Thievery Corporation - The Temple of I & I - Recensioni - SENTIREASCOLTARE

Recensioni

6.8

Ridendo e scherzando fanno 21 anni (22 per essere precisi) di attività per i Thievery Corporation, il duo originario di Chicago da sempre di stanza nella Washington Capitale del post-hardcore, del go-go, ma pur sempre la città dei politici, degli avvocati e degli uomini di potere che non toccano con mano le recessioni economiche. Sounds from the Thievery Hi-Fi usciva tra il 1996 e il 1997 (a seconda del mercato di riferimento) lungo i bordi di una vivace scena house cittadina e in coda ad un decennio che aveva coltivato sonorità chill out, balearic e downtempo portandole dalle stanzette lounge dei club e dei rave al business e ai format potabili per le compilation Café del Mar prima e Budda Bar e derivati poi. Gli addetti ai lavori si erano già accorti di loro per via del Dj Kicks di Kruder & Dorfmeister, ma fu quell’esordio a mettere Rob Garza e Eric Hilton sulla mappa e a inserirli in un filone allora nel pieno della spremitura.

A quella macro corrente di musica da parati per Hotel di lusso e party sulla spiaggia, i due non si opposero; la cavalcarono anche, quando la loro musica assunse contorni latatamente politici. Dunque non aggiunsero niente di terribilmente originale, piuttosto si fecero carico di un certo svacco THC consapevole, borghese e cosmopolita, mostrando da subito buone capacità produttive, nonché un innato intuito per la sintesi. La musica che uscì quell’anno dal loro Hi-Fi fu la prima testimonianza di un brand che negli anni ha saputo tener assieme, con eleganza e gusto, acid jazz, sitar indiani e psichedelie varie, breakbeat, bossanova brasiliana, raffinata lounge, trip hop e rap, fino a flirt “indie” con Wayne Coyne dei Flaming Lips e David Byrne. E tra tutti gli elementi conditi dalla ditta, il dub è stato senz’altro il favorito come influenza, un potente magnete sulla stragrande maggioranza delle loro produzioni.

Complice il ventennale di carriera e un precedente album dedicato all’altra grande passione che è la Saudade (e dunque il Brasile e la brasilianità), il focus del nuovo disco, anch’esso a tema, non poteva che essere dedicato al genere giamaicano. The Temple Of I and I è il risultato di un anno vissuto da Hilton e Garza con la band al completo a Port Antonio, nella parte più profonda della Giamaica, presso i Geejam Studios. Un cerchio con le proprie origini e le personali odissee Spliff (un classico titolo: 2001 Spliff Odyssey) che si chiude con l’ennesimo disco fatto di produzione più che di canzoni, sicuramente con una certa maniera infilata ovunque, ma anche con alcuni episodi degni di nota. Trovano posto standard reggae in variante TC quando a cantare c’è un Notch senza sorprese (Strike the Root, True Sons Of Zion, Weapons Of Distraction, Drop Your Guns), apprezzabili sono i ganci 70s à la The Roots di Ghetto Matrix con Mr. Lif, e discreta è la ballad filo pop con archi Love Has No Heart con Shana Halligan, ma la parte più viva ed interessante del disco è un’altra: la troviamo negli episodi dove a rappare c’è una MC ex modella molto brava come Racquel Jones (Letter To The Editor, Road Block) o ascoltando due pezzi (la title track e Time + Space) che sono lì a testimonianza delle capacità del duo di tenere ancora banco su tagli dub psych (buono anche l’intro di Zee su Thief Rockrs).

Un po’ ampollosi i TC lo sono sempre stati, ed anche The Temple Of I and I surfa sulla propria autoreferenzialità, con la consueta distanza tra sé e gli imitatori però.

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