BERTOLUCCI, Bernardo in "Dizionario Biografico" - Treccani - Treccani

BERTOLUCCI, Bernardo

Dizionario Biografico degli Italiani (2019)

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BERTOLUCCI, Bernardo

Michele Guerra

Nacque a Parma il 16 marzo 1941, figlio di Attilio (uno dei maggiori poeti e intellettuali del Novecento italiano) e di Ninetta Giovanardi (insegnante di lettere di nascita australiana), fratello di Giuseppe (regista cinematografico e teatrale, 1947-2012).

La famiglia, la formazione

Bernardo frequentò le scuole elementari a Parma, nella frazione allora contadina di Baccanelli, dove i Bertolucci abitavano. Nel 1951 il padre decise di trasferire la famiglia definitivamente a Roma, trasformando Parma e il paese appenninico di Casarola, cui ogni estate si faceva ritorno, in un orizzonte poetico che avrebbe continuato, nel tempo, a rivestire un ruolo di primo piano nella produzione artistica del poeta e dei suoi figli. Critico cinematografico della Gazzetta di Parma e già cinefilo di lungo corso, Attilio cominciò molto presto a portare il figlio al cinema due o tre volte alla settimana, appassionandolo principalmente al cinema americano classico. Accanto alla fascinazione per il grande schermo, fin dal 1947 Bernardo cominciò a scrivere poesie, in un confronto non privo di competizione con il padre. Già nel 1952 Leonida Leoncini segnalava sul Giornale dell’Emilia (24 marzo 1952) i componimenti del ragazzo «nella freschezza dei suoi undici anni», mentre quattro anni dopo sarebbe stato Pier Paolo Pasolini a raccomandare «alcuni deliziosi versi del figlio quindicenne di Bertolucci, Bernardo […] così gratuitamente lievi e felici e insieme già così dentro a una storia» (Pasolini, 1973, pp. 417-418), ammettendolo all’interno di quella sofisticata «officina parmigiana» che era fatta di nomi importanti o promettenti per la poesia italiana.

A quello stesso periodo risale anche la prima e folgorante esperienza di regista. Nel 1956, complice una Bolex Paillard 16mm che un cugino di Attilio teneva a Casarola, Bernardo poté girare, durante l’estate, un piccolo film intitolato La teleferica. Oggi perduto, di questa opera prima del filmmaker quattordicenne rimane solo il soggetto, ritrovato nel 1987 dal fratello Giuseppe (coautore dello script e attore nel film insieme ad alcune cugine), e l’omonima e notevole poesia di Attilio, che sprofonda nel mito questa prima prova cinematografica del futuro premio Oscar. La teleferica rappresentò per il giovane Bertolucci «la prima sconvolgente scoperta che esisteva un’alternativa alla poesia» (Bertolucci, 2010, p. 149) e l’inverno successivo girò un secondo film, pure perduto, intitolato La morte del maiale.

Nonostante il cinema si presentasse come alternativa poetica che liberava Bernardo dal confronto con Attilio senza frustrare il bisogno di esprimere il proprio talento, Bertolucci riprese a scrivere poesie e il suo primo lettore divenne Pasolini, che frequentava abitualmente la casa di Attilio e che proprio in quel giro di anni dedicò a Bernardo la poesia A un ragazzo. Nel 1959, Pasolini si trasferì nello stesso palazzo dei Bertolucci, in via Carini 45, e si consolidò il rapporto che condusse Bernardo a fargli da assistente in Accattone (1961).

Per Bertolucci i primissimi anni Sessanta furono un periodo di particolare intensità formativa: si iscrisse alla facoltà di  Lettere all'Università La Sapienza, ma si rese ben presto conto che le personalità che gli era possibile frequentare grazie alle amicizie del padre (da Pasolini a Cesare Zavattini, da Alberto Moravia a Elsa Morante) sarebbero state la sua vera università, una condizione unica che Pasolini aveva colto in A un ragazzo: «vieni tra gli amici adulti e fieramente/umile, ardentemente muto, siedi attento/alle nostre ironie, alle nostre passioni./Ad imitarci, e a esserci lontano, ti disponi».

