The Last of Us - Stagione 1 - Recensione

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The Last of Us - Stagione 1 - La recensione

LA RECENSIONE IN BREVE

  • La prima stagione di The Last of Us ripercorre in maniera precisa gli eventi del primo capitolo della serie di Naughty Dog (incluso Left Behind), ma fa anche di più: espande in diverse direzioni la narrazione, dando spazio a più voci e sguardi.
  • Anche quando è un adattamento 1:1 dell'opera originale non è mai imitazione, ma sempre una nuova versione dello stesso racconto. Il merito è di un ottimo lavoro di scrittura e regia, ma soprattutto di un cast convincente, Bella Ramsey su tutti.
  • Nel concentrarsi principalmente sui personaggi, viene meno un po' il senso di tensione e di minaccia dato dalla presenza degli infetti e la narrazione, nelle ultime battute della stagione, procede un po' troppo dritta.

Cosa succederebbe se, per esempio, il mondo diventasse più caldo e i funghi avessero la necessità di evolvere per sopravvivere a condizioni climatiche mutate, diventando capaci di proliferare anche nel corpo umano, raggiungere il cervello, prendere il controllo di milioni persone in una furia pandemica senza precedenti? Quello che succederebbe, molto banalmente, è che perderemmo. Più o meno con queste parole un sorprendente John Hannah introduce al pubblico il Cordyceps come una minaccia remota, eppure plausibile, futuribile.

Non voglio dirvi come, non voglio dirvi quando, non è importante, anche se per voi la storia di The Last of Us è qualcosa di familiare, di conosciuto, eppure no, questo passaggio non è direttamente riconducibile al videogioco di Naughty Dog del 2013 per PlayStation 3 e recentemente riproposto in un remake per PlayStation 5 (Voto: 8.5 - Recensione).

Quello che è importante, invece, è l’uso del verbo perdere. Perché a prescindere da come la vogliamo raccontare, a prescindere dalla meta di un viaggio che ci porterà lontano, a prescindere dal punto di vista che vogliamo adottare, The Last of Us è prima di tutto una storia di perdita: di umanità, di speranza, di legami, di lucidità, di fiducia, di amore. Lo era il videogioco nel 2013, lo è la serie TV di Craig Mazin (Chernobyl) e Neil Druckmann (game director e sceneggiatore del gioco originale) prodotta nel 2023 da HBO e in onda da lunedì 16 gennaio in esclusiva su Sky e Now. Se siete qui, dicevo, probabilmente la storia di Ellie e di Joel la conoscete già, per cui togliamo ogni indugio possibile: sì, le 9 puntate (della durata variabile tra gli 82 e i 45 minuti) della prima stagione coprono lo stesso arco narrativo del videogioco e mettono in scena un racconto che è spesso identico alla versione originale, ma allo stesso tempo anche molto diverso, molto altro, non nella sostanza, non negli snodi narrativi, ma nei modi, ovviamente nel linguaggio, nello sguardo, nel legame che instaura con chi è dall’altro lato dello schermo.

Questa dimensione molteplice e per certi versi cangiante, ambivalente, è un valore aggiunto sia per chi scopre The Last of Us per la prima volta in forma di serie TV, sia per chi torna ad attraversare gli Stati Uniti in compagnia di Ellie e Joel per l’ennesima volta. In questo senso, il pregio più grande di questa prima stagione sta proprio nel modo in cui, proprio come il Cordyceps, la narrazione si espande e va a cercare nuovi significati, ad ampliare quelli già conosciuti, a ribaltare alcune prospettive e, soprattutto, a colpire con la stessa forza dove fa più male, toccando ogni possibile nervo scoperto dal punto di vista emotivo, affettivo, esistenziale, scavando, insomma, nelle nostre, di perdite.

