Vivere nella società del rischio: la lezione di Ulrich Beck - Linkiesta.it

Un nuovo dizionarioVivere nella società del rischio: la lezione di Ulrich Beck

Possiamo anticipare pericoli e superare paure solo se comprendiamo che il rischio è oramai il centro della vita di ognuno di noi. Un piccolo lessico per capire e agire

Il rischio non è solo un evento particolare, futuro e incerto che può influenzare in modo positivo o negativo il raggiungimento di determinati risultati, arrivando a pregiudicare la stabilità di un singolo o di un’intera organizzazione. Il rischio è oramai l’orizzonte globale dentro cui, come organizzazioni e come singoli, ci muoviamo e orientiamo.

Un orizzonte che il sociologo tedesco Ulrich Beck ha codificato in una definizione fortunata, attualissima ed efficace: Risikogesellschaft, società del rischio. Tutti siamo esposti al rischio, perché tutti viviamo nella società del rischio. Prenderne atto non è solo un gesto di responsabilità, ma comporta un vantaggio strategico. La capacità di anticipare un rischio consente infatti di non trasformare le emergenze in panico sociale e le paure in catastrofi.

Ecco un piccolo lessico, tratto dalle opere di Beck, per orientarsi nella società del rischio. La nostra società. Tra sfide e innovazione. Perché il rischio, insegna il sociologo, prefigura anche una nuova utopia: un cambiamento positivo nella modalità e nelle pratiche di decisione strategica.

Società del rischio
Società del rischio, osserva Beck, «non significa che viviamo in un mondo più pericoloso di quello di prima. Semplicemente, il rischio è al centro della vita di ognuno di noi e al centro del dibattito pubblico, perché oramai lo percepiamo ovunque. Ed è ovunque».

Anticipare
«Dal punto di vista sociologico, il concetto di rischio è sempre una questione di anticipazione. Il rischio è l’anticipazione del disastro nel presente, per evitare che quel disastro si verifichi o che accada il peggio. Anticipare un rischio significa mettere in prospettiva un potenziale pericolo. L’anticipazione del disastro mette in crisi le più incrollabili certezze, ma offre a tutti la possibilità di produrre cambiamenti significativi, innescando energie nuove».

Comunità nel rischio
«Il rischio non è dunque la catastrofe, ma l’anticipazione della catastrofe. Non è un’anticipazione personale, ma una costruzione sociale. Oggigiorno, le persone prendono coscienza che i rischi sono transnazionali e comincia a credere nella possibilità di un’enorme catastrofe, come il radicale cambiamento climatico o un attacco terroristico. Per questo solo fatto noi ci troviamo legati agli altri, al di là delle frontiere, delle religioni, delle culture. In un modo o nell’altro, il rischio produce una certa comunità di destino e, forse, anche uno spazio pubblico mondiale».

«Ciò di cui abbiamo bisogno è una “cultura dell’incertezza”, che deve essere chiaramente distinta dalla “cultura del rischio residuale” da un lato, dalla cultura del “senza-rischio” o della “sicurezza” dall’altro. La chiave per una cultura dell’incertezza si trova nella disponibilità a parlare apertamente del modo in cui affrontare i rischi, nella disponibilità a riconoscere la differenza fra rischi quantitativi e incertezze non quantitative; nella disponibilità a negoziare fra diverse razionalità, piuttosto che impegnarsi nella reciproca denuncia; nella disponibilità di erigere tabù moderni su basi razionali; e – non ultimo – nel riconoscimento dell’importanza centrale di dimostrare alla volontà collettiva di agire in modo responsabile riguardo alle perdite che si verificheranno sempre, nonostante ogni precauzione.

Una cultura dell’incertezza non parlerà più incautamente di “rischio residuale”, perché ogni interlocutore riconoscerà che i rischi sono soltanto residuali se accadono ad altri, che lo scopo di una comunità democratica è quello di assumersi una responsabilità comune. La cultura dell’incertezza, tuttavia, è anche differente da una “cultura della sicurezza”. Con ciò intendo una cultura in cui la sicurezza assoluta è considerata come un diritto verso cui la società dovrebbe tendere. Una tale cultura soffocherebbe ogni innovazione nella sua gabbia».

Evento inaspettato
«Anche se non si verifica alcuna catastrofe, ci troviamo nel mezzo di uno sviluppo sociale in cui l’attesa dell’inaspettato, l’attesa dei rischi possibili domina sempre più la scena della nostra vita: rischi individuali e rischi collettivi. Un fenomeno nuovo che diventa un fattore di stress per le istituzioni nel diritto, nell’economia, nel sistema politico e anche nella vita quotidiana delle famiglie. Saper vivere nella società del rischio significa anticipare l’inaspettato».

Globalizzazione del rischio
«Nella riflessività dei processi di modernizzazione, le forze produttive hanno perso la loro innocenza. L’accrescimento del “progresso” tecnico-economico è messo sempre più in ombra dalla produzione di rischi. In un primo stadio, essi possono essere legittimati come “effetti collaterali latenti”. Ma con la loro universalizzazione, con la critica da parte dell’opinione pubblica e l’analisi (anti)scientifica, i rischi emergono definitivamente dalla latenza e acquistano un significato nuovo e centrale per i conflitti sociali e politici».

Interconnessi e consapevoli
«Non è la quantità di rischio, ma la qualità del controllo a determinare il nostro vivere nella società del rischio. Per questo impiego il termine “incertezze fabbricate”. L’aspettativa istituzionalizzata del controllo e persino le idee guida di “certezza” e “razionalità” stanno collassando. Non il mutamento climatico, i disastri ecologici, le minacce del terrorismo internazionale, un virus, in sé, ma la crescente consapevolezza che viviamo in un mondo interconnesso – che sta diventando fuori controllo – crea la novità della società del rischio».

Libertà nel rischio
Il rischio è parte costitutiva di dell’insicurezza sociale che ci troviamo a vivere. Non possiamo, però, declinarla in termini assoluti: «Ogni insicurezza è sempre relativa al contesto e ai rischi concreti che una persona o una società devono affrontare».

Conclude Beck: «Dobbiamo accettare l’insicurezza come un elemento della nostra libertà. Può sembrare paradossale, ma questa è anche una forma di democratizzazione: è la scelta, continuamente rinnovata, tra diverse opzioni possibili. Il cambiamento nasce da questa scelta».

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