Il 1962 fu un anno cardine, che segnò il congedo dalla poesia e l’ingresso nel cinema: la prima (e unica) raccolta di versi, In cerca del mistero, pubblicata in quell’anno da Longanesi, si aggiudicò il premio Viareggio Opera prima e il produttore Tonino Cervi gli propose di scrivere una sceneggiatura a partire da un soggetto pasoliniano intitolato La commare secca. Scrisse la sceneggiatura insieme a Sergio Citti e Cervi ne fu così entusiasta che chiese a Bertolucci di girare il film. Così, in quel 1962, nonostante il premio Viareggio, abbandonò la sua ambizione di poeta e con lo sprezzo del pericolo tipico di un ventunenne e la confidenza nei suoi mezzi che lo accompagnò da subito, diede inizio alla sua straordinaria storia cinematografica.

Il primo periodo: la ricerca del linguaggio

Gli anni che vanno dal 1962 al 1968 furono per Bertolucci anni di sperimentazione e ricerca rispetto a un’identità artistica che poteva rischiare di non formarsi proprio a causa dei tanti modelli di riferimento che lo circondavano. Erano gli anni del cosiddetto nuovo cinema italiano, che tra la fine degli anni Cinquanta e la prima metà degli anni Sessanta vide esordire alcuni futuri maestri (Marco Ferreri, Ermanno Olmi, Pasolini, i fratelli Paolo e Vittorio Taviani, Bertolucci, Marco Bellocchio), che si confrontarono, ognuno a suo modo, da una parte con la tradizione nazionale (il neorealismo, la cui stagione si era chiusa), dall’altra con le 'nuove onde' del cinema europeo e latinoamericano. Erano gli anni della piena consapevolezza del 'cinema d’autore', che favorì il ripensamento del ruolo e della funzione estetico-politica del cineasta moderno, gli anni della semiologia del cinema, dei convegni organizzati dalla Mostra internazionale del nuovo cinema di Pesaro, di avventure critiche moderne e innovative come sarebbe stata quella della rivista Cinema & Film, con cui Bertolucci era in sintonia.

Entro un tale contesto, già La commare secca rappresentò un banco di prova indicativo. La base pasoliniana, la borgata, la definizione dei personaggi che ricalcava quella dei protagonisti di Ragazzi di vita (Milano 1955), Una vita violenta (Milano 1959) e Accattone, avrebbero potuto sperdere Bertolucci entro l’orizzonte poetico di uno dei suoi maestri e per scongiurare tale rischio il giovane esordiente scelse di riscrivere la traccia pasoliniana attraverso uno stile in linea con la modernità cinematografica che lo stava segnando. Mescolò il genere (la detective story che ruota attorno all’omicidio di una prostituta) con il documentario (le interviste alle persone coinvolte nella vicenda) e si segnalò immediatamente per la raffinatezza e la fluidità dei movimenti di macchina e per una certa vocazione alla dispersione narrativa, che era l’opposto della frontalità e della ieraticità narrativa tipiche del cinema di Pasolini: «quando girava una scena, penso si chiedesse “Come la girerebbe Pier Paolo?” e decidesse dunque di girarla in un modo diverso» (Pasolini in Stack, 1970, p. 138). Sul set de La commare secca Bertolucci conobbe Adriana Asti, con cui ebbe la prima relazione importante della sua vita e che sarebbe stata la protagonista del suo film successivo.

