetto dell’ordine delle cause legittime di prelazione.
Pertanto, si ritiene che non sia inutile analizzare la norma e il ruolo delle classi nella medesima anche in questa prospettiva, nel tentativo di recuperare la piena funzionalità dell’istituto con una soluzione coerente con la logica del sistema e volta a salvaguardarne la razionalità.