Una serie sul mondo di The Last of Us

Nel 2020, nel riflettere sul perché The Last of Us: Parte 2 (Voto: 9.5 - Recensione) avesse rappresentato così tanto per l’intrattenimento, soprattutto in un anno segnato profondamente da una pandemia, su queste pagine dicevamo che la grandezza del gioco di Naughty Dog stava “nella sua capacità di toccare le corde di chiunque, nel bene e nel male” e che, in realtà l’intera narrazione dei due capitoli fosse un unico grande racconto che “parla di noi, del fatto che non deve, non può esistere un loro diverso da noi”. Ecco, nel raccontare di nuovo la prima parte di quella storia, nel tradurla in un altro linguaggio e nello spezzare quel vincolo indissolubile sospeso tra testimonianza e mimesi che il videogioco stabilisce tra noi e il personaggio controllato, The Last of Us, la serie TV, parte proprio dalla consapevolezza del senso della storia nella sua interezza. Se nel 2013 la seconda parte era probabilmente soltanto un’idea, un progetto, nello show televisivo tutto è costruito tenendo chiaramente presente quello che è stato fatto nei videogiochi e l’intero percorso in termini di costruzione dell’universo narrativo, del mondo post-apocalittico, se vogliamo anche nella caratterizzazione dei personaggi.

La serie televisiva di The Last of Us trova così compiutezza narrativa proprio nella pluralità degli sguardi che mette in scena intorno a Joel ed Ellie, nel senso di narrazione ambientale raccontato dai tanti inserti che raccontano quello che c’è prima, quello che abbiamo perso, come esseri umani, e quello che hanno perso tutte le persone con cui si intreccia la storia dei due personaggi principali. Pur mettendo al centro il viaggio e il rapporto tra una giovanissima ragazzina che si ritrova, suo malgrado, ad avere una responsabilità troppo grande sulle spalle e un uomo profondamente segnato dal dolore per la sua perdita, la serie si prende comunque il tempo per indagare sulle motivazioni degli altri personaggi, attraverso inserti e blocchi narrativi integrati nel flusso della narrazione e, a volte, in grado di descrivere periodi di tempo molto lunghi, utili a farci intravedere cosa è successo nei vent’anni che separano l’inizio dalla pandemia dagli eventi raccontati nell’arco narrativo principale. Nel giocare con il tempo, Mazin e Druckmann, intanto, hanno preso alcune decisioni interessanti in discontinuità con il gioco, come per esempio scegliere di spostare le lancette della fine del mondo dieci indietro, al 2003, per ambientare la storia di Ellie e Joel nel 2023 e, sostanzialmente, stabilire un rapporto di prossimità con il pubblico più immediato. È una scelta che sposta leggermente l’asse tecnologico del mondo, ma che ci sbatte addosso come contemporanee le conseguenze della pandemia e che allinea in maniera televisivamente molto efficace una serie di riferimenti culturali, sia musicali, sia videoludici, sia cinematografici.

La seconda scelta forte in termini di adattamento è stata come interpretare il lato più action del gioco e, di conseguenze, rapportarsi forse al più grande problema di ritmo narrativo di The Last of Us, ovvero l’alternanza quasi scientifica di scontri, a volte anche forzati, con infetti e umani. Non avendo la necessità di dover strutturare il legame con il pubblico attraverso una fase attiva e dovendo gestire il (pur faraonico) budget, gli showrunner hanno deciso di ridurre allo stretto necessario gli scontri e, per certi versi, anche il senso di minaccia costante che si avverte nel videogioco. Ellie e Joel si concentrano soprattutto sulla sopravvivenza e sulla necessità di evitare il più possibile di dare nell’occhio. Questo non significa che manchino azione, violenza e brutalità, anzi, ma The Last of Us resta una serie lenta, compassata, che si concentra sull’evoluzione dei personaggi e delle loro motivazioni. La violenza fa parte di quest’equazione e anzi, lo show fa un ottimo lavoro nel farci percepire quanto la società militarizzata, impaurita e incattivita del 2023 post-pandemico sia brutale, spietata e risponda a regole profondamente diverse dal mondo di prima.