Nel 1963 tornò a Parma per girare Prima della rivoluzione (1964), il primo film interamente pensato da lui e pertanto da molti ritenuto il vero esordio come autore. Carico di riferimenti letterari, musicali e cinematografici (da Stendhal a Verdi fino a Rossellini), il film raccontò la provincia conservatrice italiana attraverso l’insofferenza del giovane Fabrizio (Francesco Barilli) che vive una relazione sentimentale con una zia più vecchia, Gina (Adriana Asti). Presentato al Festival di Cannes senza eccessivo clamore, il film ottenne comunque il Prix de la Nouvelle Critique e colpì per l’acutezza dell’analisi sociale e il nuovo sguardo che gettava sulla famiglia borghese (l’anno dopo Bellocchio avrebbe esordito con I pugni in tasca), nonché per la modernità dello stile che fece di Bertolucci il più francese dei registi italiani del momento. Nonostante il buon esito di Prima della rivoluzione, non riuscì a portare a termine due nuovi progetti di film: Natura contro natura, che avrebbe dovuto segnare il suo incontro con il Living Theatre, e Infinito futuro, un film di fantascienza che scrisse con il poeta argentino Mario Trejo. Insieme a un’idea meno strutturata e ispirata al racconto I porci di Anna Banti (Roma 1949), questi film mancati trasmisero all’autore un sentimento di «frustrazione e impotenza» (in Ungari, 1982, p. 45), che lo portò ad accettare la proposta dell’ENI di girare, tra il 1965 e il 1966, un documentario in tre parti che dall’Iran all’Europa raccontasse il tragitto geografico e socio-economico del petrolio. Bertolucci, che aveva anni prima conosciuto personalmente Enrico Mattei grazie al padre (direttore dal 1955 del periodico aziendale Il gatto selvatico), colse l’occasione per portare nel documentario idee visive in linea con la sua ricerca stilistica e tra gennaio e febbraio 1967 venne trasmesso dalla RAI La via del petrolio, uno dei più originali documentari italiani del periodo. Il 1967 fu anche l’anno in cui Sergio Leone decise di affidare a lui e a Dario Argento la sceneggiatura di C'era una volta il West (1968) e in cui uscì il film di Gianni Puccini Ballata da un miliardo di cui era stato cosceneggiatore. Di C’era una volta il West lavorò solo al trattamento, lasciando il progetto per iniziare le riprese del cortometraggio Agonia.

Dopo l’occasione mancata di Natura contro natura, Bertolucci riuscì, grazie a quel corto girato in dodici giorni a Cinecittà, a lavorare con il Living Theatre e a mettere in tensione la modernità cinematografica e quella teatrale. Ispirato alla parabola evangelica del fico infruttuoso, Agonia venne incluso nel film collettivo Amore e rabbia, che uscì nelle sale nel 1969.

Sempre nel 1967, Bertolucci si sposò con la scenografa e costumista Maria Paola Maino, che avrebbe collaborato con lui in cinque film, da Strategia del ragno (1970) a La luna (1979), e da cui si sarebbe separato nel 1972.

Per quanto il lavoro non gli fosse affatto mancato, continuò a considerare gli anni successivi a Prima della rivoluzione come anni di forzata inattività. Oggi paiono piuttosto anni in cui la ricerca del suo 'cinema di poesia' si scontrò con la giovanile incapacità di resistere dentro un’unica idea di cinema e con il bisogno di trovare una forma cinematografica che aderisse alla sua utopia politica.

L’incontro con il Living gli portò in dote l’idea per un nuovo film che avrebbe dovuto dar corpo alla sperimentazione linguistica che continuava a caratterizzare la sua personale riflessione sul medium. Nel 1968 uscì Partner, ispirato a Il sosia di Dostoevskij e incentrato sulla vicenda schizofrenica di Giacobbe (Pierre Clementi), mite insegnante di recitazione a Roma che ha una sorta di doppio che ne rappresenta il lato irrazionale e votato all’azione anche violenta. Bertolucci definì il film «malato», costruito su un’idea approssimativa di contestazione estetica e politica e imbevuto di precetti teorici (da Godard all’underground americano) che lo allontanavano dal pubblico: «quando ho fatto quel film vivevo un tremendo trip di frustrazioni […] e in tutto quel periodo mi ero riempito la testa di teorie malate, magari anche utilissime, storicamente necessarie. Erano teorie cinefile che confondevano la politica con il cinema, senza che in realtà ci fossero idee precise né sull’una né sull’altro» (Bertolucci, 2010, p. 76). Partner fu però un passaggio cruciale, che segnò la fine di un periodo di ricerca forsennato e sofferto e che tuttavia aveva permesso a Bertolucci di misurarsi con il cinema moderno, con il documentario, con il cinema di genere e con quello sperimentale. Un periodo che volle ricordare come il periodo del 'monologo', cioè di un confronto serrato principalmente con se stesso, quasi una terapia, cui sarebbe seguito un periodo del 'dialogo', che diede subito risultati di grande valore.

