Kyoto Story

Kyoto Story

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Coerentemente con la parte ultima della sua sterminata filmografia, Yōji Yamada costruisce con Kyoto Story (2010), un’altra opera sul passato e sulla memoria che è memoria del cinema. Per lui che è stato un cardine della casa di produzione Shōchiku, un omaggio alla storica casa rivale della Daiei e ai suoi film di ambientazione storica che hanno conquistato il mondo.

Il quartiere dell’amore e del cinema

Gli amori giovanili di una ragazza e la vita quotidiana del famoso quartiere Uzumasa di Kyoto, cresciuto attorno ai leggendari studi cinematografici della Daiei. Kyoko lavora part-time come bibliotecaria e dà una mano con la lavanderia di famiglia nella Daiei Shopping Street. Sulla stessa via c’è anche una bottega di tofu tenuta dai genitori di Kota, il fidanzato di Kyoko, che tenta senza successo la strada di attore comico. Enoki, un docente di lettere classiche di Tokyo, si innamora di Kyoko. La ragazza, trascurata dall’immaturo fidanzato, è attratta e lusingata da Enoki che, dovendo lasciare Kyoto per lavoro, le propone di seguirlo per un futuro insieme. [sinossi]
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L’ultima parte della sterminata filmografia di Yōji Yamada, iniziata nel 1961 e costituita a oggi da una novantina di titoli una fetta dei quali è rappresentata dalla serie di Tora-san, sembra irrimediabilmente rivolta alla memoria, rappresenta uno sguardo verso il passato, una rilettura della storia del paese e della sua società, ma anche una rievocazione della sua gloriosa cinematografia. Quando realizza Kyoto Story, nel 2010, co-firmato con Tsutomu Abe, è reduce dalla trilogia dei samurai crepuscolare, il primo approdo ai jidaigeki, i film giapponesi di ambientazione storica, per lui che, allievo di Ozu, ha sempre fatto dei gendaigeki, come si definiscono, secondo la rigida classificazione nipponica, i film che si svolgono nel presente. Tra questi i film della lunghissima serie di Tora-san che è arrivata a una cinquantina di opere. Con Kyoto Story torna al gendaigeki, nella forma classica degli shomingeki, i drammi della gente comune, o degli shōshimingeki, drammi della piccola borghesia. E usa il gendaigeki per omaggiare il jidaigeki dei classici film realizzati negli studi della Daiei del quartiere di Uzumasa a Kyoto. Studios ormai in disuso, fondati nel lontano 1927 dalla Nikkatsu prima che questa, nel 1941, si fondesse con le altre due case di produzione, Daito e Shinko, per dar luogo alla Daiei. Campeggiano, all’ingresso degli studios, due preziosi trofei, il Leone d’Oro con cui trionfò a Venezia Rashōmon nel 1951, e l’Oscar, conquistato nel 1954 per La porta dell’inferno di Teinosuke Kinugasa.

Tanti classici del cinema nipponico sono stati girati qui, tra cui anche opere di Kenji Mizoguchi come I racconti della luna pallida d’agosto. Una fabbrica dei sogni che ha conquistato il mondo, mentre il cinema della Shōchiku non era esportabile. In un sistema cinematografico come quello nipponico classico, i cui registi rimangono legati alla propria major con la stessa lealtà dei samurai alla propria casata, Kyoto Story rappresenta l’omaggio di un regista della Shōchiku verso una casa di produzione rivale. Ma anche un omaggio al secondo polo cinematografico del paese, quello di Kyoto. Yamada è erede di Ozu, di quel filone del cinema che nasce negli studi della Shōchiku di Kamata, a Tokyo, proprio in contrapposizione alle altre case di produzione che avevano trasferito i propri studios a Kyoto dopo il grande terremoto del Kantō del 1923. Yōji Yamada racconta la vita di Kyoto evitando qualsiasi enfasi estetica dell’arcaica capitale, richiamata solo in una battuta dell’aspirante comico Kota, sulle turiste avvenenti.

Il titolo originale del film, Kyōto Uzumasa monogatari – oltre a usare il termine “monogatari”, il racconto nella tradizione della letteratura classica, termine usato spesso dal cinema – allude a quel quartiere popolare, con la Daiei Shopping Street, con le sue botteghe, le attività artigianali, le lavanderie, i produttori di tofu, i ristorantini di ramen, adiacente ai gloriosi studios. La vita semplice di quei bottegai, colta nel periodo autunnale con le foglie d’acero fiammanti, che si trovavano a due passi dalle star del cinema, che gli anziani si ricordano ancora, rimpiangendo quel mondo. I registi raccontano un piccolo mondo antico, dai solidi principi, come si vede dalla donna che implora, e ottiene, il perdono del negoziante derubato dal figlio, in una scena che è vista da lontano, per pudore, dal punto di vista dei passanti, fuori dal negozio. Stesso pudore usato poi per la scena di seduzione e rifiuto al ristorante, vista dalla finestra. Yamada mescola parti di interviste, reali, a quei personaggi del quartiere, partendo dalle quali costruisce la narrazione finzionale del film, con un modello simile a quello impiegato da Lav Diaz per Death in the Land of Encantos, mentre la ricerca degli antichi mestieri, dell’anima del borgo, ricorda il lavoro di Wim Wenders per Lisbon Story.