Lo fa, mi viene da dire, seguendo l’esempio di The Last of Us: Parte 2, mostrandoci l’atrocità direttamente nella normalità di un mondo sporco, grezzo, aggressivo e, per contrasto, anche facendoci intravedere di tanto in tanto un barlume di speranza e un modo diverso di fare le cose. In questo senso, quando la violenza esplode è ancora più cruda e terrificante e ha sempre conseguenze forti sui personaggi. Questo significa che all’interno dei nove episodi c’è una sola sequenza che prova a restituire il senso di ansia e minaccia durante l’esplorazione dei corridoi di un edificio abbandonato - tra l’altro, una scena bellissima nell’episodio diretto da Druckmann stesso - e che si perde un po’ il fascino della specificità dei diversi infetti, ma dal punto di vista narrativo si guadagna coesione e intensità, visto che la posta in gioco di ogni scontro diventa molto più alta.

Una nuova versione dello stesso racconto

Parlare di The Last of Us soltanto in termini di adattamento però, è riduttivo, nella misura in cui sì, è chiaramente frutto di un percorso che parte dai giochi originali, passa per il Remake, con cui condivide alcune scelte registiche di allargamento dello sguardo e definizione del mondo, e arriva poi in TV facendo tesoro di tutti questi passaggi. Tuttavia, è una serie televisiva che funziona di per sé perché pensata per essere un prodotto televisivo autonomo rispettando codici, linguaggi e cifre della narrazione episodica.

Il merito, per quanto mi riguarda, è da ricercarsi soprattutto nella gestione degli elementi di discontinuità rispetto al materiale originale e nel non sembrare mai un’imitazione, ma sempre una nuova versione dello stesso racconto. Questo scarto, fondamentale per rendere sempre la narrazione credibile, accende immediatamente la luce su un cast eccellente, a partire da Bella Ramsey, fantastica nei panni di Ellie, nel restituire tutta la sua vitale irruenza e terrore nella sua performance nervosa, divertente, sgarbata, eppure così fragile e tenera quando si lascia andare alle sue emozioni. Allo specchio c’è il Joel di Pedro Pascal, più logoro di quello del gioco, ancora più segnato, meno atletico, ma anche più umano nella sua estrema fallibilità. I rapporti di forza tra i due, così come l’alchimia che si viene a creare sullo schermo è tra le cose più preziose di questa prima stagione, ma sarebbe sbagliato fermarsi a loro due.

Aver investito tanto in una narrazione che lascia molto spazio ai personaggi secondari ha, infatti, permesso a tutto il cast di metterci il suo, e se nel primo episodio bastano pochi istanti a Nico Parker per farci legare con Sarah, per quanto mi riguarda, la prova di Nick Offerman e Murray Bartlett nei panni, rispettivamente, di Bill e Frank, è difficile da dimenticare. In assoluto, la terza puntata, dedicata proprio alla relazione tra i due personaggi, è uno dei punti più alti della serie, nonché uno dei colpi emotivamente più forti da metabolizzare, anche soprattutto grazie all’espressività dei due attori.

 
Il rapporto tra Joel (Pedro Pascal) e Sarah (Nico Parker) emerge in maniera ancora più emotivamente coinvolgente nella serie TV.

L’elenco potrebbe continuare, perché anche Anna Torv nei panni di Tess si prende con veemenza la scena nella seconda puntata, così come Keivonn Woodard dà un’interpretazione originale e commovente del piccolo Sam, ma volendo anche la Riley di Storm Reid porta con sé un mondo tutto suo. Ecco, oltre a essere perfettamente in parte, quello che mi ha colpito della direzione del cast, della scrittura dei personaggi e delle performance dei loro interpreti è la capacità di aggiungere sempre diversi livelli di lettura. Tutti i personaggi, anche quelli più controversi e gli antagonisti, ci fanno vedere il mondo dal loro punto di vista ed è quasi sempre possibile trovare un senso nelle loro motivazioni, soprattutto perché calate in un mondo in cui la brutalità è il prezzo da pagare per sopravvivere. Questo lavoro di scrittura, chiaramente ereditato da The Last of Us: Parte 2, ma anche da Chernobyl di Mazin, e adattato al linguaggio televisivo, riesce espande l’universo narrativo e racconta qualcosa di diverso anche a chi, come me, in teoria sapeva già tutto, o quasi, sin dall’inizio.

