(PDF) LE DEMENZE. LA CURA E LE CURE | Franco Pesaresi - Academia.edu
a cura di Antonio Guaita e Marco Trabucchi Gli approfondimenti di NNA LE DEMENZE. LA CURA E LE CURE Volume promosso dall’IRCCS-INRCA per il Network nazionale per l’invecchiamento © Copyright 2016 by Maggioli S.p.A. Maggioli Editore è un marchio di Maggioli S.p.A. Azienda con sistema qualità certificato ISO 9001: 2008 47822 Santarcangelo di Romagna (RN) • Via del Carpino, 8 Tel. 0541/628111 • Fax 0541/622595 www.maggiolieditore.it e-mail: clienti.editore@maggioli.it Diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento totale o parziale con qualsiasi mezzo sono riservati per tutti i Paesi. L’Autore e l’Editore declinano ogni responsabilità per eventuali errori e/o inesattezze relative alla elaborazione dei testi normativi e per l’eventuale modifica e/o variazione degli schemi e della modulistica allegata. L’Autore, pur garantendo la massima affidabilità dell’opera, non risponde di danni derivanti dall’uso dei dati e delle notizie ivi contenute. L’Editore non risponde di eventuali danni causati da involontari refusi o errori di stampa. Finito di stampare nel mese di novembre 2016 nello stabilimento Maggioli S.p.A. Santarcangelo di Romagna Indice Indice Indice Prefazione ........................................................................................................ Gianni Genga e Fabrizia Lattanzio Pag. 5 Presentazione ................................................................................................... Cristiano Gori » 7 » 11 1. Introduzione – La nuova dimensione dei problemi posti dalla malattia di Alzheimer e dalle altre demenze ............................................................... Antonio Guaita e Marco Trabucchi 2. Le manifestazioni iniziali delle demenze ................................................... Angelo Bianchetti e Ovidio Brignoli » 29 3. Il caso dei “giovani anziani” con demenza ................................................ Giuseppe A. Micheli » 59 4. La diagnosi di malattia di Alzheimer .......................................................... Orazio Zanetti » 73 5. Diagnosi di secondo livello per forme rare, presenili e di difficile diagnosi Alessandro Padovani e Andrea Pilotto » 99 6. La vita dell’ammalato e della sua famiglia a casa. I servizi di supporto ...... Fausta Podavitte » 121 7. Prendersi cura dell’anziano con demenza: il ruolo degli interventi psico-sociali ................................................................................................... Gianni Genga e Cinzia Giuli » 153 8. Strategie e soluzioni ambientali per i malati di demenza ........................... Enzo Angiolini » 165 9. I Centri diurni Alzheimer ........................................................................... Franco Pesaresi » 175 4 INDICe 10. Problematiche somatiche .......................................................................... Andrea Ungar e Renzo Rozzini Pag. 199 11. Problematiche riabilitative nelle persone affette da demenza ..................... Simona Gentile, Alessandro Morandi, Christian Pozzi, Michela Bozzini, Elena Lucchi e Giuseppe Bellelli » 219 12. L’accoglienza in residenza della persona con malattia di Alzheimer.......... Enrico Brizioli » 231 13. La fase terminale della malattia .................................................................. Daniele Villani » 245 14. L’innovazione in ambito diagnostico e terapeutico .................................... Stefano Govoni » 265 15. Alzheimer: il ruolo del programmatore di fronte alle difficoltà economiche, culturali e di una medicina poco abituata alla manutenzione .................... Anna Banchero » 275 16. Cittadini come gli altri? La condizione dei malati di Alzheimer e dei loro caregiver.................................................................................................... Ketty Vaccaro » 283 17. Le associazioni di malati e familiari ............................................................ Patrizia Spadin, Luisa Bartorelli, Gabriella Salvini Porro e Claudia Boselli » 293 Gli Autori ......................................................................................................... » 313 Prefazione Gianni Genga – Direttore generale INRCA, Ancona Fabrizia Lattanzio – Direttore scientifico INRCA, Ancona Non vi è alcun dubbio sul fatto che la malattia di Alzheimer e le demenze in generale rappresentino una delle principali side per i sistemi sanitari e sociali dei paesi deiniti in passato “avanzati”. La dimensione epidemiologica del fenomeno e le linee di tendenza che vanno verso un progressivo aumento della prevalenza delle diverse forme di demenza, unite all’impatto che tali condizioni esercitano sul paziente ed il nucleo sociale di riferimento, fanno sì che tutti i sistemi sociali e sanitari debbano elaborare strategie per erogare servizi sostenibili ed eficaci. In Italia è stato approvato dalla conferenza Stato-Regioni del 2015 il Piano demenze, poi ripreso dalle varie Regioni. Il piano non prevede un inanziamento dedicato, pertanto, alle Regioni che non hanno investito prima, spetta l’onere di recuperare risorse atte ad incrementare e qualiicare l’offerta dei servizi. Diviene scontato pensare come in questo contesto sia decisivo selezionare modalità di erogazione degli interventi che tengano conto delle evidenze a supporto. Al tema delle demenze dunque è stato dedicato questo volume della nuova linea editoriale “Approfondimenti”, nata nell’ambito della collaborazione INRCA-NNA e riservata a temi identiicati dal Comitato editoriale e ritenuti di particolare rilievo. L’IRCCS-INRCA, infatti, ha un ruolo fortemente impegnato a supportare, con la propria attività di ricerca e la propria esperienza sul campo, la politica nazionale e locale di risposta ai bisogni dei pazienti affetti da demenza e delle loro famiglie. Tra le varie tipologie di servizi da offrire nell’ambito delle demenze, ci sono gli interventi deiniti “psico-sociali” rivolti ai pazienti che, accanto agli interventi sul caregiver, rappresentano le principali tipologie di trattamento da afiancare a quelli di tipo farmacologico, che ad oggi hanno dimostrato avere un contributo solo parziale nel contenimento di tale patologia. All’argomento riguardante gli interventi psico-sociali è dedicato il contributo speciico che nasce proprio dall’esperienza concreta, sia di tipo assistenziale che di ricerca, effettuata dalla sede dell’INRCA di Fermo. Il contributo che segue può essere immaginato come un supporto alla costruzione di un “pezzo” del Percorso diagnostico terapeutico ed assistenziale (PDTA) delle demenze, percorso su cui in tutta Italia si sta lavorando. Gianni Genga, Fabrizia Latanzio Prefazione 6 GIANNI GeNGA, FAbRIzIA LATTANzIo Come in ogni vero PDTA operativo, questo frammento andrà “montato” tenendo conto delle risorse disponibili e delle scelte locali, al ine di rispondere ai seguenti quesiti: a chi offrire gli interventi psico-sociali, in chi è utile effettuarli, in quali setting metterli a disposizione e come valutare la propria eficacia. Auspichiamo che il volume possa fornire un’occasione di rilessione su alcuni temi che ruotano intorno al problema della demenza ed alimentare il dibattito sulle politiche della Long Term Care in questo settore. Presentazione Cristiano Gori – Coordinatore – Network Non Autosufficienza (NNA) Perché un altro testo sulle demenze? La sempre più estesa letteratura in materia richiede, secondo me, di porsi questo interrogativo nell’avvicinare il volume curato da Antonio Guaita e Marco Trabucchi. L’ho, dunque, letto cercando una risposta. Ecco quella che mi sono dato e che propongo al lettore: il libro è costruito utilizzando un approccio innovativo alle demenze, particolarmente utile ai molti che ne sono – a vario titolo – interessati. Il “cuore” di tale approccio consiste nel tentativo, a mia conoscenza sinora unico in Italia, di raggiungere in uno stesso lavoro sull’argomento i diversi obiettivi illustrati di seguito, concependoli come parti complementari di un disegno organico. Questo rappresenta il valore aggiunto dell’opera. Partiamo dagli obiettivi del libro. Primo, offrire uno sguardo d’insieme sulla realtà delle demenze e dell’assistenza a chi ne è coinvolto. Si propone una visione unitaria del fenomeno, comprendente le dinamiche epidemiologiche così come quelle biologiche, l’assistenza e la sua organizzazione, il ruolo delle famiglie e del contesto sociale più ampio. Basta un’occhiata all’indice per cogliere tale unitarietà, che pone al centro dell’attenzione la situazione italiana ma la colloca saldamente nel contesto internazionale. Secondo, presentare una sintesi ragionata dello stato dell’arte in materia. Ogni capitolo illustra quelli che – secondo i rispettivi Autori – costituiscono i tratti più signiicativi dell’odierna situazione nell’ambito della speciica questione approfondita, si tratti del proilo epidemiologico e sociale, della ricerca scientiica o delle prassi assistenziali. In poche pagine, in altre parole, si intende guidare il lettore nel mettere a fuoco i punti chiave del tema oggi. Terzo, tradurre l’analisi della realtà attuale in indicazioni su come migliorarla. Il percorso intellettuale compiuto nel libro si articola, con riferimento ai diversi argomenti trattati, in due passaggi strettamente collegati. Dalla disamina della situazione attuale si giunge, infatti, all’elaborazione di indicazioni, operative e fattibili, su come migliorare le risposte in campo. Analisi e proposta, nella prospettiva qui delineata, non possono esistere l’una senza l’altra. Quarto, utilizzare un approccio al cambiamento fattivamente costruttivo. Il libro esce dalle categorie rigide dell’ottimismo e del pessimismo rispetto al futuro per crisiano gori Presentazione 8 CRISTIANo GoRI incentrare l’attenzione su un “costruttivo presente” che permetta di assicurare un’assistenza adeguata, purché si guardi con determinazione alle possibilità che si aprono e alla continua manutenzione dei sistemi organizzati attraverso gli studi, la formazione, l’implementazione delle tecnologie più appropriate, l’attenzione agli operatori. Quinto, realizzare un testo fruibile da molti. Il volume è scritto in modo da consentirne la fruibilità da chiunque sia – a vario titolo – coinvolto nell’assistenza agli anziani con demenza. L’eterogeneità e la complessità dei temi trattati nei diversi capitoli sono, infatti, accompagnate da uno speciico sforzo teso a rendere il testo chiaro e accessibile anche ai non esperti, senza che ciò implichi in alcun modo lo scivolamento verso forme di impropria sempliicazione. Come anticipato, la natura innovativa dell’approccio del volume curato da Guaita e Trabucchi – nel panorama delle pubblicazioni sulle demenze in italiano – risiede in un disegno organico basato sulla presenza complementare dei diversi obiettivi menzionati. Ma a cosa serve un simile disegno? Serve a costruire le migliori condizioni per “promuovere rilessioni scientiiche sull’assistenza agli anziani non autosuficienti che siano utili all’operatività”, riprendendo una formulazione che adottiamo abitualmente nel presentare i lavori del Network Non Autosuficienza (NNA) e che riassume la ragion d’essere del Network. In altre parole, se ognuno degli obiettivi perseguiti ha già un evidente valore in sé, la scelta di miscelarli produce un vicendevole rafforzamento nella direzione appena indicata. Per essere utili all’operatività, infatti, bisogna costruire una visione d’insieme sul tema, nella convinzione che solo così, superando gli steccati alzati da appartenenze disciplinari e speciicità dei ruoli assistenziali, si possa comprendere appieno la realtà delle demenze e dell’assistenza a chi ne è coinvolto. Si ritiene, ugualmente, che l’analisi rigorosa del fenomeno e l’elaborazione di idee per il miglioramento degli interventi debbano far parte di un medesimo percorso, segnato dalla continuità tra l’impegno intellettuale e quello concreto. Si può essere utili all’operatività, nondimeno, esclusivamente impiegando – come detto – un approccio al cambiamento fattivamente costruttivo, capace di ritagliarsi uno spazio alternativo tra le ambizioni utopistiche e gli altrettanto inutili approcci disfattisti. Se la prospettiva è quella del miglioramento delle risposte, inine, bisogna rendere il sapere non un patrimonio di pochi “eletti” bensì uno strumento a disposizione di tanti. Evidentemente solo il lettore potrà giudicare se il metodo utilizzato sia stato in grado di produrre gli esiti sperati. Come già accennato, una profonda coerenza si registra tra gli obiettivi qui illustrati e le complessive inalità che il Network Non Autosuficienza (NNA) ha cercato di perseguire – con modalità e risulta- PReSeNTAzIoNe ti variabili – a partire dalla sua costituzione, avvenuta nel 2009 (1). Lo sforzo realizzato in merito alle demenze, in altre parole, si colloca compiutamente nel percorso che NNA compie da alcuni anni rispetto alla complessiva assistenza agli anziani non autosuficienti in Italia. Sin dall’inizio l’Istituto di Ricovero e Cura a Carattere Scientiico (INRCA) di Ancona è stato il nostro alleato imprescindibile, nel duplice ruolo di partner scientiico e di referente istituzionale. Il nostro impegno si è tradotto, dal 2009 in avanti, nella pubblicazioni di Rapporti biennali che fanno il punto sull’assistenza agli anziani non autosuficienti in Italia, ai quali – a partire dal 2014 – si accompagnano gli “Approfondimenti”, cioè dei testi che intendono scandagliare in profondità speciici argomenti, interventi o problemi, che paiono di particolare rilievo. Questo costituisce il secondo prodotto di tale collana, dopo il precedente dedicato a L’anziano non autosuficiente e l’ospedale (2). Coerentemente con l’obiettivo della fruibilità, sopra richiamato, tutti i nostri volumi possono essere scaricati gratuitamente dal sito www.maggioli.it/rna. (1) Si veda, tra gli altri, l’illustrazione degli scopi di NNA contenuta nell’introduzione al nostro primo Rapporto: Banchero A., Brizioli E., Gori C., Guaita A., Pesaresi F. e Trabucchi M., 2009, Introduzione, in NNA (a cura di), L’assistenza agli anziani non autosuficienti in Italia – Rapporto 2009, Rimini, Maggioli. (2) Brizioli E. e Trabucchi M. (a cura di) 2014, L’anziano non autosuficiente e l’ospedale, Collana “Gli approfondimenti di NNA”, Rimini, Maggioli. 9 1. Introduzione – La nuova dimensione dei problemi posti dalla malattia di Alzheimer e dalle altre demenze Antonio Guaita e Marco Trabucchi 1. Introduzione “Quando, negli anni Ottanta, abbiamo iniziato ad agitare la tematica delle demenze come malattia che avrebbe coinvolto un numero sempre maggiore di persone, e che quindi sarebbe divenuta un problema rilevante sul piano clinico ed assistenziale, pochi erano in grado di capire ino in fondo le nostre motivazioni, che potevano sembrare marginali o dettate da interessi. Negli anni Novanta l’attenzione per le demenze ha avuto un crescendo continuo in tutti i paesi avanzati, sia sul piano della ricerca sperimentale e clinica sia su quello dell’organizzazione dei servizi. È superluo fare un riassunto dei momenti forti di questo cambiamento di prospettiva e dei progressi compiuti; basti pensare all’attenzione epidemiologica, grazie alla quale si conoscono inalmente i «numeri» dell’«epidemia silente», alle ricerche in ambito neurobiologico, che hanno permesso l’adozione dei primi farmaci eficaci nel rallentare la storia naturale della malattia ed aperto la porta a future, più importanti conquiste, all’attenzione alle fasi iniziali della malattia, ai fattori di rischio ed alla diffusione di sistemi originali di assistenza, talvolta organizzati in reti organiche di servizi”. Queste righe sono state riprodotte dall’introduzione alla 4a edizione del volume Demenze, edito da Utet nel 2005; testimoniano una continuità di interessi e di impegno che risale a quasi 20 anni orsono, quando fu pubblicata la prima edizione, ma testimoniano anche una iducia nel futuro, che poi non si è sempre concretizzata. Non si vuole certo introdurre questo volume con una nota pessimista; non vi è però dubbio che negli ultimi 10 anni non sono stati prodotti risultati tali da offrire prospettive radicalmente nuove. Perché allora un titolo che recita “la nuova dimensione” dei problemi? Perché, anche nell’apparente mancanza di rilevanti novità, abbiamo il dovere di indicare strade per il futuro; il pessimismo è infatti il più grande nemico di una clinica attenta e dedita (Winblad et al., 2016; Scheltens et al., 2016). Il capitolo introduttivo costituisce una rassegna degli aspetti più signiicativi, e di rilievo per la salute, tra i cambiamenti avvenuti negli ultimi anni attorno al problema delle demenze. Lo scopo è informare gli operatori a tutti i livelli sulle criticità culturali e pratiche (vecchie e nuove) che incontreranno nell’assistenza Antonio Guaita, Marco Trabucchi 1. Introduzione – La nuova dimensione dei problemi 12 ANToNIo GuAITA, MARCo TRAbuCChI delle persone ammalate, siano essi addetti direttamente alle cure, nei vari luoghi e nei vari livelli di funzione, siano essi coinvolti in responsabilità politico-legislative, di programmazione o gestionali (Bianchetti e Trabucchi, 2010). Infatti una migliore conoscenza da parte degli attori delle cure dei fenomeni clinico-biologici, psicologici, socio-organizzativi permette di meglio comprendere il proprio ruolo, calibrando l’impegno nelle diverse aree. Scrive Borri (2012): “Alzheimer non fu solo un eminente istopatologo, non fu solo l’uomo del laboratorio. Già all’inizio del suo lavoro come medico assimilò quel pensiero e quella prassi della psichiatria attenta all’individuo e alle sue sofferenze”. È inito il tempo dell’onniscienza, in grado di spiegare ogni singolo aspetto dei problemi correlati alle cure e di offrire risposte apparentemente tranquillizzanti; oggi è necessario imparare a costruire un proprio dificile itinerario, il più utile possibile sia per chi offre un servizio, sia per chi lo riceve, navigando tra mille diverse indicazioni, ostacoli, supporti dati o negati. Seguendo questa logica verranno affrontati in sequenza gli aspetti epidemiologici, incerti per quanto riguarda il futuro, quelli biologici, per capire l’impegno di migliaia di studiosi ancora non coronato di successi deinitivi, il rapporto tra malattia e disabilità, alla base di ogni considerazione anche terapeutica, le cure ed i luoghi loro preposti, dalla diagnosi alle terapie, il ruolo centrale dei caregiver in una società in rapidissimo cambiamento. Inine il capitolo si conclude con alcune annotazioni sul signiicato della vita nel corso di malattie fortemente invalidanti, non per svolgere considerazioni etiche, ma per fondare un diritto di cittadinanza indipendente dalle condizioni di salute. In premessa è utile una rilettura di alcune caratteristiche del nostro tempo, perché la vita della persona affetta da una malattia cronica invalidante dipende moltissimo, nella buona e nella cattiva sorte, da ciò che le accade attorno, sia a livello delle relazioni immediate sia delle dinamiche culturali complessive. La domanda di fondo – inevitabile – è quanto e come stia cambiando il nostro mondo rispetto alle risposte da dare alle malattie; l’apparente diffusione di egoismi di gruppo, di casta, di razza, di religione è destinata a rompere il legame tra le generazioni che per secoli ha governato la continuità famigliare e sociale? Mai come in questi tempi si discute del problema anziani come se fossero responsabili di ogni negatività, a cominciare da quelle dei bilanci pubblici. Mai come ora si è parlato di pensioni, di reversibilità, di indennità di accompagnamento, di costi sanitari e assistenziali con tonalità colpevolizzanti. Questa atmosfera è destinata a creare insofferenze e crisi, senza che si intravvedano risposte equilibrate. Un altro aspetto della situazione attuale riguarda la domanda se, in generale, la generazione dei baby boomer che si affaccia oggi all’età avanzata sia disponibile ad accettare le condizioni di vita che hanno caratterizzato le precedenti generazioni. Vi sono infatti segni precisi che indicano il sopravvenire di nuovi modelli; la grande dif- 1. INTRoDuzIoNe – LA NuoVA DIMeNSIoNe DeI PRobLeMI fusione nella letteratura contemporanea di opere che discutono di salute e malattia, soprattutto nei riguardi delle malattie croniche, compresa la demenza, induce a ritenere che siano l’espressione di elaborazioni sotterranee di una sensibilità diffusa, che lo scrittore riesce a interpretare nel modo più incisivo. Se il cambiamento dei modelli di vita si riletterà sempre più anche nell’organizzazione della cura delle persone affette da demenza molti aspetti dell’assistenza dovranno cambiare. Che cosa signiichi in concreto questa evoluzione (o involuzione) non è ancora dato di sapere; però sta avvenendo e caratterizzerà le risposte dei prossimi anni, a cominciare da quelle offerte dal sistema pubblico di welfare. Se ciò non dovesse avvenire si manifesterebbero conlitti più o meno gravi ed evidenti. Sullo sfondo vi è il problema dei costi e dei relativi inanziamenti; una società necessariamente più povera, con costi pensionistici elevati, come potrà organizzare servizi più vicini alle attese e agli stili di vita di molti nostri contemporanei? Qualcuno pone in correlazione questa richiesta di una vita più serena da vecchi con una riduzione dell’“invasività” della medicina e delle sue tecnologie, e con la possibilità (speranza!) che così si generino risparmi signiicativi. Non si deve però trascurare che la richiesta di una vita in condizioni migliori possa divenire una pretesa irrealizzabile nella situazione italiana e che quindi nasca spontanea la richiesta di abbreviare il tempo della dipendenza (ad alti costi) attraverso una diminuzione dei servizi forniti. Il risparmio-accorciamento del periodo di vita che costa molto sarebbe apparentemente rivestito di nobili motivazioni, come quelle che si riferiscono al senso della vita. Ovviamente questa area altamente problematica è in grave crisi, perché mancano seri riferimenti di ordine culturale e politico, che dovrebbero governare le scelte concrete (Rozzini et al., 2014). L’insieme di queste problematiche, che diventano sempre più rilevanti nello scenario, richiederebbe un maggiore investimento nella ricerca e nella formazione (Wu et al., 2016). Ciò quasi ovunque non avviene, seppure con diverse tonalità nei vari paesi. Diffusa nel mondo occidentale è la scarsa attenzione per la formazione degli operatori in ambito clinico, ben descritta da Atul Gawande in Essere mortale: “Nei libri di testo non c’era praticamente niente riguardo all’invecchiamento, alla fragilità, al morire. I modi in cui si svolge il processo, in cui le persone vivono la parte inale della propria vita e in cui questo si ripercuote sui loro cari sembrano temi non pertinenti. Per come la vedevamo noi, e per come la vedevano i nostri docenti, obiettivo dell’istruzione universitaria era insegnare a salvare le vite, non a prendersi cura di come inivano”. Per quanto drastica, questa affermazione rilette la mancanza, ancor oggi diffusa nelle agenzie formative, di attenzione per la vita delle persone anziane affette da malattie croniche. Simile considerazione può essere fatta per il mondo della ricerca; si investono giustamente molte energie attorno agli aspetti biologici delle malattie neurodegenerative, mentre non si dedica un’attenzione strutturata a come migliorare la qualità 13 14 ANToNIo GuAITA, MARCo TRAbuCChI dell’assistenza nel mondo reale, mettendo a confronto, e misurandone gli outcome, modelli diversi di intervento, sia a livello sistemico che di approccio al singolo cittadino bisognoso di cure. In assenza di studi mirati a deinire che cosa è utile o meno nella speciicità delle condizioni della persona affetta da demenza si rischia il prevalere di considerazioni generiche, dettate dall’esigenza di ridurre i costi, senza attenzione alle speciicità delle condizioni di fragilità. A questo proposito, si deve osservare che uno dei punti più qualiicanti del Piano nazionale demenze da poco deinito riguarda appunto il “diritto alla speranza”; si riconosce che formazione e ricerca sono aspetti centrali di un sistema organizzato che si impegni a garantire un futuro di qualità delle cure prestate. L’approvazione del Piano ha rappresentato un signiicativo passo avanti per creare una coscienza diffusa attorno ai problemi umani, clinici, psicologici, organizzativi, economici posti dalle demenze alla nostra comunità; è un punto di partenza importante, che può rappresentare un riferimento “nobile” per chi lavora nel campo (Bianchetti et al., 2016). 2. L’epidemiologia e la sua evoluzione Oggi si calcola che in Italia risiedano circa 950.000 persone affette da demenza, combinando i dati Istat del 2014 e quelli dello studio classico di Lobo del 2000. Essendo il numero una percentuale rispetto alle varie fasce di età, è destinato a crescere ancora per anni. Infatti la spettanza di vita aumenterà, anche se meno velocemente rispetto al recente passato, per cui ci si deve aspettare un ulteriore incremento della prevalenza. Su questo calcolo si inseriscono gli studi degli ultimi 4-5 anni, che hanno dimostrato una signiicativa riduzione dell’incidenza della malattia. Allo stesso tempo la quota di disabilità non cognitiva tra gli anziani non sembra destinata a ridursi. Questi dati possono essere così schematicamente commentati: a) non c’è spazio per previsioni catastroiste sul numero delle persone affette da demenza che potrebbero vivere tra 20-30 anni. Non è serio diffondere previsioni di lungo periodo, perché anche parziali cambiamenti negli stili di vita o qualche piccola-grande scoperta in ambito preventivo potrebbero modiicare drasticamente lo scenario. D’altra parte, la riduzione dell’incidenza da poco veriicatasi non era stata prevista e tuttora non è chiaro quali siano i fattori che l’hanno determinata (Satizabal et al., 2016). È inoltre pericoloso costruire previsioni che rischiano di diffondere nei programmatori un senso di impotenza e quindi di rinuncia a prevedere interventi adeguati; b) non sappiamo quale potrebbe essere nel prossimo futuro l’effetto provocato dall’identiicazione di farmaci che modiichino, in va- 1. INTRoDuzIoNe – LA NuoVA DIMeNSIoNe DeI PRobLeMI rio modo e con diversi livelli di eficacia, il rischio di malattia; ciò comporterebbe modiicazioni importanti del peso sociale ed organizzativo delle demenze; c) è legittimo che da parte delle diverse associazioni che rappresentano gli ammalati e i cittadini si dia importanza agli aspetti epidemiologici, al ine di richiamare l’interesse delle autorità; però è necessario tenere presente il rischio che si diffondano timori infondati da parte della popolazione. Possono essere citate per la loro incisività, a proposito dell’epidemiologia delle demenze, due affermazioni dialettiche tra di loro, pubblicate recentemente su grandi riviste mediche; la prima di Banerjee del 2013: “Dementia remains very common, very expensive, and profoundly negative in its effects on people with the disorder and their families”; la seconda “History offers reasons for hope. Evidence of dementia’s decline shows once again that our burden of disease is malleable” (Jones e Green, 2016). Sono la dimostrazione che nella nostra società, anche in ambiti tecnici, vi sono diversi punti di vista che si rilettono necessariamente sulle decisioni da prendere. Un aspetto particolarmente critico dell’epidemiologia è rappresentato dalle differenze di genere. Infatti la letteratura presenta dati contrastanti; la maggiore prevalenza femminile sembra infatti limitata all’Alzheimer e solo per le età più avanzate, tra l’altro con dati divergenti tra Europa e USA (Mazure e Swendsen, 2016; Andersen et al., 1999; Edland et al., 2002). Rispetto al ruolo del genere una particolare attenzione deve essere data alla presenza quasi esclusiva della donna nei compiti di cura. Inoltre si deve considerare che su di lei si scaricano anche molte crisi, che aggravano il ruolo di caregiver principale. Si pensi, ad esempio, al dibattito sulle pensioni di reversibilità suscitato recentemente, quasi fosse un furto continuare a vivere decentemente dopo che le funzioni di “care” hanno contribuito ad impedire alle donne di costruire negli anni una propria autonoma base economica. Si potrebbe deinire la pensione di reversibilità una forma di prestazione risarcitoria per il lavoro compiuto dalle donne a favore dell’ammalato, nelle diverse forme che hanno caratterizzato la funzione di supporto. Tra le molte altre considerazioni sull’epidemiologia della demenza di Alzheimer uno spazio signiicativo rivestono gli studi sui fattori di rischio, perché potrebbero rappresentare indicazioni importanti sulle quali regolare comportamenti individuali e collettivi (vedi ad esempio Mirza et al., 2016). Nella letteratura scientiica di questi anni si trovano moltissime indicazioni sull’uno o l’altro evento che può aumentare il rischio di comparsa della malattia (dai fattori clinici, ambientali, ai farmaci, a sostanze tossiche di varia origine). L’argomento è particolarmente complesso; denota un impegno a trovare spiegazioni che vadano oltre la componente genetica. Un aspetto indubbio è legato al concetto di riserva cognitiva, condizione che rallenta il tempo di comparsa della malattia. Infatti i soggetti con maggiore riserva, ottenuta attraverso un allenamento alla vita intellettualmente attiva avvenuto negli anni, possono tollerare una perdita cellulare 15 16 ANToNIo GuAITA, MARCo TRAbuCChI di dimensioni maggiori, rispetto al resto della popolazione, prima di mostrare un deicit cognitivo. A condizioni cliniche simili in ambito neuropsicologico, il danno neurologico sottostante è maggiore nelle persone con maggiore riserva. Questo meccanismo sta alla base degli interventi sugli stili di vita che portano a vantaggi sul piano cognitivo e su quello della salute nel suo insieme (Fratiglioni et al., 2004; Willey et al., 2016). È però doveroso riconoscere che sono necessari ancora molti studi per concludere sull’eficacia di queste azioni, in particolare per deinire se gli interventi multidominio esercitino un effetto speciico o se, invece, siamo in presenza di effetti generici, per cui il “vivere bene” protegge dalle malattie. Per quanto riguarda il ruolo dei geni associati alla demenza di Alzheimer, sono stati identiicati alcuni fattori importanti; è però necessario ancora impegno di ricerca per arrivare a dati più precisi, in grado di dare informazioni sul rischio di malattia. A parte la malattia di Alzheimer a trasmissione famigliare, responsabile di non più dell’1% dei casi, i geni caratterizzati ino ad oggi possono o meno essere responsabili di un aumentato rischio; però non sono la causa diretta e unica della malattia, anche perché alcuni portatori sono esenti dalla demenza di Alzheimer, così come vi sono malati che non presentano questi geni. Oggi è corretto parlare di geni che aumentano la probabilità di contrarre la malattia di Alzheimer; non si comportano cioè come quelli che determinano alcune caratteristiche di base, quali il colore degli occhi o dei capelli. Infatti è stato dimostrato che i geni coinvolti nella malattia di Alzheimer sarebbero responsabili di non più del 3% del rischio. Il gene più comunemente associato con la malattia di Alzheimer che compare dopo il 65 anni è l’apolipoproteina E; la forma APOE epsilon 4 aumenta signiicativamente il rischio. Ma vi sono anche altri geni identiicati per un collegamento con la malattia di Alzheimer; tra questi ABCA7 (collegato al metabolismo del colesterolo), CR1 (che contribuisce all’iniammazione cronica nel cervello), il TREM2, anch’esso collegato alla risposta dell’encefalo all’iniammazione. Vi sarebbe quindi un rapporto tra geni e meccanismi patogenetici diversi da quelli collegati alla beta amiloide, ino ad ora riconosciuta come la sostanza che svolge un ruolo determinante nella patogenesi della malattia. In generale, per i vari geni sono in corso studi per determinarne il ruolo, che molto probabilmente è quello di cofattori; infatti agiscono su siti d’azione diversi, che giocano un ruolo sinergico sulla comparsa della malattia (Rosenberg et al., 2016). La presenza di questi o altri geni non può essere interpretata come una condizione di rischio assoluto; infatti, la comparsa della malattia è modulata dalla cosiddetta capacità di “resilienza” del cervello, cioè dalle difese messe in atto di fronte ad un rischio di origine genetica. È ben noto che questa capacità dipende in buona parte dai comportamenti dell’individuo nel corso della vita. A questo proposito si valorizza l’importanza dell’educazione, della professione svolta, dall’at- 1. INTRoDuzIoNe – LA NuoVA DIMeNSIoNe DeI PRobLeMI tivazione cognitiva precedente, dell’attivazione motoria. È quindi possibile affermare che il passaggio dalla condizione di invecchiamento “normale” a quella di alterazione cognitiva sia regolato da un insieme di fattori, alcuni dei quali non controllabili dall’individuo (la sua struttura genetica), altri invece controllabili, che attivano le potenziali capacità dell’encefalo di rallentare le modiicazioni biologiche indotte dai fattori genetici stessi. Il processo di modiicazione della struttura neuronale, che arriva ino alla neurodegenerazione, è lento e si sviluppa in lunghi anni; nello stesso tempo, atteggiamenti vitali attivi potrebbero svolgere una continua opera di controllo e rallentamento, allontanando la comparsa dei sintomi. In questa prospettiva, in letteratura vi è un crescente interesse verso le conseguenze della solitudine sulla salute, con particolare attenzione all’anziano. 3. Lo stigma si va riducendo Un aspetto positivo dell’evoluzione dei costumi è rappresentato da una certa riduzione dello stigma che accompagna la demenza e la malattia di Alzheimer in particolare. È una condizione dolorosa, che non caratterizza altre malattie croniche, che in questi anni ha provocato molte sofferenze sul piano soggettivo, ma anche molti danni alla crescita di un’adeguata cultura della cura della demenza. Il nascondimento imposto dalle famiglie ha portato infatti ad un allungamento del periodo prima della diagnosi, con conseguenze negative sulla possibilità di intervenire per ridurre la sintomatologia ed evitare l’eventuale eccesso di disabilità. Oggi il tempo medio in Italia per arrivare ad una diagnosi dopo la comparsa dei primi sintomi si è nettamente accorciato; è infatti passato da 2,5 anni nel 1999 a 1,8 anni nel 2015. È sempre troppo elevato rispetto ad altri paesi europei; però testimonia che la maggiore sensibilità delle famiglie, la riduzione dello stigma e una più sviluppata cultura clinica stanno ottenendo risultati importanti, che possono essere ulteriormente migliorati. La famiglia ancora oggi vive con angoscia la diagnosi, angoscia che si rilette più o meno direttamente sull’ammalato, che comprende la riduzione progressiva delle proprie capacità cognitive e, allo stesso tempo, intuisce la crisi della famiglia, non sempre in grado di affrontare la situazione con la necessaria lucidità. In alcune situazioni si rivivono le dificoltà che per molti anni hanno accompagnato la diagnosi di cancro, la cui sola parola signiicava angoscia e prospettive terribili. Un contributo alla riduzione dello stigma è derivato anche dai chiarimenti tramessi al pubblico sull’ereditarietà delle malattia di Alzheimer, cioè sul fatto che questa è strettamente limitata ad alcune forme genetiche rare, in età presenile, che, come già ricordato, coprono non più del 1% del totale. Lo stigma talvolta induce le famiglie a riiutare la diagnosi, mettendo in dificoltà il medico, il quale sente la responsabilità di comunicarla nella manie- 17 18 ANToNIo GuAITA, MARCo TRAbuCChI ra meno lesiva, ma allo stesso di dover chiedere l’alleanza di paziente e famigliari per costruire un chiaro progetto di cura che dura per anni e che quindi non può essere fondato su basi fragili. La situazione va lentamente cambiando sotto l’inluenza dei mezzi di comunicazione, dell’informazione di divulgazione scientiica e di alcuni medici particolarmente sensibili. Purtroppo in questo ambito sono di scarsa utilità, se non dannose, le varie fonti di informazione collegate a internet, perché comunicano dati spesso imprecisi e indicazioni poco realistiche sull’evoluzione della malattia e sui problemi che i malati si troveranno ad affrontare. Diffondono paure ingiustiicate che, se non controllate, hanno la tendenza ad espandersi in modo virale, inquinando, in particolare, il rapporto con il medico, sia quello di famiglia sia lo specialista. 4. Le basi biologiche incerte della malattia di Alzheimer Grandi investimenti sono stati fatti negli anni più recenti per investigare le basi biologiche della malattia; migliaia di laboratori in tutto il mondo si sono dedicati a questo compito. Come sopra indicato, molti studi vertono sull’identiicazione di possibili fattori di rischio; quasi ogni settimana la letteratura scientiica indica un farmaco, una molecola nell’ambiente, un certo atteggiamento vitale che sarebbero responsabili della comparsa di malattia. Al di là di possibili critiche sulle modalità tecniche di esecuzione di questi studi, manca il punto di collegamento tra il dato epidemiologico ed una possibile interpretazione fondata su dati biologici. Tra l’altro l’eccessiva ricerca di fattori di rischio aspeciici allontana da una concreta, realistica identiicazione di fattori dannosi per il mantenimento di adeguate funzioni cognitive con l’età. La prospettiva degli studi patogenetici, fondata sull’analisi in vivo e su reperti autoptici della struttura dell’encefalo e della sua composizione, non ha ancora portato a risultati deinitivi. Qualcuno ha parlato realisticamente della ricerca di un “ago nel pagliaio”; al contrario, molti studi si sono concentrati sull’identiicazione della beta-amiloide come fattore centrale e primario della cascata di eventi che porta alla degenerazione cellulare. Però vi sono condizioni nelle quali la malattia si presenta senza signiicative alterazioni della composizione dell’encefalo ascrivibili alla beta-amiloide e, all’opposto, non tutte le persone con un rilevante carico di beta-amiloide sono affette da malattia di Alzheimer. Questa incertezza sulle basi patogenetiche ha un rilesso più o meno diretto anche sulla mancata dimostrazione di eficacia terapeutica di molecole che sarebbero in grado di ridurre il peso dell’amiloide sull’encefalo. In questi anni sono stati realizzati numerosi trial a diversi livelli di gravità della patologia; tutti si sono conclu- 1. INTRoDuzIoNe – LA NuoVA DIMeNSIoNe DeI PRobLeMI si con danni economici per le aziende che li hanno organizzati, senza offrire dati importanti per l’interpretazione dei meccanismi della malattia. Anche questa realtà deve essere letta in una prospettiva positiva, per evitare che una visione totalmente negativa accompagni la clinica dei prossimi anni; l’ammontare enorme di dati accumulati in questi anni nelle ricerche condotte in tutto il mondo costruisce una base sulla quale certamente si inserirà, anche se in tempi non deinibili, una risposta alla diffusione della demenza. Probabilmente non sarà nemmeno la ricerca sulle cellule staminali ad offrire una prospettiva terapeutica signiicativa, perché sono troppe le incertezze attorno all’ambiente pericellulare che caratterizza la struttura neuronale delle persone colpite dalla demenza. Tra gli aspetti positivi vi è il dato dell’aumento dei inanziamenti che alcuni paesi hanno dedicato alla ricerca di base e applicata; in questa prospettiva la speranza espressa dal presidente Obama nel 2014 potrebbe essere realistica (una vittoria sull’Alzheimer entro il 2025!). 