La consacrazione di un autore: da Strategia del ragno a La tragedia di un uomo ridicolo

Il 1969 fu l’anno delle riprese di Strategia del ragno, uno dei massimi risultati del cinema bertolucciano. Ispirato a Il tema del traditore e dell’eroe di Jorge Luis Borges, il film fu girato nella bassa padana, tra Emilia e Lombardia, e segnò un ritorno alle terre contadine della sua infanzia. Prodotto dalla RAI per la televisione, Strategia del ragno venne concepito per essere un film da grande schermo, sia nel trionfo dei colori che nel respiro delle inquadrature e dei movimenti di macchina. Metafisico e a tratti surreale, ispirato dalla pittura di Ligabue e di Magritte e suggestionato dalle architetture della 'città ideale' di Sabbioneta, Strategia racconta la storia di Athos Magnani figlio (Giulio Brogi) che, tornato al paese del padre suo omonimo ed eroe della Resistenza, ne scopre l’impostura. Riflessione profonda sul potere del mito e sul rapporto tra verità e leggenda, il film rappresentò, in forma psicanalitica, il riconfigurarsi del rapporto tra un padre e un figlio e al contempo il confronto con la storia e in modo particolare con la Resistenza.

Temi che Bertolucci seppe riprendere, in altra forma, nel film che seguì a ruota, Il conformista (1970), che gli valse, tra i molti riconoscimenti, il primo David di Donatello e una nomination ai Golden Globe e agli Oscar. Basato sull’omonimo romanzo di Alberto Moravia (Milano 1951), il film, ambientato tra il 1938 e il 1943, racconta di nuovo di un tradimento stavolta da parte di un figlio (Marcello, interpretato da Jean-Louis Trintignant) nei confronti del padre politico e spirituale, antifascista rifugiato a Parigi. Il film spiazzò la critica, rivelando un Bertolucci diverso da quello «d’avanguardia» (Ungari, 1982, p. 71), più pacificato con i suoi modelli culturali (in questo caso soprattutto il cinema francese e il cinema americano degli anni Trenta) e più disposto al dialogo con il suo pubblico. Il montaggio di Franco 'Kim' Arcalli (che diventò da questo film in avanti una presenza molto preziosa per il regista, sia da un punto di vista politico e intellettuale, che artistico) permise al film di assumere un passo più controllato e cambiò il rapporto di Bertolucci con la moviola e, più in generale, le sue idee sulla costruzione del film. La fotografia di Vittorio Storaro contribuì a rendere la pellicola una delle opere visivamente più raffinate e complesse della filmografia bertolucciana, in cui il tema filiale e paterno incrociava il quadro dell’analisi storico-politica e del sesso come spazio di desiderio e di morte.

Dopo un mediometraggio politico incentrato sulla situazione dell’assistenza ospedaliera e noto come La salute è malata o I poveri muoiono prima (1971) e la collaborazione alla sceneggiatura del film di Gianni Amico L’inchiesta (1971), Bertolucci cominciò a lavorare a Ultimo tango a Parigi (1972). Imperniato sulla storia folle e malata di un uomo (Marlon Brando) e una donna (Maria Schneider) che vivono una sfrenata relazione sessuale all’interno di un appartamento vuoto senza dirsi i loro nomi, scritto insieme ad Arcalli, fotografato da Storaro e musicato da Gato Barbieri, il film è ricordato più per la scabrosità delle scene di sesso e per il grottesco processo che dovette subire, che costò il sequestro e la distruzione della pellicola e a Bertolucci la perdita dei diritti civili per cinque anni. Ultimo tango fu invece un film a suo modo politico nel clima del dopo Sessantotto, un’opera che seppe porre il sesso e la libertà-schiavitù a esso connessa al centro di un sistema relazionale e intersoggettivo che interrogava il rapporto tra i generi, i temi della violenza e della violazione ed erotizzava la regia, la recitazione, il divismo e il legame tra gli attori oltre la finzione (con strascico di polemiche sollevate, molti anni dopo il film, da Schneider). Il film ottenne il Nastro d’Argento per la miglior regia e la nomination agli Oscar per la miglior regia e per il miglior attore protagonista, proiettando definitivamente Bertolucci, poco più che trentenne, nell’Olimpo del cinema internazionale.

Mentre girava a Parigi Ultimo tango, Bertolucci scrisse insieme a Marylin Golden una sceneggiatura basata sul romanzo di Dashiell Hammett Piombo e sangue (1929, trad. it. Milano 1954) e considerò di trarre un film da La condizione umana di André Malraux (1933, trad. it. 1934), progetti che rimasero schiacciati dal prorompere dell’idea colossale di Novecento (1976).