La scelta di andare alla ricerca di altre storie attraverso inserti, dettagli, ricordi, è quasi sempre interessante, tranne forse quando vuole eccedere nello spiegare troppo bene alcuni passaggi, così come funziona anche l’alternanza, in cabina di regia, tra specialisti del mondo della TV (Craig Mazin, Peter Hoar, Jeremy Webb, Liza Johnson), registi da festival (Jasmila Zbanic e Ali Abbasi) e game director (Neil Druckmann), perché non fa altro che assecondare e alimentare, anche dal punto di vista del linguaggio filmico, l’alternanza di voci e sguardi che caratterizza la narrazione. Pur senza mai perdere di vista il fulcro della narrazione, che resta in ogni momento il viaggio di Joel ed Ellie, durante la prima stagione c’è spazio per diverse tematiche strettamente attuali, intrinsecamente politiche, che confluiscono naturalmente nei discorsi, nelle inquadrature e arricchiscono quella che è a tutti gli effetti una serie sul mondo di The Last of Us.

 
Bella Ramsey è la miglior Ellie che potessimo mai immaginare.

Funziona tutto, dunque? Quasi, nella misura in cui a volte alcune soluzioni mi sono sembrate meno eleganti di altre, soprattutto in un contesto dove quasi sempre cause e conseguenze vengono veicolati in maniera sottile. Non voglio entrare nel dettaglio per evitare spoiler (perché sì, in effetti, lo sarebbero anche per chi conosce il gioco), ma nel dittico diretto da Ali Abbasi (le ultime due puntate) c’è una sequenza che mi è sembrata piuttosto forzata e che per la smania di spiegare, far vedere, sottolineare con il pennarello a punta doppia, finisce per essere semplicemente esagerata, e va anche a infrangere una cifra stilistica che pur nella rappresentazione di un mondo brutto e sporco, era sempre stata delicata sugli aspetti più umani. Inoltre, sempre nella parte finale, la scelta, in controtendenza rispetto al resto della stagione, di procedere praticamente in modo esattamente identico al videogioco forse è un’occasione un po’ sprecata di lanciare un amo verso il futuro, ma al netto di questo, come dicevo, è una serie TV che funziona in quanto tale.

Un'opera convergente

Funziona, dunque, The Last of Us, perché è pensata come uno show televisivo di alto profilo, ma perché, soprattutto è un evidente sforzo collettivo di tutti i talenti coinvolti, segno che alla fine, spesso le chiavi per migrare da un medium all’altro sono due: avere la possibilità (e i mezzi) per lavorare bene e sapere cosa si sta facendo, che mi rendo conto che sono due condizioni basilari per riuscire in qualsiasi impresa ma che no, non sono affatto scontate.

 
Perché è una serie sul mondo di The Last of Us, oltre che essere un suo adattamento.

Come dicevo in apertura, quello che colpisce della prima stagione della serie targata Naughty Dog e HBO è la consapevolezza con cui è stato affrontato il progetto. La sensazione, e qui arriviamo agli aspetti più tecnici, è che la logica portante non sia stata quella di trasformare il videogioco in una narrazione seriale televisiva, ma quella di tradurre prima di tutto il complesso lavoro di world building alla base della serie di Naughty Dog in un universo diegetico che funziona in televisione. Una volta fatto quello attraverso l’espansione di alcune linee narrative e tutto quello che ho finora chiamato generalmente inserti ma che, di fatto, sono sequenze di raccordo che ci raccontano la storia del mondo, il resto è stato pensare a come rendere tangibile e reale lo scenario post-apocalittico.

Dal punto di vista della direzione artistica è chiaro che la matrice di base è, ancora una volta, The Last of Us: Parte 2 in termini di direzione della fotografia, di grana del mondo e anche di elementi scenici, ma è altrettanto vero che all’interno della messa in scena c’è una costante opera di convergenza di ispirazioni, che va da La Guerra dei Mondi di Spielberg e arriva fino a The Division nel modo in cui il vecchio e il nuovo mondo dialogano attraverso le rovine della civiltà degli anni 2000. Stilisticamente il mix funziona bene e aiuta a trasmettere quella sensazione di sporcizia e squallore arrugginito che deve veicolare l’ambientazione, anche se nel mix tra computer grafica ed effetti pratici, quando a prevalere è la CGI, a tratti ho patito un po’ l’effetto finzione, soprattutto quando Ellie e Joel si muovono tra i grattacieli delle metropoli distrutte. C’è da dire che, come annotavo nel box dedicato, la condizione di visione non è stata ottimale visto che ho guardato una versione non definitiva al 100% della stagione. In ogni caso, questa sensazione di posticcio degli sfondi l’ho notata anche nel pilota che mi è sembrato abbastanza “chiuso”, per mi sento abbastanza sicuro di questa osservazione. Buona invece, la resa degli infetti, soprattutto dei runner e dei clicker, dove la prevalenza di effetti pratici riesce a restituire la viscosità e l’invadenza dell’infezione di natura micotica.