5. La diagnosi sempre doverosa Gli aspetti diagnostici delle demenze sono trattati ampiamente in altri capitoli del volume. Riportiamo come affermazione introduttiva quanto scritto nel documento dell’Associazione italiana di Psicogeriatria e di SINdem dedicato alla diagnosi precoce della malattia di Alzheimer: “Una maggiore accuratezza in dalle fasi precoci, attraverso un utilizzo intelligente ed appropriato dei vari marcatori, permette una migliore cura delle comorbidità somatiche e psicologiche, unitamente ad una più tempestiva gestione delle problematiche assistenziali e legali” (Padovani et al., 2015). La diagnosi non è certo un atto semplice, perché vi è una quota non indifferente di situazioni nelle quali le procedure diagnostiche sono complesse; richiedono competenza in ambito neuropsicologico, di imaging, di conoscenza dei marker ed una spiccata sensibilità nella raccolta della storia e nell’osservazione clinica. Vari livelli devono intervenire nelle speciiche situazioni; a questo ine è necessario che alla base vi sia un convincimento sull’utilità di raggiungere conclusioni diagnostiche accurate. Si adotteranno quindi varie modalità a seconda della complessità del quadro clinico; è importante che da parte di chi opera nelle Unità di valutazione Alzheimer vi siano le capacità per delineare il livello di complessità, e quindi per deinire se la diagnosi può essere condotta a termine in un primo livello o in un secondo, evitando inutili e complicati percorsi a pazienti nei quali sia chiara l’origine dell’alterazione cognitiva. 19 20 ANToNIo GuAITA, MARCo TRAbuCChI Un aspetto critico riguarda la comunicazione della diagnosi, tra incertezze, verità negate, dificoltà psicologiche; è un passaggio estremamente delicato, che richiede competenza e sensibilità da parte del medico, per affrontare situazioni che possono essere molto dolorose. Spesso il passaggio più dificile è quello rivolto alla famiglia, il cui atteggiamento varia da quella che non vuol sentire, a quella che vuol sapere tutto, anche in modo irrealistico, a quella impaurita, insoddisfatta, che continua a chiedere terapie risolutive, conidando su internet e le sue informazioni precarie, talvolta dimenticando lo stesso paziente e la sua condizione. È il tempo, per il medico e per gli altri operatori sanitari, della pazienza e dell’equilibrio. 6. Le cure Anche le cure per le demenze sono largamente trattate nel volume; è però utile in questa introduzione riportare l’esigenza che siano attente alla speciicità clinica dell’ammalato. Potrebbe sembrare un’affermazione pleonastica o retorica, ma la realtà è spesso dificile e sono purtroppo ancora diffusi atteggiamenti supericiali. La persona affetta da deicit cognitivo ha una storia clinica “unica”, sia dal punto di vista cognitivo che comportamentale e per quanto riguarda la salute somatica. Curare una persona affetta da demenza, con una lunga storia di malattie, è sempre un compito gravoso e dificile (Levine, 2016). Questo aspetto deve essere ricordato di fronte a tentativi di sempliicare l’approccio, dedicandovi scarsa attenzione (il “povero vecchio” che non merita cure accurate, perché “tanto non c’è nulla da fare”). A questo proposito è opportuno che qualsiasi scelta sia compiuta con il parere dei famigliari, soprattutto quando si tratta di adottare un atteggiamento di tipo palliativo. Occorre attenzione clinica supplementare perché la diagnosi di demenza non può essere la “notte nera dove tutte le vacche sono nere”. La tentazione di ascrivere alla demenza qualunque manifestazione sintomatica fa sì che non ci si chieda l’origine del quadro clinico, soprattutto di fronte a problemi di comportamento che possono invece scaturire da situazioni di disagio o di dolore che si potrebbero curare. La cura del dolore (spesso di dificile identiicazione in chi non sa riferirne le caratteristiche di intensità, localizzazione, durata) assume sempre un ruolo importante, perché la sofferenza peggiora sia la cognitività che il comportamento (Bianchetti e Trabucchi, 2015). Spesso si agisce con farmaci sedativi di fronte all’agitazione della persona sofferente, quando invece un trattamento speciico sull’origine del dolore porterebbe a risultati certamente migliori per la qualità della vita e clinicamente più mirati. Anche la cura dei disturbi comportamentali presenta aspetti critici, perché in molte occasioni un comportamento tollerante da parte dei caregiver a contatto con il paziente, in un contesto relazionale e ambientale sereno, permetterebbe di ridurre 1. INTRoDuzIoNe – LA NuoVA DIMeNSIoNe DeI PRobLeMI la sintomatologia e quindi anche la somministrazione di farmaci sedativi (è una tematica ben nota, una pagina poco nobile di un’organizzazione sanitaria spesso incapace di farsi carico dei reali problemi). È sempre necessario adottare un atteggiamento interpretativo del comportamento come linguaggio che comunica disagio; è un segnale che non deve essere trascurato sotto la pressione delle esigenze di controllo di sintomi disturbanti. Sul piano terapeutico vanno considerate anche le condizioni di polipatologia, che impongono trattamenti multipli con numerosi farmaci. In questi casi vi è la possibilità di interazioni con un’alta presenza di effetti indesiderati; allo stesso modo è frequente il rischio di somministrare farmaci che esercitano un effetto negativo sulle funzioni cognitive. Le cure di ine vita, adeguatamente tracciate in questo volume, rappresentano un punto estremamente delicato perché nel processo decisionale giocano componenti diverse, non sempre rispettose del paziente. Persistono barriere culturali al riconoscere che di demenza si può morire, per cui negli ultimi giorni di vita di questi pazienti vi è ancora troppo di frequente l’uso improprio di terapie non giustiicate e la dificoltà ad assumere un approccio palliativo. In questo non aiutano le prese di posizione da parte dei famigliari, spesso completamente slegate dall’interpretazione del volere del congiunto gravemente ammalato, quasi mai precedentemente registrato. La demenza è una condizione che porta a progressive perdite isiche e funzionali; talvolta però i famigliari non accettano la “piccola morte quotidiana”, che così diviene una continua fonte di stress e di atteggiamenti colpevolistici verso se stessi o verso chi cura. 7. I luoghi delle cure Una revisione dei servizi dedicati alle persone affette da demenza non è tra gli scopi di questo capitolo, perché trattata in altre pagine del volume. Si deve però riconoscere che molte sono ancora le incertezze attorno ad un’organizzazione che risponda adeguatamente alle varie fasi della malattia. Un aspetto fondamentale è rappresentato dal ruolo dei PDTA (Percorsi diagnostici terapeutico assistenziali) per le demenze. Infatti essi sono la base per accompagnare il paziente e la sua famiglia in maniera non frammentata tra i diversi pezzi del sistema, il cui governo dovrebbe essere condiviso, con ruoli e competenze diverse, tra il medico di medicina generale e l’UVA (CDCD, Centri deterioramento cognitivo e demenze, secondo la nuova denominazione del “Piano”). Il PDTA indica un’organizzazione che copre sia gli aspetti strettamente clinici sia quelli assistenziali e li affronta in armonia senza barriere. Ad esempio, il molto tempo da dedicare alla sorveglianza del paziente, che in alcune fasi non può mai essere abbandonato, è un atto clinico o esclusivamente assistenziale? Non vi è dubbio che le cure farma- 21 22 ANToNIo GuAITA, MARCo TRAbuCChI cologiche possono avere un ruolo importante nel controllare l’aggressività e l’agitazione; però è altrettanto vero che, senza un’adeguata capacità di tolleranza da parte di chi assiste, il rapporto di cura è destinato a fallire. Così il PDTA non può essere solo dedicato al collegamento fra i servizi esistenti, ma deve contribuire a modiicare struttura e funzione di tali servizi, residenziali e ambulatoriali, perché meglio rispondano ai malati di demenza. I punti più critici di un’organizzazione articolata sono indicati di seguito: la fase diagnostica inziale, che può prevedere anche l’intervento di centri di alta specializzazione; l’accompagnamento nei lunghi anni di malattia e il supporto che il sistema sanitario e assistenziale deve fornire alle famiglie, anche attraverso servizi territoriali adeguati; il momento del ricovero in ospedale per una patologia acuta (è sempre un aspetto critico, perché l’ospedale non è culturalmente attrezzato ad ospitare persone con problemi di comunicazione con il personale e di comportamento che complicano la degenza); la possibilità di organizzare residenze leggere per il cittadino con forme lievi di deicit cognitivo, ma le cui condizioni sociali (mancanza di supporti eficaci) ne rendono impossibile la permanenza a casa; la decisione di collocare o meno una persona affetta da Alzheimer in fase terminale in un hospice, dove può ricevere adeguate cure palliative, piuttosto che lasciarla nel proprio luogo di vita (la casa o una residenza) (NNA, 2015). Talvolta si tratta di servizi che avrebbero bisogno di sperimentazioni serie e del controllo dei risultati; invece, troppo spesso, si iniziano interventi che si autoqualiicano come innovativi, senza piani che permettano di seguirne l’evoluzione e la conseguente rilevazione di eficacia. Si pensi in particolare alla rivoluzione avvenuta in questi anni nel mondo variegato delle residenze per anziani, che oggi mediamente ospitano una popolazione molto vecchia e per quote attorno al 6070% affetta da demenza. Recentemente Atul Gawande nel suo, già citato, Essere mortale. Come scegliere la propria vita ino in fondo ha posto all’attenzione del grande pubblico l’interrogativo che gli operatori si pongono da molto tempo: “In una casa di riposo ho incontrato una signora di 85 anni con l’Alzheimer e gravi problemi di deglutizione: veniva alimentata con pappine per evitare complicazioni. Ma a lei non andava bene, l’avevano sorpresa a rubare cookies. I biscotti erano una gioia, ma anche un pericolo. Che cosa è più importante: la salute o il benessere?” È il problema del senso della vita che attraversa tutti i servizi per le persone affette da demenza. Forse è una problematica che non si arriverà mai a comprendere ino in fondo, alla quale dare risposte soddisfacenti! Un aspetto particolarmente delicato riguarda la possibilità di una riabilitazione motoria eficace in persone con compromissione delle funzioni cognitive. Gli studi più recenti hanno confermato il dato che, se attuata in modo opportuno, la riabilitazione ottiene risultati signiicativi rispetto alla possibilità di garantire un progresso verso l’autonomia motoria. L’esecuzione di un progetto efica- 1. INTRoDuzIoNe – LA NuoVA DIMeNSIoNe DeI PRobLeMI ce richiede il coinvolgimento di molte igure professionali, perché tutta l’équipe curante, compreso, se possibile, il principale caregiver informale, deve partecipare a creare un’atmosfera di protezione, ecologica e piacevole, volta a favorire il raggiungimento di obiettivi realistici. Purtroppo vi sono ancora troppe resistenze in questo ambito, dettate da pregiudizi e dalla mancanza di cultura; è signiicativo ricordare che ino a pochi anni addietro le persone affette da demenza non venivano nemmeno sottoposte ad intervento ortopedico dopo frattura di femore. È augurabile che lo stesso progresso compiuto in ambito chirurgico possa avvenire in ambito riabilitativo, anche perché sarebbe inaccettabile che un numero sempre più elevato, come indica l’epidemiologia, di persone affette da demenza non possano essere assistite e quindi debbano rimanere in una condizione di grave disabilità, che peserebbe sui famigliari e sul sistema sanitario. Peraltro nulla si sa della sofferenza soggettiva di una persona affetta da demenza, che certamente consegue all’evento traumatico (la frattura e il conseguente intervento chirurgico) e della percezione di non potersi muovere autonomamente. 8. Il caregiving nella società liquida Nell’ultimo decennio sono cambiati gli stili di vita degli italiani ed anche quelli di chi si dedica alla cura degli anziani ammalati. Il caregiving resta una realtà nascosta e dolorosa, che tende a diventare sempre più drammatica con la crisi economica che non sembra risolversi e con il progressivo allentamento dei legami famigliari (Bartorelli, 2015). Un decennio fa si pensava che l’aumento dei servizi avrebbe ridotto l’impegno di chi presta assistenza diretta nelle famiglie ed anche quello delle badanti. Invece dati di varia origine, in particolare lo studio Aima-Censis del 2016, dimostrano che è diminuita la fruizione dei servizi pubblici, per motivi non ancora evidenti (non è infatti credibile che vi sia stata una riduzione così drammatica delle disponibilità) ed un aumento di quelli forniti privatamente. Dal 1999 al 2015 l’età media dei malati di demenza assistiti a casa è passata da 73,6 anni a 78,8; ciò ha indotto un aumento oggettivo delle problematiche assistenziali, sia riguardo agli aspetti clinici sia quelli riguardanti la qualità della vita. Il dato diventa ancor più di rilievo se si associa all’aumento dell’età media dei caregiver, da 53,3 anni a 59,2 nello stesso periodo di tempo. Inoltre la condizione di solitudine della diade paziente-caregiver è passata nello stesso tempo dal 23 al 30%. Questi dati, se avvicinati a quelli noti da molti anni sullo stress emotivo e isico del caregiver, delineano un quadro in peggioramento molto preoccupante. Si arriverà ad una realtà sociale nella quale pochi cittadini affetti da demenza riusciranno a rimanere nelle proprie abitazioni, assistiti in modo dignitoso? È una domanda senza risposta, che valorizza ogni tentativo che vada 23 24 ANToNIo GuAITA, MARCo TRAbuCChI nella direzione opposta, a cominciare da una maggiore attenzione sociale verso la funzione di chi presta assistenza. Il binomio invecchiamento-solitudine impone alla collettività di ripensare al ruolo del caregiving con attenzione, senza adagiarsi, come è stato fatto in questi anni, sulla presenza di persone disponibili che a pagamento hanno supportato le crisi delle famiglie. Non si può infatti ritenere che questo meccanismo di compenso possa durare ancora per molti anni, anche considerando la crescita sociale ed economica di alcuni Paesi di origine delle badanti. In questa logica si devono accettare la malattia e la relazione d’aiuto; talvolta la famiglia vuole invece affrontare da sola le dificoltà, riiutando realtà potenzialmente di supporto già presenti nel territorio. In questo ruolo la famiglia dovrebbe essere aiutata dal medico di medicina generale, in grado di sedare le paure, di dare risposte alle incertezze, di aiutare nei momenti dificili di decisioni sul futuro; infatti spesso lo specialista, anche quello che opera nelle UVA/CDCD, non ha il tempo e la conoscenza suficiente del malato e della sua famiglia per intervenire eficacemente. Lo spettro delle domande poste a chi assiste impone al medico di essere informato, disponibile, coinvolto; la lontananza dai veri problemi, l’impressione di distacco rendono dificile alla persona dedita all’assistenza di parlare, di rivolgere domande, di chiedere aiuto. Il medico deve capire che spesso l’assistenza richiede coraggio, che va identiicato (il compito del medico di “scoprire che suono ha il coraggio”) e sostenuto; il suo supporto diviene spesso il determinante principale del rimanere o meno a casa dell’anziano ammalato di demenza. Le domande vanno da quelle che potrebbero apparire più semplici, sulle modalità assistenziali di ogni giorno (alimentazione, idratazione, trattamenti farmacologici, mobilizzazione, prevenzione dei decubiti, igiene del sonno, ecc.) a quelle più drammatiche sulle decisioni da prendere (l’assunzione di una badante, il ricovero in una residenza, l’opportunità di un intervento chirurgico, le decisioni sull’alimentazione artiiciale, quelle riguardanti le fasi terminali della malattia, ecc.). Oltre a questi aspetti pratici, il medico di famiglia deve farsi carico della sofferenza soggettiva del paziente, in particolare nelle prime fasi della malattia, e del caregiver, il quale assiste da vicino alla decadenza del proprio caro. Questi talvolta è colpito in modo diretto dalla comparsa di sintomi comportamentali, che turbano la relazione e mettono in crisi il senso stesso del caregiving. Ovviamente questa impostazione del rapporto con la famiglia richiede del tempo; dovrebbe quindi essere riconosciuta al medico tra le attività cliniche più rilevanti (si consideri che un medico di famiglia massimalista ha in media tra i suoi assistiti 25-30 persone affette da demenza e altrettante famiglie che ne portano il peso). Nella “società liquida” che tende a rendere fragili i rapporti, anche quelli di donazione, il medico rappresenta un punto fermo; dovrebbe quindi essere un compito di cura che questi vive come insostituibile. Spesso si ripete che di fronte alla malattia di lunga durata e alla morte il medico si sente come un analfabeta quando deve 1. INTRoDuzIoNe – LA NuoVA DIMeNSIoNe DeI PRobLeMI rapportarsi alla vita, agli affetti, ai sentimenti. La cultura, l’esperienza e, perché no, la generosità personale sono gli antidoti più eficaci per impedire che l’analfabetismo condizioni il lavoro di cura in tutte le sue diverse espressioni. L’obiettivo può essere riassunto da uno slogan della letteratura scientiica: “To cure sometimes, to relieve often, to comfort always”. Oltre al ruolo del medico va considerata l’importanza degli altri operatori della salute che dovrebbero lavorare in équipe. Nelle malattie croniche, come è stato detto, non contano i “cowboys”, ma i “pit stoppers”, cioè gli operatori in grado di condividere motivazioni, obiettivi e modalità d’azione. 9. La difesa della cittadinanza Una visione negativa della vecchiaia e delle malattie che l’accompagnano ha determinato una visione negativa e senza speranza anche delle demenze. Una delle conseguenze di questa cultura dominante è il mettere in dubbio il diritto di cittadinanza di chi è ammalato. Per questo motivo sono di grande importanza “politica” le esperienze che si vanno diffondendo nel mondo di “dementia friendly community”; infatti testimoniano un impegno da parte delle comunità vitali ad accogliere e sostenere le persone ammalate su un piano di normalità; la malattia non cancella il diritto ad una vita insieme con le persone sane. Il termine si riferisce a un progetto internazionale nato nell’ambito della associazione dei malati e dei famigliari “Alzheimer’s Disease International” per combattere i pregiudizi e le discriminazioni. L’associazione lo deinisce come: “Una città, paese o villaggio in cui le persone affette da demenza sono comprese, rispettate e sostenute, e siano iduciose di poter contribuire alla vita della comunità. In una comunità solidale con le persone con demenza i suoi individui saranno coscienti e sapranno comprendere le demenze, le persone con demenza si sentiranno incluse e coinvolte, con possibilità di scelta e di controllo giorno per giorno sulla propria vita” (Alzheimer’s Disease International, 2015). In questo modo si rispetta il diritto a scegliere le modalità preferite per trascorre il tempo di vita: “Gli uomini (…) chiedono solo che sia loro consentito, nei limiti del possibile, di continuare a plasmare la storia del loro essere nel mondo: chiedono di fare scelte, di mantenere i contatti con il prossimo secondo le loro priorità. Nella società moderna siamo arrivati a dare per scontato che debilitazione e non autosuficienza escludano la possibilità di una simile autonomia” (Gawande, 2016). Il principio di cittadinanza va valorizzato anche nelle fasi inali della malattia, quando vi potrebbero essere tentazioni di ridurre le cure in nome di una supposta inutilità. Se l’obiettivo è intervenire per ottenere una regressione della malattia si tratta di un errore clinico grave, che non ha alcun signiicato né alcuno 25 26 ANToNIo GuAITA, MARCo TRAbuCChI scopo. Se, invece, l’intervento è mirato a garantire una migliore qualità della vita (pur con i molti limiti che questa dizione assume nella persona in fase avanzata di malattia) gli interventi sono doverosi nel nome della comune appartenenza alla comunità civile. Quindi nessun risparmio si giustiica, come non si giustiicherebbe nel caso di altre condizioni di sofferenza in altre età della vita. Il diritto alla cura delle persone affette da demenza si fonda sul fatto che esse mantengono uno status di cittadini non solo per riconoscimento civile (il genere umano deve essere considerato in tutte le sue componenti, anche quelle del dolore e della sofferenza), ma perché intrinsecamente soggetti che esprimono una continuità vitale, senza indicibili buchi neri (e quindi senza la possibilità di considerarli elementi a perdere). D’altra parte gli scrittori, che interpretano il sentire comune, descrivono la vita della persona ammalata: “L’attenzione, l’affetto, rivelano che la storia di quella persona, la sua identità precisa sono ancora scritte nella sua identità. Tratti di umanità baluginano continuamente, come la piccola iamma di un lumicino. È la vita che dimostra così di essere invincibile” (Mannuzzu, 2013). Un aspetto particolare della problematica della cittadinanza riguarda il rispetto del corpo della persona affetta da demenza. Infatti deve essere letto come espressione suprema della vita e non come “macchina eficace”. Anche nella demenza il corpo rappresenta il ponte verso l’esterno, purché se ne accettino i limiti. Spesso si dice che il cervello è il pezzo più complesso dell’universo; ma l’intera persona è certamente più complessa. E questa non può essere compresa senza valutare l’ambiente e gli altri individui: si procede per livelli progressivi di complessità, operazione necessaria per un’interpretazione realistica della vita, anche in corso di malattie come la demenza. Il corpo funge da sinapsi tra l’interno e l’esterno, luogo dell’uniicazione dell’esperienza individuale e collettiva. Le relazioni con chi è affetto da demenza hanno un ruolo importante nella deinizione di cittadinanza. Ma la relazione non può essere l’unico aspetto che deinisce “l’altro” colpito da demenza. È un aspetto rilevante, ma si deve ricercare un fondamento autonomo rispetto alle relazioni sociali, pur importantissime. Trovare un equilibrio tra la deinizione di identità personale come questione interna dell’individuo o questione socialmente determinata: è il nucleo di una dificile ricerca, che interessa soprattutto chi lavora su progetti di cura. Infatti afidarsi solo al riconoscimento da parte di altri porterebbe a costruire una condizione “friabile”, esposta alle condizioni del momento (psicologiche, etiche, sociali, economiche, organizzative) (Trabucchi, 2016). La poesia esprime linguaggi che riguardano il profondo della natura umana e, in questa prospettiva, il lettore interessato a letture che riguardano l’interpretazione poetica delle demenze, è invitato a scorrere i numeri della rivista Psicogeriatria dell’Associazione italiana di Psicogeriatria, ciascuno dei quali dal 2008 1. INTRoDuzIoNe – LA NuoVA DIMeNSIoNe DeI PRobLeMI riporta una poesia sul tema, commentata da Franca Grisoni. È un modo di ricordare che la sofferenza indotta dalla malattia neurodegenerativa non cancella l’essere persona e il suo valore intrinseco. Bibliografia AIMA – Censis (2016), Cittadini come gli altri?, Roma, Carocci. Alzheimer’s DiseAse internAtionAl (2015), Dementia Friendly Communities (DFCs). New domains and global examples, London, Alzheimer’s Disease International. AnDersen K., lAuner l.J., Dewey m.e., letenneur l., ott A., CopelAnD J.r., DArtigues J.F., KrAgh-sorensen p., BAlDeresChi m., BrAyne C., loBo A., mArtinez-lAge J.m., stiJnen t., hoFmAn A. (1999), Gender differences in the incidence of AD and vascular dementia: The EURODEM Studies, euRoDeM Incidence Research Group, Neurology, 53(9):1992-7. BAnerJee s., hellier J., romeo r., Dewey m., KnApp m., BAllArD C., BAlDwin r., BenthAm p., Fox C., holmes C., KAtonA C., lAwton C., linDesAy J., livingston g., mCCrAe n., moniz-CooK e., murrAy J., nuroCK s., orrell m., o’Brien J., poppe m., thomAs A., wAlwyn r., wilson K., Burns A. 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Introduzione Rilevabili in poco meno di un terzo dei soggetti più anziani, le demenze pongono problemi a tutti i livelli: diagnostici, terapeutici e assistenziali. Nella Medicina generale la diagnosi è spesso omessa non esistendo una chiara soglia di passaggio dalle forme di semplice deterioramento mnesico a quelle di evidente compromissione delle funzioni cognitive. Tuttavia, l’esistenza di forme secondarie a malattie curabili e l’indubbio beneicio di una precoce presa in carico del paziente e della famiglia esigono grande attenzione diagnostica in dalle fasi iniziali della malattia. La demenza è una malattia, per questo motivo il cittadino ha il diritto a ricevere una diagnosi almeno sindromica il più precocemente possibile, come giustamente ribadito anche dal recente Piano nazionale demenze (2015). La Medicina generale in questi anni ha attivamente partecipato a corsi di formazione e alle iniziative istituzionali (Progetto Cronos) o regionali con l’intento di migliorare i tempi per il riconoscimento diagnostico, l’invio allo specialista per la conferma della diagnosi e la successiva presa in carico dei soggetti con demenza ma, nonostante questo, persiste una grande variabilità dei comportamenti clinici. È auspicabile che la nuova organizzazione prevista dalla legge Balduzzi che obbliga i MMG ad associarsi favorisca il confronto tra MMG, favorendo la condivisione di strumenti semplici, comuni e validati da impiegare nel caso di sospetto diagnostico. Questi strumenti sono in grado di confermare l’esistenza o meno di un deterioramento cognitivo e di inquadrarlo nei criteri che deiniscono le sindromi demenziali. In ogni caso, da sempre il MMG ha il grande vantaggio di poter contare su un rapporto continuativo e duraturo nel tempo, di conoscere la famiglia e l’ambiente in cui le persone vivono e lavorano e di essere facilmente accessibile. In questo capitolo verranno descritte le modiicazioni delle prestazioni cognitive con l’invecchiamento, le manifestazioni iniziali della demenza e il ruolo della Medicina generale in questo percorso. Angelo Bianchei, Ovidio Brignoli 2. Le manifestazioni iniziali delle demenze 30 ANGeLo bIANCheTTI, oVIDIo bRIGNoLI 2. Modificazioni delle funzioni cognitive con l’invecchiamento Per molto tempo la demenza è stata considerata una normale sequela dell’invecchiamento; null’altro quindi che l’accentuazione di un normale e ineluttabile processo isiologico. Questo ha portato ad una errata interpretazione dei sintomi iniziali della malattia da parte di molti medici, cosa che, ancora oggi, contribuisce a perpetuare il pregiudizio che questi siano effetto dell’età. In realtà, le modiicazioni delle funzioni cognitive che si possono riscontrare con l’età, quali ad esempio un rallentamento nei processi di apprendimento o modiicazioni della velocità di esecuzione delle prove di performance, sono stabili e non hanno impatto funzionale poiché l’anziano normale riesce a compensare in modo eficace queste alterazioni (Blazer et al., a cura di, 2015). Con l’età si osserva anche un declino della memoria ristretto a speciici aspetti che si evidenziano con test neuropsicologici sensibili all’acquisizione di nuove informazioni ed al recupero precoce delle stesse, mentre non si osservano alterazioni di altre aree cognitive quali il linguaggio, le abilità visuo-spaziali, il ragionamento astratto (Harada et al., 2013). La perdita della memoria è un sintomo riferito con elevata frequenza dalle persone anziane, anche in condizioni di normale eficienza funzionale, ed è stato associato a disturbi depressivi (Burt et al., 1995). L’associazione fra deicit soggettivo di memoria e peggiori perfomance ai test neurocognitivi non è confermata da tutti gli studi e resta tuttora una questione aperta (Rickenbach et al., 2015). L’auto-riferimento del livello di funzionamento della memoria non può essere utilizzato come indicatore clinico di deicit cognitivo; solo una accurata valutazione clinica e neuropsicologica può, infatti, distinguere in questo gruppo i soggetti normali da quelli che presentano un declino di grado lieve che, sebbene non raggiunga il livello della demenza, richiedono comunque una osservazione nel tempo. 3. Le fasi paucisintomatiche La demenza è una sindrome clinica caratterizzata da perdita di più funzioni cognitive, tra le quali quasi sempre la memoria, di entità tale da interferire con le usuali attività sociali e lavorative del paziente. Oltre ai sintomi cognitivi sono presenti sintomi non cognitivi, che riguardano la sfera della personalità, l’affettività, l’ideazione e la percezione, le funzioni vegetative, il comportamento (Bianchetti e Trabucchi, 2013). La diagnosi di demenza è il risultato di uno scrupoloso ed approfondito processo valutativo che porta anche alla esclusione delle altre possibili cause di 2. Le MANIFeSTAzIoNI INIzIALI DeLLe DeMeNze decadimento cognitivo. Una diagnosi eziologica accurata è importante per riconoscere le forme reversibili o arrestabili ed è, anche nelle forme irreversibili, la premessa necessaria all’impostazione della terapia farmacologica e dei trattamenti riabilitativi, alla deinizione della prognosi, alla pianiicazione degli interventi socio-assistenziali. Inoltre, poiché l’impatto della demenza sulla famiglia del paziente è rilevante, una accurata diagnosi permette di fornire al paziente stesso ed ai familiari informazioni più precise circa il decorso della malattia, gli atteggiamenti e le modalità di relazione più appropriate, i servizi disponibili, i problemi legali ed etici che si potranno porre lungo il decorso della malattia (Sorbi et al., 2012). I criteri diagnostici per le demenze, e per la malattia di Alzheimer (AD) in particolare, sono stati oggetto negli ultimi anni di una profonda revisione che ha portato alla deinizione di una fase “predementigena” e di una fase chiaramente sintomatica della malattia di Azheimer con criteri clinici e biologici deiniti (Bianchetti et al., 2011). La deinizione proposta della sindrome “demenza” si applica anche alle altre patologie dementigene oltre che all’AD ed è di particolare utilità sia sul piano classiicativo che su quello clinico. Secondo questi criteri la demenza viene diagnosticata quando vi sono sintomi cognitivi o comportamentali (neuropsichiatrici) che: Secondo questi criteri la demenza viene diagnosticata quando: 1) vi sono sintomi cognitivi o comportamentali (neuropsichiatrici) che a) interferiscono con l’abilità di svolgere il lavoro o le usuali attività; e b) rappresentano un declino rispetto ai precedenti livelli di funzionamento e prestazione; e c) non sono spiegati da delirium o disturbi psichiatrici maggiori; 2) il deicit cognitivo è dimostrato e diagnosticato attraverso la combinazione di (1) informazioni raccolte dal paziente e da persone che lo conoscono e (2) una valutazione oggettiva delle prestazioni cognitive, sia attraverso una valutazione clinica dello stato mentale che attraverso una valutazione neuropsicologica testistica. La valutazione neurpsicologica testistica dovrebbe essere effettuata quando l’anamnesi routinaria e la valutazione clinica dello stato mentale non forniscono una diagnosi afidabile; 3) il deicit cognitivo o le alterazioni comportamentali coinvolgono un minimo di due dei seguenti domini: a) compromessa abilità di acquisire e ricordare nuove informazioni – i sintomi includono: domande o discorsi ripetitivi, smarrire oggetti personali, dimenticare eventi o appuntamenti, o perdersi in itinerari conosciuti; b) deicit nel ragionamento o nello svolgimento di compiti complessi, ridotta capacità di giudizio – i sintomi includono: scarsa capacità di compren- 31 32 ANGeLo bIANCheTTI, oVIDIo bRIGNoLI dere di pericoli, incapacità di gestire le inanze, scarsa capacità di prendere le decisioni, incapacità di pianiicare attività complesse o sequenziali; c) compromissione delle abilità visuospaziali – i sintomi includono: incapacità di riconoscere volti o oggetti comuni o trovare oggetti direttamente in vista nonostante una buona acuità visiva, incapacità di utilizzare semplici utensili o indossare i vestiti; d) alterazione del linguaggio (parlare, leggere, scrivere) – i sintomi includono: dificoltà a pensare a semplici parole quando si parla, esitazioni; errori di scrittura, di ortograia e nel parlare; e) modiicazioni nella personalità, nel comportamento e nella condotta – i sintomi includono: luttuazioni insolite dell’umore come agitazione, compromissione della motivazione, dell’iniziativa, apatia, perdita della motivazione, ritiro sociale, riduzione dell’interesse per le usuali attività, perdita di empatia, comportamenti compulsivi o ossessivi, comportamenti socialmente inappropriati. La differenziazione della demenza dal deterioramento clinico lieve (Mild Cognitive Impairment, MCI) si basa sulla determinazione se ci sia o no interferenza signiicativa con la capacità di funzionamento al lavoro o nelle usuali attività quotidiane. Questo è naturalmente un giudizio clinico, effettuato da un medico esperto sulla base delle circostanze individuali del paziente e dalla descrizione di vicende quotidiane ottenute dal paziente e da un soggetto che lo conosce. Dal punto di vista clinico la condizione di lieve declino cognitivo che rappresenta, almeno in taluni casi, la fase di transizione fra l’invecchiamento normale e la demenza (malattia di Alzheimer ma non solo) ha ricevuto varie deinizioni e classiicazioni, tra cui deterioramento cognitivo lieve (MCI), demenza incipiente, deicit isolato di memoria e, nella recente versione del DSM V disturbo neurocognitivo minore (Langa e Levine, 2014; American Psychiatric Association, 2013). La prevalenza di questa condizione è estremamente variabile (dall’1% al 34%), rilettendo i differenti criteri diagnostici utilizzati, le metodiche di misura e la dimensione delle popolazioni studiate. I soggetti con MCI hanno un rischio più elevato di sviluppare demenza (3-4 volte superiore) ed hanno anche un aumentato rischio di mortalità; pur tuttavia in alcuni casi questa condizione può rimanere stabile per molti anni o addirittura ritornare ad uno stato di normalità (Vos et al., 2015; Albert et al., 2011). L’utilizzo, accanto ai dati clinici, di biomarcatori biologici o di neuroimaging aumenta la possibilità di riconoscere quelle forme di MCI destinate a progredire verso la ma- 2. Le MANIFeSTAzIoNI INIzIALI DeLLe DeMeNze lattia di Alzheimer e riconoscere quindi le forme precliniche di malattia (Albert et al., 2011; Jang et al., 2016). Accanto all’MCI di tipo amnestico sono state descritte anche altre condizioni di deterioramento cognitivo lieve che possono manifestarsi con coinvolgimento di altre aree cognitive (anche più di una), oppure altre forme quali il deterioramento cognitivo lieve di tipo vascolare e il deterioramento che coinvolge primariamente funzioni motorie (Verghese et al., 2013). Anche in questo caso si tratta di condizioni cliniche che hanno un elevato tasso di conversione in demenza e richiedono una attenta osservazione del paziente. 4. I primi segni: i deficit cognitivi e le modificazioni del comportamento Nella maggior parte dei casi sono i familiari che si accorgono della presenza di disturbi mnesici o comportamentali e portano il paziente al medico, meno frequentemente è il paziente stesso che avverte la presenza di problemi di memoria. Il sospetto di una demenza può emergere durante il colloquio clinico avviato per altri motivi, senza che siano stati riferiti sintomi cognitivi. Il problema di una valutazione della presenza o meno di una demenza si pone anche nel caso della deinizione del livello di competenza di una persona anziana per motivi medico-legali. L’approccio clinico al paziente con decadimento cognitivo è basato su una valutazione a più stadi. Il primo obiettivo è determinare se esiste un deterioramento cognitivo e se questo rispetta i criteri per la demenza. Se è identiicata una sindrome dementigena, il secondo passo consiste nella valutazione necessaria a determinare l’eziologia della demenza (igura 2.1) (Bianchetti e Trabucchi, 2005). 33 34 ANGeLo bIANCheTTI, oVIDIo bRIGNoLI Figura 2.1 - Algoritmo per la valutazione della demenza Sintomi indicativi di una possibile demenza Condurre una valutazione clinica iniziale:  anamnesi mirata  esame fisico e neurologico  valutazione dello stato funzionale  valutazione dello stato mentale  valutazione delle patologie e dei farmaci Sono presenti depressione o delirium? sì sì 4rattamento e rivalutazione nel tempo Sono ancora presenti sintomi di possibile demenza? no Interpretare i risultati dei test di valutazione dello stato mentale e funzionale no 2assicurare 1. risultati normali:  non deficit cognitivi,  non perdita funzionale Rassicurare (suggerire un followup a 6-12 mesi) 2. risultati patologici:  deficit cognitivi,  perdita funzionale 3. risultati misti: no Resta il sospetto? sì Valutazione di secondo livello (clinica e strumentale):  test neruopsicologici  esami di laboratorio  neuroimaging e biomarcatori no sì Evidenza di demenza?  