INDIANA JONES E IL REGNO DEL TESCHIO DI CRISTALLO - Spietati - Recensioni e Novità sui Film
Avventura

INDIANA JONES E IL REGNO DEL TESCHIO DI CRISTALLO

Titolo OriginaleIndiana Jones and the Kingdom of the Crystal Skull
NazioneU.S.A.
Anno Produzione2008
Genere
Durata124'
Sceneggiatura
Tratto dada un soggetto di George Lucas e Jeff Nathanson
Fotografia
Montaggio
Scenografia

TRAMA

Indiana Jones, cacciato dall’Università, incappa in Matt, giovane “ribelle” che ha ricevuto una misteriosa lettera di un suo vecchio professore, nonché amico e collega dell’archeologo. Ha inizio l’avventura.

RECENSIONI

'Estremo', 'definitivo' capitolo non soltanto delle avventure dell'archeologo, ma del cinema d'avventura tout court (derivazione del racconto tomico - thoma, 'meraviglie', 'curiosità'), esempio di cristallizzazione di un modello narrativo 'puro' defenestrato nel e dal cosiddetto 'postmoderno', di cui Spielberg e compagnia, orgogliosamente (se consciamente), annunciano la 'fine', Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo è doppiamente segnato dal Ritorno (parola-chiave del film): del ritorno di un eroe divenuto Mito popolare; del ritorno nella scrittura di elementi e strutture portanti del genere e della serie, che Spielberg chiede allo spettatore di individuare e riconoscere, di decodificare per poter vedere e guardare. Il 'percorso' della percezione e cognizione spettatoriale dell'universo diegetico è assimilabile a quello che intraprende la compagnia guidata da Henry Jones: decriptare i segni (geroglifi per gli attanti/oggetti o situazioni narrative per lo spettatore) per accedere alla visione/conoscenza (vedere è sapere).

Indy-viduazione

Lo spettatore è chiamato ad 'Indy-viduare' il visibile, la sua partecipazione 'attiva' al gioco ipertrofico, irresistibile e a tratti volutamente bigger than Fiction imbastito dagli autori è vincolata al riconoscimento di oggetti-feticcio, di simboli, di un meccanismo, di un fraseggio. Spielberg iconicizza il suo eroe per metonimia e riflesso: l'oggetto viene prima del soggetto (cappelloàIndiana), e tra i due si insinua l'Ombra del 'Mito' (proiettata sullo sportello dell'auto: cappelloàombraàIndiana). Indy, entrato a far parte dell'immaginario collettivo, ritorna al cinema 19 anni dopo L'ultima crociata 'sdoppiato': si ripresenta, agisce e reagisce come l'archeologo che ben conosciamo, stesso Character, medesima 'maschera', ma la sua messa in scena e in spazio ne celebra il Mito collettivo erigendogli un ideale monumento (funebre?) che trova nella proliferazione di silhouettes la sua ipostasi filmica. Come nella sequenza notturna sotto il tendone allestito dai perfidi russi dove Indiana Jones è tenuto prigioniero; la sua Ombra gigante proiettata su uno 'schermo diegetico' finisce con l'inghiottirlo. L'Indy personaggio è 're-inquadrato' dalla simbolica diegetizzazione dell'immaginario spettatoriale, del suo Mito perpetuatosi e cresciuto nel corso degli anni. A dismisura, al punto che l'eroe non può più palesarsi sullo schermo senza 'dialogare' con la sua 'immagine' extratestuale, diffusa, circolante nella società, inevitabilmente più grande di lui.
Riconoscere ciò che Indy è e ciò che Indy rappresenta, ma riconoscere anche un meccanismo narrativo collaudato. Il quarto capitolo contiene tutti gli altri episodi, è una sorta di ipertesto per adepti, con situazioni già viste, o meglio, viste 'diversamente' nei Predatori, nel Tempio maledetto o nell'Ultima crociata che ritornano talvolta raddoppiate, triplicate, quadruplicate (un esempio su tutti: le cascate, una nel Tempio, TRE nel Regno, tra l'altro ironicamente computate da Indie).

come il Racconto finisce...