 
La brutalità del mondo è sempre presente, anche quando è muta, nel look sempre teso e sporco dei personaggi.

Semplicemente belle, infine, tutte le sequenze ambientate nei set in esterna, dove la desolazione e la suggestività degli scenari contribuiscono a veicolare quel senso di perdita e malinconico smarrimento che è alla base dell’intera narrazione. Ma, più di tutto, alla fine come accadeva anche nel videogioco, non sono i singoli elementi in sé a funzionare di The Last of Us, anche in TV, ma è la sua capacità di intrecciare simboli e significati, storie di origini e di speranze, motivi narrativi e musicali, attualità e fantascienza. Nella sua trasposizione in forma di serialità televisiva l’opera di Naughty Dog forse perde specificità e, se vogliamo, anche un pizzico di originalità, ma continua a funzionare perché conserva la sua caratteristica più forte, ovvero quella di essere pensata come un’opera convergente, capace di accogliere dentro di sé codici, significati, linguaggi e anime differenti. Come i funghi, come i Cordyceps, The Last of Us muta, perde pezzi di sé e ne acquista altri, cambia forma, ma continua a evolversi e trovare un modo di raggiungere un pubblico sempre più vasto.

The Last of Us andrà in onda in esclusiva su Sky e in streaming solo su NOW dal 16 gennaio in contemporanea assoluta con HBO.

Verdetto

La prima stagione di The Last of Us di HBO conferma tutto il potenziale di narrazione convergente crossmediale che, da sempre, ha caratterizzato l’opera di Naughty Dog. La serie TV non è solo un adattamento intelligente del videogioco del 2013, ma è una nuova versione dello stesso racconto, che allarga lo sguardo, moltiplica i punti di vista e sfrutta il linguaggio della serialità televisiva per mostrarci spiragli di un mondo più grande e di una storia collettiva, pur mettendo al centro il viaggio di Joel ed Ellie e il loro rapporto. Il modo in cui espande la narrazione originale del gioco e in cui introduce anche elementi di discontinuità è interessante perché non solo rappresenta un valore aggiunto per chi già conosce la storia, ma anche perché è un modo per far evolvere la narrazione originale e integrare alcune idee chiaramente figlie del secondo capitolo dell’avventura e di una visione di insieme più compiuta sull’intera narrazione e sull’universo creato da Naughty Dog. Il connubio tra Craig Mazin e Neil Druckmann dà vita a una serie TV che funziona bene, che predilige i ritmi lenti e l’impatto emotivo all’azione, anche a scapito del fascino degli infetti e della loro specificità. Questo non vuol dire che non ci sia spazio per l’azione o la tensione: la violenza e la brutalità del mondo di The Last of Us sono sempre presenti in qualche modo sulla scena, e quando esplodono sono laceranti. Tanto quanto lo sono, in maniera opposta, i momenti più umanamente toccanti, che fanno male come la prima volta, o forse di più. A voler trovare il pelo nell’uovo, non tutta la computer grafica convince e nel finale si lascia prendere un po’ dalla fretta e dalla voglia di spiegare, ma nel complesso Neil Druckmann aveva ragione: è probabilmente il miglior adattamento di sempre di un videogioco in forma filmica.

In questo articolo

The Last of Us - Stagione 1

15 Gennaio 2023

The Last of Us - Stagione 1 - La recensione

8.7
Buono
Un adattamento intelligente, una nuova versione dello stesso racconto, ma soprattutto una serie bella ed emozionante.
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