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Joseph Kahn e la strategia digital first del New York Times

Joe Kahn è un generale nella Last Great Newspaper War. L'ultima grande guerra tra giornali

di Marco Valsania

3' di lettura

Riproponiamo l’intervista del 2018 a Joseph, Joe, Kahn, giornalista del New York Times nominato nuovo direttore del quotidiano Usa il 19 aprile 2022. Assumerà l’incarico a giugno.

Joe Kahn è un generale nella Last Great Newspaper War. L'ultima grande guerra tra giornali. Una sfida – oggi – anche di innovazione digitale tra due storici marchi del giornalismo. Il ringiovanito New York Times e il risorto Washington Post. Il piglio del managing editor del Times, braccio destro del direttore Dean Baquet, è quello di chi sa d'essere uno dei duellanti. A 53 anni ha alle spalle due Pulitzer ma non è seduto sugli allori: vede testate capaci di far sempre proprie le tecnologie che avanzano, di catturare un pubblico «disposto a pagare per il contenuto». O meglio «l'accuratezza, l'ampiezza, la profondità, la qualità dell'informazione».

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Mi riceve tra una riunione e l'altra. In una sede sull'8a Avenue che porta le cicatrici delle continue trasformazioni. Racconta però quanto le cose siano ormai cambiate. Lo storico quotidiano è ora diventato digital first. «Le entrate da abbonamenti sono molto superiori rispetto alla pubblicità, 65 contro 35%. E il segmento più in crescita è quello delle subscription digitali. Non ci aspettiamo che continuino ai ritmi dell'inizio dell'era Trump, ma cresceranno».Il momento della verità è arrivato con la Innovation strategy tenuta a battesimo nel 2014. «Quando abbiamo scoperto che un'organizzazione caratterizzata dal primato degli abbonamenti digitali richiedeva più trasformazione di quanto immaginato». Esempio concreto: la separazione della produzione del giornale cartaceo dal news desk. «La maggior parte delle redazioni produceva la rispettiva sezione nel giornale».

Non più: «I desk non sono più responsabili dell'edizione cartacea, bensì del digital report. Un'altra squadra crea la sezione dopo che le storie sono uscite su piattaforme digitali e questa non rispecchia necessariamente il digital report».Semplificare il lavoro dei desk ha consentito «di pubblicare le storie quando hanno la miglior performance, di pensare in maniera più creativa ad altre piattaforme non solo nostre come Facebook, Twitter, YouTube per i video. Di liberarsi e fare un giornalismo guidato da elementi visivi anziché dal testo». La “carta”, insomma, non deve soffocare l'abilità del desk di produrre in quantità e qualità storie digital e visual. «Spezzare quel legame dà spazio per crescere, cambiare la cultura della redazione e la natura del “news report” quotidiano». Tra i servizi di maggior successo c'è un podcast quotidiano di venti minuti, The Daily, sui “must” di giornata. È una rivoluzione non facile e che ha pagato un prezzo in controversie. Un caso simbolico è scoppiato sulla trasformazione dei gloriosi copy desk incaricati di scovare errori.

«Abbiamo semplificato la struttura di editing, concentrandola nei desk di origine delle storie e non più su desk separati. Era un sistema approfondito, ma troppo lento per il digitale». Kahn giura che lo sconcerto iniziale è passato. Altra svolta discussa è stata l'espansione dell'universo del “branded content”.Da esperimenti giornalistici quali Daily 360, video con tecnologia di realtà virtuale sponsorizzato da Samsung. A una vera e propria agenzia pubblicitaria interna d'avanguardia, T-Brand Studio.

«La collaborazione tra newsroom e inserzionisti – dice Kahn – richiede cautela. Se troviamo inserzionisti disposti a sostenere giornalismo di qualità, bene. Non lasceremo però che la newsroom produca contenuto per pubblicitari». T-Brand rimane del tutto «separato, un'agenzia creativa che non fa parte della newsroom». Anche se ammette che problemi nascono di volta in volta: «C'è dibattito su quanto e quale spazio diamo sulla homepage. Servono controlli stretti, ma l'esperienza di leggere il Times è giornalistica, i contenuti sono identificabili e i nostri standard non cambiano».Kahn raccoglie con una battuta la sfida con il Post: «Vinciamo noi».

Applaude il rivale perché la competizione fa bene: «È uno dei maggiori concorrenti nella corsa ai digital media e nelle storie al centro dell'attenzione, la politica di Washington». Ma, aggiunge, «non siamo equivalenti. La nostra copertura è più ampia, approfondita, nazionale e globale – da business a cultura, da cinema a tech, da reportage a cucina. E ci distinguiamo anche nel digitale, nei video, nelle arti visive, nello storytelling».

Il Times vanta 2,2 milioni di abbonati digitali, il doppio del Post, e 3,2 milioni totali, a prezzi superiori; 1.350 giornalisti, 600 più del Post; e una rete di 30 uffici esteri e 75 corrispondenti. Edizioni in mandarino come in spagnolo. A suo avviso il Post sta affinando la sua strategia a ruota del Times – vale a dire la scelta «di aumentare gli abbonamenti digitali valorizzando giornalismo di qualità». Kahn è ottimista sul modello di business del futuro almeno per le grandi testate. «Pochi sanno offrire giornalismo analitico, scettico, investigativo». La scommessa è quella di essere sempre più rilevanti e disponibili ovunque. «Molto lavoro resta da fare per capire il pubblico di oggi e del futuro – avverte – ma in tutto questo la newsroom rimarrà il cuore».

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