Di nuovo la bassa padana, di nuovo il confronto con la storia (dall’inizio del secolo alla Liberazione), di nuovo la memoria privata che corre lungo un tradimento, che stavolta riguarda il rapporto impossibile tra il padrone Alfredo Berlinghieri (Robert De Niro) e il contadino Olmo Dalcò (Gérard Depardieu), nati lo stesso giorno, compagni di infanzia e giovinezza, infine divisi dal ceto e dalla politica. Scritto con Arcalli e il fratello Giuseppe, fotografato al solito da Storaro e musicato da Ennio Morricone, il film fu una coproduzione internazionale con un cast stellare che, oltre ai giovani De Niro e Depardieu, poteva contare su divi quali Burt Lancaster e Sterling Hayden, su Romolo Valli, Laura Betti, Donald Sutherland e su volti già noti al cinema bertolucciano come Dominique Sanda, Stefania Sandrelli e Alida Valli. Novecento fu il più commerciale, fino a quel momento, film di Bertolucci e al contempo il più ideologico: un film sulla lotta di classe che l’autore avrebbe voluto dedicare al Partito comunista e che finì per contrapporlo a Giancarlo Pajetta, che apprezzò il primo atto e ne biasimò il secondo (mentre i giovani della FGCI difesero con convinzione il film). Novecento rappresentò anche un’occasione di confronto con un orizzonte storico e geografico che apparteneva ad Attilio e che il poeta stava raccontando nel poema La camera da letto (pubblicato negli anni Ottanta), che Bernardo leggeva e che ispirò alcune sequenze del film, rinnovando il confronto mai sopito tra padre e figlio. Il film fu colossale da ogni punto di vista: il set durò un anno, per poter girare le vere stagioni e trattenere la loro luminosità e gli umori che trasmettevano alla campagna della bassa e la durata complessiva superò, in un primo montaggio, le sei ore, ridotte infine a cinque e un quarto divise nei due atti (negli Stati Uniti il film uscì accorciato di un’altra ora). Considerato oggi un film di culto, all’epoca della sua uscita incappò in denunce per oscenità e violenza e fu a sua volta sequestrato, ma a differenza di Ultimo tango a Parigi in questo caso il provvedimento venne annullato dopo pochi giorni.

Nell’anno di uscita di Novecento, Bertolucci lavorò alla sceneggiatura e al montaggio (con Ettore Scola ed Enzo Siciliano) de Il silenzio è complicità (1976), un film-inchiesta di Laura Betti sulla morte di Pasolini.

Nel 1978 sposò Clare Peploe, regista e sceneggiatrice britannica che gli restò legata fino alla morte divenendone la prima e più fidata collaboratrice. Fu con lei e con il fratello Giuseppe che scrisse la sceneggiatura de La luna (1979), la sua pellicola più materna e freudiana. Incentrato sul rapporto ambiguo e infine incestuoso tra una cantante lirica (Jill Clayburgh) e suo figlio (Matthew Barry), il film assunse la forma di un viaggio che dagli Stati Uniti a Roma riporta infine i suoi personaggi a Parma e nella bassa emiliana, fino a farli perdere nella corte delle Piacentine, dov’era stato girato Novecento, mentre vanno in cerca della casa di Verdi. Elegante e carico di simboli (fu in relazione a questo film che Enzo Ungari coniò la definizione di «scene madri» per spiegare il cinema di Bertolucci), La luna venne accolto con una certa freddezza e tacciato di eccessivo intellettualismo, mentre negli Stati Uniti non si perdonò al film l’incesto. Dopo le narrazioni distese che avevano caratterizzato gli ultimi lavori, parve il ritorno a un approccio più teorico e una sorta di nuova riflessione su temi e luoghi che avevano dato forma e vita ai film precedenti.

