Ryan Gosling: “Sono un tipo che cade, ma ogni volta si rialza” - La Stampa

Ryan Gosling sta rivoluzionando il concetto di star maschile: attore, cantante e ballerino fin da bambino, si è fatto notare come protagonista drammatico per registi come Refn, Denis Villeneuve, e Terrence Malick. Serio, serissimo: l’incarnazione dell’uomo forte e silenzioso, come nel cult Drive. Poi il ritorno alle origini: il musical da Oscar La La Land di Damien Chazelle e Ken in Barbie. Fino all’indimenticabile esibizione di I’m Just Ken agli Oscar 2024. Gosling è un divo, ma uno particolare: con un gioco di prestigio è riuscito a diventare l’interprete perfetto. Virile ma sensibile, drammatico ma anche ironico. Gioca con la sua carriera, al punto da realizzare una parodia del proprio percorso in The Fall Guy dove è lo stuntman Colt Seavers, innamorato dell’aspirante regista Jody Moreno (Emily Blunt), che deve risolvere il mistero: della scomparsa del protagonista del film.

Anche qui, come in “Barbie”, cita Sylvester Stallone. Perché lo ama così tanto?

«Chi non era suo fan da bambino?! È un grande attore e uno scrittore fantastico. E dopo Rocky, per cui è stato nominato all’Oscar, avrebbe potuto fare ruoli più impegnati, invece ha scelto film che potessero essere amati dal pubblico».

È quello che sta cercando di fare anche lei?

«Sì, mi piace guardare film che mi divertano, che mi facciano dimenticare chi sono per un po’. Questi sono i film che mi hanno fatto innamorare del cinema».

Questo è anche un film che parla di rimettersi in piedi quando si fallisce. Come si fa?

«Non lo so, ma guardare personaggi che affrontano difficoltà estreme continuando comunque ad andare avanti ti fa riflettere sui tuoi problemi e, in qualche modo, ti incoraggia a livello inconscio».

The Fall Guy è questo per lei?

«È un film veramente unico. È la mia lettera d'amore all'industria cinematografica e all'andare in sala. E in un certo senso è sperimentale: perché abbraccia gli stereotipi, ma allo stesso tempo cerca di allontanarsene».

Che rapporto ha con le scene d’azione?

«Ho paura delle altezze e ho dovuto girare una caduta dall’alto: ero piuttosto nervoso. Mi sono messo gli occhiali da sole per non far vedere il terrore nei miei occhi. Pensavo di sconfiggere la mia paura con questa scena: non ci sono riuscito. Ma non è niente di paragonabile a ciò che fanno i veri stuntmen ogni giorno. La vera roba forte l’hanno fatta loro al posto mio: ce ne sono voluti cinque per fare un Colt Seavers!».

Anche agli Oscar con Emily Blunt avete celebrato questa categoria.

«Spero che la comunità degli stuntmen senta l’amore che provo per loro. Le scene d’azione sono nate con il cinema, da Chaplin e Buster Keaton: erano stunt performer anche loro. È una parte fondamentale dell’industria cinematografica e non ha ancora un riconoscimento: speriamo arrivi».

È importante che si sia una categoria agli Oscar dedicata a loro?

«Sarebbe bello che le persone capissero che gli stunt sono una forma d’arte: c’è lo stunt design, come per qualsiasi altro dipartimento. Non si tratta semplicemente di tizi che volano fuori dal finestrino di un’auto. Si fanno calcoli matematici, c’è in ballo la fisica. Servono settimane di prove e di sforzi per realizzarli. Nel film facciamo vedere che controllano anche la sabbia per capire se una scena funzionerà o no: è tutto vero».

Sua moglie, l’attrice Eva Mendes, e le sue figlie che dicono dei suoi film?

«Sono in prima fila a sostenermi, ma mi danno anche dei suggerimenti: degli ottimi suggerimenti. Eva è diventata la mia acting coach: la migliore che abbia mai avuto. Sono infiniti i modi in cui mi aiuta».

Con Emily Blunt sembrate amici da sempre.

«È fantastica, sa fare tutto. Dagli stunt alle scene comiche. Sa anche cantare! Di più: medita. È anche molto zen. Forse troppo».

Tornerà presto a cantare come in Barbie e agli Oscar?

«Ci vorrà un po’. Mi sto ancora riprendendo».

E di The Fall Guy farebbe un sequel?

«Se il pubblico lo vorrà mi piacerebbe molto».

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