Yamada coordina un lavoro di ricerca e di interviste compiuto da studenti dell’Università Ritsumeikan, in cui insegna come visiting professor. Una delle sedi dell’ateneo, sempre in quel quartiere di Kyoto, rappresenta l’ulteriore polo topografico del film. L’amore di Yamada per il cinema classico si incarna nel film nella figura di Enoki, anche lui come il regista visiting professor alla Ritsumeikan, proveniente dalla capitale. Enoki è un letterato, ed è un grande cultore della classicità, un uomo dotto che sfoggia la sua erudizione spiegando l’origine etimologica delle parole, citando testi primordiali come il Nihongi. Studia gli antichi ideogrammi cinesi, da cui derivano i kanji dell’alfabeto nipponico, nei polverosi antichi volumi della biblioteca dell’ateneo, dove lavora Kyoko, e ha in programma proseguire la sua attività di ricerca a Pechino, nella Cina che per i giapponesi è l’equivalente della Grecia per noi, la culla della classicità. L’aver dedicato la vita allo studio non gli ha evidentemente dato modo di avere molta esperienza con le ragazze, tanto che è impacciato nel dichiararsi a Kyoko. In una scena molto delicata, lascia un foglietto con una poesia d’amore dentro un libro che riconsegna alla ragazza, e fugge per timidezza, per non essere presente quando lei poi l’avrebbe trovato e letto.

La situazione volge successivamente nel comico, perché la poesia di Enoki è scritta in un linguaggio arcaico, solo in, kamuna, kanji, scritti secondo la funzione cinese, e lei non capisce il messaggio. Kyoko si trova in un triangolo amoroso, dovendo scegliere tra l’erudito Enoki e il suo fidanzato ufficiale Kota. Quest’ultimo è un aspirante cabarettista che cerca di sfondare nel mondo dello spettacolo ma è davvero patetico, non fa ridere nessuno e non ha speranza. A suo modo, e involontariamente, anche lui segue un modello classico, nella pantomima della tradizione del rakugo. Enoki e Kota rappresentano due figure di mediocrità alla Tora-san, a loro modo marginali. E il secondo incarna in qualche modo la tensione tra il mondo luccicante dello spettacolo e la vita quotidiana dei commercianti e dei mestieri tradizionali, in quel microcosmo che sembra provinciale e chiuso per quanto riguarda ciò che succede nel mondo – la sorella di Kyoko confonde Reagan con Schwarzenegger, che conosce solo in quanto attori passati alla politica –, ma cosmopolita, o almeno panasiatico, per quanto riguarda lo star system – Kota che fa le imitazioni di Jackie Chan e Bruce Lee.

Nella scena finale, la ragazza sceglierà tra i due spasimanti. Una scena complessa, in una grande stazione, con un susseguirsi di treni ozuiani, anticipati in una scena precedente da trenini giocattolo. La stazione è un punto di incontro e di ripartenza, le direzioni possibili sono quelle della vita che può prendere Kyoko. Decide di non andare verso Tokyo con Enoki, e di rimanere con Kota, che sta partendo per Osaka. Un viaggio, quest’ultimo, che non porterà a nulla, la ragazza riesce quasi a convincerlo che non potrà mai sfondare nel mondo dello spettacolo visto il suo scarso talento, e il suo destino non potrà che essere quello di lavorare nella bottega artigianale di tofu di famiglia. Tanti treni passano in quella stazione, dal futuristico e aerodinamico Shinkansen ai trenini locali. Kyoko prenderà uno di questi per tornare a casa, attraversando un paesaggio di fine autunno. La sua è una scelta di vita semplice, di mediocrità in seno a quel quartiere, quella via di botteghe dove una volta passavano le star del cinema. E per Yamada è una scelta di un cinema della piccola gente, del popolino dopo la parentesi dei samurai, il cantore della vita familiare in quelle casette tradizionali che non manca di far vedere dai tetti poi erti a simbolo di un film successivo, The Little House. Il senso di Kyoto Story è nel gusto del tofu, un cibo comune e povero, che pure l’erudito Enoki usa come metafora, parlando del nigari, il corrispettivo del caglio. Il gusto della vita, dove il cibo fa parte della cultura.

Info
La scheda di Kyoto Story su Wikipedia.

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