La tragedia di un uomo ridicolo (1981), primo film che Bertolucci concepì e sceneggiò da solo, tornò invece sui temi della paternità, raccontando il rapporto tra un imprenditore agricolo del parmense, Primo Spaggiari (Ugo Tognazzi), e il figlio (Ricky Tognazzi), attorno al cui rapimento Bertolucci costruì una trama di stringente e agghiacciante squallore familiare e umano. La tragedia sembra quasi un film che voglia enfatizzare la pochezza del suo protagonista con uno stile dimesso, meno grandioso e più trattenuto. Il regista stesso si disse sorpreso per come il film seppe resistere a ogni possibile tentativo di armonizzarlo, per come scaturisse dal corpo solido e dal volto duro e pavido di Tognazzi padre (la cui interpretazione gli valse il premio come miglior attore a Cannes e ai Nastri d’argento). Ritenuto dal regista una sorta di terzo atto di Novecento («volevo addirittura concluderlo con la scritta Fine del terzo atto», in Ungari, 1982, p. 220), è il film che per la prima volta si avvicina al più paterno dei luoghi, Casarola, portando Primo Spaggiari, nella scena maggiormente grottesca del film, nei boschi di castagni dove molti anni prima Bertolucci aveva girato La teleferica; forse coerentemente, è anche l’ultimo film che ambientò in terra emiliana e nel parmense, dove tornò soltanto per girare, nelle Terme di Salsomaggiore, una scena de L’ultimo Imperatore (1987).

Nuove geografie, nuove forme: da L’ultimo Imperatore a Io ballo da sola

Dopo La tragedia di un uomo ridicolo, Bertolucci tentò, senza successo, di riprendere il progetto su Piombo e sangue di Hammett e nel 1983 lavorò con lo scrittore Ian McEwan a una sceneggiatura tratta da 1934 (Milano 1982) di Moravia, che abbandonò quando si accorse che avrebbe ricalcato troppo da vicino alcuni schemi de Il conformista. Fu in quegli anni che lesse l’autobiografia di Aisin Gioro Pu-Yi From Emperor to Citizen (1964), passatagli dal produttore Franco Giovalè, che lo mise in contatto con un’idea di Cina diversa e più complessa rispetto a quella che era stata per lui e per molti suoi amici (Godard in testa) oggetto di discussione politica e sociale attorno al Sessantotto. Partito per la Cina insieme a Mark Peploe e Ungari con in testa sia il film ispirato a Pu-Yi che il lontano progetto su La condizione umana, Bertolucci incontrò intellettuali e artisti (tra cui i registi Chen Kaige e Zhang Yimou) che contribuirono a spostare definitivamente il suo interesse sull’ultimo imperatore, anche perché Malraux non era mai stato tradotto e destava dunque minor interesse. Conquistata la fiducia cinese e un contratto con la China Film Co-Production Company, che consentì al regista di ottenere l’«uso esclusivo» della Città Proibita, nell’estate del 1986 iniziarono le riprese del film, potente affresco della parabola di Pu-Yi, dalla Cina imperiale fino alla prigionia e agli anni della Rivoluzione culturale, un’opera che Bertolucci seppe giocare di nuovo sul crinale tra l’elegia e l’ideologia, dimostrando una capacità fuori dal comune di calarsi in modo perfetto dentro un contesto culturale storicamente così lontano e complesso. The Last Emperor, primo film prodotto per Bertolucci da Jeremy Thomas, fu un trionfo senza precedenti di critica e pubblico, aggiudicandosi nove premi Oscar (tra cui miglior film, miglior regia, miglior sceneggiatura e miglior fotografia a Storaro), quattro Golden Globe e numerosissimi altri riconoscimenti. Il 2 giugno 1988 il regista divenne Grand’Ufficiale dell’ordine al merito della Repubblica italiana.

Bertolucci era una star internazionale e visse questo suo nuovo status come l’irripetibile possibilità di avviare un progetto cinematografico cosmopolita, capace di disegnare nuove geografie, precluse alla gran parte dei registi italiani e internazionali, e soprattutto di mettere alla prova le sue idee formali in contesti tra loro molto diversi. E così (dopo Bologna, un corto girato col fratello Giuseppe nel film collettivo per i mondiali di calcio di Italia ’90, 12 registi per 12 città) tornarono a farsi sentire gli effetti di un'esperienza vissuta anni prima, nel 1973, insieme a Clare, che gli aveva fatto scoprire cosa significa essere 'viaggiatori': fu un viaggio in Oriente, che portò Bertolucci a Singapore, Bali, Bangkok, Nepal e Katmandu e che avrebbe determinato alcune sue scelte autoriali successive, a partire da The Sheltering Sky (Il tè nel deserto, 1990), tratto dal romanzo di Paul Bowles e scritto di nuovo insieme a Mark Peploe. La maestria di Bertolucci nel fondere la fisicità dei corpi (in questo caso di John Malkovich e Debra Winger) a quella del paesaggio raggiunse in questo film il suo apice, confermando la capacità del regista di lavorare sulla malattia del desiderio e proseguendo una ricerca che nell’assumere la forma del viaggio si tramuta in scavo interiore e messa in crisi delle proprie certezze. Il deserto, fotografato da Storaro che garantì la consueta compattezza visiva e sensualità d’immagine, è ora luogo di perdizione e barbarie, ora di autenticità precapitalista, secondo una lettura che era stata pasoliniana e che Bertolucci, in certa misura, fece sua.

