Il placido Don - La Stampa

Recensione di Massimo Carlotto

Il placido Don

Il placido Don di Michail Aleksandrovič Sciolochov è un romanzo dimenticato a causa di un fraintendimento ideologico: troppo sovietico. È vero che ha vinto il premio Stalin nel 1941, il Lenin nel ’60 ma nel 1965 ricevette il premio Nobel per la letteratura. Sarà pure un capolavoro del realismo socialista ma capolavoro rimane e almeno una volta nella vita va letto, anzi vanno letti perché il ciclo si compone di quattro romanzi: Il Placido Don (1928), La guerra continua (1929), I rossi e i bianchi (1933), Il colore della pace (1940).

La critica lo ha sempre sbrigativamente catalogato come una sorta di evoluzione di Guerra e pace, ma con Tolstoj non c’entra proprio nulla. Piuttosto nella scia del «cosacchismo», inquieto e mai domo, di Gogol (Taras Bul’ba) narrando le gesta di Grigorij Melechov, mezzo cosacco e mezzo turco nato in un villaggio rurale dell’Alto Don, prima ufficiale zarista e poi fervente bolscevico. Una lettura unica che permette al lettore di conoscere una delle massime espressioni della cosiddetta prosa ornamentale russa degli anni Venti (duemila similitudini e tremila termini solo per definire il colore). Una grande opera corale impregnata di realismo, un affresco di un periodo storico straordinario di cui offre una lettura affatto scontata. La censura stalinista impose oltre 250 tagli eppure rimangono oltre 1600 pagine scritte da un cosacco poco più che ventenne. Si trova perlopiù sulle bancarelle.