Il teschio di cristallo è l'oggetto simbolico che funge da tramite tra la 'visione passiva' e la 'visione-conoscenza', tra il vedere e il guardare: tutti vedono, pochi guardano; molti pensano di guardare (gli americani, a cui non interessa sapere ma 'accumulare'), pochi aspirano alla visione totalizzante, a qualunque costo (gli studiosi usciti dalle biblioteche, ma anche i sovietici, 'dogmatici' come gli 'adoratori' di divinità, che vogliono vedere/sapere per plagiare le menti di coloro che non sanno e mai sapranno). Ma chi guarda, rischia, come i profeti o i molti epigoni di Tiresia, come i Pre-cog di Minority Report, di rimanere accecato o di perdere il senno: attingendo al Sapere assoluto e iper-illuminante, il 'mistero' viene dissolto, l'Enigma risolto, in ultima analisi finisce l'epoca del racconto d'avventura quale stratificazione di indizi, di microsaperi per recuperare l'Oggetto Valore. Perché? Negli altri episodi, Oggetti-Valore erano l'Arca dell'Alleanza o il Sacro Graal, che rinviavano a 'Verità' di questo mondo. Dunque, la risoluzione era parziale e '(ultra)terrena'. In questo episodio, la Verità alla quale si accede è Universale, Intra-Universale e la risoluzione è, dunque, totale e totalizzante. Questa 'omniverità' lo spettatore potrà 'misurarla' a partire dagli 'effetti' che produce: la morte per 'hybris' dell'agente Irina Spalko, la distruzione del Tempio e, simbolicamente, la distruzione dello spazio scenico, 'risucchiato' dal vortice prodotto dallo 'scioglimento' dell'Enigma degli enigmi. Il Racconto (Iper-EnigmaàIper-Risoluzione) dei racconti (micro-enigmiàmicro-risoluzioni) è finito, perché non ha più ragion d'essere (cosa può esserci di più enigmatico dell'Iper-Enigma e di più risolutivo dell'Iper-Risoluzione?), Indie può così appendere il cappello al chiodo (nonostante le folate di vento') e 'normalizzarsi', lasciando che la sua Ombra mitica, fugace come quella di Peter Pan, ritorni a far parte del Mondo...

Dopo 19 anni Indiana Jones torna a invadere gli schermi del pianeta. La imponente macchina promozionale ha preparato l'evento per tempo: lunghi mesi con dettagli in pillole della trama, diffusione del titolo come rivelazione di un grande segreto, fotografie di scena rubate, anteprima mondiale al festival di Cannes e, ovviamente, uscita globale "day-and-date", con spettacoli notturni e proiezioni mattutine. Il tutto per un'operazione nostalgia che cerca di restare fedele alle origini del mito (avventure d'altri tempi con ironia sdrammatizzante) facendo il possibile per agganciare anche il teenager contemporaneo, vera forza trainante, stando alle statistiche, dell'attuale mercato cinematografico. Ecco quindi il passaggio del testimone dal sessantacinquenne Harrison Ford (in gran forma) al giovane Shia LaBeouf, già entrato nelle grazie degli adolescenti in seguito al successo di Disturbia e Transformers. Al di là dei calcoli sottesi al progetto, che comunque qua e là fanno capolino, il film si configura come un colossale giocattolone non privo di divertimento, anche se tutto sommato inferiore ai capitoli precedenti. Se il soggetto, con un'ambientazione in piena Guerra Fredda ed echi fantascientifici, avrebbe elementi di interesse, la sceneggiatura di David Koepp non trova però l'equilibrio necessario per rendere digeribili spiegazioni storiche, dettagli scientifici, varianti pseudo filosofiche, caratteri dei personaggi e dialoghi scoppiettanti. Sembra tutto o inutilmente complicato e verboso oppure fin troppo semplicistico. La corsa narrativa per raggiungere la mitica Eldorado e consentire al Luna Park di entrare nel vivo non ha infatti sufficiente mordente e gli eventi si susseguono senza sosta ma in deficit di logica. Si passa da un set all'altro senza capire bene il perché, con lunghe sequenze, soprattutto nella prima parte, che, prive di adeguate premesse ma con l'obiettivo di chiarire il più possibile la trama, finiscono per ottenere, paradossalmente, l'effetto di ingarbugliare senza avvincere. Poco incisivo anche il prologo, di solito efficace proprio per la sua stringatezza e invece esageratamente lungo e meccanicamente rocambolesco. Tra gli elementi a sfavore anche l'entrata in scena dei personaggi: a parte il gustoso gioco d'ombra che annuncia la presenza di Indy, le altre si affidano alle citazioni (terribile quella sfacciata di LaBeouf che scimmiotta Il selvaggio Brando), al carisma dell'attore (una caricaturale Cate Blanchett) o all'attesa (una Karen Allen simpatica ma da sit-com). Ultimo aspetto poco riuscito, sicuramente il teschio del titolo. I dettagli scenografici sono spesso determinanti per creare un'atmosfera persuasiva, invece il testone trasparente che spesso gli attori si rigirano tra le mani non trasmette alcuna fascinazione, anzi, in più di un'occasione sembra di assistere a una kitschissima parodia shakespeariana. Ingenuità, pressappochismi e astuzie a parte, il resto è puro action-movie in stile Spielberg/Lucas, quindi scivola che è un piacere.