Il confronto con le culture 'altre' e la capacità di penetrarle con estrema profondità riapparvero in Little Buddha (Piccolo Buddha, 1993). Bertolucci raccontò che il primo contatto con l’orizzonte buddhista lo dovette a Elsa Morante e a un libro su Milarepa che gli donò durante le riprese di Prima della rivoluzione e che tornò fonte di ispirazione anche per la partecipazione del regista al film collettivo Ten Minutes Older: the Cello (2002). Piccolo Buddha racconta, in parallelo, la storia di un bambino americano ritenuto la reincarnazione di un Lama e la storia di Siddharta (Keanu Reeves) che rinuncia alle sue ricchezze per promuovere una «rivoluzione spirituale» (in Kline, 1994, p. 184). Il film, ultima pellicola di Bertolucci fotografata da Storaro, trasformò in divo Reeves, dimostrando una volta di più le capacità del Bertolucci direttore d’attori e giocò un ruolo importante nella diffusione della cultura buddhista nell’immaginario occidentale di fine Novecento.

Stealing Beauty (Io ballo da sola, 1996) riportò il regista in Italia, sulle colline del Chianti, a raccontare però il paesaggio toscano con gli occhi dello straniero, in un romanzo di formazione che non convinse la critica e che confermava tuttavia l’osmosi visiva tra i corpi e i paesaggi, tra la ricerca di un’identità e di un padre e il dispiegarsi del desiderio. Di nuovo Bertolucci seppe lanciare definitivamente la carriera di una giovane attrice americana, Liv Tyler, che all’uscita del film non aveva ancora compiuto 19 anni.

L’ultima fase, o dello spazio chiuso: da L’assedio a Io e te

Quasi a bilanciare la grande dimensione dei film precedenti, Besieged (L’assedio, 1999) fu un piccolo film pensato per la televisione, ma infine uscito nelle sale, interamente girato a Roma all’interno di un appartamento. Scritto insieme a Clare Peploe e ispirato a un racconto di James Lasdun, il film tornò a chiudere dentro un appartamento un uomo e una donna, un pianista inglese e una giovane africana che studia medicina e svolge alcuni lavori in casa del più anziano signore, dove alloggia. Il rapporto tra culture passa per l’amore impossibile tra il pianista innamorato e la giovane preoccupata per il destino del marito, detenuto in Africa per motivi politici. Il film non ebbe successo, ma inaugurò una fase della carriera bertolucciana che vide una crescente attenzione per gli spazi chiusi, il loro confronto con l’esterno e le psicologie alimentate da questa dialettica tra reclusione e fuga.

Dopo la collaborazione alla sceneggiatura del film di Clare Peploe Il trionfo dell’amore (2001) e la partecipazione al progetto collettivo di Ten Minutes Older: the Cello, con il corto Histoire d’eaux, nel 2003 alla Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia presentò fuori concorso The Dreamers. All’incrocio tra cinefilia, libertà sessuale e rivolta politica, Bertolucci raccontò tre giovani, due francesi (Louis Garrel e Eva Green) e un americano (Michael Pitt) chiusi in un appartamento a Parigi, mentre fuori si prepara e si consuma il maggio francese. Sceneggiato da Gilbert Adair, autore del romanzo da cui il film fu tratto, The Dreamers salda autobiografia e sogno, esperienze vissute e soltanto vagheggiate e riaccese l’antica passione utopica fino a far dire al regista, con citazione paterna, che «qui siamo giunti dove volevamo». Nel 2004 Bertolucci avrebbe dovuto girare un film sulla figura del madrigalista Gesualdo da Venosa, ma il progetto, complice anche la malattia che ridusse gradualmente il regista su una sedia a rotelle, non prese forma né in quell’anno, né a seguito di nuovi annunci.