Valutare e trattare i sintomi non cognitivi  Considerare la possibilità di interventi riabilitativi  Prescrivere farmaci specifici  Pianificare gli interventi sociali e di supporto ai caregiver Definire l'etiologia Follow-up ogni 3-6 mesi La diagnosi di demenza si basa su criteri standardizzati, che prevedono, come già sottolineato, la presenza di deicit cognitivi o alterazioni comportamentali che impattano sullo stato funzionale. La dimostrazione della presenza di un 2. Le MANIFeSTAzIoNI INIzIALI DeLLe DeMeNze declino delle funzioni cognitive rispetto ad un precedente livello raggiunto dal soggetto si basa sulla raccolta della storia clinica e sulla valutazione dello stato mentale. La diagnosi di demenza non richiede, di per sé, che i soggetti abbiano raggiunto un normale livello di sviluppo intellettivo; un declino rispetto ad un precedente livello, infatti, può complicare anche un quadro di ritardo mentale (nel caso della sindrome di Down, ad esempio, la comparsa di un quadro di demenza tipo Alzheimer è una evenienza frequente). Nelle fasi iniziali è più frequente la compromissione delle funzioni cognitive (soprattutto nella malattia di Alzheimer), anche se vi possono essere demenze ad esordio focale (quali l’afasia e l’aprassia lentamente progressiva, l’atroia corticale posteriore) o con prevalenti disturbi comportamentali (come nelle demenze frontotemporali) (Bang et al., 2015). Nella quasi generalità dei casi si assiste, con l’evoluzione del quadro clinico, ad un progressivo coinvolgimento di altre aree cognitive ed alla comparsa, quindi, di un quadro di demenza conclamata. I criteri clinici di demenza prevedono che il deicit cognitivo sia di entità tale da interferire con le abituali attività lavorative o sociali del paziente; l’applicazione di questo criterio può essere complesso soprattutto nel soggetto molto anziano dove è dificile deinire un livello “normale” di attività del paziente, o l’interferenza di malattie croniche di natura somatica o disturbi sensoriali che determinano disabilità isiche. Le conseguenze funzionali della demenza tendono a manifestarsi precocemente se un soggetto mantiene responsabilità lavorative o sociali; nel caso di una persona anziana senza impegni sociali, con relazioni spesso limitate ai familiari più stretti, con mansioni ridotte anche nelle attività strumentali più semplici (spesso sostituita dai parenti per atteggiamento protettivo o per la presenza di malattie somatiche o deicit sensoriali disabilitanti), la valutazione dell’impatto funzionale di eventuali lievi deicit cognitivi è ardua e richiede una anamnesi attenta e mirata (Bianchetti e Ranieri, 2014). Per porre correttamente la diagnosi di demenza è necessario che i deicit cognitivi non siano presenti esclusivamente durante un episodio di delirium, anche se deve essere ricordato come la demenza costituisce il principale fattore di rischio per lo sviluppo di delirium (un terzo circa dei pazienti che presentano delirium sono dementi e circa la metà dei dementi ospedalizzati sviluppa un delirium) (Margiotta et al., 2006). La diagnosi di delirium può presentare dificoltà in soggetti con un iniziale deterioramento cognitivo; talvolta lo stato confusionale costituisce l’esordio della demenza o rappresenta l’episodio al quale i familiari fanno risalire l’inizio della malattia. In un paziente nel quale esordisce un delirium, la diagnosi di demenza non può essere comunque posta inché lo stato confusionale non si risolve o non è possibile ottenere una chiara anamnesi caratteristica per demenza; per la differenziazione fra queste due condizioni esistono strumenti standardizzati (Morandi et al., 2012). 35 36 ANGeLo bIANCheTTI, oVIDIo bRIGNoLI La diagnosi di demenza resta tuttora essenzialmente clinica e grande importanza assumono una attenta raccolta della storia, un corretto colloquio e l’esame obiettivo; solo pochi esami strumentali sono considerati indispensabili (Bianchetti et al., 2011). La demenza si presenta con un’ampia variabilità di quadri clinici; anche all’interno della stessa condizione eziologica (ad esempio la malattia di Alzheimer) può esservi una certa eterogeneità. Pertanto la descrizione di un quadro clinico prototipale, sebbene utile da un punto di vista didattico, in realtà non rappresenta un buon modello di ciò che si riscontra nella pratica. Indipendentemente dall’eziologia, in tutti i pazienti sono presenti sintomi cognitivi e sintomi non cognitivi, la cui frequenza dipende dallo stadio della malattia e dalla causa. Gli aspetti neurobiologici e neuroanatomici (tipo di danno, sede e estensione delle aree coinvolte) non sono da soli in grado di spiegare la variabilità delle manifestazioni cliniche osservabili nei pazienti. Occorre rilevare che la persona colpita da demenza mantiene il carattere di essere storico e relazionale e pertanto le manifestazioni cliniche dipendono dall’interazione fra il danno neurobiologico e numerose variabili, quali la personalità dell’individuo, la sua storia (ad esempio il livello educativo), la salute isica, il network familiare e sociale (Bianchetti e Trabucchi, 2004). La raccolta dei dati anamnestici rappresenta il momento fondamentale per una corretta valutazione del paziente demente; afinché la storia risulti plausibile è molto spesso necessario interrogare i familiari. Una anamnesi attenta può rivelare deicit in molteplici aree cognitive, come la memoria, il linguaggio, la prassia, le capacità visuo-spaziali e la critica. Nel raccogliere la storia, è necessario indagare eventuali dificoltà nel ricordare eventi recenti, nello svolgere attività o procedure usuali (es. preparare il cibo, guidare l’automobile, utilizzare gli elettrodomestici, curare il giardino, giocare a carte), nel gestire le inanze e gli affari. La presenza di episodi di disorientamento topograico sono di particolare rilievo, così come episodi di delirium (anche brevi). È utile indagare il comportamento del paziente in occasioni particolari, quali una vacanza od un ricovero ospedaliero; la comparsa di disorientamento topograico, di agitazione o di un franco quadro di delirium sono suggestivi di una demenza sottostante. La presenza dei sintomi non cognitivi va valutata con particolare attenzione, sia per la loro rilevanza dal punto di vista diagnostico, che per l’impatto sulla qualità di vita del paziente e della famiglia, ed anche perché costituiscono uno degli outcome primari dell’intervento terapeutico (farmacologico e non) della demenza. Attualmente questi sintomi vengono deiniti come sintomi comportamentali e psicologici della demenza (BPSD, dal termine Behavioural and Psychological Symptoms of Dementia, proposto dall’International Psychogeriatric Asso- 2. Le MANIFeSTAzIoNI INIzIALI DeLLe DeMeNze ciation) (Amano et al., 2009). Questo termine descrive un eterogeneo gruppo di sintomi psichiatrici, reazioni psicologiche e comportamenti che si presentano nei soggetti affetti da demenza di qualsiasi eziologia. Tali disturbi, che possono essere presenti già nelle prime fasi della malattia, sono eterogenei, luttuanti e inluenzabili da variabili somatiche ed ambientali; rappresentano inoltre una delle maggiori cause di istituzionalizzazione per lo stress ed il carico assistenziale dei caregiver. I sintomi non cognitivi rappresentano una manifestazione primaria delle anormalità neuropatologiche e neurobiologiche della demenza, sebbene siano fortemente inluenzati dall’ambiente e siano legati alla personalità premorbosa dell’individuo (Masters et al., 2015). Il 90% dei pazienti affetti da demenza presenta sintomi non cognitivi, sebbene la frequenza e la gravità delle singole manifestazioni sia variabile in relazione alla gravità della demenza ed alla eziologia. Le alterazioni della personalità sono il sintomo non cognitivo più frequente: il 70% circa dei pazienti manifesta apatia, il 40% irritabilità, il 30% circa disinibizione; l’agitazione, che è un disturbo molto composito, che va dalla vocalizzazione persistente all’aggressività, è presente in circa il 60% dei casi; l’ansia è osservata nel 50% dei dementi; le modiicazioni del tono dell’umore sono frequenti: nel 30-50% dei pazienti vengono riscontrati sintomi depressivi, nel 5-8% euforia e nel 40% labilità emotiva; il comportamento motorio aberrante è descritto nel 40% dei dementi; sintomi psicotici sono riportati nel 30-60% dei pazienti (Geda et al., 2013). I sintomi non cognitivi tendono a presentarsi in modo non completamente casuale nel singolo paziente ma, nel 6080% dei casi, a raggrupparsi in “cluster” omogenei (Frisoni et al., 1999). I cluster sintomatologici più frequenti sono quelli dei disturbi dell’umore e dell’apatia, dei sintomi psicotici e dei sintomi iperattivi e frontali. L’osservazione di un cluster speciico di sintomi non cognitivi in un paziente demente ha importanti ricadute dal punto di vista terapeutico. Grande importanza nella deinizione etiologica della demenza rivestono le modalità di esordio e di progressione dei sintomi cognitivi, non cognitivi e del declino funzionale, anche se esiste una certa variabilità. Deve essere stabilito se l’esordio è stato improvviso oppure lento ed insidioso e quali siano stati i sintomi precoci. È particolarmente importante, inoltre, determinare l’ordine temporale in cui si sono succeduti i sintomi, se il deterioramento è stato rapido, con improvvisi peggioramenti, oppure lento e graduale. Nella malattia di Alzheimer (AD) l’esordio è tipicamente insidioso e la progressione graduale; in casi più rari il paziente si presenta dal medico per un improvviso peggioramento delle funzioni cognitive. I sintomi iniziali nell’AD sono generalmente caratterizzati dai disturbi della memoria, anche se talvolta possono essere rivelatori della malattia i disturbi del linguaggio o delle capacità visuospaziali. 37 38 ANGeLo bIANCheTTI, oVIDIo bRIGNoLI La presenza di sintomi depressivi nelle fasi iniziali della malattia deve far porre l’attenzione sulla possibilità che le alterazioni delle funzioni cognitive siano secondarie ad una depressione, una condizione clinica in passato deinita “pseudodemenza depressiva”. In questo caso il deicit cognitivo fa seguito ad uno stato depressivo e, generalmente, esiste un’anamnesi remota personale positiva per disturbi depressivi. La diagnosi differenziale fra demenza e pseudodemenza depressiva rimane comunque complessa, anche se il reale signiicato di questa condizione clinica è messa in dubbio dall’osservazione che una proporzione variabile dal 50% all’80% di questi pazienti sviluppa una demenza irreversibile nell’arco di 5 anni (Kobayashi e Kato, 2011). Sintomi depressivi sono presenti in un numero signiicativo di soggetti dementi (dal 10 al 60% secondo la metodologia di rilevazione utilizzata ed il campione di studio); non è raro che facciano seguito ad una iniziale perdita della memoria. L’ampia sovrapposizione fra queste due condizioni pone frequenti problemi di diagnosi differenziale e di gestione clinica. L’eziologia della depressione che compare nella demenza è tuttora incerta; variabili biologiche sono certamente coinvolte, anche se aspetti di personalità, insight di malattia, livello funzionale, variabili sociali ed ambientali sono associate variamente alla comparsa di sintomi depressivi. 5. La medicina di famiglia: quale ruolo nella tempestiva diagnosi delle demenze La valutazione dei sintomi iniziali di un processo di decadimento cognitivo è frequentemente un compito del medico di Medicina generale che si trova in un punto di osservazione privilegiato che può favorire il riconoscimento precoce dei disturbi cognitivi. Un gruppo di medici di Medicina generale appartenenti alla SIMG (Società italiana di Medicina generale e delle cure primarie) ha prodotto una proposta operativa per i medici di famiglia che fornisce una risposta alla seguenti domande: • Come identiicare i primi segni di demenza nella vita quotidiana? • Quali sono le funzioni e i compiti del medico di famiglia nella diagnosi tempestiva delle demenze? • Perché fare la diagnosi e come comunicare? L’incremento di prevalenza delle demenze ha aumentato la sensibilità della popolazione verso queste patologie e la necessità di una diagnosi tempestiva (Alzheimer’s Disease International, 2011; Morley et al., 2015). L’evoluzione delle conoscenza in merito alla storia naturale del processo dementigeno e della sua evoluzione graduale da una condizione di normalità ad una fase preclinica ed inine alla fase conclamata, ha comportato la necessità di confrontarsi anche nell’ambito della medicina di famiglia con le fasi iniziali (come già detto prima, variamente deinite come “Mild Cognitive Impairment” (MCI) o, secondo il DSM 2. Le MANIFeSTAzIoNI INIzIALI DeLLe DeMeNze V, di “disturbo neuro cognitivo minore”) (Petersen et al., 1999; Petersen, 2011; American Psychiatric Association, 2013). Il riscontro crescente nell’attività ambulatoriale di pazienti o familiari che lamentano disturbi mnesici o sono affetti da demenza già conclamata, pone la Medicina generale nella necessità di fornire ai medici di Medicina generale (MMG) un approccio globale ed articolato che parte dalla prevenzione, passa per l’intercettazione − prima diagnosi di deterioramento cognitivo e inisce anni dopo con la gestione della fase grave terminale al domicilio o in residenza. Il MMG è quindi spesso la prima igura professionale a essere coinvolta nel riconoscimento e nella valutazione di disturbi mnesici e/o comportamenti anomali che possono essere correlati a deterioramento cognitivo essendo in contatto diretto con pazienti e familiari e rappresenta il punto di riferimento sul territorio nella gestione delle varie fasi della demenza. Ne consegue che i compiti complessivi del MMG nella gestione dei pazienti da affetti da demenza (sospetta e/o diagnosticata) devono prevedere una serie di interventi appropriati e basati sulle evidenze che siano condivisi dalle varie igure professionali coinvolte, con percorsi concordati, omogenei e modulati sulle singole situazioni dei pazienti, in un’ottica di operatività sinergica inalizzata al maggiore benessere possibile dei pazienti e dei loro familiari, entrambi in condizione di estrema fragilità, nel contesto di un’assistenza sanitaria che voglia deinirsi moderna e realmente multidisciplinare. La SIMG, Società italiana di Medicina generale e delle cure primarie, propone un percorso gestionale speciico, basato su un modello operativo/formativo inalizzato a facilitare e stimolare l’attività del MMG nella gestione di pazienti con deicit cognitivo, che di seguito viene riassunto. Il modello operativo si articola in tre punti senza soluzione di continuità: 1) La prevenzione primaria e secondaria 2) La fase pre-clinica: il riconoscimento e la diagnosi tempestiva 3) La gestione della fase clinica. 5.1. La prevenzione primaria e secondaria Circa un terzo dei casi di demenza può essere attribuibile a fattori di rischio potenzialmente modiicabili (Baumgart et al., 2015; Prince et al., 2014; Prince et al., 2015; Norton et al., 2014) e l’incidenza della patologia può essere ridotta tramite: • la riduzione della prevalenza dei fattori di rischio vascolari quali l’ipertensione, il diabete, l’obesità, specie nell’età adulta e anche in età avanzata l’inattività isica e il fumo; • la cura della depressione: è importante che il MMG presti attenzione al fatto che un numero elevato di pazienti manifesta sintomi depressivi (Chen et al., 2008; Panza et al., 2010), ma anche che, soprattutto nel paziente anziano, la depressione può precedere il deicit cognitivo (Zahodne et al., 2014), con sintomi 39 40 ANGeLo bIANCheTTI, oVIDIo bRIGNoLI che possono regredire o migliorare con il trattamento con farmaci antidepressivi (Neviani et al., 2013). Si tratta di elementi spesso confondenti se non interpretati e monitorati in modo appropriato (Steffens et al., 2009); • adeguati stili di vita: alimentazione corretta, attività isica e intellettuale regolari. Il Mild Cognitive Impairment (fase pre-clinica) e la demenza lieve sono condizioni passibili di interventi di prevenzione secondaria atti a interromperne o rallentarne il decorso verso la demenza moderata-grave. Ci sono evidenze che indicano come una combinazione di interventi sia di tipo medico sia sullo stile di vita può ritardare o ridurre l’evoluzione della demenza (Morley et al., 2015). In particolare, i pazienti con danno ischemico della sostanza bianca possono avere patologie, quali ipertensione arteriosa, diabete, iperlipidemia, ibrillazione atriale che, se ben stabilizzate, possono rallentare la progressione del danno ischemico. Inoltre, scompenso cardiaco, broncopneumopatia cronica ostruttiva (BPCO), tabagismo sono associati ad un aumentato rischio di deterioramento cognitivo, per cui un trattamento tempestivo che migliori l’ossigenazione può rallentare lo sviluppo di deterioramento cognitivo. I pazienti con diabete mellito hanno una comparsa precoce di deterioramento cognitivo e una più alta probabilità che si trasformi in demenza conclamata. Anche la sola iperglicemia è stata associata con danno cognitivo reversibile. Per quanto riguarda gli stili di vita, è compito dei medici diffondere la cultura delle buone pratiche con eficacia documentata e monitorarne la costante applicazione, assieme a terapie di stimolazione cognitiva per persone con deterioramento cognitivo lieve o moderato. 5.2. La fase pre-clinica: il riconoscimento e la diagnosi tempestiva Primo compito del MMG è il riconoscimento tempestivo di segni e sintomi che consentano di rilevare deicit cognitivi anche moderati (MCI) e arrivare a formulare il sospetto diagnostico di sindrome dementigena. Elementi facilitanti sono la conoscenza delle patologie, degli stili di vita e delle dinamiche familiari dei pazienti. La diagnosi tempestiva consente di mettere in atto una serie di interventi, farmacologici e non farmacologici prima che il danno neuronale si strutturi e diventi avanzato (Alzheimer’s Disease International, 2011; Dubois et al., 2007). Un punto rilevante è quello delle demenze trattabili, alcune delle quali reversibili se identiicate e trattate il prima possibile (Kabasakalian e Finney, 2009). La diagnosi tempestiva di demenza permette inoltre una migliore gestione di alcuni aspetti del problema quali l’equilibrio del contesto familiare e sociale del paziente (Pirani et al., 2014). Il numero sempre maggiore di pazienti (o familiari) che lamentano disturbi mnesici, pone il MMG nella necessità di indagare lo “stato mentale” mediante un percorso su tre tappe successive: 1a – l’accurato riscontro dei sintomi amnesici (presentazione − “case inding”); 2a – la prima valutazione-inquadramento con strumenti psicometrici speciici, sensibili e rapidi; a 3 – l’approfondimento diagnostico. 2. Le MANIFeSTAzIoNI INIzIALI DeLLe DeMeNze 1a tappa. Presentazione − “case inding” del paziente con disturbo mnesico L’approccio al paziente con amnesie segue il modello del “case inding” in quanto lo “screening” non ha dimostrato un rapporto costo/eficacia adeguato e sostenibile (Ashford et al., 2007; Brayne et al., 2007). Nei pazienti >50 anni il MMG dovrà valutare accuratamente come possibili segni di deterioramento cognitivo la presenza di deicit mnesici o cognitivi, di disturbi del comportamento e alterazioni funzionali (Wilson et al., 2010). Quando è il familiare che per primo riferisce di avere riscontrato un cambiamento nel paziente, può essere utile il ricorso al questionario Symptoms of Dementia Screener (SDS) (Mundt et al., 2000) (1). Importante è la valutazione del comportamento del paziente durante la visita medica alla ricerca di alterazioni funzionali (ad es.: veriicare la corretta assunzione della terapia farmacologica, sospettare dificoltà di gestione della terapia farmacologica in seguito a instabilità clinica di pressione arteriosa, diabete, INR, ecc.) e/o comportamentali (depressione); eventuali riscontri da parte del medico andranno veriicati con un familiare-conoscente per conferma o meno della sintomatologia. La sintomatologia sopraindicata può essere riferita (o confermata) da familiari e conoscenti nel caso frequente di assenza di consapevolezza della sintomatologia da parte del paziente. Dopo la fase anamnestica e di osservazione è necessario l’uso di strumenti psicometrici di valutazione delle funzioni cognitive. Attualmente lo strumento più diffuso per la valutazione dello stato cognitivo è il MMSE, impiegato sia per la diagnosi in fase preclinica o conclamata sia per il monitoraggio. Tuttavia il MMSE presenta alcuni problemi che ne limitano un uso diffuso in MG, in particolare per una prima valutazione diagnostica: a) tempi di somministrazione medio-lunghi (circa 10-15 minuti); b) dificoltà di interpretazione e di attribuzione del punteggio; c) limitata sensibilità diagnostica nella fase preclinica con un elevato tasso di falsi negativi, soprattutto in soggetti con elevato quoziente intellettivo e alta scolarità scolarità (Strauss et al., 2006). Per queste ragioni sono stati introdotti strumenti psicometrici più semplici e speciici per la prima diagnosi tempestiva del disturbo neurocognitivo in MG (Milne et al., 2008). Tra questi, il General Practitioner Assessment of Cognition (GPCog) (Brodaty et al., 2002; Pirani et al., 2010) risulta il più completo in quanto è l’unico che, in 4-6 minuti, integra una sezione di valutazione cognitiva del paziente con una sezione di valutazione funzionale tramite un familiare, compilabile anche in (1) Per la versione italiana si veda Pirani et al., 2015. 41 42 ANGeLo bIANCheTTI, oVIDIo bRIGNoLI un secondo tempo e telefonicamente. Tra le caratteristiche che fanno preferire il GPCog al MMSE, oltre alla rapidità e completezza, vanno sottolineate l’elevata sensibilità, la facilità di somministrazione e di punteggio, la semplicità d’uso: facile da memorizzare può essere applicato ovunque con una penna e un foglio di carta. Il GPCog è stato inserito in tutte le più recenti linee guida o di indirizzo per la diagnosi di deterioramento cognitivo in MG disponibili in letteratura (Morley et al., 2015; Foley e Swanwick, 2014; Brodaty et al., 2013; Alzheimer’s Association, 2013; Stephan e Brayne, 2014) di cui un esempio è riportato in tabella 2.1. Il GPCog è stato validato in italiano mantenendo le stesse caratteristiche psicometriche di quello originale in lingua inglese (Pirani et al., 2010). Tabella 2.1 - Recenti linee guida o di indirizzo in medicina generale, che hanno inserito il GPCog per la diagnosi di deterioramento cognitivo 2. Le MANIFeSTAzIoNI INIzIALI DeLLe DeMeNze 2a tappa. La prima valutazione-inquadramento del paziente con disturbo mnesico In base al punteggio riportato al GPCog, il paziente potrà essere classiicato nelle tre seguenti possibilità: a) punteggio 9/9 (8/9 tollerato se test dell’orologio corretto e intervista al familiare = 6/6): “disturbo mnesico soggettivo” (Reisberg e Gauthier, 2008; Kryscio et al., 2014), non rilevante rispetto alla normale conduzione della vita del paziente per le AADL e IADL e quindi deinito “benigno”. Interessa ino ad oltre il 50% dei pazienti, il 7% dei quali può evolvere verso una demenza preclinica (MCI) e quindi è consigliabile ripetere il test una volta all’anno. Anche in questi pazienti il MMG deve riservare particolare attenzione all’insorgenza di “depressione” come segnale di viraggio verso una forma preclinica di deterioramento cognitivo. Con questi punteggi non è necessario somministrare la seconda parte del GPCog cioè il questionario al familiare. b) punteggio 5-8/9: “deterioramento cognitivo lieve”. Quando il paziente rientra in questo range di punteggio, è necessaria la somministrazione della scala B) del GPCog, cioè il questionario “Intervista al familiare/conoscente” che guiderà l’MMG nel dirimere la condizione clinica del paziente: • punteggio 4-6: probabile deterioramento cognitivo preclinico (MCI) per cui si consiglia monitoraggio semestrale mediante ripetizione del GPCog; • punteggio 3-0: probabile deterioramento cognitivo lieve per cui si consiglia approfondimento diagnostico; c) punteggio < 5/9 : “deterioramento cognitivo moderato – grave”. Non è necessario somministrare il questionario al familiare e si procede con l’approfondimento diagnostico. 3a tappa. L’approfondimento diagnostico Nell’ambito delle attività del MMG è buona pratica valutare con attenzione il rapporto tra situazione cognitivo-comportamentale e coesistenza di altre patologie (comorbilità). Le situazioni di comorbilità rappresentano infatti un fattore di rapido peggioramento dello stato cognitivo e funzionale del paziente che contribuisce in modo determinante alla progressiva disabilità. In questo ambito, il frequente danno multiorgano e il ricorso a politerapie rappresentano un fattore di aumento del rischio di eventi avversi dei singoli farmaci, di interazioni farmacologiche e di concorrenza terapeutica (il trattamento di una condizione può inluire negativamente su un’altra condizione coesistente). Il database di Health Search (HS), Istituto di ricerca della Simg, consente di evidenziare e quantiicare le comorbidità nei pazienti affetti da qualsiasi forma di demenza. Secondo i dati di HS-2014 (Cricelli et al., 2014) la prevalenza del- 43 44 ANGeLo bIANCheTTI, oVIDIo bRIGNoLI le patologie di maggiore impatto socio-sanitario è maggiore nei pazienti affetti da demenza rispetto alla prevalenza nella popolazione generale del database (IPA: 61,6% vs 28,3%; Depressione: 34,5% vs 12,8%; DM2: 20,7% vs 8,3%; Disturbi d’ansia: 17,6% vs 10,5%; Ictus/TIA: 17,8% vs 4,2%; Insonnia: 17,2% vs 6,7%; CHD: 14,1% vs 4,4%; IRC: 12,3% vs 8%; FA: 12% vs 3%; BPCO: 10,7% vs 3,3%; Ipotiroidismo: 8% vs 4,5%; SC: 7,1% vs 1,4%). I dati di HS confermano l’importanza delle comorbilità nei pazienti affetti da demenza e la necessità di interventi multidisciplinari. Tra gli obiettivi prioritari di progetti di gestione integrata occorre considerare la valutazione dell’appropriatezza degli interventi delle varie igure professionali coinvolte facendo ricorso a strumenti adeguati. Indicatori di qualità e software gestionali rappresentano gli strumenti della Medicina generale che consentono di intraprendere azioni mirate di governance sulle criticità che emergono dall’analisi dei dati e rappresentano un potenziale contributo all’orientamento organizzativo generale. L’alta prevalenza di comorbilità nei pazienti con demenza conferma la necessità di deinire al meglio le strategie di gestione in un’ottica di reale multidisciplinarietà che metta i pazienti al centro dei processi di cura e per perseguire questo obiettivo è necessario procedere con interventi di formazione mirati e rivolti a tutti gli operatori. L’approfondimento diagnostico da parte del MMG prevede l’esecuzione di una serie di indagini, secondo quanto raccomandato dalle linee guida del Sistema nazionale linee guida (SNLG) (Istituto superiore di sanità, 2013): • Esami di laboratorio: emocromo (per escludere anemia), glicemia a digiuno (per escludere iperglicemia) elettroliti (per escludere iponatremia), calcio (per escludere ipercalcemia), TSH (per escludere ipotiroidismo), vitamina B12 (per escludere ipovitaminosi), folati (per escludere carenza). • Neuroimaging: TAC/RM encefalo senza mezzo di contrasto, per escludere tumori, ematomi subdurali e idrocefalo normoteso. La bassa frequenza di queste condizioni (inferiore al 5%) e l’elevata sensibilità delle tecniche strutturali consentono infatti alti valori predittivi negativi. Secondo il parere degli esperti le apparecchiature TC multistrato senza l’uso di MdC sono adeguate nella fase di screening per i criteri diagnostici di esclusione contenuti nelle LG. • In aggiunta, può essere utile la somministrazione della Geriatric Depression Scale (GDS) 5 Item quando presente depressione (diagnosi differenziale) (tabella 2.2), l’esecuzione di ECG per documentare eventuali turbe della con- 2. Le MANIFeSTAzIoNI INIzIALI DeLLe DeMeNze duzione o bradicardia che controindicano la somministrazione degli inibitori Ache. Tabella 2.2 - Geriatric Depression Scale 5 Item Geriatric Depression scale 5 items (GDS - 5 Item). Test di screening per depressione nell’anziano Rinaldi P., Mecocci P. et al. Validation of the Five-Item Geriatric Depression Scale in elderly subject in three different settings. JAGS 2003; 51:694-8. SÌ NO 1. È fondamentalmente soddisfatto della sua vita? 0 1 2. Si annoia spesso? 1 0 3. Si sente spesso abbandonato? 1 0 4. Preferisce stare a casa anziché uscire a fare cose nuove? 1 0 5. Si sente un po’ inutile così com’è oggi? 1 0 0-1 = Normale 2-5 = Depressione Punteggio totale ___________/5 Prima dell’invio del paziente per la consulenza specialistica, è importante stampare la cartella clinica in cui siano riportate tutte patologie, in particolare quelle psichiatriche, le malattie del SNC anche infantili, eventuali traumi cranici pregressi e lo schema della terapia farmacologica. Questo percorso è codiicato in uno speciico algoritmo mostrato in igura 2.2 (Pirani et al., 2015). 45 46 ANGeLo bIANCheTTI, oVIDIo bRIGNoLI Figura 2.2 - Algoritmo per la prima valutazione-inquadramento dello stato mentale nel paziente con disturbo mnesico Valutazione dello stato mentale in pazienti ambulatoriali ultra50enni in Medicina generale STATO MENTALE NORMALE Nessuna alterazione mnesica e/o psicologica e/o funzionale 1a Tappa riconoscimento Disturbi neurocognitivi minori o maggiori (DSM V) ‘‘Case Finding’’: Disturbo mnesico e/o psicoloGico e/o funzionale (check list: es. SDS) 9/9 (8/9 ammesso se ‘‘Orologio’’ corretto e ‘‘Intervista Famigliare’’ = 6/6) DisturBo mnesiCo soggettivo (25%-56% degli ultra65enni) Riferito dal soggetto osservato dal medico  GPCog  5-8/9  intervista al Famigliare  Riferito da Famigliare  SDS ≥1 < 5/9  4-6 0-3 Il soggetto continua ad ese  guire come suo solito AADL, Deterioramento IADL e bADL ricorrendo Deterioramento Deterioramento Cognitivo all’aiuto di piccole strategie Cognitivo Cognitivo Moderato-Grave compensatorie (agenda, lista Preclinico Lieve spesa, ecc. gli ‘‘occhiali’’  della memoria) ripetere test Attenzione: Approfondimento dopo 6 mesi - comparsa di depressione Diagnostico prolungata anche inizialTC Encef. senza mdc mente reattiva; - pazienti single e senza indagini laboratorio famigliari Consigliato monitoraggio annuale (7% soggetti/anno evolve in MCI) 2a Tappa Valutazione Inquadramento 3a Tappa Approfondimento Diagnostico CDCD 5.3. La gestione della fase clinica L’evoluzione clinica della demenza procede dallo stadio lieve a quello terminale secondo la scala Clinical Dementia Rating Scale (CDR) (tabella 2.3). In base a questa classiicazione la gestione della fase clinica è suddivisibile in due diverse fasi: 1) Fase ambulatoriale 2) Fase domiciliare o residenziale. 2. Le MANIFeSTAzIoNI INIzIALI DeLLe DeMeNze Tabella 2.3 - Clinical Dementia Rating Scale (CDR) CLINICAL DEMENTIA RATING SCALE (CDR) ESTESA (DA ORIGINALE) N.B.: assegnare punteggio solo se il deficit dipende da deterioramento cognitivo e non da altre cause DEMENZA: ASSENTE CDR 0 MOLTO LIEVE CDR 0.5 LIEVE CDR 1 MODERATA CDR 2 GRAVE CDR 3 Memoria Nessuna perdita di memoria o smemoratezza occasionale ed irrilevante Lieve smemoratezza permanete; parziale rievocazione di eventi Perdita memoria moderata e più rilevante per eventi recenti con interferenza nelle attività quotidiane Perdita memoria severa: materiale nuovo perso rapidamente Perdita memoria grave: rimangono alcuni frammenti Orientamento Perfettamente orientato ben orientato eccetto lieve difficoltà nell’orientamento temporale Moderato deficit nell’orientamento temporale; orientato nello spazio durante la visita ma altrove può essere disorientato Severo disorientamento temporale, spesso spaziale orientamento solo personale Giudizio e soluzione di problemi Risolve bene i problemi quotidiani e gestisce bene sia gli affari che le finanze; giudizio adeguato rispetto al passato Lieve compromissione nella soluzione di problemi, analogie e differenze (prove di ragionamento) Difficoltà moderata di gestione dei problemi, analogie e differenze; giudizio sociale di solito conservato Difficoltà severa di esecuzione di problemi, analogie e differenze; giudizio sociale compromesso Incapace di dare giudizi o di risolvere problemi Vita di comunità usuali livelli di autonomia funzionale nel lavoro, acquisti, attività di volontariato e relazioni sociali Lieve compromissione nel lavoro, acquisti, attività di volontariato e relazioni sociali Incapace di compiere indipendentemente queste attività anche se può ancora essere coinvolto in alcune; appare normale ad un esame casuale Nessuna pretesa di attività indipendente fuori casa In grado di essere portato fuori casa Non in grado di uscire fuori casa Segue 47 48 ANGeLo bIANCheTTI, oVIDIo bRIGNoLI DEMENZA: Casa e hobbies Cura personale ASSENTE CDR 0 LIEVE CDR 1 MODERATA CDR 2 Vita domestica, hobbies e interessi intellettuali lievemente compromessi Lieve ma sensibile compromissione della vita domestica; abbandono dei lavori domestici più difficili e degli hobbies più complicati Conservati solo semplici lavori domestici, interessi ridotti, non sostenuti Nessuna funzione domestica conservata Interamente capace di curarsi della propria persona Richiede sollecitazione per la normale cura personale Richiede assistenza per abbigliamento, igiene e cura personale Richiede molta asssistenza per cura personale; spesso incontinenza urinaria Vita domestica, hobbies e interessi intellettuali ben conservati MOLTO LIEVE CDR 0.5 GRAVE CDR 3 CDR 4: DEMENZA MOLTO GRAVE Il paziente presenta severo deficit del linguaggio o della comprensione, problemi nel riconoscere i familiari, incapacità a deambulare in modo autonomo, problemi ad alimentarsi da solo, nel controllare la funzione intestinale o vescicale. CDR 5: DEMENZA TERMINALE Il paziente richiede assistenza totale perché completamente incapace di comunicare, in stato vegetativo, allettato, incontinente somma totale Delle celle CDR TOTALE È necessario disporre di informazioni raccolte da un familiare o operatore che conosce il soggetto e di una valutazione delle funzioni cognitive del paziente. ogni aspetto va valutato in modo indipendete rispetto agli altri. La memoria è considerata categoria primaria; le altre sono secondarie. Se almeno tre categorie secondarie ottengono lo stesso punteggio della memoria, allora il CDR è uguale al punteggio ottenuto nella memoria. Se tre o più categorie secondarie ottengono un valore più alto o più basso della memoria, allora il punteggio della CDR corrisponde a quello ottenuto nella maggior parte delle categorie secondarie. Qualora due categorie ottengano un valore superiore e due un valore inferiore rispetto a quello ottenuto dalla memoria, il valore della CDR corrisponde a quello della memoria. La scala è stata successivamente estesa per classificare in modo più preciso gli stadi più avanzati della demenza (hayman et al., 1987). I pazienti possono essere perciò classificati in stadio 4 (demenza molto grave) e stadio 5 (demenza terminale) quando richiedono assistenza totale perché completamente incapaci di comunicare, in stato vegetativo, allettati, incontinenti. Fase ambulatoriale I CDCD prendono in carico e seguono pazienti dallo stadio di demenza lieve (stadio CDR) – moderato (CDR 2) ino allo stadio grave (CDR 3) inché il paziente è in grado di deambulare. Attualmente i CDCD oltre all’inquadramento diagnostico si occupano del trattamento farmacologico: 2. Le MANIFeSTAzIoNI INIzIALI DeLLe DeMeNze • del disturbo mnesico con inibitori reversibili dell’acetilcolinesterasi (AChE: donepezil, rivastigmina, galantamina) e/o Memantina erogati con Piano terapeutico (PT) secondo la nota 85 dell’AIFA; dopo la fase iniziale di titolazione, il PT deve essere rinnovato ogni 6 mesi previa rivalutazione clinica e psicometrica; • dei disturbi psichiatrici e del comportamento (BPSD) con farmaci antidepressivi, antipsicotici tipici ed atipici questi ultimi erogati con PT da rinnovare ogni due mesi previa rivalutazione clinica. Il progressivo peggioramento cognitivo segna il passaggio da CDR 2 a CDR 3 della demenza ed è contrassegnato anche dalla sospensione per ineficacia del trattamento farmacologico con inibitori AChE e memantina. Il passaggio da CDR 1 a CDR 3 ha una durata variabile da 2-3 anni nelle forme più aggressive a 8-10 anni nelle forme a più lenta evoluzione. Fase domiciliare o residenziale La perdita della capacità di deambulare tipica del CDR 3 segna l’impossibilità del paziente a raggiungere il CDCD e il passaggio alla gestione domiciliare o residenziale. L’evoluzione della demenza procede da “grave” (CDR 3) a “molto grave” (CDR 4 durata media 3-5 anni) e poi “terminale” (CDR 5 – di solito di breve durata ma ora prolungabile anche di parecchi mesi o anni con l’introduzione dell’alimentazione parenterale via PICC, PEG, CVC in caso di disfagia). In ambedue le fasi è indispensabile l’intervento sinergico di MMG e CDCD per realizzare una gestione integrata dei pazienti con demenza che sia in grado di prendere eficacemente in carico e assistere sia il paziente sia i familiari che l’accudiscono. Gli obiettivi prioritari della Medicina generale in queste due fasi sono: • la gestione della cronicità e delle comorbidità con l’allestimento di percorsi e strumenti per l’assistenza al paziente sulla base delle esigenze correlate ai vari stadi di malattia e per il sostegno ai familiari che costituiscono la prima linea dell’assistenza e l’unica barriera al trasferimento in residenza; • la gestione delle terapie (politerapie, interazioni farmacologiche, concorrenza terapeutica); • la gestione dei farmaci speciici (inibitori AChE e memantina) e/o sintomatici (antipsicotici tipici ed atipici). 5.3.1. Creazione di una rete di gestione integrata per le demenze Un’esperienza concreta da cui partire per creare una rete integrata MMGCDCD è quella dei MMG di Modena che hanno siglato da oltre 15 anni un accordo integrativo locale per l’assistenza al paziente demente (De Gesu et al., 2002). Ripreso su scala nazionale tale progetto può costituire la base per sviluppare sinergie con i CDCD sia nelle due fasi di gestione del paziente demente e dei suoi famigliari. 49 50 ANGeLo bIANCheTTI, oVIDIo bRIGNoLI Fase ambulatoriale: Dopo la diagnosi fatta dai CDCD, d’accordo con il CDCD il MMG esegue il monitoraggio semestrale dello stato cognitivo e funzionale mediante somministrazione di MMSE, ADL e IADL in pazienti anche con BPSD ma stabilizzati (tale prestazione richiede uno spazio di tempo dedicato di circa 15 minuti). Qualora il paziente abbia un PT per inibitori Ache e/o memantina. Il MMG invierà via e-mail al CDCD l’esito dei test e riceverà il rinnovo del PT per il paziente. Il monitoraggio presso il MMG consentirà: ai CDCD di accorciare i tempi di attesa sia per le prime visite che per i controlli; al paziente e famigliari di togliere il disagio ed i costi per recarsi presso l’ambulatorio del CDCD spesso collocati in grossi ospedali e distanti da casa. D’accordo con il CDCD, monitoraggio bimestrale dei disturbi psichiatrici e del comportamento in pazienti stabilizzati in PT per antipsicotici atipici mediante somministrazione del questionario Neuropsychiatic Inventory (NPI) che misura anche lo stress del caregiver (Cummings, 1997; Kaufer et al., 1998). Il MMG può inviare via e-mail al CDCD l’esito dei test e ricevere il rinnovo del PT per il paziente. Fase domiciliare o residenziale: Il MMG, dopo avere valutato i bisogni assistenziali e la necessità di interventi infermieristici, assistenziali e sociali, attiva l’ADI 2 o 3 sulla base dello stadio della malattia. Il raccordo con gli specialisti del CDCD rimane di fondamentale importanza per assistere il MMG nella gestione del paziente non deambulante soprattutto nelle complesse fasi avanzate complicate da disfagia, dolore, infezioni con frequenti ricoveri ospedalieri e necessità di cure palliative. La disponibilità delle moderne tecnologie informatiche consente lo sviluppo di semplici percorsi di telemedicina tra MMG-CDCD per ottimizzare le risposte assistenziali e sanitarie sia al domicilio sia in residenza favorendo la riduzione dei ricoveri ospedalieri. Questo progetto rappresenta un percorso di formazione e di aggiornamento, punti che sono gli obiettivi centrali della SIMG. Le sezioni di Ferrara e di Padova hanno avviato nel 2013 un progetto sperimentale di formazione e aggiornamento del MMG sulle demenze tramite il sito web www.demenzemedicinagenerale.net che contiene le indicazioni sui percorsi appropriati da seguire nella gestione dei pazienti con demenza e con una sezione dedicata a familiari e caregiver. 