Con Indy 4 può dirsi conclusa la geront(r)iade biennale inaugurata e ribadita da Sly (Rocky Balboa, John Rambo) – ovvero – ‘80 voglia di vecchie glorie. Se però quello di Stallone è stato l’orgoglioso ritorno a una personale mitopoiesi da sancire e perfezionare, con continuo compenetrarsi di tragico, epico e patetico, Spielberg gioca decisamente la carta del divertissement senza troppe pretese (eccettuate quelle economiche), da prendere per quello che è. Che forse è un modo come un altro per dire che Spielberg è semplicemente invecchiato – oppure, ancora – che Steven Spielberg non sente più quel(lo che una volta si chiamava) cinema-cinema che lo ha reso Steven Spielberg. Com’è come non è, Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo esige un settaggio delle aspettative sul basso per essere goduto appieno. Perché da godere, comunque, ce n’è. L’immersione nel nuovo universo temporale e (meta)cinematografico di riferimento (i ’50 della Guerra Fredda, degli UFO, de Il Selvaggio citato al fotogramma) con un occhio di riguardo alla tradizione originaria di Raiders (Errol Flynn, i fumetti di Milton Caniff), i riusciti sprazzi da commedia brillante “pura”, affidati in massima parte ai duetti tra l’autoironicamente invecchiato Harrison Ford e la rediviva Karen Allen, ben amalgamati col contesto avventuroso, ma soprattutto la competenza squisitamente cinematica di Spielberg: i vari Joe Johnstone, Stephen Sommers o Gore Verbinski hanno decisamente molto da imparare da Mastro Steven in termini di coreografizzazione delle sequenze action e loro inserimento nel tessuto drammaturgico del film, e il nostro continua ad avere qualcosa in più nel conferire respiro epico a certe, singole inquadrature (soprattutto mini-long takes che partono da situazioni minime, emotive, umane e allargano sul larger than life). Ma si tratta, ribadiamo, di un funzionamento parziale, episodico: preso nel suo complesso, il quarto Indiana Jones somiglia un po’ all’anello debole della tetralogia (Il tempio maledetto) e si presenta come un film fortemente diseguale e discontinuo, con una progressione narrativa inutilmente arzigogolata, aritmie e troppe verbosità. Ma soprattutto, la scarsa adesione di Spielberg alla materia scritta da Koepp, l’opportunità di “sottostimare” il film di cui si parlava in apertura, si misura anche con l’evidente scarto rispetto al passato, a quella investigazione sul “senso e il valore delle tradizioni religiose come scudo contro la barbarie” che nel primo film si concretizzava in una sorta di “rivalsa del giudaismo nei confronti dei suoi aguzzini” e che faceva sì che nel terzo “la tradizione cristiana e tutto l’armamentario simbolico di cui s’era per tanto tempo ammantata la cosiddetta ‘cultura di destra’ (…) vengono strappati a quella lettura per diventare messaggio che non consente appropriazioni e discriminazioni di alcun tipo” (Franco La Polla). In quest’ultimo capitolo subentra invece una generica UFOlogia pseudo-marziana della quale - va bene gli anni ’50, ok l’autoreferenzialità - a Steven Spielberg non sembra interessare neanche un po’. Ma non possiamo dire che non ci avesse avvertito di questo necessario understatement: la prima inquadratura de I Predatori ci mostrava il logo della Paramount che diventava un’imponente montagna, la sua omologa che apre Il regno del teschio di cristallo vede lo stesso logo trasformarsi in una piccola tana/montagnola, subito polverizzata dalla scriteriata corsa di un’auto.