Nel 2007 la Mostra di Venezia gli assegnò il Leone d’oro alla carriera, mentre nel 2011 fu la volta del Festival di Cannes, che lo premiò con la Palma d’oro onoraria.

Il ritorno in sala si ebbe nove anni dopo The Dreamers con Io e te (2012), basato sull’omonimo romanzo di Niccolò Ammaniti. Ancora uno spazio chiuso, sotterraneo, in un palazzo romano, in cui si rinchiude Lorenzo (Jacopo Olmo Antinori), un ragazzo problematico in fuga da ogni forma di socialità e dalla famiglia. Del tutto casualmente Lorenzo si troverà a dividere quello spazio segreto e libero con la sorellastra tossicodipendente Olivia (Tea Falco). Sapranno prendersi cura l’uno dell’altra e riscoprire una parte di sé che solo in quella chiusura poteva aprirsi. Nonostante il vincolo spaziale, Io e te permise di rivedere l’eleganza e la carnalità tipica del miglior cinema bertolucciano, ritrovando la preziosità di un’ultima e indimenticabile «scena madre» come quella del confronto tra i corpi dei fratellastri sulle note di Ragazzo solo, ragazza sola di David Bowie.

Nel 2014 Bertolucci girò un piccolo film a suo modo sperimentale e dal titolo cinefilo, Scarpette rosse, per denunciare la difficile condizione dei disabili che si muovono sulle strade accidentate di Roma e in quello stesso anno ricevette una laurea honoris causa dall’Università di Parma. Il ritorno nella sua città, dopo tanti anni, fu particolarmente toccante e il regista, che come ripeteva era rimasto «l’ultimo Bertolucci», nella sua lectio magistralis ripartì da Casarola, da dove tutto era cominciato, presentando anche il cortometraggio di Lorenzo Castore (Casarola, 2014), dedicato a quel luogo dell’anima poetica familiare.

Morì in modo improvviso a Roma, a seguito di una breve malattia, il 26 novembre 2018.

Stava lavorando a un nuovo film, The Echo Chamber, di cui era pronta una prima stesura. Tra le poche informazioni che trapelarono, si lesse che sarebbe stato un film su due personaggi in una casa di tre stanze. Fedele a una ricerca, come sempre è stato il cinema di Bertolucci.

Fonti e Bibliografia

B. Bertolucci, La mia magnifica ossessione. Scritti, ricordi, interventi (1962-2010), Milano 2010; Id., Cinema la prima volta. Conversazioni sull’arte e la vita, a cura di T. Lo Porto, Roma 2016.

P.P. Pasolini, Passione e ideologia, Milano 1960; O. Stack, Pasolini on Pasolini, Bloomington 1969; F. Casetti, B. B., Firenze 1975; B. B., presentazione di M. Estève, Paris 1979; E. Ungari, Scene madri di B. B., Milano 1982; R.P. Kolker, B. B., London 1985; In viaggio con Bernardo. Il cinema di B. B., a cura di R. Campari - M. Schiaretti, Venezia 1994; T.J. Kline, I film di B. B.. Cinema e psicanalisi, Roma 1994; S. Socci, B. B., Milano 1995; E.M. Campani, L’anticonformista. B. B. e il suo cinema, Fiesole 1998; J.C. Mirabella - P. Pitiot, Intervista a B. B., Roma 1999; B. B. Interviews, a cura di F.S. Gerard - T.J. Kline - B. Sklarew, Jackson 2000; Dossier B. B., a cura di P. Bertetto - F. Prono,  La Valle dell’Eden, 2002, n. 10-11, monografico; La regola delle illusioni. Il cinema di B. B., a cura di C. Carabba - G. Rizza - G.M. Rossi, Firenze 2003; B. B., La certezza e il dubbio, a cura di F. Gerard, Pordenone 2010; B. B.. Il cinema e i film, a cura di A. Aprà, Venezia 2011; B. B., a cura di G. De Vincenti, Venezia 2012; Una Regione piena di cinema. B. B., a cura di P. Raimondi Cominesi - D. Zanza, Bologna-Alessandria 2014.

Si veda anche il sito bernardobertolucci.org promosso dalla Fondazione Cineteca di Bologna.

Immagine: Bernardo Bertolucci a Roma, 1967, foto di Gideon Bachmann. Per cortesia Archivio Bernardo Bertolucci, bernardobertolucci.org

© Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani - Riproduzione riservata

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