6. Perché fare la diagnosi e come comunicare Persistono ancora numerosi dubbi sull’utilità di una diagnosi formalizzata o tempestiva di demenza in quanto l’attuale eficacia dei presidi terapeutici è li- 2. Le MANIFeSTAzIoNI INIzIALI DeLLe DeMeNze mitata. In termini clinici le ricadute positive della diagnosi sono limitate ad alcune forme di demenze trattabili, ma anche in questo caso i risultati terapeutici non sono univocamente positivi. Una diagnosi formalizzata e tempestiva può però avere ricadute positive per il paziente e per la sua famiglia in termini di pianiicazione personale e familiare: per esempio può consentire di prevenire pericoli connessi alla guida, trasferire beni economici, garantire sicurezza agli ambienti domestici, interrompere o tutelare una attività lavorativa, avviare pratiche di invalidità o di interdizione, programmare cambiamenti abitativi. Il medico di famiglia ha spesso una elevata consapevolezza di questi rischi ben conoscendo l’ambiente in cui la persona con demenze vive e lavora. Già nel 1997 Mc Carten aveva formulato una tabella con i possibili rischi e le conseguenze di una mancata diagnosi di demenza che vengono di seguito elencati. Tabella 2.4 - Possibili rischi e le conseguenze di una mancata diagnosi di demenza Rischi Conseguenze errori terapeutici utilizzo di farmaci inappropriati (benzodiazepine, antiistaminici). Attiva gestione dei piani di cura esami e trattamenti inappropriati o non necessari. Mancata previsione dell’incapacità di attenersi alle raccomandazioni terapeutiche: appuntamenti saltati, cure frammentate, complicanze iatrogene. Mancato accesso ai servizi più idonei. Delirium (stato confusionale acuto) Aumentata suscettibilità agli effetti indesiderati di farmaci a malattie a stress ambientali. Cattiva gestione delle finanze personali Rischio di malversazioni e spoliazioni indebite. Inappropriata trasmissione ereditaria. Ritardo nella definizione legale dei procedimenti di interdizione e inabilitazione, nella norma di un amministratore di sostegno o di un tutore legale. Aumentata frequenza. Incidenti stradali, incidenti domeConseguenze su terzi. stici, errori, problemi o incidenti sul Stime legale della responsabilità diretta o indiretta. lavoro Danni economici e ritardato accesso ai benefici previdenziali. Conflitti interpersonali Distacco dai familiari. Sovraccarico di chi si occupa del malato. Isolamento sociale correlato con in disturbi del comportamento: irritabilità, paranoia, conflittualità, errori di interpretazione. Ridotta capacità di pianificazione Mancato riconoscimento delle difficoltà personali e dei famidel proprio futuro, ridotta qualità di liari. Intempestiva definizione di un appropriato piano di sostegno. vita Un problema ancora aperto risponde alla domanda chi e come deve comunicare al paziente la diagnosi di demenza. 51 52 ANGeLo bIANCheTTI, oVIDIo bRIGNoLI Il codice dentologico all’articolo 33 “Informazione e comunicazione con la persona assistita” afferma: “Il medico garantisce alla persona assistita o al suo rappresentante legale una informazione comprensibile ed esaustiva sulla prevenzione, sul percorso diagnostico, sulla diagnosi, sulla prognosi, sulla terapia e sulle eventuali alternative diagnostico terapeutiche, sui prevedibili rischi e complicanze, nonché sui comportamenti che il paziente dovrà osservare nel processo di cura. Il medico adegua la comunicazione alla capacità di comprensione della persona assistita o del suo rappresentante legale, corrispondendo a ogni richiesta di chiarimento, tenendo conto della sensibilità e della reattività emotiva dei medesimi, in particolare in caso di prognosi gravi od infauste, senza escludere ogni speranza. Il medico rispetta la necessaria riservatezza dell’informazione e la volontà della persona assistita di non essere informata o di delegare a un altro soggetto l’informazione, riportandola nella documentazione sanitaria...”. Il medico di Medicina generale deve quindi parlare con il paziente e non solo con i familiari, senza falsi pietismi con una onestà che solo la capacità di essere empatici può rendere sopportabile. In questi anni abbiamo imparato a comunicare con i pazienti affetti da malattie gravi ed inguaribili come i malati di cancro. È necessario che il medico impari a comunicare tenendo conto delle attese, delle paure e delle loro limitazioni in fase di comprensione ed espressione. Anzi occorre iniziare la relazione chiedendo loro di esprimere ansie, timori, dubbi sulla loro situazione e sulle prospettive future, rimanendo disponibili a rispondere, chiarire, incoraggiare e dare speranza sempre usando un linguaggio chiaro, comprensibile e prudente. Nei pazienti con demenza non ci si può accontentare di comunicare la presenza del decadimento cognitivo, del fatto che ha una malattia che ha provocato la perdita della memoria e delle altre capacità cognitive. Nello stesso tempo è necessario comunicare che questo non dipende solo dalla età e quindi che può essere curato, che la malattia può essere tenuta sotto controllo in tutte le sue fasi, utilizzando alcuni farmaci utili per curare i sintomi o almeno per modiicare il decorso della malattia, non escludendo che nuovi farmaci anche più eficaci possono trovarsi in futuro. Inine il medico deve garantire che si prenderà cura di lui, anche insieme ad altre persone, e lo sosterrà insieme ai suoi familiari per mantenergli una qualità di vita accettabile. Alzheimer Europe ha preso posizione sulla comunicazione della diagnosi, come tema complesso e controverso che coinvolge i malati, i loro familiari, i medici e gli operatori sanitari. Ritiene, infatti, che le persone colpite da demenza abbiano diritto ad essere informate sulla diagnosi e che i loro familiari siano coinvolti. Un documento elaborato dall’Associazione Alzheimer Europe formula questi 19 punti: 2. Le MANIFeSTAzIoNI INIzIALI DeLLe DeMeNze 1) Le persone affette da demenza hanno diritto ad essere informate sulla loro diagnosi. 2) L’informazione sulla diagnosi non deve essere riiutata solo in base al fatto che la persona non è in grado di capirla. 3) Le persone affette da demenza hanno diritto ad essere informate sul loro stato di salute generale, prognosi, terapie disponibili ed eventuali effetti collaterali, terapie non farmacologiche, servizi e provvidenze economiche a cui possono accedere ed a conoscere il nome del medico che li prenderà in carico. 4) Le persone affette da demenza hanno diritto a ricevere sempre una relazione scritta. 5) Le persone affette da demenza hanno diritto ad avere un eventuale secondo incontro con il medico per ricevere ulteriori informazioni o chiarimenti, se necessario. 6) Le persone affette da demenza devono essere indirizzate all’Associazione Alzheimer nazionale o locale e informate sui servizi offerti dall’associazione. 7) Si deve studiare un metodo per tenere aggiornati i medici sulle Associazioni Alzheimer, preferibilmente con la collaborazione di Istituzioni e Associazioni dei medici. 8) Si devono fornire le informazioni in modo che la persona affetta da demenza possa capire, facendo particolare attenzione alle sue dificoltà di comprensione e comunicazione, nonché al suo livello di istruzione, capacità di ragionamento e background culturale. 9) I medici devono esser aggiornati sulle nuove terapie e preparati a comunicare la diagnosi. 10) Il familiare della persona affetta da demenza deve essere informato, se lo richiede, purché il malato sia d’accordo e non abbia richiesto, in precedenza, di non comunicare ad altri la diagnosi. 11) Si deve rispettare il chiaro riiuto della persona affetta da demenza di non comunicare ad altri la diagnosi, indipendentemente da suo grado di incapacità, a meno che non sia chiaro che ciò non sarebbe nel suo interesse. 12) La comunicazione, nei due casi precedenti, deve essere fatta per permettere al familiare di prendersi cura del malato in maniera eficace. 13) Le persone venute a conoscenza della diagnosi di una terza persona a causa della loro attività (sia volontaria, sia pagata) devono trattare l’informazione con riservatezza. 14) I medici non devono comunicare la diagnosi a familiari o amici della persona affetta da demenza solo per non avere la responsabilità della comunicazione alla persona affetta da demenza. 15) I medici che non comunicano la diagnosi di demenza al paziente devono registrare questo fatto sulla cartella clinica insieme alla motivazione. 53 54 ANGeLo bIANCheTTI, oVIDIo bRIGNoLI 16) Le persone affette da demenza hanno diritto a richiedere di non essere informate sulla loro diagnosi. 17) Le persone affette da demenza hanno diritto a scegliere chi debba essere informato per loro conto. 18) Le persone affette da demenza hanno diritto a richiedere un secondo parere medico. 19) Tutti diritti elencati qui sopra dovrebbero essere riconosciuti da una legge nazionale. 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Qui la sintomatologia si fa più marcata: la compromissione del linguaggio, della memoria, delle capacità visuo-spaziali, prendono corpo mutamenti di personalità segnati da stati d’animo compulsivi, ansiosi, agitati che rendono dificili le azioni e le relazioni quotidiane diventano problematiche, anche i rapporti coi congiunti, impattando sulla qualità di vita di tutta le cerchie sociali circostanti. Ma è assai rilevante anche un altro aspetto del cosiddetto midstage: uno stadio che dura quanto il primo e l’ultimo messi insieme, tanto che di frequente (per esempio nella scala GDS) lo si scompone in due. Entro il midstage ha infatti luogo una radicale mutazione: da una vita ancora integrata nelle cerchie di relazioni sociali, a una vita di obbligato arretramento e isolamento, perché il corpo non risponde più alle regole elementari della quotidianità. Ciò comporta che delle demenze la società debba farsi carico in modi diversi, secondo le fasi della lunga parabola del midstage. Se al termine le DNP saranno pienamente dipendenti dalle pratiche sanitarie e assistenziali, nella fase ascendente della parabola i pazienti sono ancora al centro di una itta rete di ruoli da svolgere, funzioni da espletare, relazioni da coltivare. Ruoli, funzioni, relazioni (deboli come quelle lavorative o delle conoscenze occasionali, forti come quelle amicali o parentali) che il soggetto assolve inizialmente con forte empowerment sociale, smottando gradualmente nel tempo. (1) Queste pagine raccolgono spunti dei capitoli 1 e 2 di Micheli, 2016a. Le rilessioni non riportano qui le narrazioni di supporto, tratti dalle interviste in profondità presenti nel volume. (2) Midstage o Moderate Impairment nella scala CDR (Clinical Dementia Rating), in parte assimilabile al quinto e sesto stadio di declino cognitivo “moderatamente severo” nella scala GDS (Global Deterioration Scale) di Reisberg (1982). Giuseppe A. Micheli 3. Il caso dei “giovani anziani” con demenza 60 GIuSePPe A. MICheLI Conviene allora tenere ben distinti due segmenti problematici. Da un lato le DNP midstage avanzate si diffondono entro la nuova pletorica classe degli iper-anziani (over 80), meno appoggiati a una rete parentale. Dall’altra però cresce un segmento di DNP – lo chiameremo di early midstage – che si colloca, sì, in fasce di età contraddistinte da bassa incidenza della malattia, ma che coinvolge in valore assoluto un grande numero di anziani, dotati di lunga speranza di vita, e mette alla prova il funzionamento delle reti di supporto informali e di welfare. A ciò va aggiunto un fenomeno di più recente visibilità statistica: quello delle DNP a esordio precoce, prima dei sessanta anni, che quindi già in una fase di vita ricca di vincoli e legami entrano nella fase più avanzata e problematica del midstage. È antica la distinzione tra forme di demenza a esordio tardivo e precoce (Jones, 1999). Oggi ambedue le patologie, nelle loro manifestazioni midstage, stanno aumentando. Questo vale per gli Alzheimer ‘tardivi’, per la già vista espansione della popolazione in età avanzata; ma vale – in numerosità assoluta, anche per le demenze presenili (che qui deiniamo (3) Young Onset Midstage Dementia – YOM), dato che anch’esse tendono a entrare nel midstage dopo i 60 anni, età in cui la popolazione occidentale sempre più si addensa. Poco sappiamo ancora sulla dimensione di questo secondo tipo di demenze, e ancor meno sulle sue tendenze. La sua bassa frequenza nelle popolazioni le rende impercepibili dai consueti disegni campionari. L’Alzheimer’s Society di Oxford riferisce di alcune indagini basate non su campioni ma su popolazioni (a Londra, nel Cambridgeshire) che stimano la prevalenza di YOM intorno all’1-1,2 per mille per i maschi, allo 0,6-0,8 per mille tra le donne. E un recente contributo sulle DNP a insorgenza precoce in provincia di Brescia (Borroni, 2011) stima intorno allo 0,5 per mille la loro prevalenza. Ma è probabile che, a Brescia o nel Cambridgeshire, le diagnosi sottostimino il fenomeno. E anche se non ci sono segnali di crescita dell’incidenza di YOM nelle ultime coorti, Hebert (et al., 2010) sollecita un monitoraggio più incisivo sulle linee di tendenza di questa sottopopolazione, per una ragione di buon senso: anche una piccola variazione di coorte nel rischio iniziale, di essere affetti da Alzheimer early onset, può cambiare vistosamente le proiezioni in avanti, man mano che la coorte invecchia, con un impatto rilevante sui sistemi sanitari e di Welfare. Ancora la Alzheimer’s Society Britannica sottolinea come, se gli YOM fossero inclu- (3) Comunemente deinite Early Onset Alzheimer’s, al termine Early Onset si associa un nodo delicato, che ha lasciato tracce anche nella narrativa sul tema (Munro, 2003; Block, 2008): quello delle varianti cromosomiche deterministiche che vanno sotto il nome di “familial A’s Disease” (o “autosomal dominant”), la cui peculiarità è la “precoce insorgenza” della demenza (early onset dementias), e la possibilità di una trasmissibilità genetica ad alto rischio. 3. IL CASo DeI “GIoVANI ANzIANI” CoN DeMeNzA si nel calcolo dei tassi di prevalenza totale standardizzati (come quelli di tabella 3.1), la stima si alzerebbe del 6-9%. 2. Cercando una ‘grammatica della sostenibilità sociale’ Il punto che si vuole qui sottolineare è che per questa classe di demenze non solo manca un’assistenza clinica pertinente, ma a tutt’oggi manca anche una “grammatica della sostenibilità sociale”, nelle cerchie concentriche della famiglia, della rete amicale, di quella pubblica, senza la quale non c’è supporto assistenziale che tenga. In un recente contributo sulle conseguenze della presenza di un anziano Alzheimer sulla salute dei componenti della famiglia in Italia (Egidi et al., 2013) e sui costi di salute ed economici per i familiari coabitanti, non a caso la percezione di disagio dei familiari è signiicativamente più elevata nella fascia 45-64 anni, quando il marito o il padre aflitto da demenza ha probabilmente varcato i 60 ma non superato i 70-75 anni e vive la sua vita di relazione in un limbo tra auto-percezione di empowerment e collasso inesorabile della autonomia. Sulla problematicità speciica e aggiuntiva delle YOM c’è ancora limitata consapevolezza. Eppure non si tratta solo di una divaricazione nei modelli relazionali – e connesse strategie di cura – dei due percorsi, ma di una biforcazione più complessa negli stessi quadri diagnostici. L’età di insorgenza instrada irrimediabilmente verso problematiche non solo relazionali, ma anche cliniche distinte. Un indizio signiicativo emerge dalla frequenza così diversa dei diversi tipi di demenza, tra Alzheimer a insorgenza standard e Alzheimer a insorgenza precoce. Tabella 3.1 - Distribuzione % di frequenza di demenze per sottotipi in uK, per tutte le età (Stevens, 2002; Who, 2012) e per i casi di insorgenza precoce (YoM) Alzheimer Vascolare Parkinson Frontotemporale Corpi di Lewy Legata ad alcolismo Altre Tutte le età 41 32 3 3 8 – 13 Giovani anziani (yom) 33 20 – 12 10 10 15 Non che i dati in questione siano del tutto afidabili, si è già detto: troppo incerti sono la diagnosi, l’anno di insorgenza, la deinizione clinica delle diverse 61 62 GIuSePPe A. MICheLI forme di demenza (4). Ma mettendo a confronto stime (riferite entrambe alla Gran Bretagna) da un lato (WHO, 2012) relative alla distribuzione all age per sottotipi di demenze, dall’altro (Stevens, 2002) relative alle sole Young Onset Dementias proposte dall’Alzheimer’s Society di Oxford, troviamo (tabella 3.1) che usare i parametri globali per il sottogruppo dei giovani anziani fragili porterebbe a una vistosa sotto-stima delle demenze frontotemporali e di quelle legate ad alcolismo, e una sovra-stima degli Alzheimer in senso stretto e vascolari. L’attenzione di organismi internazionali e comunità scientiiche mediche è oggi tutto rivolta all’individuazione precoce della malattia; forse perché sul fronte della cura (farmacologica) si intravedono possibili spiragli ma solo per le persone in fase aurorale della malattia. La somministrazione di Anticorpi Monoclonali umani ricombinanti nella prima fase di sperimentazione non solo ha mostrato una riduzione delle placche rilevate in neuro-imaging, ma anche qualche miglioramento nelle capacità cognitive dei pazienti. A condizione però di avere a che fare con paziente early-stage. Una strada promettente, dunque, a condizione che la si possa coniugare a tecniche di diagnosi assai precoce. Per chi supera senza accorgersene le soglie che scale come GDS o CDR deiniscono di predemenza, non resta che aspettare avanzamenti della chimica farmacologica che riguardino anche questi stadi. In attesa, occorre lavorare sulle condizioni ambientali che leniscano il disagio del malato. Il problema Alzheimer non è solo quello dell’assistenza isica in fase terminale, ma anche quello del processo di infragilimento relazionale e identitario nel lungo periodo di midstage. E occorre riconoscere che c’è un vuoto nei repertori di consigli per le YOM. Una inestra esplicitamente dedicata agli younger people with dementia è aperta nel sito della Alzheimer Society britannica (http://www.alzheimers.org.uk/). Una inestra su e per un sottoinsieme di DNP stimato in 40mila persone nella sola Gran Bretagna (5) che tratta, oltre che della composizione per diagnosi anche dei loro bisogni (isicamente in buono stato, a casa loro, spesso ancora attivi al lavoro, loro e/o il partner, con igli ancora dipendenti o genitori anziani da assiste- (4) Il documento WHO del 2012 cita come “the most sophisticated analysis of dementia” il Dementia Report Britannico, che stima la proporzione dei diversi tipi di demenza usando il metodo Delphi di convergenza dei pareri di esperti britannici e altri titolari di esperienze europee. In realtà il Delphi è una tecnica usata per ottenere risposte a un problema (in questo caso la stima di una distribuzione di frequenza) da un panel di esperti indipendenti, interpellandoli per un certo numero di repliche, al termine di ciascuna comunicando ai partecipanti le medie aritmetiche delle valutazioni pervenute, contando su una graduale convergenza dei pareri in poche tornate. Tecnica di sicura utilità per business issues, dove una scelta, quale che sia, va presa in tempi rapidi, più fragile dove è in gioco la stima di quadri epidemiologici. (5) Negli USA la stima è di 200mila casi insorti tra quarta e quinta decade di vita. 3. IL CASo DeI “GIoVANI ANzIANI” CoN DeMeNzA re, spesso con consistenti impegni inanziari come un mutuo), delle dificoltà di diagnosi, e della mancanza di competenze mirate. L’attività specialistica diagnostica per gli younger people with dementia tende ad essere svolta da neurologi interessati alle problematiche cognitive (...). Dove non esistono specialisti di questo tipo, gli younger people with dementia si perdono in un labirinto di servizi, nessuno dei quali accetta di prenderli in carico. E anche quando sono presi in carico, non è detto che l’intervento sia appropriato. È un mondo a sé, l’universo delle Young onset midstage dementias, perché le relazioni familiari rischiano di delagrare in contemporanea con quelle extrafamiliari, moltiplicando costi economici, sociali ed esistenziali della malattia. Come ricorda l’Alzheimer’s Society, i giovani sessantenni già alle prese con le criticità del midstage spesso lavorano ancora al momento della diagnosi, hanno igli che dipendono da loro o genitori da accudire, sono isicamente attivi, hanno impegni inanziari onerosi e reti allargate di relazioni che iniziano a collassare. 3. In terra incognita In queste pagine accenneremo ad alcuni problemi dei ‘giovani anziani’ a insorgenza precoce, emersi da un piccolo gruppo pilota di interviste in profondità (6), risultato di un disegno di ricerca condiviso con i colleghi del Golgi di Abbiategrasso (7). Il numero di in depth interviews è limitato, circoscritto com’è a casi in cui la patologia insorge prima dei sessant’anni, ma può fornire spunti non scontati e non riducibili al classico tema degli squilibri di genere nei ruoli di cura. (6) Al momento sono venti interviste, di due ore circa l’una, tredici condotte nell’area del Golgi di Abbiategrasso (da cui sono tratte le rilessioni di queste pagine), altre sette a Como. (7) Il piano di ricerca su demenze a esordio precoce nasce entro la convenzione-quadro tra l’Azienda di servizi alla persona “Golgi Redaelli” – Istituto geriatrico “C. Golgi” (Silvia Vitali, Adriano Benzoni e Mauro Colombo) e l’Università degli studi Milano Bicocca-Dipartimento di Sociologia, con il coordinamento di Carla Facchini. Disegno di ricerca e ield, ancora in corso, sono a cura dall’autore di questo contributo. Il progetto mira a ricostruire le esigenze di supporto organizzativo, informativo, di counseling o di tregua, che le famiglie sentono senza poterle esprimere, e le strategie di fronteggiamento messe in atto da caregiver e famiglie per gestire i quadri di “wandering decisionale” di familiari relativamente giovani, ancora dotati di vitalità e forza contrattuale, in un mondo a loro sempre più estraneo. Il target della ricerca è stato issato in “familiari o caregiver di pazienti con diagnosi di DNP oggi di età 65-70 anni e già diagnosticabili in midstage, oppure oggi di età 70-75 ma già midstage 5 anni fa, e di cui si possa ritenere afidabile la ricostruzione delle problematiche passate”. 63 64 GIuSePPe A. MICheLI A – Segnali di latenza e il nodo della “inadeguatezza” C’è qualche contraddizione tra due dati che abbiamo citato. Da un lato i recenti avanzamenti farmacologici si dirigono verso principi attivi eficaci forse solo in fase aurorale della malattia. Dall’altro lato, lo State of the Nation report britannico del 2013 constata che in Gran Bretagna solo “meno di metà delle persone affette da demenza riceve una diagnosi adeguata”. Il che signiica che, nel buio che oggi avvolge la segnaletica della fase di latenza delle demenze, l’altra metà – prima o poi etichettata con diagnosi di patologia conclamata – rientra oggi nel numerus obscurus di chi sente, sì, “una gran confusione mentale” ma non si pone, o non vuole porsi, domande inquietanti. Figura 3.1 - Due ipotesi di sequenze causali tra prepensionamento e patologia hp. 1 Pensionamento precoce Disorentamento, stress Insorgenza patologia hp. 2 Patologia in stato latente Segni inadeguatezza in vita attiva Pensionamento precoce Partiamo allora da un dato, se non statisticamente signiicativo, quantomeno sorprendente. Ben undici delle prime tredici interviste narrano di un pensionamento precoce del familiare malato. Anche se spesso la data, dichiarata dal caregiver, di percezione dell’insorgenza della malattia è non di poco precedente. Molte di queste narrazioni si limitano a descrivere un’uscita precoce dalla vita attiva: per esempio la moglie di “Davide” [oggi 74 anni] colloca l’onset 5 anni fa, dopo il pensionamento. Poi però racconta che a 50 anni il coniuge voleva smettere di lavorare, ripetendo come un mantra “Sono stufo, stufo”: ritornello che ripete ancora. Compare, nel racconto della caregiver, una spiegazione ricorrente di folk psychology: l’idea del tracollo post-retirement che innesca la malattia. In realtà la caregiver cerca anche altri indizi del processo degenerativo precedenti alla ine del lavoro, frugando nel passato in un gioco che può andare all’ininito. Ma per molti altri caregiver l’ipotesi che il prepensionamento sia causa di uno scombussolamento psicologico a sua volta connesso alla successiva malattia (ipotesi 1 in igura 3.1) è la sola data quasi per scontata. Quanto dura, allora, quella che impropriamente chiameremmo “latenza” della malattia? E come distinguerla da una depressione per disengagement (chi 3. IL CASo DeI “GIoVANI ANzIANI” CoN DeMeNzA non vi è mai passato)? Ricorre una sequenza causale tutta da provare: l’ipotesi che sia il ritiro precoce dal lavoro a produrre disorientamento (8) e quindi malattia. Ma le voci ascoltate si conciliano anche con un’opposta narrazione: che l’anticipo del ritiro trovi le sue radici in un senso di ansia e inadeguatezza, e che questo sia predittore della futura insorgenza della malattia. In questo caso un anticipato pensionamento entrerebbe tra gli indizi precursori di early onset. Due sequenze causali distinte. Esplorare il nesso tra stati d’animo di crisi in vita attiva e insorgere conclamato di una patologia latente può servire, magari coinvolgendo con cautela la Medicina del lavoro. B – I tempi lunghi nella formazione di una diagnosi Nelle nostre narrazioni troviamo quindi una conferma della denuncia del Report britannico del 2013: Il ‘numero oscuro’ di patologie latenti prima della percezione da parte della famiglia del paziente è davvero imponente. Ma anche la fase successiva, dalla prima percezione non strutturata alla formulazione di una diagnosi da parte di un’agenzia medica, ha lunghezza tra due e quattro anni (giustiicabili con la prudenza con cui il corpo medico è obbligato a muoversi per una conoscenza scientiica ancora ai primi passi, ma anche con un groviglio di passaggi intermedi burocratici) e tende a svolgersi lungo sequenze di contatti con differenti agenzie mediche che sono, se non universali, molto vicine a schemi standard, come quello proposto in igura 3.2. Il percorso tracciato in igura 3.2 si snoda con un graduale adattamento reciproco tra domanda del caregiver e risposta del circuito medico. Una prima fase è contraddistinta da una domanda non strutturata e da una risposta prudentemente generica. Man mano che la domanda fa propri i codici linguistici medici, la diagnosi è messa a fuoco. Ma tra la prima stazione di questa via crucis (generalmente il medico di base) e l’ultima (la diagnosi) intercorrono due-quattro anni, un tempo interminabile per il malato. Così che la diagnosi attesta a quel punto lo stadio avanzato della malattia. Anche se ormai è una frase abusata, non è una società per vecchi. Ma neppure per giovani anziani fragili. (8) Nei manuali di psicologia dell’ageing anni Novanta la lettura della dinamica psicologica degli over65 poggiava su due scuole di successo, normative più che interpretative: quella del “disimpegno” (Cumming e Henry, 1961) che invitava gli anziani ad adattarsi a ruoli e aspettative meno intensi, e quella dell’“attività” (Havinghurst, 1963) che li sollecitava a mantenere i modelli precedenti di vita sociale. La sequenza “pensionamento  disorientamento  disagio patologico” si attaglia alla logica di entrambe le scuole. Ma entrambi gli approcci, di fronte ai progressi delle neuroscienze, meritano un onesto ripensamento e approfondimento. 65 66 GIuSePPe A. MICheLI Figura 3.2 - Prototipo di percorso di una DNP entro il circuito medico C – Se il dialogo è senza più logos Una terza ragione della sofferenza con-vissuta da paziente e caregiver risiede proprio nel core della malattia: la frantumazione delle capacità cognitive, che spegne la possibilità della persona di esprimere la propria sofferenza. Come ricorda Jaspers (1964), “in tutte le situazioni di vita in cui ci sentiamo colpiti, angosciati e smarriti, l’improvvisa coscienza di un chiaro sapere, sia questo in realtà vero o falso, possiede già in sé un’eficacia serenatrice”. Ci sono forme di sofferenza che, anche al culmine della crisi, non sanno approdare alla ricchezza transculturale di una qualche forma espressiva; ma non per questo la sofferenza è minore. Scrivendo in altra epoca, Jaspers pensava non ad Alzheimer ma a nevrosi, depressioni, disposizioni senza contenuto delirante. Ma anche per le demenze questa vis serenatrix non può esserci, mancando la valvola di sfogo cognitivo della parola. L’ammutolimento del logos – quindi della comunicazione – può manifestarsi anche in modo speculare, per ridondanza. Modalità opposta, ma altrettanto angosciante: dialoghi senza logos. In una delle interviste, il paziente e la moglie e caregiver interloquiscono in una sorta di teatro dell’assurdo, dove l’incomunicabilità è prodotta dall’utilizzo esasperato di luoghi comuni, frasi ripetitive, dialoghi sovrapposti. Un esercizio drammaturgico di straniamento nelle interazioni verbali come ne “La cantatrice calva” (Ionesco, 1950): famiglie normali, in abitazioni normali, con vite normali governate da abitudini senza tempo, che agiscono sulla scena in un frenetico incrociarsi di affermazioni ‘normali’ e stereotipiche, 3. IL CASo DeI “GIoVANI ANzIANI” CoN DeMeNzA che si intersecano e si sovrappongono tra loro senza mai una vera attesa di risposta. Uno straniamento che nasce dall’intercalare in contrappasso del paziente, come quello dello zi’ Nicola delle “voci di dentro” (De Filippo, 1948): personaggio volutamente (o meno) estraneo alle vicende del mondo che sceglie una sorta di eremitaggio muto, in un soppalco (un’eterotopia) al centro della scena, esprimendosi solo con un codice fatto di scoppiettii di petardi. Perrow (1977) sosteneva che la dificoltà anche solo a “prendersi cura” di patologie della mente sia dovuta alla “non standardizzabilità e non routinizzabilità” delle forme in cui esse si manifestano quotidianamente. Ogni caregiver sa che la gestione del ‘suo’ paziente richiede uno sforzo continuo – ogni volta ‘unico’ – di creatività nel far fronte ai quotidiani arabeschi del proprio assistito. Anche negli scoppiettii verbali dei pazienti – come nel codice di zi’ Nicola – ritroviamo la manifestazione ridondante e trasgressiva di un codice linguistico che non trova sbocco in un logos, e lo straniamento di una ‘compagnia’ che se ne fa carico, dato che il cambiamento è sempre e continuamente spiazzante, una girandola di sempre nuovi coups de théatre. D – Sul circuito a feedback supporto chimico-comunicazione C’è un nesso fondamentale tra un mirato dosaggio del supporto chimico e la possibilità di mantenere aperta una comunicazione (cognitiva o cenestesica) tra il paziente e chi lo segue. Ma non si pensi a un equilibrio stabile, bensì a un equilibrio in perenne rideinizione. La prescrizione di farmaci spesso avviene per assemblaggi e improvvise sottrazioni (magari in corrispondenza di un cambio di agenzia medica di riferimento). Caregiver, famiglie e medici si ritrovano infatti a gestire, come se fosse un circuito omeostatico, qella che in realtà è una dolorosa morfogenesi di sistema (igura 3.3). E lo fanno muovendosi ciclicamente tra due polarità opposte, entrambe inibitrici di comunicazione. 67 68 GIuSePPe A. MICheLI Figura 3.3 - Controllo dell’agitazione e perdita di comunicazione reciproca Stato (o ripristino) impairment primario Riduzione dosi sedativi e/o neurolettici off-label Perdità lucidità cognitiba motoria comunicativa Agitazione (wandering) sempre più incontrollabile Aumento dosi sedativi e/o neurolettici off-label Così, a uno stato di agitazione via via incontrollabile potrà seguire il rialzo di un dosaggio o il cambio di un farmaco; ma se il maggior carico di farmaci ammutolisce il paziente bloccando quei canali di comunicazione fondamentali per ogni rapporto di care, di nuovo si imporrà un aggiustamento della barra, allentando il carico farmacologico. E così via in loop. Tenere la barra dritta, smussando passo per passo le discontinuità più devastanti della grande mutazione cognitiva è in fondo la regola base di un pragmatico timoniere. 4. Andar oltre il paradigma unico cognitivo? Molte delle considerazioni in qui fatte valgono per ogni DNP midstage avanzata: ma quando l’insorgenza è tardiva, e lo speciico della degenerazione cognitiva si mischia con la ‘normale’ degenerazione funzionale, mentale e degli umori dovuta all’età, il paziente cade in pieno nell’ambito della gestione oggettivante del sistema sanitario. È la precoce insorgenza che accentua il contrasto tra una percezione ancora forte di autoeficacia e il decadimento cognitivo. Ma davvero il decadimento cognitivo deve restare l’unico parametro di valutazione della identità (e della dignità) di un malato? 3. IL CASo DeI “GIoVANI ANzIANI” CoN DeMeNzA Facciamo il caso del disorientamento spaziale. Nelle civiltà della casa, il luogo isico del vivere e il luogo delle relazioni e degli affetti si fondono nella categoria di home, che ha spessore sensoriale, relazionale e simbolico. Ma il giovane anziano DNP midstage è privo di home. È un homeless. E lo dichiara compulsivamente (9). Si è tentati di dare oggettività a questo desiderio ricorrente, in molti YOM, di tornare alla casa materna, o avita (Block, 2008): ma forse non è così. Lo smarrimento non indica forse cognizione di una casa speciica cui tornare, quanto piuttosto il grido – angosciante in quanto inconsapevole – che esprime un “vuoto di fame” con cui si cammina senza più coscienza, una volta perduto il proprio giroscopio interiore. Lo smarrimento non è sempre e solo perdita di procedure di elaborazione cognitiva, ma anche e talvolta solo perdita di percezione di un nesso corpo-ambiente. Spesso si ritiene la svolta cognitivistica anni ’60 una ricaduta della rivoluzione cibernetica dei ’50. Ma mentre Wiener (1950) puntava a modellizzare il funzionamento di una macchina “come se fosse” un cervello, per Neisser (1967) e l’HIP è il cervello a funzionare “come se fosse” un software, elaborando informazioni esterne per restituire rappresentazioni della conoscenza, con questa sequenza: input informativo elaborazione cognitiva eventuali ricadute in forma di esperienze emozionali Possiamo accettare che questa sia l’unica congettura possibile solo rifugiandoci nell’auto-inganno rassicurante che il collasso degli schemi cognitivi riguardi un’anomalia trascurabile di casi: “Immaginiamo in che condizioni saremmo senza schemi sul nostro mondo sociale: cosa accadrebbe se qualsiasi cosa in cui ci imbattessimo fosse inspiegabile fonte di confusione, smarr[endo] la capacità di creare nuovi ricordi e affronta[ndo] ogni situazione come se fosse sempre la prima volta”. Aronson (1997) si riferiva qui a una sindrome rara (Korsakov). Ma nel 1997 eravamo già in piena ‘pandemia’ delle demenze. Dar per scontata la continuità nel tempo dell’identità anche in caso di un totale suo cambiamento e continuare (9) “Quando andiamo a casa?”. “Ci siamo già, mamma. Questa è la nostra casa. Dietro a te c’è la cucina. Ti ricordi quando la nonna ha acceso la candela perché stava per nascere Paolo?”. “Portami a casa per favore” (Farina, 2015). 69 70 GIuSePPe A. MICheLI a afidarsi al paradigma cognitivo conduce a paradossi inquietanti, espliciti nella variante della mente simulativa: “Non è neppure immaginabile un’esistenza umana priva di significati. Sarebbe la con-danna più terribile cui potremmo pensare, poiché vorrebbe dire: “tu non esisti”, pur essendo vivo” (Anolli, Mantovani, 2011). Davvero non esiste una ‘machina’ alternativa, che alimenti la natura ‘continuante’ del malato tramite non rappresentazioni cognitive ma stati d’animo non intenzionati? Rubando a Damasio (2000) e Edelman e Tononi (2000) tre concettichiave (proto-sé, coscienza primaria, emozioni di fondo (10)) perveniamo (Micheli, 2016b) a una diversa sequenza di formazione di identità: input sensoriale (esterno o interno) eventuale coscienza di ordine superiore: il vissuto si traduce in linguaggio & elaborazioni cognitive proto-sé a debole consapevolezza coscienza primaria: a emozioni di fondo si agganciano un vissuto, ricordi, immaginazione del presente Se c’è dunque una doppia modalità di alimentazione (input cognitivi vs sensoriali-emozionali) della macchina di produzione di condizioni minime di identità e dignità, questo è l’obiettivo massimo che possiamo chiedere al care di una NDP midstage. Senza dubbio la logica cognitiva dell’azione è una built-in function essenziale della ilosoia della vita sociale. Ma se il declino cognitivo inceppa irrimediabilmente il nostro “giroscopio interiore”, in assenza di principi chimici attivi eficaci, meglio afiancare a una stimolazione cognitiva ineficace la stimolazione di altri tipi di ‘fame’ di esperienze produttrici di senso: fame di lu- (10) Damasio e Edelman parlano di propriocezione (lusso sensorio continuo e inconscio che dà un feedback sullo stato del corpo consentendo di sentirlo come qualcosa che ci appartiene) e cenestèsi (stato interiore di equilibrio degli impulsi in cui l’interesse non è incanalato in alcuna direzione particolare e resta libero di volgersi in qualsivoglia direzione (Richards et al., 1922). È signiicativo che per Damasio, che si è occupato di Alzheimer, le emozioni di fondo “sopravvivano impavide alle malattie neurologiche”. 3. IL CASo DeI “GIoVANI ANzIANI” CoN DeMeNzA ce, suoni, colori, porosità e discontinuità, ponti tra corpo e mondo. Il Quiet Garden Movement, che ha solo venti anni, può darci una mano a far divenire adulta la ilosoia dei Therapeutic Gardens (11). Bibliografia Anolli l., mAntovAni F. (2011), Come funziona la nostra mente. Apprendimento, simulazione e Serious Games, bologna, Il Mulino. Aronson e. et al. (1997), Social Psychology, Reading, Mass., Longman. BloCK s.m. (2008), Io ricordo, Vicenza, Neri Pozza. Borroni A. et al. (2011), Prevalence and Demographic Features of Early-Onset Neurodegenerative Dementia in Brescia County, Alzheimer Disease & Associated Disorders, 25, 4: 341-4. Bott e. (1957), Family and Social Network, London, Tavistock Publ. Cumming e., henry w. (1961), Growing Old: the Process of Disengagement, New York, basic books. DAmAsio A. (2000), Emozione e coscienza, Milano, Adelphi. De Filippo e. (1948), Le voci di dentro. In: Cantata dei giorni dispari, vol I, Milano, Mondadori, 2005. eDelmAn g.m., tononi g. (2000), Un universo di coscienza, Torino, einaudi. egiDi v. et al. 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La diagnosi di malattia di Alzheimer orazio zanetti “Le malattie hanno dei sintomi: i sintomi fanno pensare al fondamento organico di tutto ciò che siamo. Fanno pensare al cervello come ad un pezzo di carne. e, laddove dovrei riconoscere che, sì, il cervello è un pezzo di carne, sembro invece conservare un punto cieco nel quale inserisco storie che enfatizzano gli aspetti dell’io più legati all’anima”. J. FrAnzen, Come stare soli (Il cervello di mio padre), einaudi, Torino, 2003, p. 19. 