Hayao Miyazaki - Si alza il vento - Recensioni - SENTIREASCOLTARE

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Doveva essere il testamento di Hayao Miyazaki, con presentazione ufficiale in concorso alla 70° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, e invece è ormai noto che Si alza il vento (Kaze Tachinu, 2013) sarà seguito da un altro lungometraggio d’animazione “tradizionale” (il cui titolo Kimi-tachi wa dō ikiru ka significa “E voi come vivrete?”), a dimostrazione di come, nonostante il settantanovesimo anno d’età, il Maestro giapponese non abbia ancora smesso di «affrontare la vita». Ma proprio per questa ragione, il semi-biopic sull’ingegnere aereonautico giapponese Jirō Horikoshi (1902-1982) ha ancora l’aspetto di un’ultima opera, un trattato sull’animazione targata Studio Ghibli, un complesso lascito ai posteri sulle ossessioni e le necessità di un autore instancabile e – per questo – indimenticabile. Più membro silenzioso di un’orchestra che suo effettivo direttore, almeno così sembra percepirsi nello spirito, l’immagine solitaria del canuto e sorridente Miyazaki che disegna nello spazio limitato di una scrivania, con camicia e cardigan protetti da un grembiule bianco (dal documentario-intervista Never-Ending Man: Hayao Miyazaki di Kaku Arakawa), non può non rispecchiarsi in quella del “suo” Jirō che con carta e matita rende possibili i suoi «sogni maledetti», riuscendo poi a plasmarli in una bellissima ma brutale realtà di ferro. E questo con buona pace dei “detrattori” del film, ancora sconvolti dall’ambiguità di un protagonista votato a un lavoro mortifero (i famosi caccia Mitsubishi A6M “Zero” costruiti per la Marina Imperiale Giapponese durante la Seconda Guerra Mondiale).

Tratto dall’omonimo manga firmato dallo stesso Miyazaki, che a sua volta deriva da un romanzo dello scrittore Tatsuo Hori, Si alza il vento è introdotto da un verso estratto dal poemetto Il Cimitero Marino (Le Cimetière Marin, 1920) del poeta francese Paul Valéry (1871-1945): «Le vent se lève!… il faut tenter de vivre!» (lett. “Si alza il vento! … bisogna tentare di vivere”). La Natura come divinità incontrollabile, imprevedibile e fautrice dei nostri destini è un elemento ricorrente nelle opere del Maestro, ma se in precedenza la sua fatale importanza veniva veicolata attraverso l’allegoria del racconto fantasy (Principessa Mononoke in primis), qui il regista le fa assumere ancora di più l’invisibile ruolo di un burattinaio dell’umanità, guidando nelle gioie e nei dolori la vita di Jirō. Gli snodi più importanti della sua storia sono sempre influenzati dalle bizzarrie di un’onnipresente “creatura senza corpo”, sua vera (talvolta maligna) compagna di viaggio e primaria fonte d’ispirazione: il terremoto del Kantō (1929, con Tokyo distrutta dalle fiamme), il cui suono pare il terrificante rantolo di una creatura mostruosa; la tragica storia d’amore con la bella ma fragile Nahoko, determinata a più riprese dall’imprevedibilità del Vento (il loro primo incontro avviene grazie a un cappello volato via, il secondo per un ombrellone e il terzo con un “maldestro” aeroplanino di carta); la progettazione dei caccia Zero, le cui ali hanno una forma che ricordano la «splendida curva» di una spina di sgombro (la Natura che ispira la Tecnica).

Ma ancora una volta – come già ne La città incantata – è la prima sequenza a dare il tono del film. Durante un breve sogno, che poi avrà una certa attinenza con la realtà, il piccolo Jirō pilota uno buffo aereo dalle ali di uccello e si fa accompagnare dal caldo abbraccio del Sole appena sorto. La meraviglia dell’animazione suggerisce che sia il ragazzo a portare i raggi solari sulla pianura circostante, ma è il Sole che lo segue fino a “superarlo”. Dopo aver sorvolato sul paesino vicino casa, una minacciosa aeronave fantascientifica squarcia la limpidezza del cielo e con i suoi missili distrugge il velivolo di Jirō, impotente davanti a tale potenza bellica.

Giocando con il potere catartico del contrasto, un po’ come la stessa Natura che cerca di rappresentare e omaggiare, Si alza il vento oscilla tra il bene e il male, le speranze e le paure, il sogno e l’incubo, la fantasia e la realtà di un personaggio – evidente idealizzazione del vero Jirō Horikoshi – che sopravvive a sé stesso e alla Storia con la forza della propria passione e delle proprie convinzioni. Inoltre, non potendo inserire nel film un immaginario prettamente fantasy, Miyazaki trasforma il carattere funambolico del protagonista nell’invidiabile abilità di entrare e uscire agilmente dagli scenari onirici che la mente gli produce (qui conosce l’ingegnere italiano Giovanni Battista Caproni, già citato in Porco Rosso), arrivando però a condannarlo a un’esistenza consacrata alla bellezza e al lavoro ma alienata dal resto del mondo («un uomo è colui che svolge un lavoro»). Alienazione che finisce per non fargli comprendere quali siano le conseguenze reali della sua genialità, sebbene si immagini ripetutamente di aerei che esplodono in mille pezzi: un sogno simbolico che interpreta più come fallimento creativo che premonizione della Guerra (persa) o dell’imminente perdita dell’Amore (mai dimenticato). In tale senso è significativa la sequenza in cui Jirō propone al suo gruppo di studio un modo per alleggerire i caccia, ovvero non montandoci sopra le mitragliatrici; tutti ridono pensando a una battuta, il protagonista invece pare convinto di quello che sta dicendo. Così come è molto eloquente la piccola inquadratura in cui, seduto davanti a un piccolo tavolo posto al centro della camera da letto, con una mano cerca di completare il progetto e con l’altra si tiene stretto Nahoko, rannicchiata nel futon perchè indebolita dalla malattia.

Probabilmente la sua opera meno adatta a un pubblico infantile, Si alza il vento porta Hayao Miyazaki nei meandri del ritratto storico, mettendo in scena con grande naturalezza, ricchezza e abilità registica la complessità storica del Giappone del primo Novecento, alla stregua dei grandi autori che lo hanno preceduto. Infatti ricreando i fatti più importanti e segnanti (il terremoto, la crisi economica dei primi anni Trenta, la collaborazione con la Germania), il Maestro inserisce il suo protagonista in un affollato Paese che avanza nella contemporaneità portandosi sulle spalle un’enorme contraddizione: il voler guardare alla ricchezza (economica, industriale, culturale) dell’Occidente “d’acciaio”, pur rimanendo povera e ancorata alle tradizioni “di legno” («arretratezza» la definisce l’amico di Jirō). Perciò il film non rappresenta solamente il conflitto interiore di un essere umano “in balia” degli eventi (gli ordini militari) o del fato (la Natura), ma anche quello di un Giappone in crisi identitaria che si getta volontariamente nel periodo più buio del suo recente passato. La (pen)ultima lezione di Miyazaki diventa così un potente consiglio che supera l’individuo, abbraccia la collettività, valica i confini e riassume una carriera di oltre mezzo secolo: solo imparando dagli errori e votandosi completamente alla bellezza del vivere si può affrontare l’alzarsi dirompente del vento, buono o maligno che sia.

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