Leonora Addio, passato pochi giorni fa al Festival di Berlino, dove ha vinto il premio FIPRESCI della Federazione della Stampa Internazionale, è il primo film firmato da solo da Paolo Taviani, anche se nei fatti già il precedente Una Questione Privata, uscito nel 2017, era stato diretto senza la collaborazione dell’inseparabile fratello Vittorio, già malato e poi scomparso l’anno successivo. A lui, naturalmente, è dedicata questa nuova opera, sommessa meditazione sul tema della morte, e insieme però anche della forza dei sentimenti. Di quei moventi, cioè, che ci rendono umani e che in qualche modo, nell’insondabilità di quel duplice mistero che sono tanto la vita quanto la sua fine, costituiscono l’elemento che ci tiene radicato all’esistenza e cerca di darvi faticosamente un senso.
Non è strano poi che per Leonora Addio la scelta sia caduta nuovamente su Luigi Pirandello. In primo luogo perché, in una riflessione che è pure sui legami affettivi era giusto tornare a un autore amatissimo da entrambi i fratelli, per i quali il romanziere e drammaturgo siciliano è stato ben più di una passione intellettuale. Intorno alle sue novelle i Taviani avevano già costruito due loro incisivi film, Kaos soprattutto (1984) e Tu Ridi (1998). Allo stesso tempo, Pirandello è un artista tormentato, interrogativo, che non blandisce mai il lettore, gettato sempre in un labirinto di tensioni e interrogativi, fino alla soglia di un baratro di fronte al quale l’enigma della vita e della morte non si scioglie ma resta ancora pieno di domande.
Leonora Addio, che curiosamente ha mantenuto il titolo relativo a una novella di Pirandello che alla fine nel film non c’è, ha una struttura molto personale, da film-saggio sperimentale e rapsodico, che mette insieme verità e finzione, bianco e nero e colore, parti girate e materiali d’archivio. Paolo Taviani accoste due storie diversissime: la prima occupa i due terzi del film e ripercorre la vicenda delle ceneri di Pirandello; la seconda riprende una delle sue ultime novelle, Il Chiodo, in cui, senza ragioni apparenti, un ragazzino uccide una bambina.
Pirandello lo rivediamo in un filmato d’epoca ricevere a Stoccolma nel 1934 il premio Nobel per la letteratura. Ed è proprio il magistero del suo nome a renderne tribolata e densa d’amarezza, dopo la vita, anche la fine. Il drammaturgo avrebbe desiderato esequie invisibili: “Carro d’infima classe, quello dei poveri. Nudo. E nessuno m’accompagni, né parenti, né amici […] Il mio corpo appena arso, sia lasciato disperdere; perché niente, neppure la cenere, vorrei avanzasse di me”. Così aveva scritto, aggiungendo, semmai, che le ceneri fossero riportate nella campagna della natia Girgenti, in Sicilia. Mussolini però aveva in mente ben altro, per omaggiare attraverso le esequie dell’accademico d’Italia, più che l’artista, il fascismo stesso.
Così le ceneri furono tumulate a Roma, al cimitero del Verano. E solo dopo la guerra, per concessione del primo ministro De Gasperi, fu possibile riportarle a casa, scortate da un delegato del Comune di Agrigento (Fabrizio Ferracane). Ed è una piccola epopea: prima il superstizioso pilota d’aereo (americano!) si rifiuta di trasportarle sul velivolo. Poi, una volta sul treno, il messo s’addormenta e perde il prezioso carico, che un gruppo di giocatori ha pensato bene di usare come tavolino per una partita a tressette (col morto!). Una volta giunti in Sicilia poi, il problema è lo svolgimento del funerale, perché la curia non può certo benedire un’urna cineraria, manco fosse un rito pagano. E allora è necessario dissimularla, infilandola dentro una bara, che però non sarà esattamente quella d’ordinanza.
Leonora Addio spinge sul versante del paradosso, del grottesco d’una vicenda in cui proliferano funzioni e sepolture. Che non sono solo quelle di Pirandello, rispetto al quale è (ironicamente) esemplare il fatto che l’autore la cui opera ha continuamente descritto il peso delle maschere che in vita gli altri e noi stessi applichiamo al volto, si sia poi ritrovato, post mortem, vittima dello stesso meccanismo, col funerale ripetuto e trasformato in un’assurda messinscena. Ma, appunto, Taviani ci ricorda che idealmente queste celebrazioni non riguardano solo il drammaturgo.
Tra i filmati d’archivio ci sono tanti spezzoni di cinema italiano, da Paisà all’Avventura, Estate Violenta di Zurlini e L’Amore Difficile di Nino Manfredi, fino ad un brano resistenziale da Il Sole Sorge Ancora di Aldo Vergano, in cui le vittime sono due attori molto particolari, gli allora giovanissimi registi Carlo Lizzani e Gillo Pontecorvo. Come se il lutto riguardasse anche una certa idea di cinema ormai scomparso, irripetibile. E c’è anche, nel bianco e nero insistito dell’episodio, nei dettagli dell’interno di quella carrozza ferroviaria poverissima, con quegli italiani così lontani da noi, la volontà di riannodare quella vicenda alla più ampia storia del paese, quasi che quello di Pirandello fosse un simbolico corpo della nazione.
L’altro corpo di Leonora Addio è quello della bambina, come scrive Pirandello dai “capellucci rossi”, de Il Chiodo, trucidata da un ragazzino poco più grande di lei senza motivazione. Alla struttura scheletrica e disperata del racconto Taviani aggiunge la cornice di una storia di emigrazione che, ancora una volta, sembra riportare la vicenda dai singoli al contesto che l’ha prodotta, dagli individui al collettivo, al paese Italia. E se nell’episodio sulla morte di Pirandello a moltiplicarsi sono i funerali, qui si ripetono le visite dell’assassino alla tomba della bimba negli anni, in un progressivo e rapidissimo incanutire del personaggio che corrisponde all’invecchiamento istantaneo dei figli di Pirandello quando vanno a trovare il padre al suo capezzale.
Ed è questa la cifra più autentica di un film che può lasciare anche interdetti perché Paolo Taviani, nella conquistata libertà dei novant’anni, non ha grandi assilli di coerenza stilistica ed è mosso unicamente dalla preoccupazione di dire ciò che gli interessa. E allora racconta la vita che scappa via a velocità insensata, ritrovandosi improvvisamente vecchi, misurando la distanza tra aspettative e risultati – vale per gli individui, la storia patria, il cinema italiano – e meditando inevitabilmente sulla morte.