1. Introduzione La rapida evoluzione delle conoscenze nel campo delle demenze e dei deicit cognitivi nell’anziano che è avvenuta nel corso degli ultimi 15-16 anni, soprattutto per la malattia di Alzheimer (AD), è stata fonte e teatro di una vera rivoluzione in campo diagnostico, con innovazioni dai contorni tuttora frastagliati e sfumati, oggetto di ampie discussioni per le ricadute in ambito clinico soprattutto, ma anche connesse agli aspetti patogenetici della malattia di Alzheimer ed in senso più ampio alla relazione tra invecchiamento e declino cognitivo: dove si colloca un “conine”, se esiste e se è in modo puntiforme identiicabile, tra normalità e patologia? Quando inizia la patogenesi della AD? Quando avviene il viraggio tra la malattia di Alzheimer e la sua espressione clinica sotto forma di demenza prodromica, paucisintomatica, o conclamata? Come è possibile essere portatori del danno neuropatologico che oggi identiichiamo con la malattia di Alzheimer e non esprimerlo mai clinicamente? (morire con la AD senza essere mai stati “dementi”). Una recente meta analisi suggerisce infatti che all’età di 90 anni il 40% (non portatori di APOE-ε4) e l’80% (portatori di APOE-ε4) delle persone con prestazioni cognitive normali sono positive per β-amiloide cerebrale misurata tramite PET o dosaggio di β-amiloide 1-42 nel liquido cerebrospinale (Jansen et al., 2015). Si tratta di interrogativi ancora aperti in attesa di risposte. Non è certo una storia nuova. Quante patologie neoplastiche vengono riscontrate solo sul tavolo autoptico! Quante cardiopatie ischemiche silenti restano tali a lungo! Solo una storia che si rinnova, sulla scia delle novità che provengono dalla ricerca scientiica. Certo è che oggi siamo in grado di formulare diagnosi tempestive nelle fasi paucisintomatiche-prodromiche della malattia di Alzheimer ed anche in quelle assolutamente asintomatiche (ed in futuro delle altre forme di demenza degenerativa, caratterizzate anch’esse da fasi precliniche e paucisintomatiche). Inevitabili, nella incertezza sulla possibilità di scindere per ora ciò che è normale da ciò che è francamente e chiaramente patologico, i risvolti etici relativi alla comunicazione di informazioni tra medico e paziente (per esempio una PET pa- Orazio Zanei 4. La diagnosi di malaia di Alzheimer 74 oRAzIo zANeTTI tologica per β-amiloide cerebrale (Lim et al., 2015). Indubbiamente, la possibilità di una diagnosi tempestiva ha il vantaggio di coinvolgere la persona con deicit cognitivi nella comunicazione consapevole di informazioni che lo riguardano e nel percorso da seguire in ambito diagnostico e terapeutico nonché nelle scelte che lo riguardano e lo riguarderanno. Per inciso, a fronte di questa affascinante “turbolenza culturale”, dopo quella avvenuta a metà degli anni ’70 nei quali ci si è resi conto che la malattia di Alzheimer era responsabile nella grande maggioranza dei casi di deterioramento cognitivo nell’anziano, assistiamo ad una stagnazione, con qualche passo indietro e la messa in discussione della teoria amiloidea, nell’ambito della terapia farmacologica della malattia di Alzheimer. Ciò, purtroppo, contribuisce ad alimentare atteggiamenti scettici o timorosi rispetto all’opportunità di mettere in atto approcci soisticati e costosi in ambito diagnostico. È importante sottolineare, a questo riguardo, che la diagnosi, da sempre, prescinde dalla disponibilità di terapie eficaci; è semplicemente un dovere professionale del clinico, e un diritto del paziente. Nel 2007 Dubois e collaboratori (Dubois et al., 2007; Dubois et al., 2014) (criteri diagnostici IWG-1 e 2) propongono per la prima volta nuovi criteri diagnostici per la malattia di Alzheimer che superassero quelli precedenti del 1984 (McKhan et al., 1984); successivamente il National Institute on Aging e l’Alzheimer’s Association (NIH-AA) (Jack et al., 2011; McKhann et al., 2011; Albert et al., 2011) propongono nuovi criteri diagnostici in sostituzione di quelli del 1984 e si apre uno scenario diagnostico nuovo, rivoluzionario, che per alcuni aspetti non può che essere considerato tutt’oggi un “work in progress”. Entrambi, accanto al tradizionale, imprescindibile e fondamentale percorso anamnestico-clinico, prevedono il ricorso a marcatori biologici e neuroradiologici in grado di identiicare in vivo la presenza di neuropatologia attribuibile alla malattia di Alzheimer anche nelle persone “sane”, asintomatiche, o paucisintomatiche. I biomarcatori sono deinibili come parametri isiologici, biochimici o anatomici misurabili in vivo in grado di rilettere speciiche caratteristiche legate al processo isiopatologico che determina la malattia. I nuovi criteri, unanimemente, dichiarano che i biomarcatori possono essere cruciali nella diagnosi differenziale tra la AD e le altre forme di demenza. I biomarcatori indicati dall’IWG e dal NIA-AA sono i medesimi ed includono parametri sia laboratoristici sia strumentali: a) riduzione dei livelli di Aβ 1-42, e aumento della concentrazione di tau, e p-tau nel liquor cefalorachidiano; b) un’aumentata captazione corticale di ligandi per amiloide alla PET (Positron Emission Tomography); c) ipometabolismo a livello del cingolo posteriore-precuneo e temporo-parietale, dimostrato alla PET con 18F luorodesossiglucosio (FDG); e d) atroia temporo-mesiale alla RMN ad alta deinizione. Nella tabella 4.1 vengono mostrati i marker neurobiologici e radiologici che si stanno consolidando nel percorso diagnostico della malattia di Alzheimer. I biomarker che segnalano il deposito di β-amiloide si 4. LA DIAGNoSI DI MALATTIA DI ALzheIMeR “muovono” 20-25 anni prima della comparsa dei sintomi; quelli di neurodegenerazione pochi anni prima della comparsa della sintomatologia clinica. Tabella 4.1 - biomarker per la malattia di Alzheimer Biomarker indicativi di deposito di Aβ Riduzione nel liquor di Aβ1-42 PeT cerebrale per βamiloide Biomarker indicativi di danno neuronale (neurodegenenerazione) Aumento nel liquor di proteina tau e tau fosforilata Atrofia ippocampale o atrofia del lobo temporo-mesiale (tramite RM cerebrale) Ipometabolismo temporo-parietale alla PeT con FDG Secondo i criteri IWG e NIA-AA gli individui con un decadimento cognitivo che risultano positivi per i biomarcatori citati hanno la neuropatologia tipica della AD e sono ad aumentato rischio di sviluppare la demenza. Entrambi i criteri diagnostici sostengono che lo stadio di demenza può essere preceduto da altre quattro fasi: 1) uno stadio zero pre-patologico (biomarcatori normali, assenza di declino cognitivo), 2) uno stadio asintomatico (biomarcatori di accumulo di amiloide alterati, assenza di declino cognitivo), 3) uno stadio asintomatico (biomarcatori di amiloidosi e neurodegenerazione alterati, assenza di declino cognitivo) e 4) uno stadio pauciasintomatico (biomarcatori di amiloidosi e neurodegenerazione alterati, assenza di declino cognitivo) (tabella 4.2). Tabella 4.2 - Stadi preclinici della malattia di Alzheimer e associata variazione dei biomarker Stadio 0 biomarcatori normali – Assenza di declino cognitivo Stadio 1 Amiloidosi asintomatica Aumento di captazione del tracciante per l’amiloide alla PeT bassi livelli di Aβ1-42 liquorale Assenza di declino cognitivo Stadio 2 Amiloidosi + Neurodegenerazione Disfunzione neuronale evidente alla PeT con FDG Alti livelli di tau e tau fosforilata liquorali Assottigliamento corticale/Atrofia ippocampale all’MRI Assenza di declino cognitivo Stadio 3 Amiloidosi + Neurodegenerazione + Minimo decadimento cognitivo/disturbi comportamentali evidenza di minima variazione dello stato cognitivo rispetto al livello di base bassa performance nei test cognitivi più difficili Ancora non soddisfatti i criteri clinici per MCI 75 76 oRAzIo zANeTTI Lo stadio sintomatico pre-demenza può essere ulteriormente suddiviso in uno stadio di disturbo cognitivo soggettivo (subjective cognitive impairment, AD-SCI), e uno stadio di decadimento cognitivo lieve, laddove i deicit cognitivi sono oggettivamente documentati da test neuropsicologici. I criteri IWG e NIAAA differiscono, invece, nella terminologia relativa alla condizione caratterizzata da biomarcatori positivi e da una compromissione cognitiva oggettiva di entità tale da non soddisfare i criteri per demenza (AD-MCI); secondo l’IWG questa condizione è deinita “Prodromal AD”, ovvero AD prodromica (più recentemente, nel 2013, a rischio per AD), mentre secondo il NIA-AA questa condizione e descritta come MCI dovuta a AD. Alla luce di queste sia pur lievi divergenze è necessario chiedersi se i nuovi criteri abbiano un signiicato prettamente limitato alla ricerca, oppure se possano essere adottati nella clinica. I criteri per la ricerca presuppongono un uso speculativo, come la sperimentazione terapeutica, e la loro validazione mira ad aprire la strada per un successivo uso clinico, mentre i criteri clinici devono mostrare sensibilità e speciicità tali da essere applicati in setting clinici da parte di professionisti con esperienza per rispondere in modo afidabile alla speciica domanda posta da una speciica persona. Ad oggi, i criteri IWG sono considerati esplicitamente criteri di ricerca, mentre i criteri NIA-AA integrano aspetti clinici e di ricerca, dal momento che la parte clinica dei criteri, riguardante la AD e l’MCI dovuto ad AD, è destinata alla pratica clinica, e solo la restante parte, riguardante i biomarcatori e la AD preclinica, è indirizzata alla ricerca. In realtà, i biomarcatori per AD vengono oggi ampiamente utilizzati anche nella pratica clinica quotidiana, nei centri specializzati (che quasi invariabilmente fanno anche ricerca, ovvero CDCD con elevato livello di specializzazione diagnostica), per la caratterizzazione diagnostica e soprattutto prognostica delle persone con disturbo cognitivo lieve o molto lieve. Di fatto questi nuovi criteri hanno aperto una nuova era nell’approccio diagnostico alle malattie responsabili del deterioramento cognitivo dell’anziano, AD in primis. Il dato saliente, che fa da sfondo ai nuovi criteri, è costituito dalla conoscenza che la cascata patogenetica della AD inizia 20-25 anni prima della comparsa dei sintomi (Bateman et al., 2012 ); grazie ai marker biologici e neuroradiologici è oggi possibile identiicare le persone a rischio di sviluppare la demenza e quelle nelle fasi molto iniziali paucisintomatiche o prodromiche. Oggi si ritiene che per ogni demenza degenerativa esista una fase preclinica-asintomatica (a rischio per AD o altre demenze), una fase intermedia paucisintomatica o prodromica, ed una fase che sfocia nella demenza conclamata. Nel caso della malattia di Alzheimer, secondo la teoria patogenetica più consolidata e condivisa, la deposizione di β-amiloide avviene molti anni prima della comparsa dei sintomi, ed è seguita dall’accumulo di tau più a ridosso del viraggio verso le manifestazioni prodromiche di malattia (come avviene per gli altri marker 4. LA DIAGNoSI DI MALATTIA DI ALzheIMeR di neurodegenerazione); la diagnosi, nella fase presintomatica delle forme sporadiche (escludendo quindi le forme geneticamente determinate) è impossibile; è agevole la diagnosi clinica nella demenza conclamata; al contrario, la diagnosi (e la prognosi) accurata è possibile nella fase paucisintomatica solo ricorrendo all’impiego di marker neuroradiologici e neurobiologici (igura 4.1). Figura 4.1 - Patogenesi ed aspetti clinico-diagnostici nella malattia di Alzheimer Deposizione di amiloide e tau AD path. Diagnosi Demenza di Alzheimer Clinica Disturbo cognitivo lieve Con markers Assenza di sintomi cognitivi -50 30 -40 40 -30 50 -20 60 Impossibile -10 -5 0 70 80 10 90 Anni dalla diagnosi di AD Età Questa prospettiva patogenetica e clinica apre le porte ad interventi di terapie farmacologiche in grado di agire sui meccanismi ritenuti responsabili di AD (cosiddette “disease-modifying therapy” contrapposte all’attuale terapia sintomatica della quale sono ampiamente noti i limiti) in una fase di malattia nella quale la persona gode di una buona qualità di vita e soprattutto ad interventi di prevenzione primaria e secondaria, per i quali sono già in corso sperimentazioni. Anche le attuali sperimentazioni cliniche con farmaci ritenuti “disease modifying” (soprattutto anticorpi monoclonali anti β-amiloide) contemplano invariabilmente, fra i criteri di inclusione delle persone con deicit cognitivi attribuibili alla AD (prodromica o lieve), marker di amiloidosi ottenuti tramite PET cerebrale o dosaggio di β-amiloide 1-42 nel liquor cerebrospinale. La diagnosi di malattia di Alzheimer probabile secondo i criteri del 1984 consentiva pertanto di identiicare clinicamente solo la parte inale, quella clinicamente conclamata caratterizzata deicit cognitivi con impatto sulle autonomie nella vita quotidiana (e, oggi sappiamo, con scarse possibilità di predisporre interventi terapeutici o preventivi eficaci), di malattie il cui inizio è oggi ritenu- 77 78 oRAzIo zANeTTI to avvenire, per la malattia di Alzheimer in particolare, 20-25 anni prima. I nuovi criteri IWG-2 e NIA-AA prendono atto di questa evoluzione delle conoscenze e le fanno proprie. Non è possibile non menzionare la recente pubblicazione del DSM-5 che nel passato ha fatto storia nell’ambito della deinizione delle demenze deinendo criteri che sono stati ino ad oggi ampiamente impiegati nella pratica clinica, oltre che in ambito di ricerca. Purtroppo però, il DSM-5 si è collocato su posizioni culturalmente più tradizionali (American Psychiatric Association, Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, 5a ed., 2013; Sachdev et al., 2014); in tema di disturbi della sfera cognitiva si è limitato a ratiicare conoscenze relativamente consolidate nella prassi clinica, non senza sollevare critiche soprattutto in merito alla deinizione diagnostica del “mild neurocognitive disorder” (disturbo neurocognitivo minore, versione “moderna” del famoso “mild cognitive impairment”). Poiché la condizione di disturbo neurocognitivo minore, sulla base dei soli elementi clinico-neuropsicologici (senza il ricorso ai maker di amiloidosi cerebrale o neuro degenerazione) non è in grado di predire la possibile evoluzione e di chiaramente prognosticare il viraggio verso la demenza conclamata nel singolo individuo, i criteri proposti dal DSM-5 appaiono di scarsa utilità nella pratica clinica quotidiana nell’ambito dei nostri Centri per i disturbi cognitivi e le demenze. La critica che è stata sollevata nei confronti del DSM-5 è quella di “medicalizzare” e di “stigmatizzare” una condizione, quella del lieve disturbo cognitivo (identiicato clinicamente), e di etichettare come persone con deterioramento cognitivo/pre-demenza persone che in realtà in una grande maggioranza dei casi non diventeranno mai dementi (Visser et al., 2006). Mentre i criteri diagnostici di Dubois (IWG-1 del 2007 e IWG-2 del 2014) e quelli del NIH-AA (2011) lanciano un sasso oltre il fosso, creando anche qualche turbolenza scientiico-clinica, quelli dell’APA (DSM-5) di fatto restano ancorati ad un approccio clinicamente prudente-anacronistico, e nel contempo poco utili in ambito clinico, per quanto attiene al disturbo neurocognitivo minore, semplicemente affermando che i marker biologici e neuroradiologici non sono ampiamente validati per l’impiego clinico (Sachdev et al., 2014). Si tratta di una rivoluzione (quella diagnostica) destinata ad avere importanti ripercussioni anche sulle funzioni di quelle che deinivamo UVA (Unità valutative Alzheimer) ed ora vengono deinite, secondo il Piano nazionale demenze, come Centri per i disturbi cognitivi e le demenze (CDCD) (Gazzetta Uficiale della Repubblica Italiana, 13 gennaio 2015; provvedimento 30 ottobre 2014: Piano nazionale demenze – Strategie per la promozione ed il miglioramento della qualità e dell’appropriatezza degli interventi assistenziali nel settore delle demenze) (Di Fiandra et al., 2015). Il compito dei CDCD è e sarà sempre più centrale rispetto all’emergere di un crescita di persone che nell’età avanzata presentano disturbi 4. LA DIAGNoSI DI MALATTIA DI ALzheIMeR cognitivi. Oggi infatti è noto che la necessità di migliorare l’assistenza dei pazienti affetti da demenza e deterioramento cognitivo in genere è divenuta una priorità “politica”, sia a livello nazionale sia internazionale (Padovani et al., 2015). I temi posti sul tappeto della discussione e della rilessione scientiica in questa breve introduzione, sono molteplici – clinici, etici, economici, sociali, organizzativi, epistemologici – e non sarà possibile affrontarli tutti in modo analitico. Ci limiteremo ad affrontare le novità e le ricadute, nell’ambito dell’organizzazione dei servizi, del progresso avvenuto in campo diagnostico. 2. L’importanza di una diagnosi precoce La diagnosi tempestiva (più che precoce) rappresenta un elemento di criticità nell’ambito della gestione delle persone affette da deterioramento cognitivo, poiché meno della metà dei pazienti affetti da demenza riceve una corretta diagnosi. L’accesso presso centri specializzati e la diagnosi sovente avvengono tardi nella storia naturale di malattia, quando le terapie e gli interventi attuabili per un miglioramento della qualità della vita sono meno eficaci. La demenza, soprattutto nei suoi stadi più precoci, rimane una patologia sotto diagnosticata, la quale raramente viene comunicata ai pazienti ed ai familiari e che non sempre viene trattata adeguatamente sia dal punto di vista farmacologico che assistenziale. La diagnosi di demenza viene posta più frequentemente nelle fasi moderate e avanzate di malattia, quando la gravità del quadro clinico è tale da compromettere l’autonomia nelle usuali attività della vita quotidiana e soprattutto quando emergono disturbi comportamentali che mettono a soqquadro gli equilibri assistenziali all’interno della famiglia. L’Alzheimer’s Association (la potente Associazione americana di volontariato non-proit che dedica le proprie risorse al supporto dei famigliari ed alla ricerca sull’Alzheimer) sin dal ’99 ha lanciato lo slogan “Diagnosing Dementia: See It Sooner” (diagnosticare la demenza: vederla prima). Questo slogan nasce dal fatto che ancora oggi ci si rivolge ai servizi sanitari a malattia conclamata o avanzata, solo quando i disturbi del comportamento (agitazione, insonnia, deliri, apatia, scarsa collaborazione o aggressività isica o verbale) tendono a destabilizzare la rete di supporto informale; questo avviene abitualmente dopo 2-4 anni di malattia. Complici di questo ritardo alcuni pregiudizi sull’invecchiamento, ma anche atteggiamenti negativi da parte degli operatori sanitari stessi. I primi tendono a confondere l’invecchiamento normale con la prospettiva inevitabile di un declino delle facoltà cognitive, della memoria in particolare. Quanto all’atteggiamento di alcuni operatori sanitari, l’assenza di cure eficaci e risolutive renderebbe inutile e dispendioso effettuare indagini diagnostiche. A questo riguardo è in- 79 80 oRAzIo zANeTTI vece importante ed eticamente/professionalmente corretto svincolare il diritto alla diagnosi dalle prospettive di cure miracolose o risolutive. La diagnosi deve essere la premessa per la costruzione di un’alleanza terapeutica tra gli operatori sanitari – medico di famiglia, specialisti, psicologi, tecnici della riabilitazione, infermieri, assistenti sociali – il paziente e la famiglia per la costruzione di un percorso terapeutico-assistenziale condiviso. Quest’ultima considerazione vale non solo per le demenze (in particolare la malattia di Alzheimer), ma anche per tutte le malattie croniche che afliggono le popolazioni che hanno il privilegio di invecchiare a lungo. La diagnosi precoce, o meglio tempestiva, è un obiettivo fondamentale in ambito psicogeriatrico. Essa è afidata soprattutto ad uno stretto rapporto tra paziente, famiglia e medico di Medicina generale (MMG). Ciò richiede il superamento dello stigma e dei timori collegati con alcune diagnosi da parte della famiglia ed un’attenzione speciica da parte del medico, il quale può giovarsi di un rapporto formale con gli specialisti, in particolare quelli che operano nelle Unità di valutazione Alzheimer (oggi CDCD) (e nei vari Centri esperti diversamente delineati nelle realtà regionali). Vi è quindi la precisa esigenza di favorire una stretta collaborazione tra medici con varie competenze, considerando strumenti di lavoro comuni ed utilizzando le più moderne tecnologie di Information and Communication Technologies (ICT). In questa prospettiva è importante chiarire il ruolo speciico del MMG e quello dei vari specialisti, partendo dalla domanda se sia più opportuno puntare su modelli interspecialisti o sulla multi-competenza. Le nuove metodologie diagnostiche e le nuove tecnologie hanno aperto una nuova prospettiva in questo campo; i servizi dovranno rapidamente acquisire speciiche competenze in particolare per quanto riguarda le ricadute nella pratica clinica. La prospettiva corretta è quella di vedere la diagnosi, oltre che come diritto del paziente, come indispensabile premessa alla costruzione di un’alleanza terapeutica tra malato, famigliari, e personale sanitario. Quanto più precoce è la diagnosi, tanto maggiormente anche il malato potrà essere attore delle scelte terapeutiche assistenziali che lo riguardano. Soprattutto sarà possibile condividere scelte terapeutiche ed assistenziali adatte al malato ed alla famiglia. Quest’ultima oggi si sente ancora troppo spesso sola nell’affrontare il lungo decorso della malattia di Alzheimer. Abbiamo la fortuna di disporre di una discreta rete assistenziale (le cosiddette UVA, Unità Valutative Alzheimer, oggi CDCD), ma è necessario che i malati ed i famigliari vi si afidino il più presto possibile; solo così potranno essere alleggeriti – grazie al contributo di medici, infermieri, educatori, assistenti sociali, psicologi – del peso assistenziale e del senso di solitudine. Oggi è ampiamente risaputo che la malattia di Alzheimer non coinvolge solo il singolo ma di rilesso anche il nucleo famigliare poiché il malato di Alzhei- 4. LA DIAGNoSI DI MALATTIA DI ALzheIMeR mer, specie nelle fasi avanzate, necessita di una continua assistenza. Sono circa 8 famiglie su 10 in Italia che preferiscono sostenere personalmente l’ammalato assumendosi integralmente i costi dei trattamenti e dedicandogli all’incirca 7 ore di assistenza diretta, ossia di pura cura, e 11 ore di sorveglianza ossia di tempo trascorso con il malato. La diagnosi precoce deve avere la inalità di accogliere malato e famigliari nel solco di programmi di cura ed assistenza che consentano loro di sentirsi meno soli di fronte alla malattia. L’enfasi sull’importanza della diagnosi è fondata anche sulla disponibilità di procedure diagnostiche che oggi sono molto afidabili e sicure. Proprio negli ultimi 5-6 anni sono stati fatti passi da gigante in questa direzione che ci consentono oggi di diagnosticare la malattia di Alzheimer alle prime avvisaglie quando ancora la persona è in possesso delle proprie facoltà, prima che la malattia sia sfociata in una demenza conclamata. È oggi ampiamente riconosciuto che i beneici di una diagnosi tempestiva hanno valenze positive molteplici, per il paziente ma anche per i famigliari, per le organizzazioni sanitarie, e per la società (Dubois et al., in press). 3. La diagnosi La diagnosi differenziale del decadimento cognitivo pone il clinico di fronte ad alcune alternative principali (tabella 4.3). Tabella 4.3 - Condizioni cliniche nelle quali si può manifestare un decadimento cognitivo nell’anziano • Delirium • Depressione • Demenza (Disturbo neurocognitivo maggiore*) • Demenza prodromica (Disturbo neurocognitivo lieve*) • Psicosi ad esordio tardivo *DSM-5, 2013 Il delirium è facilmente distinguibile dalla demenza. Tuttavia spesso è una condizione prodromica e spesso vi si sovrappone. La depressione si associa frequentemente all’esordio della demenza. L’interazione tra depressione e demenza è comunque complessa; è al tempo stesso prodromo, fattore di rischio, parte integrante del quadro clinico. La psicosi ad esordio tardivo è invariabilmente un prodromo o un sintomo che si accompagna alla demenza. Non ci soffermeremo analiticamente su queste complesse problematiche di diagnosi differenziale; piuttosto affronteremo il tema della diagnosi di malattia di Alzheimer nelle sue varie espressioni con speciico riferimento alla revisione 81 82 oRAzIo zANeTTI della letteratura ed alle indicazioni emerse dalla linee-guida da parte della AIPSiNdem (Padovani et al., 2015; Zanetti et al., 1995; Zanetti e Geroldi, 2011). Nella maggior parte dei casi sono i familiari che si accorgono della presenza di disturbi mnesici o comportamentali e riferiscono il paziente al medico. Meno frequentemente, il paziente stesso che avverte la presenza di problemi di memoria. Ancora più raramente il sospetto di una demenza emerge durante il colloquio clinico avviato per altri motivi, senza che siano stati riferiti sintomi cognitivi. L’approccio clinico al paziente con decadimento cognitivo è basato su una valutazione a più stadi. Il primo obiettivo è determinare se esiste un deterioramento cognitivo e se questo rispetta i criteri per la demenza. Se è identiicata una sindrome dementigena, il secondo passo consiste nella valutazione necessaria a determinare l’eziologia della demenza (tabella 4.4). Tabella 4.4 - Il percorso per la diagnosi e la valutazione della demenza Identificare la demenza • Storia clinica • Valutazione dello stato mentale • Esame generale e neurologico • Valutazione dello stato funzionale, della depressione, dei sintomi non cognitivi Definire l’eziologia della demenza • Esami di laboratorio • Test neuropsicologici • Neuroimaging anatomico (Tac Cerebrale o RM cerebrale) • Neuroimaging funzionale (PET cerebrale) • Puntura lombare • EEG (opzionale) La diagnosi di demenza deve essere posta utilizzando i nuovi criteri, quali quelli citati precedentemente. La dimostrazione della presenza di un declino delle funzioni cognitive rispetto ad un precedente livello raggiunto dal soggetto si basa quasi esclusivamente sulla raccolta della storia clinica e sulla valutazione dello stato mentale, poiché molto raramente è possibile disporre di valutazioni psicometriche antecedenti la comparsa dei sintomi clinici. I criteri clinici per la diagnosi delle sindromi demenziali prevedono che il deicit cognitivo sia di entità tale da interferire con le abituali attività lavorative o sociali del paziente; non si tiene conto però del livello usuale di attività del paziente, né della possibile presenza di altre condizioni (ad esempio malattie croniche di natura somatica) che determinano disabilità, né del fatto che la com- 4. LA DIAGNoSI DI MALATTIA DI ALzheIMeR promissione funzionale possa essere secondaria a disturbi comportamentali o sintomi psichici. È intuitivo che le conseguenze funzionali della demenza tendono a manifestarsi precocemente se un soggetto mantiene responsabilità lavorative o sociali; nel caso di una persona anziana senza impegni sociali, con relazioni spesso limitate ai familiari più stretti, con mansioni ridotte anche nelle attività strumentali più semplici (spesso sostituita dai parenti per atteggiamento protettivo o per la presenza di malattie somatiche o deicit sensoriali disabilitanti), la valutazione dell’impatto funzionale di eventuali lievi deicit cognitivi è ardua e richiede una anamnesi attenta e mirata. La diagnosi di demenza non può essere posta in presenza di uno stato confusionale acuto (delirium). La diagnosi differenziale fra queste due condizioni è agevole, perché il delirium è un quadro clinico ad esordio acuto o subacuto, con alterazioni dell’attenzione, dell’orientamento, del contenuto del pensiero, del linguaggio; vi è un’ampia luttuazione dello stato clinico che generalmente si accompagna a disturbi dell’ideazione e della percezione (frequenti allucinazioni visive), inversione del ritmo sonno veglia, modiicazioni dell’attività psicomotoria (più spesso iperattività, talora invece marcata apatia). In realtà, la demenza costituisce il principale fattore di rischio di comparsa di delirium in concomitanza con malattie acute di varia natura, stress psicoisici (ad esempio un intervento chirurgico oppure un cambio di residenza); dal 40 al 60% dei soggetti con demenza sviluppa almeno un episodio di delirium durante il decorso della malattia. La diagnosi di delirium può presentare dificoltà in soggetti con un iniziale deterioramento cognitivo; talvolta lo stato confusionale costituisce l’esordio della demenza o rappresenta l’episodio al quale i familiari fanno risalire l’inizio della malattia. In un paziente nel quale esordisce un delirium, la diagnosi di demenza non può essere comunque posta inché lo stato confusionale non si risolve o non è possibile ottenere una chiara anamnesi caratteristica per demenza. Le modalità di esordio e di progressione della demenza, con l’ausilio del neuroimaging, sono generalmente suficienti a differenziare le varie eziologie (tabella 4.5). 83 84 oRAzIo zANeTTI Tabella 4.5 - Caratteristiche clinico-strumentali differenziali fra le forme più frequenti di demenza Tipo di demenza Caratteri clinici salienti Neuroimaging Malattia di Alzheimer esordio con deficit mnesico (più raramente con deficit neuropsicologici focali) e precoce coinvolgimento globale delle funzioni cognitive. Possibile coesistenza di alterazioni comportamentali all’esordio; più frequenti nelle fasi intermedie e avanzate. Progressione graduale. esame obiettivo neurologico negativo all’esordio Atrofia temporo50-60% parietale, talora asimmetrica, alla TC e RM. Ipoperfusione nelle stesse aree alla PeT Frequenza Demenza vascolare sottocorticale esordio subdolo spesso caratterizzato da decadimento cognitivo con relativo risparmio della memoria, parkinsonismo con disturbo della deambulazione, depressione del tono dell’umore Lesioni multiple in aree di confine o lacune nei gangli della base o lesioni estese della sostanza bianca periventricolare alla TC o RM. Alla PeT ipoperfusione irregolare Demenza vascolare ischemica (“multiinfartuale”) esordio acuto spesso con sintomi “focali” e progressione “a gradini”. Compromissione irregolare delle varie funzioni cognitive. esame obiettivo neurologico con segni focali Infarti singoli in aree strategiche (ad esempio infarti talamici, lobo temporale inferomediale) o multiple lesioni corticali Demenza frontotemporale Precoci disturbi comportamentali (disinibizione, perdita del controllo sociale, iperoralità, stereotipia), alterazioni dell’affettività (apatia, disinteresse, ipocondria, somatizzazioni) e precoci disturbi del linguaggio (monotonia, ecolalia, perseverazioni) Atrofia lobare (frontale o frontotemporale) alla Tc o RM. Ipoperfusione frontale alla PeT 2-9% Demenza a corpi di Lewy Fluttuazione dei disturbi (sia cognitivi sia dello stato di veglia), allucinazioni visive ben strutturate, segni extra-piramidali, disturbi del sonno ReM e frequenti cadute Atrofia corticale aspecifica alla TC o RM. SPeCT con DaTSCAN positiva 7-25% Degenerazione cortico-basale Aprassia ideomotoria asimmetrica, afasia precoce, disinibizione e segni frontali, distonia di un arto, micolono focale e parkinsonismo Atrofia corticale frontotemporale e sottocorticale striatale alla RM Rara Paralisi sopranucleare progressiva Paralisi sopranucleare dello sguardo, instabilità posturale con cadute, disartria, deficit di attenzione e deficit cognitivo di tipo sottocorticale Atrofia della por- Rara zione anteriore del corpo calloso alla RM. Ipoperfusione corteccia frontale alla PeT 15-20% 4. LA DIAGNoSI DI MALATTIA DI ALzheIMeR La diagnosi di demenza resta quindi essenzialmente clinica, nella quale grande importanza assumono una attenta raccolta della storia, un corretto colloquio e l’esame obiettivo; gli esami strumentali consentono di supportare la diagnosi clinica (Zanetti e Geroldi, 2011). Quanto più lieve è il decadimento cognitivo tanto maggiore è però la necessità di ricorrere al supporto dei marker neurobiologici e neuroradiologici; nelle fasi intermedie ed avanzate della malattia sono suficienti indagini ematochimiche e neuroradiologiche semplici (TC encefalica) e non dispendiose. Posta la diagnosi di demenza è necessario risalire alla eziologia della sindrome; purtroppo nella maggior parte dei casi la relazione causale non raggiunge un livello di certezza, ma solo un grado più o meno elevato di probabilità. La disponibilità di criteri clinici sempre più precisi ha però aumentato la sensibilità della diagnosi clinica, in particolare per le demenze più frequenti, quali la malattia di Alzheimer. 4. L’importanza della storia clinica La demenza si presenta con una ampia variabilità di quadri clinici; anche all’interno della stessa condizione eziologica (ad esempio la malattia di Alzheimer) può esservi una certa eterogeneità. Pertanto la descrizione di un quadro clinico prototipale, sebbene utile da un punto di vista didattico, in realtà non rappresenta un buon modello di ciò che si riscontra nella pratica. Indipendentemente dall’eziologia, in tutti i pazienti sono presenti sintomi cognitivi e sintomi non cognitivi, la cui frequenza dipende dallo stadio della malattia e dalla causa. Gli aspetti neurobiologici e neuroanatomici (tipo di danno, sede e estensione delle aree coinvolte) non sono da soli in grado di spiegare la variabilità delle manifestazioni cliniche osservabili nei pazienti. La raccolta dei dati anamnestici rappresenta il momento fondamentale per una corretta valutazione del paziente demente; afinché la storia risulti plausibile è invariabilmente necessario interrogare i familiari. Una storia familiare positiva per la presenza di demenza impone una attenta valutazione del rischio genetico; sebbene, infatti, non siano disponibili diffusamente metodiche in grado di appurare la presenza delle mutazioni note nella malattia di Alzheimer (sul cromosoma 1, 14 e 21), è necessario poter fornire corrette informazioni circa il reale rischio genetico. Nell’anamnesi familiare particolare attenzione andrà posta anche alla presenza di malattie psichiatriche e vascolari. Va poi fatta una attenta raccolta dei problemi isici, con particolare riguardo alle malattie cardiovascolari, endocrine, neurologiche, di episodi depressivi o malattie mentali e dei farmaci utilizzati (alcool incluso). 85 86 oRAzIo zANeTTI Una anamnesi attenta può rivelare deicit in molteplici aree cognitive, come la memoria, il linguaggio, la prassia, le capacità visuo-spaziali e la critica. Nel raccogliere la storia, è necessario indagare eventuali dificoltà nel ricordare eventi recenti, nello svolgere attività o procedure usuali (es. preparare il cibo, guidare l’automobile, utilizzare gli elettrodomestici, curare il giardino, giocare a carte), nel gestire le inanze e gli affari. La presenza di episodi di disorientamento topograico sono di particolare rilievo, così come episodi di delirium (anche brevi). È utile indagare il comportamento del paziente in occasioni particolari, quali una vacanza od un ricovero ospedaliero; la comparsa di disorientamento topograico, di agitazione o di un franco quadro di delirium sono suggestivi di una demenza sottostante. La presenza dei sintomi non cognitivi va valutata con particolare attenzione, sia per la loro rilevanza dal punto di vista diagnostico, che per l’impatto sulla qualità di vita del paziente e della famiglia, ed anche perché costituiscono uno degli outcome primari dell’intervento terapeutico (farmacologico e non) della demenza. L’interesse per i sintomi non cognitivi nei dementi è recente: la ricerca clinica che in passato ha focalizzato il proprio interesse sugli aspetti cognitivi e neurobiologici, in questi ultimi anni ho posto sempre maggiore attenzione alla isiopatologia degli aspetti neuropsichiatrici, alla loro frequenza e gravità, al loro impatto funzionale e alla gestione terapeutica. Tali disturbi, che possono essere presenti già nelle prime fasi della malattia (anche prima dei deicit cognitivi), sono eterogenei, luttuanti e inluenzabili da variabili somatiche ed ambientali; rappresentano inoltre una delle maggiori cause di istituzionalizzazione per lo stress ed il carico assistenziale dei caregiver. La deinizione e la caratterizzazione dei sintomi non cognitivi, così come la metodologia e gli strumenti di valutazione, costituiscono un campo ancora oggetto di dibattito. Attualmente si ritiene che i sintomi non cognitivi rappresentino una manifestazione primaria delle anormalità neuropatologiche e neurobiologiche della demenza, sebbene siano fortemente inluenzati dall’ambiente e siano legati alla personalità premorbosa dell’individuo. Il 90% dei pazienti affetti da demenza presenta sintomi non cognitivi, sebbene la frequenza e la gravità delle singole manifestazioni sia variabile in relazione alla gravità della demenza ed alla eziologia. Le alterazioni della personalità sono il sintomo non cognitivo più frequente: il 70% circa dei pazienti manifesta apatia, il 40% irritabilità, il 30% circa disinibizione; l’agitazione, che è un disturbo molto composito, che va dalla vocalizzazione persistente all’aggressività, è presente in circa il 60% dei casi; l’ansia è osservata nel 50% dei dementi; le modiicazioni del tono dell’umore sono frequenti: nel 30-50% dei pazienti vengono riscontrati sintomi depressivi, nel 5-8% euforia e nel 40% labilità emotiva; il comportamento motorio aberrante è descritto nel 40% dei dementi; sintomi psicotici sono riportati nel 30-60% dei 4. LA DIAGNoSI DI MALATTIA DI ALzheIMeR pazienti. Nella malattia di Alzheimer la frequenza di vagabondaggio, agitazione, apatia, deliri e allucinazioni aumenta con la gravità della malattia, mentre la frequenza dell’euforia tende a decrescere. I sintomi non cognitivi tendono a presentarsi in modo non completamente casuale nel singolo paziente ma, almeno in circa la metà dei casi, a raggrupparsi in “cluster” omogenei quali quelli riconducibili a disturbi dell’umore oppure a quelli strettamente psicotici quali deliri ed allucinazioni. L’osservazione di un cluster speciico di sintomi non cognitivi in un paziente demente ha ovvie ricadute dal punto di vista terapeutico. Grande importanza nella deinizione etiologica della demenza rivestono le modalità di esordio e di progressione dei sintomi cognitivi, non cognitivi e del declino funzionale, anche se esiste una certa variabilità. Deve essere stabilito se l’esordio è stato improvviso oppure lento ed insidioso e quali siano stati i sintomi precoci. È particolarmente importante, inoltre, determinare l’ordine temporale in cui si sono succeduti i sintomi, se il deterioramento è stato rapido, con improvvisi peggioramenti, oppure lento e graduale. Un inizio improvviso dei sintomi, con presenza di stato confusionale, agitazione, luttuazione della sintomatologia, deve portare innanzitutto a escludere che si tratti di delirium; va quindi ricercata la presenza di una causa scatenante (malattie infettive, cardiopatie, disordini metabolici, vasculopatia cerebrale, intossicazione da farmaci o tossici, ritenzione acuta d’urina, ecc.). Nella malattia di Alzheimer l’esordio è tipicamente insidioso e la progressione graduale; in casi più rari il paziente si presenta dal medico per un improvviso peggioramento delle funzioni cognitive. I sintomi iniziali nella malattia di Alzheimer sono generalmente caratterizzati dai disturbi della memoria, anche se talvolta possono essere rivelatori della malattia i disturbi del linguaggio o delle capacità visuo-spaziali. La presenza di sintomi depressivi nelle fasi iniziali della malattia deve far porre l’attenzione sulla possibilità che le alterazioni delle funzioni cognitive siano secondarie ad una depressione (pseudodemenza). In questo caso il deicit cognitivo fa seguito ad uno stato depressivo e, generalmente, esiste un’anamnesi remota personale positiva per disturbi depressivi. La diagnosi differenziale fra demenza e pseudodemenza depressiva rimane comunque complessa, così come incerto rimane il reale signiiciato della pseudodemenza, considerando che circa il 50% di questi pazienti sviluppa una demenza irreversibile nell’arco di 5 anni. Sintomi depressivi sono comunque presenti in un numero variabile, ma comunque signiicativo, di soggetti dementi (dal 10 al 60% secondo la metodologia di rilevazione utilizzata ed il campione di studio); non è raro che facciano seguito a una iniziale perdita della memoria. L’ampia sovrapposizione fra queste due condizioni pone frequenti problemi di diagnosi differenziale e di gestione clini- 87 88 oRAzIo zANeTTI ca. L’esatto signiicato del disturbo depressivo che compare nelle fasi iniziali della demenza è tuttora incerto; variabili biologiche sono probabilmente coinvolte, anche se aspetti di personalità, insight (o consapevolezza) di malattia, livello funzionale, variabili sociali ed ambientali sono associate variamente alla comparsa di sintomi depressivi. Osservazioni recenti sembrano indicare che i sintomi depressivi non rappresentano un predittore di demenza, ma una manifestazione precoce della stessa nell’anziano. La presenza nelle fasi iniziali della demenza di un comportamento socialmente inappropriato, associato ad irritabilità, euforia oppure apatia, disinibizione sessuale, bulimia, che preceda la comparsa del disturbo mnesico, è più comune nella demenza fronto-temporale. Nella demenza vascolare l’esordio è generalmente acuto, a volte associato a segni o sintomi focali (paresi, afasia, disorientamento spaziale, amnesia globale), oppure a caduta. Il decorso è tipicamente “a gradini”, con luttuazione dei sintomi. Un esordio acuto ed una rapida progressione del deicit cognitivo e funzionale deve far sospettare un’eziologia diversa dalla malattia di Alzheimer, quale un ictus cerebrale, una massa occupante spazio, una causa metabolica, tossica o infettiva. Nell’ambito della raccolta anamnestica particolare attenzione va prestata alla valutazione del network sociale del paziente, che costituisce una parte importante per la pianiicazione degli interventi assistenziali al domicilio e per la deinizione del rischio di istituzionalizzazione. In particolare, la rete informale (costituita per lo più dai familiari), le relazioni esistenti fra gli stessi, la disponibilità di supporti formali (assistenza domiciliare, centri diurni) rappresentano una variabile rilevante per permettere alla persona demente di restare al proprio domicilio. 5. Definizioni e criteri diagnostici della malattia di Alzheimer I criteri NIA-AA prevedono che il percorso diagnostico si fondi su due tappe: dapprima deve essere effettuata una diagnosi di demenza e successivamente devono essere rispettati alcuni aspetti al ine di effettuare la diagnosi di AD. La diagnosi di ogni forma di demenza necessita della presenza di sintomi di entità tale da limitare l’autonomia delle attività quotidiane e da rappresentare un peggioramento rispetto ad una situazione precedente; in assenza di delirium i sintomi cognitivi dovrebbero essere identiicati sulla base della storia anamnestica, di una valutazione clinica e/o di una formale valutazione neuropsicologica (tabella 4.6). La compromissione cognitiva deve riguardare almeno due dei seguenti am- 4. LA DIAGNoSI DI MALATTIA DI ALzheIMeR biti: memoria, linguaggio, abilita visuo-spaziali, funzioni esecutive e “comportamento, personalità, umore”. Tabella 4.6 - Criteri principali per la diagnosi di demenza (qualsiasi causa) La demenza è diagnosticata quando vi siano disturbi della sfera cognitiva o comportamentale (neuropsichiatrici) che: 1) Interferiscono con le capacità di svolgere le comuni attività delle vita quotidiana; e 2) La compromissione funzionale rappresenta un declino/peggioramento rispetto a precedenti livelli di funzionamento 3) La compromissione funzionale non è spiegabile dal delirium o da disturbi psichiatrici maggiori 4) La compromissione cognitiva è rilevata e diagnosticata tramite la combinazione di (1) raccolta della storia clinica dal paziente e da un affidabile informatore (un famigliare) e (2) una valutazione obiettiva delle funzioni cognitive sia al letto del paziente sia attraverso test neuropsicologici. una valutazione neuropsicologica dovrebbe essere effettuata quando l’anamnesi e la valutazione al letto del paziente non consente di formulare una diagnosi sicura 5) La compromissione cognitiva ed i disturbi della sfera comportamentale coinvolgono un minimo di due dei seguenti ambiti: a) Compromissione della capacità di acquisire e ricordare nuove informazioni b) Compromissione del ragionamento e nella gestione di compiti complessi c) Compromissione delle funzioni visuo-spaziali d) Compromissione del linguaggio (parlare, leggere, scrivere) e) Modificazioni della personalità e del comportamento (fluttuazioni dell’umore, agitazione, apatia, perdita di iniziativa, ritiro sociale, perdita di interessi, disturbi ossessivo-compulsivi, disinibizione sociale). La diagnosi di AD probabile può essere posta quando sono soddisfatti i criteri per demenza, quando l’esordio è insidioso (non improvviso) ed è evidente un peggioramento progressivo (tabella 4.7). Per quanto riguarda la sintomatologia cognitiva preminente, la AD probabile può essere diagnosticata come tipica quando il disturbo di memoria è prevalente, oppure atipica quando i disturbi cognitivi interessano in modo preminente altri ambiti rispetto alla stessa memoria. Questi criteri clinici maggiori (“Core Clinical Criteria”) sono abitualmente suficienti per la diagnosi. 89 90 oRAzIo zANeTTI Tabella 4.7 - Criteri diagnostici per la diagnosi di malattia di Alzheimer probabile Quando un paziente presenta i criteri principali per demenza e contemporaneamente le seguenti caratteristiche: • esordio insidioso dei sintomi che evolvono nell’arco di mesi o anni (non giorni o ore) • evidente e chiara storia di un peggioramento delle prestazioni cognitive. I sintomi cognitivi che caratterizzano l’esordio sono evidenti nella raccolta anamnestica e nella valutazione clinica e rientrano in una delle seguenti categorie: • presentazione amnestica: è la più frequente presentazione della AD. Deve associarsi alla compromissione di almeno un’altra funzione cognitiva. • Presentazione non amnestica: – Disturbo del linguaggio – Disturbo visuo-spaziale – Disturbo esecutivo. Questi criteri clinici maggiori (“Core Clinical Criteria”) sono suficienti per la diagnosi ed una positività dei biomarcatori può aumentare la certezza della diagnosi. Tuttavia, non è consigliato l’impiego di marker neurobiologici nella routine diagnostica della malattia di Alzheimer probabile essendo quelli clinici suficientemente afidabili. La diagnosi di AD possibile è una sindrome clinica che soddisfa i criteri per AD per quanto attiene al proilo dei deicit cognitivi, ma 1) ha un esordio improvviso, oppure manca di note anamnestiche precise oppure 2) si associa ad un quadro eziologicamente misto, a causa di un’evidente malattia cerebrovascolare o della presenza di aspetti riferibili alla malattia a corpi di Lewy (DLB). In questo caso (AD possibile) i marcatori potrebbero essere utili nell’ambito di una diagnosi differenziale più rafinata. 6. I criteri diagnostici per la malattia di Alzheimer paucisintomatica (prodromica o MCI attribuibile ad AD) Accanto al percorso diagnostico per la malattia di Alzheimer il NIA-AA (2011) ha previsto uno speciico percorso clinico-diagnostico per il disturbo cognitivo minore (MCI) attribuibile ad incipiente malattia di Alzheimer (Albert et al., 2011) . Due sono i principi cardine delle raccomandazioni presentate dal NIAAA: (1) i Criteri clinici maggiori , utilizzabili in tutti i setting clinici; (2) i Criteri clinici di ricerca, che prevedono l’utilizzo dei biomarcatori. Questa classiicazione è stata proposta poiché sono necessarie ricerche ulteriori per assicurare la validità clinica dei biomarcatori, in termini di riproduci- 4. LA DIAGNoSI DI MALATTIA DI ALzheIMeR bilità (vedi standardizzazione delle procedure) e in termini di accuratezza nella predizione della progressione a demenza. In queste raccomandazioni, il termine “mild cognitive impairment (MCI)” è utilizzato per designare la fase paucisintomatica che precede la demenza. I Criteri clinici maggiori per MCI sono sostanzialmente sovrapponibili a quelli proposti dal DSM-5 e prevedono: a) evidenza di un cambiamento nella sfera cognitiva, rispetto ad un livello precedente (questo cambiamento può essere espresso dal paziente stesso, da una persona che lo conosce bene o da un medico esperto che osserva il paziente); b) evidenza di una prestazione deicitaria in una o più funzioni cognitive, maggiore di quanto ci si possa aspettare in considerazione dell’età e del background del paziente; c) evidenza di una sostanziale conservazione delle abilità funzionali (impatto non signiicativo sul funzionamento sociale e lavorativo del paziente); d) presenza di una compromissione a carico di qualsiasi dominio cognitivo, inclusa la memoria, le funzioni esecutive, l’attenzione, il linguaggio e le funzioni visuo-spaziali. Al ine di soddisfare i criteri maggiori di MCI dovuto a AD è necessario escludere altre patologie sistemiche o cerebrali che potrebbero indurre un declino cognitivo e dimostrare che vi è un peggioramento progressivo. I Criteri clinici di ricerca nei quali sono previsti i biomarcatori sono stati elaborati dal NIA-AA afinché fossero usati in un setting di ricerca. Oggi è chiaro che l’impiego dei biomarcatori aumenta l’accuratezza diagnostica e prognostica soprattutto; la positività della PET per β-amiloide e alternativamente la riduzione di β-amiloide 1-42 nel liquor cerebro spinale nonché l’evidenza di un danno neuronale (incremento di tau/p-tau nel liquor, Ipometabolismo temporoparietale alla PET con FDG, o atroia ippocampale) consentono di identiicare con maggior correttezza la prognosi della persona con deicit cognitivi. Nella pratica clinica i biomarcatori sono oggi ampiamente impiegati, non solo in ambito di ricerca, ma anche nel percorso clinico di molti Centri per i disturbi cognitivi e per le demenze che abitualmente si caratterizzano anche per l’impegno nell’ambito della ricerca; si tratta comunque di strutture cliniche afiliate all’Università o ad IRCCS che svolgono abitualmente anche attività di ricerca e che mettono a disposizione delle persone con disturbi cognitivi lievi percorsi diagnostici soisticati che prevedono il routinario impiego dei biomarcatori. In assenza dell’impiego di biomarcatori è impossibile, in ambito clinico, formulare diagnosi e prognosi accurate. Nella pratica quotidiana infatti, l’impiego sia di maker di amiloidosi che di neurodegenerazione, proposti dal NIH-AA, consentono di formulare la prognosi più accurata (Vos et al., 2015). 91 92 oRAzIo zANeTTI 7. I biomarcatori nella diagnosi di malattia di Alzheimer Le indicazioni che seguono rappresentano sostanzialmente la sintesi delle indicazioni emerse dalla virtuosa sinergia tra AIP e SINdem sfociate in un documento congiunto che riassume lo stato dell’arte in merito all’impiego dei marker neuroradiologici e neurobiologici nella diagnosi di malattia di Alzheimer (Padovani A., Musicco M., Caltagirone C., Bianchetti A., Caffarra P., Vampini C., Trabucchi M., Raccomandazioni dell’Associazione italiana di Psicogeriatria (AIP) e della Società italiana Neurologia delle demenze (SINdem) sulla diagnosi precoce della Malattia di Alzheimer, anno X, supplemento, numero 1, gennaio-aprile 2015). 7.1. Il Neuroimaging Neuroimaging anatomico Il Neuroimaging (TC, RMN) è stato considerato tradizionalmente utile come mezzo per escludere cause secondarie o trattabili di demenza. Oggi, sempre più spesso è impiegato anche per identiicare speciici pattern di atroia in grado di supportare l’ipotesi diagnostica. Le attuali linee guida europee raccomandano che l’imaging strutturale debba essere utilizzato nella valutazione di soggetti con sospetta demenza per stabilire una diagnosi speciica, per escludere altre patologie cerebrali, come le forme potenzialmente trattabili di demenza (es. tumori o ematomi subdurali), e per individuare la presenza e l’entità di una patologia cerebrovascolare. La RMN offre vantaggi rispetto alla TC nella dimostrazione di marcatori di malattie speciiche, in particolare di pattern di atroia, e dovrebbe essere considerata la modalità di scelta da preferire nel sospetto di una diagnosi precoce di AD. Nella forma tipica di AD, i lobi temporali mediali (MTL), in particolare l’ippocampo e la corteccia entorinale, sono tra i primi siti coinvolti dalla patologia. Altre regioni colpite includono la porzione posteriore del giro del cingolo ed il precuneo a livello della supericie mediale e parietale, le regioni temporali posteriori superiori e frontali a livello delle superici laterali cerebrali. Studi di risonanza magnetica in pazienti affetti da MCI con maggiore compromissione della memoria (MCI amnestici) presentano atroia in varie regioni corticali, tra cui il lobo temporo-mesiale (MTL) e la corteccia temporoparietale. Diverse scale di valutazione visiva sono state sviluppate per quantiicare il grado di atroia temporo-mesiale e sono ampiamente utilizzate con buoni risultati, sebbene la concordanza tra i “rater” nell’analizzare visivamente l’atroia sia limitata, e quadri atipici di AD possano confonderne l’interpretazione. Al contrario, al momento, mancano criteri standard accettati per l’analisi quantitativa; l’utilità dell’imaging strutturale aumenterà ulteriormente grazie ad algoritmi di segmentazione automatizzati sviluppati negli ultimi anni. 4. LA DIAGNoSI DI MALATTIA DI ALzheIMeR Neuroimaginig funzionale La tomograia ad emissione di positroni (PET) è spesso utilizzata come parte del processo diagnostico a completamento dell’imaging anatomico nei casi con diagnosi differenziale più complessa. Le scansioni 18F-FDG-PET dimostrano nei pazienti con AD tipica un’ipoperfusione o una predominante riduzione del metabolismo del glucosio nelle regioni temporoparietali, inclusi il precuneo e la corteccia cingolata posteriore. Sebbene l’analisi visiva effettuata da esperti di PET cerebrale abbia un’alta sensibilità nel distinguere la AD da altre cause di demenza, recentemente sono stati sviluppati numerosi software per analizzare quantitativamente le scansioni PET cerebrali per coadiuvare l’analisi visiva. Le raccomandazioni di AIP-SINdem (Padovani et al., 2015) suggeriscono che “nel caso di soggetti che presentino i criteri maggior per MCI, nei quali a seguito dei risultati alle neuroimmagini strutturali (MRI o TAC) persistano dubbi diagnostici, è possibile utilizzare l’esame PET-FDG, dal momento che la presenza di un pattern metabolico tipico per AD (deicit metabolico regionale globale della corteccia cingolata posteriore/precuneo e della corteccia laterale temporo/parietale, più accentuato rispetto alla corteccia frontale, con un relativo risparmio della corteccia sensori-motoria e visiva) è altamente predittiva di una conversione a AD entro due anni, mentre l’assenza di tale pattern rende remota la possibilità di una AD”. 7.2. PET-Amiloide La PET per amiloide à una tecnologia che consente il rilevamento di depositi di beta-amiloide nel cervello delle persone. Sono stati sviluppati diversi traccianti per la beta-amiloide (11C-Pittsburgh compound B (11C-PIB), Florbetaben, Flutemetamol, Florbetapir). Per quanto riguarda la diagnosi precoce, l’imaging per amiloide si è rivelato utile per identiicare individui affetti da MCI, con e senza patologia tipo AD, sebbene in diversi studi la percentuale di conversione a AD nei soggetti MCI positivi alla PET-amiloide è risultata variabile, con valori che vanno dal 38% all’86% a distanza di 2 anni. In realtà, dal 25 al 50% dei soggetti anziani normali ai test cognitivi mostrano un’elevata ritenzione corticale del tracciante 11C-PIB, soprattutto a livello delle regioni prefrontali, del precuneus e della corteccia cingolata posteriore. Questi risultati sono in accordo con i reperti autoptici, che riportano come il 30% circa degli anziani non dementi di età superiore ai 75 anni presentano placche di beta-amiloide. Secondo alcuni autori, la deposizione di beta-amiloide in questi soggetti non dementi potrebbe rilettere la fase preclinica di AD. La PET-amiloide dovrebbe essere utilizzata solo da uno specialista di demenze come informazione aggiuntiva per sostenere o escludere una diagnosi clinica di AD, sia allo stadio di demenza conclamata che allo stadio sintomatico non-demenza, nel caso di un paziente il cui il deterioramento cognitivo e evidenziato oggettivamente, per il quale vi sia una notevole incertezza riguar- 93 94 oRAzIo zANeTTI do alla patologia sottostante. Vi è evidenza che l’imaging per amiloide rappresenti una tecnica promettente nella valutazione della AD e delle diverse forme di demenza, benché sia necessario riconoscere che vi sono alcune incognite che potrebbero incidere sulla sua utilità diagnostica e benché debbano ancora essere convalidati criteri appropriati per la sua applicazione clinica. Una questione rilevante tuttora non risolta riguarda il ruolo della PET amiloide in paziente affetto da MCI o demenza, il quale manifesti un tipico pattern di ipometabolismo alla [18F] FDG PET cerebrale oppure una chiara atroia del MTL. Le raccomandazioni di AIP-SINdem (Padovani et al., 2015; Guerra et al., 2015) suggeriscono che: • L’imaging per amiloide non dovrebbe essere considerata una pratica di routine e se ne raccomanda l’utilizzo in aggiunta ad una valutazione comprensiva in caso di presentazioni cliniche complesse, quando sia necessaria una diagnosi clinica più accurata. • Si raccomanda che la PET amiloide sia tenuta in considerazione per la diagnosi precoce in soggetti che rispettino i criteri maggiori di MCI, nei quali sia documentato oggettivamente un disturbo cognitivo persistente o progressivo. • Si raccomanda l’utilizzazione della PET amiloide per la diagnosi differenziale nei seguenti casi: i) pazienti con una AD possibile (NIA-AA), solo dopo una valutazione completa effettuata da un esperto di demenze, se vi è una presentazione clinica atipica, oppure un decorso clinico atipico oppure una presentazione eziologicamente mista; ii) pazienti con un deterioramento progressivo ed esordio giovanile (usualmente deinito come età uguale o inferiore a 65 anni); (iii) quando il dato di presenza o assenza di patologia correlata a beta-amiloide aumenti in maniera signiicativa la certezza diagnostica e modiichi il trattamento. • Si sconsiglia l’uso della PET amiloide in individui cognitivamente normali o in pazienti che soddisfano i criteri per demenza dovuta ad AD probabile; l’utilizzo in individui asintomatici o pazienti con disturbo cognitivo soggettivo, che non soddisfano i criteri per MCI, o in individui a rischio (ad esempio portatori di mutazioni genetiche, storia familiare di AD, ApoE4), dovrebbe essere limitato all’ambito di ricerca. 7.3. Biomarcatori liquorali Negli ultimi decenni, un crescente numero di studi ha costantemente dimostrato che l’analisi liquorale può essere utile nella diagnosi di AD. I marcatori speciici per AD sono rappresentati dalla riduzione di A-β.1-42 e dall’aumento di Tau totale e fosforilata. Il pattern combinato di bassi livelli di A β 1-42, insieme con alti livelli di T-tau e P-tau nel liquor, si è rivelato capace di discriminare i pazienti con AD incipiente dai pazienti con MCI stabile. Le raccomandazioni di AIP-SINdem (Padovani et al., 2015) suggeriscono che: • Il pattern combinato di bassi livelli di Ab42, insieme con alti livelli di T-tau e P-tau, nel liquor si è rivelato speciico per la Malattia di Alzheimer; gli autori raccomandano 4. LA DIAGNoSI DI MALATTIA DI ALzheIMeR • • • • che i livelli liquorali di questi biomarcatori siano esaminati contemporaneamente e in combinazione con l’intero quadro clinico e strumentale. I biomarcatori liquorali non dovrebbero essere considerati un test di routine e la loro valutazione dovrebbe essere considerata aggiuntiva ad un esame clinico. Si sottolinea che la standardizzazione dei fattori pre-analitici ed analitici, seguiti da un’armonizzazione delle procedure tra laboratori, è tuttora una necessità insoddisfatta. Si raccomanda che lo studio dei biomarcatori liquorali possa essere tenuto in considerazione nella diagnosi precoce di soggetti che soddisfano i criteri clinici maggiori per MCI secondo NIA-AA. Si raccomanda che lo studio dei biomarcatori liquorali sia considerato nella diagnosi differenziale di pazienti con AD possibile, così come in pazienti con demenza progressiva ad esordio giovanile. Si sconsiglia lo studio dei biomarcatori liquorali in soggetti cognitivamente normali o in pazienti che soddisfano i criteri per AD probabile; l’utilizzo in individui asintomatici o pazienti con disturbo cognitivo soggettivo, che non soddisfano i criteri per MCI, o in individui a rischio (ad esempio portatori di mutazioni genetiche, storia familiare di MA, ApoE4) dovrebbe essere limitato all’ambito di ricerca. 8. Le cliniche della memoria (UVA/Centri demenze, Centri per i disturbi cognitivi e per le demenze (CDCD)) I Centri della memoria nascono come un servizio per fornire aiuto alle persone affette da demenza ed altri problemi mnesici. In Italia, i servizi per la cura delle demenze sono gli stessi di quelli sviluppati più di 15 anni orsono nell’ambito del Progetto Cronos, un piano nazionale secondo il quale il Ministero della salute ha promosso la creazione di 574 Unità di valutazione Alzheimer (UVA) (Osservatorio nazionale demenze). I criteri proposti erano focalizzati sull’identiicazione di unità funzionali basate sul coordinamento di competenze neurologiche, geriatriche e psichiatriche con l’obiettivo di promuovere: le capacità di valutazione di pazienti affetti da disturbi cognitivi o comportamentali attraverso un protocollo diagnostico standardizzato; le capacità di mantenere un contatto diretto e una collaborazione con il MMG, al ine di assicurare una continuità delle cure; la disponibilità di centri ove garantire la prescrizione ed il monitoraggio del trattamento farmacologico. Un’indagine effettuata nel 2005 ha mostrato che la realizzazione di questo piano nazionale non è stata uniforme in tutte le regioni e che si riscontrano notevoli differenze in termini di attività svolta e personale disponibile. Negli ultimi anni, alcune regioni italiane hanno promosso un processo di riorganizzazione delle reti dei servizi sanitari e sociali per la demenza, proponendo l’identiicazione di Centri di primo livello, dedicati principalmente ad una diagnosi inizia- 95 96 oRAzIo zANeTTI le, gestione e cura e, in alcuni casi, di Centri demenza specializzati per un’analisi diagnostica di secondo livello, per casi dubbi, atipici, forme genetiche o malattie rare, oppure per condurre trial clinici sperimentali (tabella 4.8). Tabella 4.8 - I compiti delle unità valutative Alzheimer Diagnosi differenziale del deficit cognitivo Interventi farmacologici Interventi non farmacologici (riabilitazione cognitiva e fisica) Gestione dei disturbi comportamentali Diagnosi e terapia della comorbilità Prevenzione educazione e supporto dei familiari Interazione con gli altri nodi della rete dei servizi per l’anziano con deficit cognitivi Formazione (Ricerca e formazione) Attorno a queste realtà ampiamente diffuse nel territorio nazionale si giocherà molta parte del futuro delle cure alle persone affette da demenza. Vanno quindi difese con determinazione di fronte ai tentativi di ridurne la diffusione e di limitarne le funzioni, specie di fronte alle lunghe liste di attesa per accedere alla prima valutazione presenti un po’ ovunque. In particolare, i punti critici sono la distribuzione territoriale, la responsabilità del servizio, la composizione delle equipe di cura, gli orari di lavoro, la disponibilità di tecnologia, l’ammontare dei inanziamenti, la struttura per livelli di complessità, il rapporto con gli ospedali e le residenze, la responsabilità di cura. Inoltre è opportuno deinirne la collocazione all’interno del complesso dei servizi, chiarendo se l’UVA deve diventare una sorta di cabina di regia rispetto alle transizioni del paziente da un servizio all’altro. Va aperta una rilessione se il modello delle UVA possa essere ampliato anche ad altre condizioni di interesse psicogeriatrico oppure se le UVA stesse possano ampliare il loro raggio d’azione (cosa che nella realtà in molti casi fanno già). 9. Conclusioni La popolazione anziana che invecchia pone i servizi clinico-diagnostici assistenziali di fronte alla sida di offrire risposte puntuali. La complessità dei problemi posti dalle demenze richiede un approccio multidisciplinare e nel contempo “diacronico”, ovvero che sappia garantire continuità di cure, contrapposto al tuttora diffuso approccio “dicotomico”, nell’ambito di una rete di servizi per l’anziano in grado di intessere una trama tra i nodi principali della rete stessa. Lo 4. LA DIAGNoSI DI MALATTIA DI ALzheIMeR sviluppo delle conoscenze ci ha consentito di sviluppare alcune procedure clinico-assistenziali suficientemente validate sul piano dell’evidenza scientiica: ne sono un esempio l’afinamento dei criteri diagnostici per le varie espressioni di decadimento cognitivo. Nel contempo però restano molto ampie le aree di incertezza-complessità che afidano all’arte del clinico ed alla professionalità delle équipe multidisciplinari il compito di stabilire percorsi assistenziali virtuosi, e la capacità di condividere con pazienti e famigliari obiettivi concreti da declinare con modalità diverse man mano che la malattia evolve, con l’impervio-ciclopico obiettivo di garantire dignità nella malattia alle persone con demenza ed ai loro famigliari. Bibliografia AlBert m.s., DeKosKy s.t., DiCKson D. et al. (2011), The diagnosis of mild cognitive impairment due to Alzheimer’s disease: recommendations from the National Institute on AgingAlzheimer’s Association workgroups on diagnostic guidelines for Alzheimer’s disease, Alzheimers Dement, 7:270-9. AmeriCAn psyChiAtriC AssoCiAtion (2013), Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, Fifth edition, Arlington, VA, American Psychiatric Association. BAtemAn r.J., xiong C., Benzinger t.l. et al. 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Introduzione La demenze rappresentano un gruppo eterogeneo di patologie a carico del sistema nervoso centrale che si presentano con una progressiva perdita delle funzioni cognitive, quali ad esempio memoria, linguaggio o abilità visuo-spaziali e relazionali. Nei precedenti capitoli è stata discussa la malattia di Alzheimer, che rappresenta più della metà dei casi di demenza ad esordio classico in età senile. La seconda forma più comune di demenza è quella vascolare, associata a lesioni ischemiche o emorragiche, presente in circa il 15% dei pazienti con demenza senile. Spesso inoltre la malattia di Alzheimer si associa a patologia vascolare conformando un tipo di demenza deinito come “misto”. Il rimanente 30-50% dei casi è stato associato ad altre forme neurodegenerative quali la malattia del lobo frontotemporale e la demenza a corpi di Lewy. Oltre alle demenze classiche molte malattie neurologiche si possono associare a deicit cognitivi. È questo il caso del trauma cerebrale, della sclerosi multipla, delle encefaliti o meningiti e, in ambito neurodegenerativo, della malattia di Parkinson, della malattia di Huntington, della sclerosi laterale amiotroica. Nel presente capitolo concentreremo la nostra attenzione sulle malattie neurologiche associate primariamente a demenza, dando risalto alla diagnosi di forme con presentazione atipica con un accenno alla terapia farmacologica. La maggior parte di queste forme sono neurodegenerative, caratterizzate dal progressivo impauperimento e morte dei neuroni di aree speciiche della corteccia cerebrale. La diagnosi è spesso complessa per la grande variabilità clinica, patologica e genetica dei diversi quadri (tabella 5.1) e necessita spesso di una valutazione di secondo livello in strutture che possano proporre accertamenti diagnostici di supporto della valutazione clinica e neuropsicologica. Una discussione a parte meritano i quadri di demenza ad esordio giovanile o adulto. Tali patologie sono infatti relativamente rare (prevalenza 30-100/100.000 individui) ma sono più spesso associate a forme genetiche o potenzialmente trattabili che sono meritevoli di una valutazione diagnostica più approfondita. Le Alessandro Padovani, Andrea Piloto 5. Diagnosi di secondo livello 100 ALeSSANDRo PADoVANI, ANDReA PILoTTo demenze presenili, inoltre, hanno un importante impatto sociale e di gestione, data la giovane età degli individui affetti. 2. Diagnosi L’inquadramento diagnostico di un paziente affetto da decadimento cognitivo inizia da un’attenta raccolta anamnestica ed un esame obiettivo completo, che mirano ad evidenziare sintomi o segni neurologici e sistemici che possano escludere forme secondarie e guidare la diagnosi verso una variante speciica di demenza. Accanto a questa valutazione appare di fondamentale importanza quantiicare il deicit cognitivo, identiicare i domini nei quali vi sono alterazioni e misurare l’evoluzione nel tempo. Inizialmente si possono somministrare test di screening quali il Mini Mental State Examination (MMSE) o il Montreal Cognitive Assesment (MoCA), che però spesso non sono in grado di differenziare completamente le diverse forme di demenza. Per tale scopo è utile eseguire una valutazione neuropsicologica standardizzata, in grado di valutare separatamente i principali domini cognitivi: memoria, linguaggio, abilità visuo-spaziali, attenzione e funzioni esecutive. I diversi tipi di demenza presentano, almeno inizialmente, speciiche alterazioni a carico di determinate abilità cognitive, come evidenziato in tabella 5.1. Tabella 5.1 - Caratteristiche cliniche e patologiche delle principali forme di demenza Condizione Deficit iniziali Possibili sintomi associati Strutture coinvolte Patologia associata Demenza di Alzheimer Forma classica: deficit di memoria Solitamente nessuno in fase iniziale Ippocampo, lobo temporale mesiale Aβ amiloide e tau Demenza vascolare Deficit vari, più spesso a carico di attenzione e funzioni esecutive Possibili deficit focali (motori, sensitivi) o parkinsonismo Lesioni ischemiche/ emorragiche corticali o sottocorticali Demenza frontotemporale Disturbi comportamentali, deficit esecutivi (variante comportamentale) oppure deficit del linguaggio (varianti afasiche) Parkinsonismo (soprattutto durante il decorso), malattia del motoneurone (15%) Lobi frontale e temporale Tau oppure TDP43 oppure forme più rare Segue 5. DIAGNoSI DI SeCoNDo LIVeLLo Condizione Deficit iniziali Possibili sintomi associati Strutture coinvolte Patologia associata Paralisi sopranucleare progressiva Possibili deficit di attenzione ed esecutivi, alterazioni del comportamento Parkinsonismo con cadute, rigidità assiale e paralisi sopranucleare dello sguardo verticale Nuclei della base, mesencefalo e lobo frontale Tau Sindrome corticobasale Aprassia degli arti e buccofacciale, deficit sensoriali corticali, possibili deficit visuo-spaziali e del linguaggio Parkinsonismo asimmetrico con aprassia, mioclonia e/o distonia Gangli della base e lobo parietale controlaterale alla sintomatologia Tau Demenza a corpi di Lewy Deficit visuospaziali ed attentivi classicamente fluttuanti Parkinsonismo, allucinazioni visive, disturbi del sonno ReM Lobo occipitale Alpha-synucleina nei corpi di Lewy Malattia di Creutzfeld-Jacob Defict variabili, spesso visuospaziali, decorso rapidamente progressivo Disturbi comportamentali, atassia, rapido allettamento Regioni posteriori dell’encefalo, cervelletto e talamo Proteina prionica 3. Forme secondarie o trattabili Esami del sangue di routine sono necessari per escludere disfunzioni d’organo quali insuficienza epatica o renale che possono spesso associarsi a encefalopatie metaboliche con conseguente disfunzione soprattutto a carico delle abilità attentivo/esecutive. Un esordio acuto o subacuto di deicit cognitivi deve sempre porre il sospetto di cause secondarie o potenzialmente trattabili quali encefaliti, encefalopatie carenziali (ad esempio, in caso di alcolismo, di Wernicke) o malattie da intossicazione di metalli pesanti (ad esempio piombo). L’esecuzione di TAC o risonanza magnetica cerebrale è molto importante per escludere tali forme o condizioni neurologiche (tumori cerebrali, sclerosi multipla) che possano essere responsabili della sintomatologia cognitiva. 3.1. Idrocefalo normoteso Una forma particolare potenzialmente trattabile di decadimento cognitivo consiste nell’idrocefalo normoteso, che si presenta, anche se non sempre, con la triade composta da disfunzioni cognitive, alterazioni urinarie e disturbo del- 101 102 ALeSSANDRo PADoVANI, ANDReA PILoTTo la marcia. La risonanza magnetica nucleare dell’encefalo (RMN) mostra un ampliamento delle camere ventricolari; il calcolo del cosiddetto indice di Evans e dell’angolo callosale (Ishii et al., 2008; Cagnin et al., 2015; igura 5.1) è importante per differenziare l’idrocefalo da controlli sani, ma soprattutto da malati di Alzheimer o demenza a corpi di Lewy. Nei pazienti che migliorano dopo un test di sottrazione liquorale tramite puntura lombare può essere utile eseguire un intervento neurochirurgico di derivazione ventricolo-peritoneale, una procedura che riadatta la circolazione liquorale. I classici marcatori neurodegenerativi liquorali (vedi prossimi paragrai), in particolare i livelli più bassi di tau e tau fosforilata possono distinguere l’idrocefalo normoteso dalla malattia di Alzheimer (Jingami et al., 2015) ed identiicare quei pazienti che potranno meglio rispondere al trattamento neurochirurgico (Nakajima et al., 2015). Figura 5.1 - Marcatori alla RMN per la diagnosi di Idrocefalo normoteso Pannello 1: indice di evans: rapporto tra la larghezza massima dei corni frontali dei ventricoli laterali e la larghezza dell’encefalo a livello dei lobi temporali; valori superiori allo 0.3 sono suggestivi di idrocefalo normoteso. Pannello 2: visione in sagittale del punto dove calcolare l’angolo callosale, a livello della commisura posteriore. Pannello 3: calcolo dell’angolo callosale; valori inferiori ai 90° sono suggestivi di idrocefalo normoteso – Figura tratta ed adattata da Ishii et al., 2008. 4. Demenza vascolare e malattie della sostanza bianca La demenza vascolare è seconda per frequenza solo alla malattia di Alzheimer ed è legata alla presenza di lesioni ischemiche o emorragiche che possono essere evidenziate alla TAC od alla risonanza magnetica nucleare (RMN). La sede, dimensione e la numerosità delle lesioni rendono causa della grande variabilità della sintomatologia d’esordio, meno “speciica” rispetto alle forme di decadimento cognitivo di natura neurodegenerativa. Gli infarti cerebrali possono presentarsi infatti sia singolarmente che in associazione a livello corticale o sottocorticale. Grandi infarti cerebrali possono 5. DIAGNoSI DI SeCoNDo LIVeLLo provocare disturbi cognitivi maggiori, spesso associandosi a deicit neurologici a carico di linguaggio o sistemi sensitivi o motori. Multiple lesioni sottocorticali circoscritte danno luogo ad iniziali disfunzioni esecutive e dell’attenzione che spesso evolvono negli anni a demenza a seguito dell’insorgenza di nuovi infarti cerebrali. La demenza vascolare condivide gli stessi fattori di rischio della patologia ischemica cerebrale, quali l’età, genere maschile, ipertensione, fumo, ipercolesterolemia, obesità e diabete. Il controllo dei fattori di rischio è di fondamentale importanza per limitare l’insorgenza di nuove lesioni che potrebbero peggiorare il quadro cognitivo. Una forma particolare di demenza associata a multiple lesioni ischemiche cerebrali, spesso sottocorticali è nota come CADASIL (Cerebral autosomal dominant arteriopathy with subcortical infarcts and leukoencephalopathy), patologia genetica rara legata a mutazioni del gene NOTCH3. Si presenta usualmente tra i 40 ed i 50 anni di età con ischemie cerebrali multiple; nel 30-50% dei casi coesiste una diagnosi di emicrania con aura. Alla RMN è evidente un’encefalopatia diffusa, associata a multiple lesioni per lo più sottocorticali. Altre importanti patologie che possono esordire in età adulta con progressive dificoltà cognitive sono le cosiddette leucodistroie, caratterizzate da un selettivo e speciico danno a carico della sostanza bianca. La diagnosi si basa su un’attenta valutazione delle alterazioni visibili in RMN e su uno screening metabolico necessario per escludere le forme potenzialmente trattabili (Ahmed et al., 2014). 5. Malattia di Niemann-Pick tipo C Nella diagnosi differenziale di un decadimento cognitivo dell’età adulta è importante considerare la Malattia di Niemann-Pick, una patologia genetica autosomica recessiva da accumulo lisosomiale. Le forme di tipo A e B sono caratterizzate da esordio precoce infantile e prognosi spesso infausta per la presenza di importante deicit dello sviluppo e coinvolgimento viscerale in numerosi organi, quali fegato, milza e polmoni. La forma di tipo C è invece deinita dal coinvolgimento prevalentemente neurologico che può manifestarsi in maniera estremamente eterogenea dall’adolescenza alla prima età adulta. Tra i sintomi riportati più spesso troviamo la paralisi sopranucleare dello sguardo, una disfunzione cerebellare con atassia e decadimento cognitivo progressivo con sintomi psichiatrici. La maggior parte dei casi è associata a mutazioni nel gene NPC1, mentre la restante quota di pazienti presenta mutazioni nel gene NPC2. Questi geni codiicano per proteine implicate nel trasporto intracellulare del colesterolo e se alterati comportano un accumulo di colesterolo e lipidi nei lisosomi ed endosomi sia a livello viscerale che nel sistema nervoso centrale. La 103 104 ALeSSANDRo PADoVANI, ANDReA PILoTTo diagnosi si basa sia sui test biochimici sierici che mostrino alterazioni dell’oxisterolo che sull’identiicazione di speciiche mutazioni genetiche a carico dei geni NPC1/NPC2 (Patterson et al., 2012). Il coinvolgimento cerebrale non è sempre facilmente visualizzabile con tecniche di imaging sia funzionali che strutturali: possono infatti essere presenti atroia corticale diffusa alla RMN od alterazioni funzionali diffuse (più spesso fronto-temporali) che rilettono i deicit cognitivi presentati dei pazienti. La tempestiva e corretta identiicazione di questa patologia è importante per i risvolti terapeutici: una nuova molecola che inibisce la sintesi dei glicosingolipidi, il Miglustat, si è dimostrata infatti eficace nel rallentare i sintomi neurologici della forma di tipo C (Patterson et al., 2007) ed è indicata sin dalle prime fasi di malattia. Altri trattamenti proposti per ridurre i livelli e la deposizione di colesterolo includono lovastatina, colestiramina ed acido nicotinico. 6. Demenze neurodegenerative 6.1. Fisiopatologia Le ricerche degli ultimi anni hanno evidenziato che le demenze di natura neurodegenerativa condividono meccanismi comuni di accumulo proteico intra od extraneuronale con conseguente danno a carico del sistema nervoso centrale. L’accumulo di proteine patologiche inizia nelle diverse forme di demenza in speciiche regioni cerebrali e si diffonde nel cervello attraverso vie anatomiche e funzionali (Jucker e Walker, 2013). Le diverse patologie neurodegenerative si possono differenziare dalle speciiche proteine che si accumulano a livello cerebrale (tabella 5.1 e igura 5.2). La malattia di Alzheimer viene deinita ad esempio dalla compresenza di accumuli extraneuronali di proteina amiloide ed intraneuronali di tau. Accumuli di tau (in diverse sottoforme) sono inoltre presenti in alcune forme di malattia frontotemporale e parkinsonismi atipici quali la paralisi sopranucleare progressiva o la degenerazione corticobasale. La proteina TDP-43 si accumula a livello neuronale in alcune forme di malattia frontotemporale e nella sclerosi laterale amiotroica. 5. DIAGNoSI DI SeCoNDo LIVeLLo Figura 5.2 - Pattern di progressione di malattia per le diverse malattie neurodegenerative Placche di Aβ amiloide (a) ed inclusioni di proteina tau intraneuronali (b) caratteristici della malattia di Alzheimer. I due tipi di inclusioni si accumulano lentamente nel cervello e spiegano il progredire della sintomatologia clinica (e) (f). Inclusioni di α-sinucleina all’interno dei corpi di Lewy (c) definiscono la malattia di Parkinson e la demenza a corpi di Lewy. In queste patologie l’accumulo inizia spesso a livello del tronco encefalico e progredisce lungo le strutture sottocorticali fino a raggiungere la corteccia (f). L’accumulo della proteina TDP-43 (d) in regione fronto-temporale è specifico di alcune forme di demenza frontotemporale e si può associare a concomitante sclerosi laterale amiotrofica per invasione del midollo spinale (h) – Figura tratta da Jucker e Walker, 2013. La diagnosi deinitiva di patologia neurodegenerativa può essere posta solo all’esame autoptico. Tuttavia è possibile ottenere una diagnosi clinica di alta probabilità associando dati clinici, neuropsicologici, di imaging e liquorali. Come è già stato discusso nei precedenti capitoli i marcatori più utilizzati nella pratica clinica sono quelli in grado di distinguere la malattia di Alzheimer anche nelle fasi relativamente più precoci. 6.2. Imaging cerebrale La RMN encefalo può essere normale nelle fasi iniziali di una demenza neurodegenerativa o evidenziare un’atroia a carico di regioni del cervello speciiche per diverse varianti di demenza (tabella 5.1). Come già sottolineato in preceden- 105 106 ALeSSANDRo PADoVANI, ANDReA PILoTTo za, una valutazione mediante RMN cerebrale è inoltre di fondamentale importanza per escludere forme secondarie di deicit cognitivo. Le valutazioni di imaging funzionale comprendono esami scintigraici che valutino la funzionalità delle diverse regioni cerebrali. La PET con luorodesossiglucosio (PET-FDG) valuta il consumo di glucosio da parte delle diverse strutture cerebrali, mentre la SPECT cerebrale evidenzia alterazioni locali di perfusione cerebrale. Entrambe queste tecniche consentono di valutare potenziali cambiamenti della funzionalità cerebrale, anche in fasi precoci di malattia durante le quali la RMN appare normale o solo lievemente alterata. Parleremo dell’utilità dell’imaging con traccianti per l’amiloide o del DaTSCAN nei paragrai dedicati a malattia di Alzheimer e malattia a corpi di Lewy. 6.3. Marcatori sierici o liquorali L’esame del liquor mediante l’esecuzione della rachicentesi consente di escludere patologie iniammatorie o infettive che possano essere responsabili di disfunzioni cognitive e deve essere sempre presa in considerazione in casi a rapida evoluzione o a presentazione atipica. Il dosaggio della proteina amiloide, di tau e tau fosforilata è in grado di deinire con un elevato grado di certezza la sottostante presenza di una patologia di tipo Alzheimer. Le alterazioni caratteristiche in questo caso sono una riduzione dei valori di Aβ1-42 amiloide ed un innalzamento dei valori di tau (totale e fosforilata) rispetto ai valori normali. Come vedremo nel prossimo capitolo, l’utilizzo di marcatori liquorali può deinire la presenza di malattia di Alzheimer anche se i deicit sono relativamente lievi, prima della fase di demenza conclamata. Nonostante gli enormi sforzi compiuti dalla ricerca internazionale non esistono al momento marcatori stabili che possano essere ricercati su plasma o siero di pazienti. 7. Malattia di Alzheimer 7.1. Forme atipiche Nei precedenti capitoli è stato discusso come la maggior parte dei pazienti affetti da malattia di Alzheimer presenti all’inizio un isolato deicit a carico della memoria episodica. Nel corso della malattia a tale disturbo si associano progressivi deicit a carico di tutte le altre funzioni cognitive ino ad un quadro di demenza severa che comporta spesso un alto rischio di allettamento e conseguente decesso per altre cause di tipo internistico. Accanto alla classica forma con deicit a carico della memoria esistono almeno altre tre varianti cliniche più rare: la variante corticale posteriore, caratte- 5. DIAGNoSI DI SeCoNDo LIVeLLo rizzata da deicit di integrazione degli stimoli visivi (McMonagle et al., 2006), la variante logopenica dell’afasia progressiva primaria, una forma particolare di deicit del linguaggio (Gorno-Tempini et al., 2011), e la variante comportamentale/ disesecutiva, spesso indistinguibile dalla malattia frontotemporale (Ossenkoppele et al., 2015) (tabella 5.2). Tabella 5.2 - Diverse varianti cliniche della malattia di Alzheimer Condizione Presentazione clinica Strutture coinvolte* Variante classica Deficit della memoria episodica con progressione nel tempo ed impatto sulle attività di base della vita quotidiana Ippocampo e lobo temporale mesiale Variante posteriore occipitotemporale: progressivo deficit delle funzioni Lobo occipitale e tempovisuo-percettive e difficoltà nell’identificazione di ograle getti, simboli, o visi Variante biparietale: progressivi deficit visuo-spaziali con discalculia, miss-riconoscimento destra-sinistra, Lobi parietale e temporale aprassia o neglect Variante logopenica dell’afasia progressiva primaria Deficit nel reperimento di singoli vocaboli nell’eloquio spontaneo o in compiti di denominazione e deficit nella ripetizione di sintagmi o frasi. Si possono associare Porzione posteriore del errori fonologici nell’eloquio spontaneo o in compiti lobo temporale sinistro o di denominazione ma vi è conservata comprensione di parietale singoli termini e della conoscenza degli oggetti, conservata capacità articolatoria ed assenza di franco agrammatismo Variante comportamentale Iniziali disfunzioni comportamentali progressive (ad Lobi frontali, temporali e esempio apatia o disinibizione) associate o meno a diparietali sfunzioni esecutive Mild cognitive impairment amnesico Deficit della memoria episodica con progressione nel Ippocampo e lobo tempotempo ed assente o solo lieve impatto sulle attività di rale mesiale base della vita quotidiana Nei nuovi criteri per malattia di Alzheimer la diagnosi di probabilità viene posta in presenza di marcatori liquorali o di imaging. * L’atrofia di tali strutture è stata definita in studi autoptici; alterazioni funzionali con FDG-PeT o SPeCT o strutturali (atrofia) sono presenti in queste regioni specifiche nelle diverse varianti. 7.2. Marcatori per la diagnosi di malattia di Alzheimer Nella diagnosi delle diverse forme di malattia di Alzheimer è utile una valutazione con imaging strutturale e funzionale. La RMN può spesso evidenziare la presenza di atroia del’ippocampo e del lobo temporale mediale, soprattutto nella variante classica caratterizzata da deicit di memoria. L’imaging funzionale con tecniche di medicina nucleare quali FDG-PET e SPECT può evidenziare 107 108 ALeSSANDRo PADoVANI, ANDReA PILoTTo un’ipometabolismo od ipoperfusione a carico delle regioni temporo-parietali e del cingolo. Nelle varianti atipiche l’atroia e l’ipoperfusione/metabolismo rilettono la localizzazione della neurodegenerazione focale (almeno nelle prime fasi di malattia): occipito-parietale nel caso dell’atroia corticale posteriore, parietale/perisilviana asimmetrica nella variante del linguaggio e temporo-parietale estesa ad aree frontali nella forma comportamentale (Ossenkoppele et al., 2015). Negli ultimi anni inoltre sono stati sviluppati numerosi traccianti che legano speciicatamente gli accumuli cerebrali di amiloide. Tali traccianti sono di notevole utilità clinica soprattutto nelle fasi iniziali di malattia e per i casi ad esordio giovanile (Guerra et al. 2015); discuteremo la loro applicabilità alla ine del presente paragrafo. Accanto alle tecniche di imaging i marcatori neurodegenerativi liquorali sono attualmente in grado di evidenziare la patologia di Alzheimer non solo nelle forme tipiche, ma anche in forme cliniche atipiche. L’esame liquorale è quindi utile a supporto del sospetto clinico in tutti i casi ad esordio giovanile o con presentazione clinica inusuale, come nella variante di demenza comportamentale (Padovani et al., 2013) o in parkinsonismi atipici (Borroni et al., 2015). 7.3. Fasi precoci di malattia: il Mild cognitive impairment Negli ultimi anni gli studiosi si sono focalizzati su compromissioni cognitive iniziali precedenti il quadro conclamato di demenza di Alzheimer. È stata individuata una nuova entità nosologica denominata “deterioramento cognitivo lieve” (mild cognitive impairment, o MCI), che si caratterizza per la presenza di iniziale compromissione cognitiva che non determina un signiicativo impatto sulle attività della vita quotidiana. I soggetti con MCI presentano rispetto alla popolazione sana un più elevato rischio di evoluzione a demenza anche se risulta dificile predirne la tempistica e la prognosi a lungo termine. Non tutti i soggetti con MCI evolvono infatti a demenza: alcuni rimangono stabili ed altri addirittura presentano una regressione dei sintomi. Tuttavia se il deicit cognitivo è isolato a carico della memoria e si associa a marcatori caratteristici il soggetto è ad alto rischio di evolvere verso la demenza di Alzheimer (Bertens et al., 2015). Soggetti che presentano isolati deicit esecutivi o visuo-spaziali progressivi e senza marcatori speciici di malattia di Alzheimer, avranno invece una più elevata probabilità ad evolvere verso demenza a corpi di Lewy o demenza frontotemporale (Ferman et al., 2013; Borroni et al., 2015). 5. DIAGNoSI DI SeCoNDo LIVeLLo 7.4. Forme genetiche di malattia di Alzheimer In alcuni casi relativamente rari la malattia di Alzheimer può associarsi a forme monogeniche, associate a mutazioni a carico del gene PSEN1 e molto più raramente, di PSEN2 e del gene codiicante per la proteina precursore dell’amiloide (APP). Secondo l’ipotesi della “cascata dell’amiloide” una disfunzione del catabolismo della proteina precursore dell’amiloide (APP) comporterebbe un progressivo ed eccessivo accumulo del suo prodotto di proteolisi, la beta-amiloide, con formazione delle “placche senili”, con conseguente tossicità e morte neuronale. Questa ipotesi è stata avvalorata dalla scoperta delle forme monogeniche: qualora mutati, i tre diversi geni comportano effettivamente un alterato catabolismo della proteina APP con conseguente accumulo di beta-amiloide. L’esordio delle forme genetiche è variabile e può associarsi alla presenza di innumerevoli segni e sintomi neurologici associati quali epilessia, mioclono, disfunzione comportamentale (Pilotto et al., 2013). La scoperta e lo studio delle forme monogeniche sono di fondamentale importanza per capire a fondo la patologia, per lo sviluppo di biomarcatori e di possibili trattamenti che vadano ad agire direttamente sull’accumulo proteico responsabile della neurodegenerazione (Bateman et al., 2012). Figura 5.3 - Marcatori di malattia di Alzheimer Segue 109 110 ALeSSANDRo PADoVANI, ANDReA PILoTTo Alcuni marcatori sono sensibili ed utili per la diagnosi mentre altri possono evidenziare una progressione di malattia ed essere utilizzati per valutare l’efficacia di possibili trattamenti farmacologici. Pannello a: dopo la fase presintomatica (1) l’alterazione della memoria con lieve impatto sulle vita quotidiana definisce il mild cognitive impairment (MCI, 2). Successivamente i test della memoria non appaiono così utili per valutare l’avanzare della malattia (3), che viene valutata meglio da test generali o a livello delle funzioni linguistiche (4-5). Pannello b: i marcatori dell’accumulo di amiloide (riduzione liquorale di Abeta 1-42 oppure positività ai traccianti dell’amiloide) sono i primi ad essere alterati nella malattia di Alzheimer. Tuttavia questi marcatori non sono in grado di valutare la progressione di malattia, che è più evidente con tecniche di imaging funzionale (quali la PeT-FDG o la RMN funzionale). Le alterazioni strutturali in RMN sono visibili solo in un secondo momento (in ordine di tempo nelle regioni entorinali, ippoccampali e temporali) e riflettono meglio l’accumulo della patologia tau intraneuronale ed i deficit cognitivi. Legenda: AD: malattia di Alzheimer; MCI: mild cognitive impairment; NINCDS–ADRDA, National Institute of Neurological and Communicative Disorders and Stroke–Alzheimer’s Disease and Related Disorders Association. Figura e legenda tratte ed adattate da Frisoni et al., 2010. 7.5. Nuovi criteri per malattia di Alzheimer ed utilizzo di marcatori per amiloide I nuovi criteri clinici per la ricerca sulla malattia di Alzheimer (Dubois et al., 2014) hanno inserito i biomarcatori all’interno della deinizione di malattia. Soggetti con deicit minimi ma con presenza di alterazioni liquorali o di imaging suggestive di accumulo di amiloide e di danno neuronale possono essere pertanto considerati pazienti nelle prime fasi di malattia. Soggetti sani con mutazioni genetiche note (nei geni APP, PSEN1, e PSEN2) sono invece considerati sogget- 5. DIAGNoSI DI SeCoNDo LIVeLLo ti “presintomatici” in considerazione dell’assenza di sintomatologia e del rischio di sviluppare la malattia. L’utilizzo nella pratica clinica di marcatori biologici di accumulo di amiloide è tuttavia ancora in discussione. In Italia un working group multidisciplinare ha recentemente valutato l’appropriatezza all’utilizzo dell’imaging amiloideo a seconda dei casi clinici (Guerra et al., 2015). Schematicamente tale valutazione è consigliata nei seguenti casi clinici quando l’imaging strutturale e funzionale non è suficientemente speciico: 1) in soggetti con MCI persistente; 2) in soggetti con MCI o demenza ad esordio focale (aprassia/deicit visivi ad esempio) od atipico; 3) in soggetti con demenza presenile. Nel caso di demenza di Alzheimer tipica conclamata, invece, l’utilizzo di marcatori per amiloide non è indicato. 7.6. Trattamento della malattia di Alzheimer Nonostante i plurimi sforzi della ricerca internazionale, non esistono al momento terapie eficaci che rallentino il processo alla base della malattia di Alzheimer. Innumerevoli studi randomizzati su molecole che legano direttamente o inducono una risposta immunitaria contro la proteina β-amilode non hanno inora mostrato un beneicio clinico in pazienti con demenza di Alzheimer. Un primo risultato incoraggiante è stato recentemente ottenuto da un anticorpo monoclonale (aducanumab) in un primo studio di fase 1b su soggetti con MCI e demenza lieve e sono attualmente in corso studi randomizzati su coorti più ampie di pazienti (Scheltens et al., 2016). Nella routine clinica i farmaci a disposizione sono gli inibitori dell’acetilcolinesterasi (quali donepezil, rivastigmina e galantamina), che mirano ad incrementare a livello del sistema nervoso centrale i livelli di acetilcolina, neurotrasmettitore notoriamente deicitario nei pazienti affetti da malattia di Alzheimer e responsabile almeno in parte dei deicit mnesici. Numerosi studi hanno evidenziato una eficacia sintomatica di tali terapie soprattutto nelle fasi iniziali della malattia; negli stadi avanzati la loro utilità clinica non è attualmente comprovata. Anche la memantina, un farmaco con un’azione anti-glutamatergica si è dimostrato eficace per il trattamento sintomatico delle fasi iniziali e potenzialmente per le fasi intermedie più avanzate di malattia, sia in monoterapia che in associazione con inibitori dell’acetilcolinesterasi. Nelle fasi avanzate spesso vengono utilizzati antipsicotici per il controllo dei disturbi comportamentali, anche se non esistono evidenze cliniche di eficacia; il rischio-beneicio di tali terapie deve pertanto essere valutato per ogni singolo paziente. 111 112 ALeSSANDRo PADoVANI, ANDReA PILoTTo 8. Angiopatia amiloide cerebrale Una particolare forma di demenza è quella secondaria all’angiopatia amiloide cerebrale. Questa malattia è caratterizzata dall’accumulo di proteina amiloide (simile a quella che si accumula nella malattia di Alzheimer) a livello dei vasi cerebrali. Questo accumulo è nella maggior parte dei casi silente, ma può associarsi ad infarti o, più spesso, ad emorragie cerebrali in sede lobare; una speciica valutazione con la RMN è in grado di valutare la presenza di microsanguinamenti in sede corticale. L’angiopatia amiloide cerebrale può raramente comparire in giovane età, in particolare associandosi a mutazioni nel gene codiicante per la proteina dell’amiloide (APP). L’angiopatia amiloide cerebrale può inoltre associarsi a molti casi tipici di Alzheimer senile sporadico. 9. Malattia del lobo frontotemporale 9.1. Fisiopatologia e presentazioni cliniche La malattia frontotemporale (Frontotemporal lobar degeneration o FTLD) comprende un gruppo di patologie neurodegenerative accomunate dall’atroia isolata o contemporanea dei lobi frontale e temporale. Rappresenta dopo l’Alzheimer la più frequente forma di demenza neurodegenerativa ed ha una particolare rilevanza soprattutto in età giovanile. La presentazione clinica più comune si caratterizza dalla comparsa di alterazioni del comportamento quali apatia, depressione, irritabilità, aggressività, disinibizione, ipersessualità, spesso associate a deicit neuropsicologici a carico delle funzioni esecutive. Un’altra forma clinicamente distinta si presenta inizialmente con un deicit selettivo a carico del linguaggio conigurando un quadro detto di afasia progressiva primaria (PPA). Le PPA si possono ulteriormente classiicare a seconda dello speciico deicit del linguaggio, dalle aree selettive di atroia cerebrale in varianti semantica, agrammatica o logopenica (quest’ultima forma rappresenta spesso una variante atipica di malattia di Alzheimer, come accennato nel precedente paragrafo). La patologia cerebrale responsabile della FTLD è eterogenea e si distingue in base all’accumulo di diverse proteine cerebrali nelle regioni fronto-temporali. Le proteine più spesso coinvolte sono tau o TDP-43, responsabili ciascuna di circa il 30-40% dei casi descritti. Pazienti con malattia frontotemporale possono presentare parkinsonismo ed altri sintomi neurologici dando luogo a forme miste con la sindrome corticobasale (CBS) e la paralisi supranucleare progressiva (PSP), con cui condividono l’accumulo di forme patologiche della proteina tau (tabella 5.1). 5. DIAGNoSI DI SeCoNDo LIVeLLo Le forme legate all’accumulo di TDP-43 presentano invece nel 10-15% dei casi una sovrapposizione clinica e patologica con la sclerosi laterale amiotroica (SLA), caratterizzata da un progressiva degenerazione dei neuroni di moto corticali e spinali. Figura 5.4 - Varianti cliniche di degenerazione del lobo frontotemporale (FTLD) La presentazioni fenotipiche includono sclerosi laterale amiotrofica isolata (ALS) o associata a demenza frontotemporale (FTD-ALS), variante comportamentale (behavioral variant FTD), varianti del linguaggio (svPPA, naPPA, lvPPA), sindrome corticobasale e paralisi sopranucleare progressiva. Numerosi studi hanno evidenziato che molti pazienti presentano inoltre delle forme miste, aumentando ulteriormente la complessità del quadro. Figura tratta da Tatton et al., 2014. 9.2. Diagnosi La diagnosi di FTLD si basa su un’attenta valutazione clinica, neuropsicologica e comportamentale coadiuvata dall’esecuzione di imaging cerebrale. L’imaging strutturale mostra una focale atroia a livello dei lobi frontale e/o temporale, mentre le tecniche di medicina nucleare mostrano una compromissione funzionale delle stesse aree. Le diverse forme cliniche sono state associate a diversi pattern selettivi di alterazioni strutturali o funzionali a carico di regioni speciiche dei lobi frontali o temporali. L’esame del liquor mostra nella maggior parte dei casi dei livelli normali di Aβ-amiloide e normali o lievemente incrementati di tau. La valutazione con traccianti per amiloide può essere utile in alternativa all’esame liquorale soprattutto nelle forme presenili per la differenziazione con la più rara malattia di Alzheimer ad esordio comportamentale. La malattia frontotemporale è spesso familiare e si può presentare frequentemente in età presenile; una valutazione genetica può essere utile in questi casi 113 114 ALeSSANDRo PADoVANI, ANDReA PILoTTo per indirizzare la diagnosi; diversi geni sono stati associati a forme patologiche e cliniche speciiche (tabella 5.3). 9.3. Trattamento La terapia della FTLD si basa sul controllo dei disturbi comportamentali, che a volte richiedono l’eventuale utilizzo di terapia antipsicotica a basso dosaggio. Una terapia antidepressiva può migliorare il quadro globale ed alcuni sintomi negativi in alcuni pazienti con forma comportamentale, ma non viene somministrata di routine. Alcuni trial sono in corso per lo sviluppo di terapie mirate per alcune forme monogeniche di malattia, in particolare da deicit di granulina (GRN, tabella 5.3). 10. Demenza a corpi di Lewy 10.1. Fisiopatologia e presentazioni cliniche La demenza a corpi di Lewy (dementia with Lewy bodies, o DLB) condivide con la malattia di Parkinson l’accumulo patologico intraneuronale di α-sinucleina all’interno dei cosiddetti “corpi di Lewy” a livello di diverse regioni corticali e sottocorticali (McKeith et al., 2005). Nella DLB si osserva un esordio contemporaneo di sintomatologia parkinsoniana (che comprende bradicinesia, tremore, instabilità posturale) e compromissione cognitiva. I deicit sono in particolare a carico delle funzioni visuo-spaziali e/o attentive, luttuano all’interno della giornata e si possono associare a dispercezioni o allucinazioni visive. Possono essere presenti disturbi comportamentali con stati ansiosi, depressione, aggressività o psicosi; tipicamente si osserva inoltre una risposta paradossa peggiorativa agli antipsicotici. Nella malattia di Parkinson classica l’esordio è invece solo motorio, ma spesso nel corso della malattia si sviluppano dei deicit cognitivi ino ad un quadro di franca demenza (Parkinson’s disease dementia, o PDD), che si ritrova circa nel 50% dopo dieci anni dall’esordio. È attualmente molto discusso se PDD e DLB rappresentino due entità cliniche di una stessa patologia di base. La distinzione clinica tra DLB e PDD si basa sull’esordio della demenza: se essa si presenta entro un anno dall’esordio dei sintomi motori la diagnosi è di DLB, altrimenti si conigura il quadro di una PDD. Spesso pazienti con DLB presentano analoghi casi in famiglia, anche se attualmente solo mutazioni in eterozigosi del gene per la glucocerebrosidasi (GBA), responsabile in omozigosi della malattia da accumulo di Gaucher, sono state evidenziate in una piccola ma signiicativa percentuale di pazienti (5-15%). 5. DIAGNoSI DI SeCoNDo LIVeLLo 10.2. Diagnosi La diagnosi di DLB si basa sulla tipica presentazione clinica. L’imaging cerebrale è necessario per escludere cause alternative e può mostrare la presenza di un’atroia prevalentemente posteriore, soprattutto a carico dei lobi occipitale e parietale. Una disfunzione delle stesse regioni può essere evidenziata più precocemente con tecniche di medicina nucleare quali FDG-PET e SPECT. Recenti studi hanno evidenziato inoltre che la speciicità diagnostica dei criteri nella diagnosi differenziale con la malattia di Alzheimer aumenta in caso di presenza di disturbi del sonno di tipo REM o di deicit dopaminergico evidenziato con tracciante DaTSCAN (Walker et al., 2015). La positività dei traccianti per amiloide in pazienti con DLB e PDD è invece molto variabile ed al momento di incerta utilità clinica. 10.3. Trattamento Non esistono al momento attuale terapie mirate per DLB e PDD e la terapia sintomatica spesso non è in grado di controllare adeguatamente la disfunzione motoria, comportamentale o le allucinazioni. Gli inibitori dell’acetilcolinesterasi hanno mostrato un’eficacia sui deicit cognitivi sia in DLB che PDD. Per il controllo delle allucinazioni e dei disturbi comportamentali può essere utile utilizzare antipsicotici a basso dosaggio, anche se il loro utilizzo è limitato dalla frequente reazione paradossa e dall’effetto secondario peggiorativo sui sintomi parkinsoniani. Anche l’utilizzo della terapia dopaminergica è limitato dal rischio di comparsa o peggioramento dei fenomeni allucinatori e di disturbi comportamentali. Tabella 5.3 - Principali forme genetiche associate a demenza Gene Nome proteina codificata Esordio tipico PSEN1 Presenilina 1 30-50 anni PSEN2 Presenilina 2 45-60 anni APP Proteina Precursore dell’Amiloide 40-80 anni GRN Progranulina 50-75 anni MAPT Tau 45-65 anni Fenotipo clinico-patologico Malattia di Alzheimer classica o atipica, spesso associata a sintomi neurologici quali epilessia, mioclono o disturbi comportamentali Malattia frontotemporale classica (nelle sue varianti comportamentali e del linguaggio con o senza parkinsonismo) Segue 115 116 ALeSSANDRo PADoVANI, ANDReA PILoTTo Gene Nome proteina codificata Esordio tipico C9orf72 - 40-70 anni TARDBP TDP-43 40-70 anni GBA glucocerebrosidasi 40-70 anni Demenza a corpi di Lewy o malattia di Parkinson con deficit cognitivi PRNP Proteina prionica 40-80 anni Malattia di Creutzfeldt-Jacob: presentazione eterogenea con decadimento cognitivo rapido ad esordio più spesso posteriore; si associano disturbi comportamentali, atassia, epilessia, mioclono Fenotipo clinico-patologico Malattia frontotemporale e/o del motoneurone (SLA) con accumuli di TDP-43 11. Malattia di Creutzfeld-Jacob La malattia di Creutzfeldt-Jacob è una condizione trasmissibile caratterizzata dalla presenza di un’encefalopatia spongiforme. Tale malattia neurodegenerativa è molto rara, presenta decorso fatale ed è correlata all’accumulo patologico di una proteina anomala chiamata proteina prionica. Questa proteina è presente isiologicamente nel nostro cervello in una conformazione normale. Nella malattia di Creutzfeldt-Jacob vi è un’alterazione della conformazione tridimensionale della proteina prionica che comincia ad accumularsi all’interno del sistema nervoso centrale. Un’altra importante caratteristica di questa variante conformazionale è la sua capacità di modiicare la conformazione delle proteine prioniche “normali” per contatto, alterandole e rendendole a loro volta in grado di moltiplicarsi e diffondersi nel cervello con un processo a cascata. La proteina prionica alterata è in grado inoltre di diffondere potenzialmente per contatto tra organismi differenti come un processo infettivo. La malattia di Creutzfeldt-Jacob può quindi essere secondaria ad una mutazione genetica a carico della proteina prionica che ne altera la conformazione, può presentarsi in forma sporadica o può essere potenzialmente trasmessa direttamente da cervelli affetti nel corso di trattamenti invasivi (ad esempio in neurochirurgia). La presentazione clinica è molto variegata: usualmente è presente un decadimento cognitivo ad esordio tardivo rapidamente progressivo specialmente a carico delle funzioni visuo-spaziali; si associano spesso disturbi comportamentali, segni cerebellari, mioclonie ed alterazioni epilettiformi. Data l’estrema eterogeneità fenotipica descritta in letteratura, questa malattia va sempre sospettata nel caso di pazienti con un decadimento cognitivo a rapida progressione, indipendentemente dai deicit associati. 5. DIAGNoSI DI SeCoNDo LIVeLLo La diagnosi clinica è avvalorata dal riscontro di iperintensità talamiche alla RMN, di incremento dei valori di tau e della proteina 14.3.3 liquorali e di speciiche alterazioni elettroencefalograiche, che diventano sempre più evidenti nel corso della progressione della malattia (Zerr et al., 2009). 12. Conclusioni La malattia di Alzheimer rappresenta la più frequente forma di demenza dell’età senile. Accanto alle presentazioni classiche caratterizzate da un deicit della memoria episodica esistono varianti cliniche caratterizzate da un interessamento di speciiche regioni cerebrali che rendono causa di deicit diversi quali disturbi comportamentali, disturbi visivi o del linguaggio. In tutte le forme di malattia di Alzheimer la diagnosi clinica è avvalorata dalla presenza di marcatori di imaging e liquorali, meglio se associati. Questi stessi marcatori sono in grado di deinire le prime fasi della malattia di Alzheimer, in cui i deicit sono lievi e non vi è impatto sulle attività quotidiane. Oltre alla malattia di Alzheimer nelle sue varianti esistono innumerevoli forme di demenze, alcune di tipo neurodegenerativo, altre secondarie a patologie cerebrovascolari o malattie da accumulo come la malattia di Niemann-Pick tipo C. Le diverse demenze possono deinirsi in base agli speciici deicit neuropsicologici, a deicit neurologici associati ed a speciiche alterazioni dell’imaging cerebrale. Una iniziale valutazione neurologica, neuropsicologica e con imaging strutturale e funzionale, che può essere condotta nei centri di primo livello quali le UVA, è pertanto spesso già in grado di escludere nella maggior parte dei casi patologie potenzialmente trattabili e indirizzare la diagnosi verso forme speciiche. Tuttavia varianti familiari, ad esordio giovanile o con caratteristiche atipiche, meritano una valutazione in centri di secondo livello che possano eventualmente completare la valutazione con indagini liquorali o di imaging avanzate. Un’accurata diagnosi nelle fasi precoci è di fondamentale importanza per un corretto inquadramento prognostico e terapeutico dei pazienti affetti da decadimento cognitivo. Bibliografia AhmeD r.m., murphy e., DAvAgnAnAm i., pArton m., sChott J.m., mummery C.J., rohrer J.D., lAChmAnn r.h., houlDen h., Fox n.C., ChAtAwAy J. 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Introduzione Una gestione corretta delle demenze presuppone due aree fondamentali di intervento, quella clinica, diagnostico-terapeutica da una parte e quella assistenziale, di presa in carico di malato e famiglia dall’altra; tali aree si sono evolute con tempi e modalità diversi, pur essendo interconnesse. I bisogni sul versante assistenziale, i primi a cui negli anni ’90 fu data risposta in Lombardia, grazie al primo Piano Alzheimer – attraverso, ad esempio, l’avvio di nuclei Alzheimer nelle Residenze sanitarie assistenziali (RSA) e Centri diurni integrati (CDI) dedicati – hanno subito una rilevante trasformazione sia per l’incremento del numero di pazienti con diagnosi, legata all’istituzione delle Unità valutative Alzheimer (UVA) (1), sia per l’evidente necessità di un approccio speciico, allargando ai familiari ed in particolare ai caregiver la rosa degli interventi. Considerati la rilevanza della problematica ed il crescente bisogno di confronto a livello nazionale fra modelli organizzativi, approcci epidemiologici, criteri diagnostici, tipologia e qualità di unità di offerta e servizi per malati e caregiver, di seguito s’intende delineare lo scenario delle varie forme di assistenza in atto in alcuni territori, in particolare l’ASL di Brescia, ed estensibili ad altre realtà. Fra i vari elementi chiave, due in particolare sono perno essenziale del modello organizzativo di assistenza alle persone affette da demenza articolato e multifattoriale, basato su un’ampia gamma di tipologia e gradualità di intervento. Innanzitutto la presenza di un Percorso diagnostico-terapeutico-assistenziale (PDTA) dedicato, costruito con la condivisione degli addetti ai lavori, fra cui in primis le strutture per le demenze, i medici di Medicina generale (MMG) e quelli dei servizi territoriali. Il PDTA elaborato ed adottato dall’ex ASL di Brescia – dal 2016 Agenzia di tutela della salute (ATS), a seguito della riforma sanitaria regionale –, alla sua seconda edizione, è lo strumento di governo della pre- (1) Nell’ASL di Brescia durante gli ultimi 10 anni i pazienti sono raddoppiati. Fausta Podavite 6. I servizi di supporto 122 FAuSTA PoDAVITTe sa in carico di paziente e famiglia nell’intero decorso della malattia, dal sospetto al ine vita. L’altro elemento chiave è il monitoraggio costante di pazienti e tipologia di servizi da essi fruiti; ciò attraverso l’implementazione di banche dati che, benché ancora settoriali, possono essere fatte dialogare, supportando una visione circostanziale delle persone affette da demenza note al sistema sanitario. La fruibilità e lettura di tali dati, sia anagraici e relativi a prevalenza e incidenza, sia inerenti i servizi utilizzati, permette ipotesi epidemiologiche orientate in particolare verso percorsi assistenziali correlati ai bisogni dei pazienti, dei loro caregiver e delle famiglie. Sono pertanto guida ad una programmazione lungimirante, orientata verso il futuro. 2. Quadro generale di riferimento Il quadro generale di contesto demograico nell’ex ASL di Brescia evidenzia che, a fronte di una popolazione di 1.170.501 abitanti, il 20,1% è >= ai 65 anni ed il 2,8% agli 85 anni. L’incremento dal 2002 al 2012 del 32,8% degli anziani ed in particolare del 75,2% degli over 85enni conferma l’aumento dell’aspettativa di vita, che comporta un incremento delle disabilità e della non autosuficienza, fra le quali le demenze. In 13 anni nell’ASL di Brescia l’età media è aumentata di 20 mesi, traguardo di grande successo, che va accompagnato anche da politiche di adeguamento della società al suo invecchiamento ed alla cronicità. I dati del 2014 riguardanti le demenze, che di seguito vengono presentati, sono inerenti il numero di pazienti con diagnosi, le caratteristiche demograiche, la mortalità e la loro distribuzione nei servizi della rete socio-sanitaria ed in quelli innovativi. 2.1. Alcuni dati epidemiologici Per identiicare i soggetti con demenza sono state utilizzate le banche dati disponibili, nelle quali vengono registrati anche pazienti affetti da tale patologia; esse sono relative sia alla rete sanitaria che socio-sanitaria per anziani, oltre che ai piani terapeutici ed all’uso dei farmaci anticolinesterasici. La tabella 6.1 elenca le banche dati e la corrispondente numerosità dei soggetti con demenza. 6. I SeRVIzI DI SuPPoRTo Tabella 6.1 - Tipologia di banche dati e numerosità delle persone affette da demenza in carico nel 2014 presso l’ASL di brescia Banche dati N. soggetti identificati con demenza Codifiche eSeNzIoNI CoDICe eSeNzIoNe RICoVeRI oSPeDALIeRI (SDo) CoDICe DIAGNoSI ICDIX 568 13.935 SoSIA 4.898 SISA CoDICe DIAGNoSI ICDIX 3.337 VIVIDI 2.069 Pianiterapeutici Nota 85 – scheda segnalazione 1° diagnosi 5.042 Farmaceutica Codice=N06DA 3.482 La tabella 6.2 riassume le fonti utilizzate per l’identiicazione dei diversi tipi di demenza. Tabella 6.2 - Fonti utilizzate per l’identificazione dei vari tipi di demenza Esenzioni Farmaci Piani terapeutici SDO Sosia SISA VIVIDI Alzheimer X X X X X X X Altra Demenza X X X X X X X X X Tipologia pazienti Patologie compatibili a demenza I dati osservazionali costantemente aggiornati dall’ASL evidenziano nel 2014 la presenza di 15.616 pazienti con diagnosi di demenza, di cui il 75,6% con invalidità; dal 2003 al 2014 la prevalenza aumenta da 7.075 casi a 15.616 (di cui 7.796 con Alzheimer). Questo numero sale a 20.500 se si includono i pazienti con patologie compatibili a demenza. Il dato totale è presumibilmente ancora sottostimato, considerato che la diagnosi è tardiva in molte situazioni, anche se i tempi medi per giungere alla diagnosi si sono notevolmente ridotti. L’età media è superiore agli 82 anni (82,6 vs 82,4 nel 2013), con una maggiore percentuale di pazienti di genere femminile (circa il 70%). Delle tre categorie di demenza censite (Alzheimer, altre forme di demenza, patologie compatibili con demenza), vengono approfondite da anni le informazioni inerenti l’utilizzo dei servizi della rete solo per i pazienti con diagnosi di Alzheimer e di altre forme di demenza, escludendo il terzo gruppo in quanto 123 124 FAuSTA PoDAVITTe meno omogeneo (es. demenze da alcool, da droghe ecc), mentre per tutti e tre i gruppi sono stati esaminati i dati relativi a genere ed età, come da tabelle 6.3 e 6.4. Tabella 6.3 - Persone affette da alterazioni cognitive per genere, anno 2014, ASL di brescia (valori assoluti e percentuale di maschi) Tipo di alterazione cognitiva Femmine Maschi Totale % maschi Alzheimer 5.710 2.086 7.796 27% Demenza (escluso Alzheimer) 5.402 2.418 7.820 31% Patologie compatibili a demenza 2.311 2.617 4.928 53% Totale 13.423 7.121 20.544 35% Si noti come le femmine siano la netta maggioranza nelle prime due categorie (Alzheimer e demenze), ma la minoranza nelle patologie “compatibili alla demenza”. Inoltre per i primi due gruppi l’età media è molto avanzata, mentre per le patologie “afini” l’età è di circa 20 anni più bassa; tra queste ultime un quarto dei soggetti ha meno di 45 anni (tabella 6.4). È intenzione dell’ATS tracciare i percorsi anche di questi pazienti per identiicare con maggior chiarezza provenienza, patologia prevalente e servizi fruiti. Tabella 6.4 - Persone affette da alterazioni cognitive per genere ed età, anno 2014, ASL di brescia (media e distribuzione in percentili) Tipo di alterazione cognitiva Età media Distribuzione età in percentili Femmine Maschi Totale Min. 5° 25° 50° 75° Alzheimer 83,6 80,0 82,6 6,0 69,0 78,7 83,9 88,1 Demenza (escluso Alzheimer) 85,9 80,7 84,3 2,5 66,2 80,1 86,2 90,9 Patologie compatibili a demenza 68,1 57,2 62,3 0,2 20,3 45,9 66,4 80,9 Totale 81,9 71,9 78,4 – – – – – La prevalenza di Alzheimer e di altre demenze è pari a 12,8/1.000 per l’intera popolazione (IC95% 12,6-13,0), notevolmente più elevata nelle donne (17,9/1.000) rispetto agli uomini (7,5/1.000); tale differenza è però meno rilevante se standardizzata per età (14 nelle donne e 10,3 nei maschi). La prevalenza, infatti, aumenta esponenzialmente con l’avanzare dell’età (tabella 6.5): i casi sono meno di 1 per 1.000 prima dei 60 anni, mentre dopo i 90 anni ne è affetto un soggetto ogni 4. Dopo i 65 anni la prevalenza è maggiore tra le femmine. 6. I SeRVIzI DI SuPPoRTo Tabella 6.5 - Prevalenza della malattia di Alzheimer e delle altre demenze per gruppi di età e genere, anno 2014, ASL di brescia Numerosità popolazione Gruppo d’età Casi Prevalenza X 1.000 F M F+M F M F+M F M F+M 30-59 257.930 267.593 525.523 122 156 278 0,5 0,6 0,5 60-64 34.002 32.750 66.752 109 97 206 3,2 3,0 3,1 65-69 33.513 31.842 65.355 242 236 478 7,2 7,4 7,3 70-74 29.740 26.548 56.288 599 422 1.021 20,1 15,9 18,1 75-79 27.804 21.818 49.622 1.393 851 2.244 50,1 39,0 45,2 80-84 22.059 13.917 35.976 2.492 1.106 3.598 113,0 79,5 100,0 85-89 16.351 7.439 23.790 3.074 1.033 4.107 188,0 138,9 172,6 90-94 8.537 2.693 11.230 2.264 480 2.744 265,2 178,2 244,3 95-99 1.667 360 2.027 555 74 629 332,9 205,6 310,3 463 64 527 165 10 175 356,4 156,3 332,1 100 e oltre 2.2. Trend prime diagnosi e pazienti affetti da demenza nei servizi socio-sanitari Il dato relativo all’incremento della prevalenza delle demenze dal 2003 al 2014 registra un aumento in relazione al maggior numero di nuove diagnosi rispetto agli assistiti con demenza deceduti nel corso dell’anno. Infatti in media ogni anno avviene il decesso di circa il 16% di tali soggetti. Tabella 6.6 - Trend prime diagnosi, ASL di brescia Casi prevalenti Prima diagnosi Deceduti nel corso dell’anno 2003 7.072 2.193 1.154 2004 7.669 2.083 1.002 2005 8.470 2.153 1.206 2006 9.099 2.156 1.343 2007 11.620 4.154 1.894 2008 11.840 2.382 1.960 2009 12.229 2.587 2.022 2010 13.562 3.697 2.145 2011 15.058 4.081 2.362 2012 15.453 3.041 2.665 2013 15.480 3.036 2.510 2014 15.616 2.927 2.353 Anni 125 126 FAuSTA PoDAVITTe La dimensione della presa in carico territoriale dei pazienti emerge con chiarezza dai dati rilevati attraverso i Piani terapeutici, nota 85, redatti dalle Strutture per le demenze e resi disponibili on-line. Dal 2009 ad agosto 2015 le nove strutture per le demenze ubicate nell’ATS di Brescia hanno preso in carico 7.171 pazienti con Piani terapeutici ed effettuato 33.213 valutazioni e follow-up. La media annuale di persone valutate oscilla fra 1.000/1.200 pazienti, che vanno ad incrementare il numero di quelli bisognosi di interventi e servizi. Ad essi vanno aggiunti 558 pazienti con altra tipologia di demenza, censiti da luglio 2013 ad agosto 2015, iniziativa intrapresa in attuazione di uno degli obiettivi del PDTA: implementare le banche dati. Tale iniziativa permette una prima mappatura delle varie tipologie di demenza suddivise in 7 categorie, ad integrazione del numero di pazienti con Alzheimer di grado da lieve a moderato, registrato come da nota 85. Lo sviluppo di un sistema di eccellenza diviene anche polo attrattivo, come dimostrano i dati: 685 pazienti fuori ASL in mobilità in entrata verso strutture per le demenze bresciane a fronte di 213 pazienti bresciani in mobilità verso territori limitroi. Le Strutture per le demenze si sono trasformate in poli specialistici, ampliando il ruolo previsto dal Progetto Cronos, nonostante ancora a livello nazionale e regionale non sia suficientemente chiara la loro funzione, né garantita un’adeguata valorizzazione economica dell’attività. La loro presenza ha determinato il considerevole incremento delle diagnosi, nell’ultimo decennio, favorendo la precocità dell’intervento terapeutico, farmacologico, consulenziale ed assistenziale sia per il malato sia per i familiari, ed incidendo sul tessuto sociale. Sono aumentate le informazioni disponibili ed è cresciuta nei cittadini la iducia verso gli specialisti di questa branca, con una maggior accettazione emotiva della malattia. L’anticipazione dei tempi di presa in carico da parte delle strutture per le demenze ha favorito anche alcune modiiche migliorative nel paziente-tipo accolto nelle RSA: si registra, in media, una riduzione dell’intensità della sintomatologia nel paziente ed un maggior grado di consapevolezza della malattia nei familiari. I medici di RSA confermano che, pur di fronte alla complessità gestionale dei malati in struttura, i pazienti beneiciano degli esiti degli interventi che precedono l’ingresso in residenza, momento che in passato coincideva spesso con la diagnosi. Oltre ai dati relativi all’attività diagnostica delle UVA, sono strategici per la programmazione quelli relativi all’utilizzo dei servizi socio-sanitari. Il 57,4% dei pazienti con demenza (8.970 su 15.616) ha fruito nel 2014 di almeno un servizio della rete socio-sanitaria (ADI, CDI, RSA). La percentuale aumenta al 64% se si considera anche il numero di pazienti presi in carico dalle strutture per le demenze (1.032 pazienti nel 2014). Tali pazienti rappresentano, 6. I SeRVIzI DI SuPPoRTo inoltre, il 35,2% di tutti i fruitori dei servizi socio-sanitari, una percentuale di tutto rispetto che richiede accortezza nella organizzazione dei servizi per anziani, considerandone le speciiche esigenze. Fra coloro che hanno utilizzato i servizi nel corso dell’anno, in particolare 6.357 risultano avere fruito di un solo servizio, 2.158 di due servizi , 415 di tre servizi e 40 di quattro servizi, a conferma di una mobilità nell’accesso alle unità di offerta, favorita dalla rivalutazione periodica effettuata dalle UCAM (unità di continuità assistenziale multidimensionale) dell’ex ASL. Sono équipe multidisciplinari territoriali, polo di accoglienza, valutativo, autorizzativo, supporto all’accesso ai servizi per le persone non autosuficienti. La riforma sanitaria lombarda dal 2016 ha mantenuto in capo all’Agenzia di tutela della salute – ATS (ex ASL) – il ruolo programmatorio e di coordinamento di tale funzione, trasferendo le équipe valutative alle Aziende socio-sanitarie territoriali (ASST). Nel 2014 sono stati 2.615 i pazienti che hanno fruito di almeno una prestazione ADI, 761 dei CDI e 2.137 hanno beneiciato di accessi domiciliari (ADP) del MMG (tabella 6.7.). Per quanto riguarda le RSA, il 58,7% degli ospiti è affetto da demenza di cui il 23,6% ha diagnosi di Alzheimer; sono stati 5.316 gli ospiti a fronte dei 4.836 del 2013 (contati una sola volta). Tabella 6.7 - utilizzo dei servizi socio-sanitari da parte di persone affette da varie forme di demenza, anno 2014, ASL di brescia (valori assoluti e % sul totale degli utilizzatori del servizio) Tipologia servizio Cure domiciliari di varia tipologia di cui ADI di cui ass. dom. prestazionale Maschi Femmine Totale % sul totale del servizio 824 1.791 2.615 23,7 488 1.014 1.502 25,7 561 1.227 1.788 23,5 1.150 4.166 5.316 58,7 ADP_ MMG 580 1.557 2.137 25,7 NAD nutrizione artificiale 323 926 1.249 43,8 CDI (Centri diurni integrati) 218 543 761 46,1 2.231 6.739 8.970 35,2 ospiti ricoverati in RSA Almeno uno dei servizi sopra menzionati Un’indagine effettuata in ognuna delle 84 RSA a contratto ubicate nel territorio dell’ATS di Brescia, rileva la presenza di 5.652 ospiti con demenza (utenti contati più volte quando migranti fra strutture); pertanto 336 malati, di cui 142 con Alzheimer, sono transitati fra RSA diverse. Va precisato che il dato totale relativo alle persone con demenza in RSA è comunque ancora sottostimato, in quanto il sistema di classiicazione dell’ospi- 127 128 FAuSTA PoDAVITTe te per livelli di intensità assistenziale SOSIA in RSA non richiede la registrazione obbligatoria delle patologie. È pertanto necessario intercettarle nelle varie banche dati, attraverso codici per la diagnosi. La persona affetta da demenza è comunque la più rappresentata in RSA, soluzione protetta alternativa alla famiglia. Il tasso di saturazione nelle RSA del territorio dell’ATS di Brescia è del 99%, con una prevalenza di ospiti nelle classi di elevata complessità (1-3), con una media di età di ingresso di 84,37 anni; la lista d’attesa, nonostante la virtuosità di utilizzo, è di 5.260 persone. Questi dati spingono ad investire in iniziative assistenziali sempre più diversiicate e lessibili per criteri d’ingresso e livelli d’intensità, proponendo nuove soluzioni ai meno gravi. Benché il territorio bresciano sia lorido di servizi, si è ipotizzato che circa un 40% di pazienti con demenza non fruisse ancora di interventi di carattere assistenziale, rimanendo a carico di familiari e badanti. I dati relativi all’utilizzo dei servizi mostrano, in particolare, l’andamento di domanda/offerta e sono stati illuminanti nella pianiicazione di nuove iniziative avviate proprio a favore di malati che vivono a casa. Esse sono in particolare rivolte alle fasi della malattia in cui la delega assistenziale è a totale carico della famiglia. È evidente il forte ricorso alle RSA quale alternativa alla gestione familiare, ben superiore dell’accesso alle cure domiciliari, anche per la loro non adeguatezza ai bisogni speciici della malattia. Le famiglie garanti di assistenza e la gestione domiciliare di questi malati, per almeno alcuni anni di malattia, sono fra gli aspetti verso i quali si è concentrata l’innovazione di Regione Lombardia e locale. Grazie al Progetto RSA aperta regionale, avviato nel 2014, nel 2015 sono stati presi in carico nella ex ASL di Brescia ben 1.006 pazienti. Pertanto nel 2015 la percentuale dei pazienti che fruiscono di servizi socio-sanitari è salita al 63,9%, grazie alla RSA aperta, ulteriormente incrementata al 70,5% se si considerano i pazienti in carico alle strutture per le demenze in corso d’anno. Si è così raggiunto l’obiettivo di correlare le iniziative innovative ai bisogni non soddisfatti, erodendo la percentuale di coloro che ancora non beneiciavano di interventi socio-assistenziali. 3. I servizi per le persone affette da demenza fra tradizione ed innovazione Il percorso da garantire al paziente ed ai suoi familiari lungo l’intero decorso della malattia, in un contesto di continuità di cure, è il cuore del PDTA che, insieme al monitoraggio costante del quadro locale relativo alle demenze, si sono dimostrati guida eficiente nelle scelte programmatorie ed organizzativo-operative. Ciò vale anche per quanto riguarda i servizi territoriali e nell’individua- 6. I SeRVIzI DI SuPPoRTo re il numero indicativo dei malati a cui rivolgere servizi nuovi, prevalentemente orientati al sostegno della vita a domicilio negli anni della malattia che precedono l’ingresso in RSA. I due bisogni prioritari a cui stanno dando risposta le novità di intervento riguardano, in particolare, la gestione dei disturbi comportamentali ed il supporto al caregiver al domicilio, con interventi di sollievo, ma anche con il trasferimento ai caregiver di competenze assistenziali e di conoscenze speciiche sulle demenze. Complessità, numero e tipologia di bisogni che riguardano la demenza ed il lungo decorso sono elementi guida nella costruzione degli scenari futuri. I servizi consolidati come le RSA ed i CDI sono indispensabili, ma esiste una fase di bisogno familiare di aiuto che precede anche di molto l’ingresso in struttura del malato. Il PDTA bresciano è stato orientato, per questi motivi, prevalentemente verso l’innovazione e la sperimentazione di iniziative assistenziali che sostengono e danno sollievo al caregiver ed insieme migliorano il clima familiare e la qualità di vita del malato. Le iniziative e gli studi di fattibilità per dare vita a nuove iniziative in linea con i bisogni insoddisfatti sono inalizzati ad agire sulla relazione, la comunicazione, i comportamenti, le conoscenze e le emozioni di chi garantisce assistenza, per orientarli verso una maggior adeguatezza di cui beneiciano sia chi assiste che coloro che ricevono le cure. Mirano anche ad anticipare i tempi di avvio degli interventi di stimolazione cognitiva attuabili nell’ambiente di vita, quando reso adeguato alle esigenze del malato. L’ambizione è quella di agire indirettamente sul contenimento dell’intensità della sintomatologia disturbante, con l’obiettivo di una maggior qualità di vita per l’intero sistema familiare, aumentandone la tenuta inché risulta la soluzione migliore, ma preparando anche soluzioni alternative alla casa. Di seguito viene fatto cenno ai servizi tradizionali e vengono presentati i progetti innovativi sia regionali che locali. 3.1. I servizi consolidati tradizionali I CDI in Lombardia sono, dagli anni 2000, un servizio accreditato e contrattualizzato, con quota a giornata di presenza dell’anziano di 29 euro, integrata dalla retta a carico dell’ospite, (retta media di circa 26 euro, con variabilità elevata da 14 euro a 59 euro). Superata la fase di sperimentazione avvenuta negli anni ’90, Regione Lombardia ha deciso di eliminare la separazione fra CDI Alzheimer e CDI per anziani compromessi nell’autonomia, distinzione in precedenza favorita, deinendo uno standard unico per queste unità d’offerta. 129 130 FAuSTA PoDAVITTe Questa decisione ha comportato, anche in un territorio ricco di CDI quale quello bresciano (2), l’accoglienza indifferenziata dell’utenza, ad eccezione di un CDI che ha deciso di mantenere la sua speciicità per le demenze, con la presenza di educatori, e di un altro CDI dedicato a persone con demenza adiacente alla Comunità residenziale per demenze lievi. Per molti anni l’apertura dei centri a tutte le tipologie di anziani, previa valutazione dell’idoneità all’ingresso, in particolare della trasportabilità dell’ospite, si è dimostrata un elemento positivo favorente l’approccio alla demenza da parte di tutta la rete ed un ampliamento della disponibilità all’accoglienza di questa tipologia di malati, in precedenza riiutati dai servizi non dedicati alle demenze. Gli standard gestionali dei CDI, che prevedono la presenza di OSS, infermieri, riabilitatori e di alcune ore di un medico, benché l’ospite rimanga in carico al proprio MMG, garantiscono una presa in carico personalizzata ed una buona assistenza delle persone che frequentano la struttura. Per ognuna di esse viene predisposto un piano assistenziale individuale, soggetto a veriiche di appropriatezza da parte dell’ex ASL (oggi ATS). Il CDI è stato per molto tempo un servizio sottoutilizzato, con un tasso di saturazione di circa il 50% in media, mentre da alcuni anni il ricorso a queste strutture è in notevole incremento, con un tasso di saturazione passato dal 77,36% nel 2013 al ben 99% nel 2014. Ciò dimostra la maggior conoscenza del servizio da parte delle famiglie che gestiscono il proprio parente, ma anche la crescente evoluzione organizzativa del CDI, oggi in grado di offrire un qualiicato servizio di sollievo per il caregiver, non solo di custodia giornaliera, ma anche di stimolo, monitoraggio, riabilitazione e gestione dell’igiene per ogni ospite. Gli orari di apertura sono stati ampliati con esperienze di estensione al sabato, per adeguare il CDI al mutare dei bisogni familiari. Un altro aspetto interessante dei CDI è che ben il 46% degli ospiti è affetto da demenza (761 persone), di cui il 28,6% con Alzheimer (472 persone). È divenuto pertanto un altro polo della rete per anziani, essenziale nella gestione del malato e nel ritardare l’ingresso in RSA, strutture sature con lunghe liste di attesa, supportando la famiglia, afinché permanga per un tempo più lungo la disponibilità alla presa in carico domiciliare. Se nella Comunità residenziale per demenze, di cui si parlerà in seguito, l’ospite è meno compromesso che in RSA, nei CDI uno dei criteri di accoglienza è la gestibilità della persona pur di fronte a minori sistemi di tutela e sicurezza rispetto alla RSA. Si parla però di persone già in fase avanzata di malattia, che riescono a trascorrere molte ore della giornata in un ambiente socializzante e ricco (2) Vi si contano, oggi, 54 strutture accreditate di cui 51 a contratto, con 1.050 posti di cui 932 a contratto. 6. I SeRVIzI DI SuPPoRTo di stimoli, permettendo ai familiari di mantenere le loro occupazioni, anche lavorative. Va sottolineato che di recente si sta assistendo ad una controtendenza, che sta portando alla riapertura di alcuni CDI dedicati alle persone affette da demenze; interessante l’esperienza di RSA gestori dei CDI di due tipologie, per anziani e per demenze. Questa nuova iniziativa è supportata dal desiderio di rendere sempre più innovative e mirate le iniziative a favore delle persone affette da demenza, introducendo nuove tecniche di gestione dei disturbi comportamentali in ambienti dedicati e specializzati. Risponde anche però all’insofferenza che gli altri anziani, già di per sé compromessi, manifestano spesso verso i malati di demenza quando costretti a tempi lunghi di permanenza nello stesso ambiente. Non sono ancora disponibili, ad oggi, informazioni suficienti per poter valutare la portata e la validità di tale fenomeno. L’altro perno della rete tradizionale, il principale, sono le RSA. Nell’ex ASL di Brescia sono presenti 15 Nuclei Alzheimer con 300 posti letto, su 84 RSA a contratto per 6.564 posti letto autorizzati, di cui 6.228 accreditati e solo 6.105 a contratto. Nonostante questi numeri elevati, la lista di attesa, che per alcuni anni si era assestata sulle 4.000 persone, è passata dalle 4.384 nel 2013 alle 5.260 persone nel 2014. È comprensibile che i Nuclei Alzheimer oggi svolgano una funzione ben diversa dal passato, quando erano l’unico luogo di accoglienza di persone con demenze. A fronte di 300 posti letto, il numero di ospiti in RSA con demenza è di 5.316, una necessità pertanto l’apertura di tutte le RSA alla loro accoglienza. Ciò ha comportato modiiche organizzative inerenti i sistemi di sicurezza, le attività ed in particolare la formazione del personale per la gestione dei disturbi comportamentali, oltre che per un uso intelligente e ridotto della contenzione. Non tutte le strutture hanno raggiunto standard qualitativi dello stesso livello, per diversità di dimensione (numero posti letto), storia, investimento formativo, interesse verso le demenze. Il minimo comune denominatore raggiunto è un buon grado di assistenza ed accudimento, la diversità riguarda l’innovazione, la specializzazione, la sperimentazione, patrimonio di RSA con risorse e competenze adeguate all’obiettivo di un’assistenza speciicamente rivolta alle persone affette da demenza. In Italia la letteratura in questo campo è carente e gli operatori e gestori di RSA sono poco abituati a tradurre in metodologia esperienze quotidiane di valore. Vanno favorite pertanto iniziative che permettano la conoscenza diffusa di esperienze positive e propongono metodologie esportabili. 3.2. Servizi innovativi Si tratta di servizi concepiti per far fronte ad un bisogno spesso ancora sommerso delle famiglie di persone affette da demenza, di sostegno nell’assistenza e 131 132 FAuSTA PoDAVITTe nella gestione del proprio parente al domicilio o come soluzione residenziale alternativa alla casa, quando la famiglia è insuficiente o assente e risulta prematuro un ingresso in RSA. Per raggiungere queste situazioni sono state necessarie precise strategie, coinvolgendo anche attori capillari del sistema. I dati dimostrano gli esiti di questa campagna: 274 persone in carico alla RSA aperta nel 2014, 1.006 nel 2015. Il bisogno di sostegno e sollievo dei caregiver è rimasto per molto tempo senza una risposta qualiicata, in parte a causa dell’inadeguatezza delle cure domiciliari (ADI), inadatte alla gestione dei disturbi comportamentali e dei sintomi da decadimento cognitivo che richiedono orientamento, sostegno e formazione nei confronti del caregiver per una modalità assistenziale maggiormente aderente alle necessità. L’introduzione in Lombardia della RSA aperta, era stata preceduta nell’ex ASL di Brescia dalla sperimentazione di interventi di assistenza tutelare ed educativa a domicilio, inanziata con il Fondo per la non autosuficienza. Un test per valutare un modello di approccio globale al contesto familiare, ai ini della tenuta di quest’ultimo, per renderla più duratura e meno pressante. Di fatto è stato dimostrato che interventi psicoeducativi e tutelari, rivolti contestualmente a malato, caregiver ed ambiente, migliorano la qualità sia della cura sia della vita. I 251 pazienti arruolati sono stati presi in carico per un periodo di sei mesi, con follow-up successivi. Di essi, il 55% era affetto da Alzheimer con un’età media di 78,43 anni. Un approccio psico-pedagogico-educativo ed orientativo a favore del caregiver, oltre che all’intensità dei sintomi del malato, ha inluito sul grado di stress del caregiver, riducendone l’intensità (somministrazione test RSS ad inizio e ine intervento). Le tre igure coinvolte sono state l’OSS, lo psicologo e l’educatore. Il tempo medio dell’intervento ha anche dimostrato che, pur con proili di media o bassa intensità assistenziale, è possibile garantire una “spinta evolutiva” al contesto familiare, indirizzandolo verso sistemi relazionali e comportamentali più soddisfacenti e stabilendo canali di comunicazione con operatori di riferimento. La RSA aperta La RSA aperta è ancora attiva a distanza di due anni dall’avvio, sostenuta attraverso fondi dedicati (3). Gli erogatori del servizio sono RSA che, già accreditate e contrattualizzate, sottoscrivono uno speciico contratto con l’ATS al ine di prendere in carico pazienti con demenza che vivono al proprio domicilio. Gli in- (3) All’ASL di Brescia nel 2015 sono stati assegnati circa 3 milioni di euro. 6. I SeRVIzI DI SuPPoRTo terventi, tutelari, psico-educativi, specialistici, riabilitativi, di sollievo, rivolti al paziente od orientati a sostenere il caregiver, sono realizzabili sia a casa sia presso la RSA in regime diurno. Il fruitore è libero di scegliere la RSA fra la rosa di quelle che hanno aderito al progetto. Sono previsti tre voucher corrispondenti a tre proili assistenziali di bassa/ media/alta intensità, che danno diritto alle varie prestazioni: • Il Proilo 1, di bassa intensità, del valore di 350 € al mese, prevede prestazioni anche di singoli professionisti (ASA/OSS ed educatore, ecc.), inalizzate ad integrare/sostituire il lavoro del caregiver. Questo proilo può includere la valutazione della situazione ambientale e familiare da parte di una igura professionale ed interventi di care management. • Il Proilo 2, di media intensità, del valore di 500 € al mese, prevede prestazioni in genere di più igure professionali inalizzate ad esempio all’addestramento del caregiver (es. tecniche di assistenza nelle ADL, gestione dei disturbi comportamentali ecc). Questo proilo può includere la valutazione ed interventi di care management. • Il Proilo 3, di alta intensità, del valore di 700 € al mese, prevede prestazioni a maggiore intensità assistenziale, con carattere continuativo o di lunga durata, erogate da più igure professionali, inalizzate ad una maggiore integrazione con altri servizi sociali e sociosanitari. Questo proilo può includere una eventuale valutazione anche complessa ed interventi di care management anche intenso. I destinatari sono persone con diagnosi di demenza (malattia di Alzheimer o altra forma) a cura dello specialista, con una documentata fragilità della rete di supporto familiare e/o sociale (test RSS al caregiver-punteggio necessario > 31). L’accesso a tale misura è subordinato all’esito della valutazione multidimensionale dei bisogni effettuata dalle équipe multidisciplinari, Unità di continuità assistenziale multidimensionale (UCAM) pubbliche, autorizzative dell’intervento, in collaborazione con MMG, specialisti e operatori sociali dei comuni. L’esito della valutazione è inserito in un Progetto individuale contenente le indicazioni inerenti la situazione sociale e sanitaria, le informazioni utili alla “costruzione” del budget di cura, gli obiettivi, Proilo/i e durata del voucher, le prestazioni/interventi proposti e le igure professionali necessarie. Innovativo è il concetto di budget di cura, che deinisce, nel numero e nel valore economico, tutti gli interventi in atto per il soggetto in carico, indipendentemente dall’ente che lo eroga e inanzia; una visione complessiva ed integrata delle azioni messe in atto sul singolo caso, orientata a garantire equità nelle forme di tutela e sostegno assicurate ai cittadini. Le principali prestazioni erogabili con la misura RSA aperta sono così riassumibili: 133 134 FAuSTA PoDAVITTe • valutative, inalizzate all’inquadramento del contesto ambientale, delle risorse presenti, delle condizioni effettive dell’utente; • di intervento: integrazione/sostituzione temporanea/addestramento del caregiver; a carattere educativo/socializzante; di dialogo ed accompagnamento inalizzati al mantenimento dell’autonomia della persona; di stimolazione cognitiva e di sostegno per i disturbi comportamentali. Il Progetto individuale (PI), condiviso dai vari operatori coinvolti nella valutazione, viene tradotto in un Piano assistenziale individuale (PAI) da parte della RSA scelta dall’utente e/o dai familiari del soggetto richiedente l’intervento. Il PAI ha una durata lessibile in relazione a quanto previsto nel PI, pertanto può essere composto da un’unica tipologia di pacchetto mensile o da diverse tipologie ino a raggiungere il valore del voucher assegnato. Può essere rivisto nel corso dell’intervento, ma sempre coerente con il PI e condiviso con utente/famiglia/ caregiver. Nel PAI vengono fornite indicazioni in merito a care manager, obiettivi, descrizione del pacchetto di prestazioni mensili previste per l’utente, igure professionali impiegate e numero di ore. I pacchetti, con valore economico, consentono di modulare gli interventi sulla reale dinamicità dei bisogni delle persone e delle famiglie, benché sempre entro il budget di cura previsto dal PI. Per meglio comprendere i pacchetti, di seguito vengono proposti tre esempi: a) Proilo 1: bassa intensità Figure professionali: solitamente ASA/OSS ed educatore, assistente sociale, medico (es. geriatra, neurologo), psicologo. Le prestazioni vengono in genere effettuate da singoli professionisti per periodi anche di lunga durata; il pacchetto può includere una valutazione iniziale da parte di igura professionale qualiicata, quale il geriatra. Nel proilo possono essere previste attività quali valutazione, sostituzione temporanea del caregiver, integrazione del lavoro assistenziale, compagnia, ascolto, orientamento, sostegno alla famiglia nel processo di cura. Esempio di pacchetto mensile corrispondente: Attività Valutazione semplice Professionalità Medico N. accessi Costo teorico 1 accesso mensile € 81,00 Integrazione del lavoro ASA/oSS del caregiver Accessi variabili per un totale di 12 ore mensili € 252,00 Care management leggero 1 contatto telefonico ogni 15 giorni € 14,00 Assistente sociale educatore b) Proilo 2: media intensità Figure professionali: solitamente ASA/OSS ed educatore, assistente sociale, medico (es. geriatra, neurologo), psicologo. 6. I SeRVIzI DI SuPPoRTo Le prestazioni in genere richiedono maggiore integrazione professionale e sono effettuate da più professionisti; il pacchetto può includere anche una valutazione complessa da parte di igura professionale qualiicata e prevedere luidità di gestione degli accessi. Nel proilo possono essere previste attività di valutazione multiprofessionale, di addestramento del caregiver, di riabilitazione cognitiva, di care management. Esempio di pacchetto mensile corrispondente: Attività Professionalità N. accessi Costo teorico Valutazione complessa Medico Infermiere Assistente sociale 1 accesso mensile € 162,00 Interventi di stimolazione cognitiva educatore Accessi variabili per un totale di 13 ore mensili € 312,00 Care management a media intensità educatore Assistente sociale Contatto telefonico, visita domiciliare ogni 15 giorni € 41,00 c) Proilo 3: alta intensità Figure professionali: solitamente ASA/OSS ed educatore, assistente sociale, medico (es. geriatra, neurologo), psicologo. Le prestazioni in genere richiedono il coinvolgimento di più igure professionali, sono di lunga durata, di maggiore intensità assistenziale e prevedono anche maggiore integrazione con altri servizi sociali, socio sanitari e sanitari. Nel proilo possono essere previste attività di valutazione multiprofessionale complessa, integrazione di maggiore intensità del lavoro tutelare, con coinvolgimento di mix professionali speciici, interventi di sostegno alla famiglia, attività integrative in RSA/CDI. Esempio di pacchetto mensile corrispondente: Attività Valutazione complessa Professionalità Medico infermiere Assistente sociale N. accessi Costo teorico 1 accesso di 2 ore € 162,00 Integrazione del lavoro ASA/oSS del caregiver Accessi variabili per un totale di 22 ore mensili € 462,00 Care management ad alta intensità Contatto telefonico settimanale, visita domiciliare ogni settimana € 81,00 educatore Assistente Sociale 135 136 FAuSTA PoDAVITTe I tre proili assistenziali previsti dalla RSA aperta nel 2015 sono stati equamente utilizzati, con una lieve prevalenza del proilo 1, il più basso. Fruitori e tipologie richieste L’incremento del numero di richieste di accesso alla RSA aperta è stato favorito dalle azioni di informazione attuate nei confronti delle famiglie, oltre che da parte delle UCAM, dai MMG e dalle Strutture per le demenze, importanti proponenti del servizio ai propri assistiti. I due attori citati sono divenuti pertanto veicolo di informazione e di primo orientamento, attraverso percorso e strumenti, criteri di eleggibilità e schede di segnalazione comuni, costruite dal Dipartimento attività socio-sanitarie integrate dell’ATS. La rete di collaborazioni e alleanze, costruita grazie al PDTA dedicato, risulta funzionale in vari contesti, grazie alla condivisione di informazioni e progetti ed alla chiarezza del ruolo speciico che ognuno gioca nel sistema complessivo. Nel 2015 si è registrato un incremento di disponibilità da parte delle RSA a partecipare alla realizzazione della RSA aperta, sottoscrivendo il contratto in 41, a fronte delle 37 del 2014, sul totale delle 84 RSA contrattualizzate. Le iniziative innovative sono occasione formativa e di stimolo anche per enti ed operatori chiamati a misurarsi con aree di lavoro nuove, che facilitano ad esempio l’impiego del personale a rotazione e su base motivazionale. La messa in atto di un nuovo progetto dev’essere sempre preceduta ed accompagnata da iniziative informative, formative e di confronto che ne garantiscano piena comprensione e condivisione, anche di obiettivi strategici, inalità, strumenti, processi di valutazione e veriica. Dei 1.006 anziani che hanno avuto accesso alla RSA aperta, 829 sono affetti da demenza, di cui 398 Alzheimer e 431 da altre forme, mentre 183 sono anziani non autosuficienti ultra 75 enni, come previsto dalle regole regionali dal 2015 che hanno dato accesso alla RSA aperta anche a questa categoria di persone. La richiesta prevalente, però, riguarda proprio coloro che, affetti da demenza, vivono al domicilio, assistiti da caregiver familiari e/o privati. L’età media degli utenti con demenza è di 82,66 anni, mentre sale a 84,78 negli over 75; pertanto anche nei nuovi servizi per anziani, come per il resto della rete socio-sanitaria, gli utenti hanno un’età media superiore agli 80 anni. La somministrazione iniziale del test RSS per la rilevazione del grado di stress ai caregiver dei pazienti per l’accesso alla RSA aperta evidenzia una media di punteggio di 51,69; nello speciico è di 52,58 in caso di Alzheimer, di 51,22 in caso di altre forme di demenza e scende a 49,95 nelle situazioni di anziani non autosuficienti over 75 anni. Uno studio effettuato sulla igura del caregiver inerente in particolare al grado di stress presente al momento dell’avvio dell’intervento in tre iniziative 6. I SeRVIzI DI SuPPoRTo dell’ex ASL di Brescia – Empowerment del caregiver con condivisione del progetto di assistenza domiciliare, Scuola di assistenza familiare e la RSA aperta – ha evidenziato signiicative differenze fra i tre gruppi. La media del grado di stress rilevato nei partecipanti al progetto Empowerment è di 38,92, mentre nella scuola di assistenza familiare è di 38,32, confermando che i livelli più alti sono presenti in coloro che assistono persone affette da demenza, poiché la gestione di tali pazienti è più impegnativa ed agisce sullo stato emotivo in modo ancor più signiicativo che di fronte ad un anziano o malato con problematiche di altra natura. La igura 6.1 riassume le igure professionali maggiormente impiegate nella RSA aperta, in testa l’ASA/OSS, a seguire infermiere ed educatore; vengono impiegati inoltre anche lo psicologo e il isioterapista. Figura 6.1 - Figure professionali coinvolte nell’erogazione della RSA aperta Gli esiti della valutazione dell’équipe per la formulazione del Progetto individuale per l’avvio della RSA aperta evidenziano una maggior frequenza di bisogno rilevato da parte degli operatori di coinvolgimento di psicologo ed educatore, ma una inferiore disponibilità dei caregiver ad accogliere tale intervento, poiché professionisti meno noti nel contesto dell’attività domiciliare. Gli esiti dei loro interventi invece, quando attuati, risultano graditi e signiicativi. La tipologia di prestazioni maggiormente richieste ed erogate è rappresentata da interventi di aiuto per l’igiene personale/bagno, ma anche per forme di sollievo a domicilio con sostituzioni temporanee del caregiver. Elevati sono gli interventi di case manager, collegamento fra famiglia e servizi, oltre che quelli specialistici. Basso è invece il ricorso a forme di ricovero di sollievo in struttura, poiché l’onere dei costi aggiuntivi è a carico della famiglia. L’introduzione della RSA aperta nel sistema delle Unità di offerta è risultata di grande utilità, poiché prettamente rivolta alla fascia di utenza che ancora non 137 138 FAuSTA PoDAVITTe beneiciava di servizi mirati, continuando a vivere a casa anche dopo la diagnosi di demenza. La rivalutazione periodica degli utenti garantita dalle équipe per la valutazione multidimensionale, e la partecipazione dello psicologo ai processi valutativi, sta favorendo una lettura dei bisogni più pertinente ed approfondita, consentendo l’erogazione di prestazioni maggiormente mirate alle speciicità della malattia. Il servizio, interessante ed esportabile nel modello, è risultato particolarmente gradito alle famiglie che ne hanno sino ad oggi fruito, uscite dall’isolamento, rassicurate e supportate nel loro impegno assistenziale. Pertanto è un’area meritevole di sviluppo anche a livello nazionale. 4. La Comunità residenziale per persone affette da demenza lieve Benché le persone con demenza che vivono al proprio domicilio ricevano oggi, in alcune realtà italiane quali la Lombardia, prestazioni più adeguate (come sottolineato per la RSA aperta) sarebbe fuorviante ritenere che la deistituzionalizzazione possa avvenire solo attraverso la domiciliarità. Va infatti considerato che nei prossimi anni gli anziani ed i malati che potranno ricevere le cure a casa propria saranno i “privilegiati”, poiché avranno conservato affetti e presenza di familiari anche in età avanzata. Il problema della solitudine, che va affacciandosi in maniera consistente, ha un forte impatto sul sistema di supporto, ma anche sul quadro clinico, oltre che sul versante emotivo. In questo scenario emerge il bisogno di dare vita a forme abitative e di residenzialità nuove, lessibili, accoglienti, sostitutive della casa, ma meno “totalizzanti” delle strutture protette. L’ex ASL di Brescia ha avviato dal 2010 la sperimentazione di comunità residenziali rivolte ad anziani moderatamente compromessi nell’autonomia, i cui esiti risultano assai positivi. Come naturale proseguimento di questi progetti si è ritenuto utile sperimentare e monitorare anche un modello di comunità dedicato a persone nella fase iniziale della demenza, quale risposta all’insuficiente o assente supporto familiare, oltre che alla riduzione della solitudine, a fronte di un incremento di stimoli quotidiani che la vita in gruppo con personale di supporto può offrire. La grande dimensione, ancora in crescita, del numero di persone affette da demenza rende insuficienti, per tipologia oltre che per capacità ricettiva, le unità d’offerta attuali (domiciliari, diurne e residenziali in RSA). La fascia critica dei malati che non trovano risposta adeguata né al domicilio né in RSA è identiicata nei pazienti che, in carico alle strutture per le demen- 6. I SeRVIzI DI SuPPoRTo ze, continuano a vivere nella propria abitazione, ma che richiedono già qualche forma di supporto, protezione e vigilanza. Due sono i fattori prioritari che sostengono la scelta di creare sperimentalmente Comunità residenziali dedicate a persone con demenza: a) la notevole evoluzione nella capacità diagnostica e l’anticipazione dei tempi di diagnosi, che hanno evidenziato un numero assai elevato di anziani con demenza, non così gravemente compromessi da richiedere l’inserimento in RSA, ma con necessità di “vigilanza”, oltre che di supporto; b) l’aver appurato che non è praticabile una convivenza in Comunità residenziale fra anziani lievemente o moderatamente compromessi nell’autonomia e persone con decadimento cognitivo e disturbi comportamentali, per dificoltà di accettazione da parte dei primi. La Comunità residenziale per persone affette da demenza lieve mutua da quelle per anziani aspetti organizzativi, strutturali e gestionali (4), ma si basa su speciici criteri di valutazione ed accettazione degli ospiti, di monitoraggio e dimissione, oltre che di gestione della quotidianità. In particolare la Comunità residenziale si rivolge a persone affette da Mild Cognitive Impairment (MCI) e da demenza lieve, le cui necessità di supervisione e di supporto nelle attività quotidiane (compiti che coinvolgono la sfera cognitiva e lo stato funzionale) vengono abitualmente soddisfatte da familiari, amici, vicini di casa, badanti. I criteri di ammissione o esclusione dei malati di demenza di grado lieve riguardano cognitività, disturbi di comportamento e funzioni (Tabella 6.8). Tabella 6.8 - Criteri e strumenti di idoneità per l’ingresso nella Comunità residenziale Cognitività: malati con diagnosi di Mild Cognitive Impairment e demenza lieve (MMSe fra 30 e 18/30) Disturbi comportamentali: apatia e depressione (esclusa bPSD, uCLA-NPI), aggressività, vagabondaggio, ecc. Funzioni: una persa (fare il bagno) + aiuto in altra funzione, IADL-bADL perse CIRS: per valutazione comorbilità (sino a moderata) Per quanto riguarda la cognitività, possono venire ricoverati i malati con diagnosi di MCI e demenza lieve (MMSE compreso tra 30 e 18/30; Clinical Dementia Rating: da 0.5 a 1). La persona non deve inoltre presentare disturbi psico-comportamentali (BPSD) rilevanti (es.: aggressività, wandering, disturbi sonno/veglia). Un’eccezione può essere rappresentata solo da apatia e depressione (UCLA-NPI: < 18/144). Sono inseribili nella comunità persone che hanno perso (4) Per approfondimenti si rimanda al sito web www.ats-brescia.it/ > Cittadini > Anziani e non autosuficienti > Comunità residenziali per anziani. 139 140 FAuSTA PoDAVITTe una sola funzione di base della vita quotidiana (fare il bagno, in quanto è la prima funzione persa), oltre ad un’altra funzione compromessa, che però richieda solo supervisione (p.e. vestirsi o lavarsi). In questa tipologia di Comunità residenziale viene dato particolare valore all’ambiente, organizzato in modo da ridurre il rischio di confusione e disorientamento (luci, colori, illuminazione, segnaletica interna). Gli spazi comuni sono il luogo privilegiato dello scorrere delle giornate, oltre alla possibilità di uscire, accompagnati o sorvegliati a seconda della situazione della persona, ridando alla camera da letto la sua dimensione notturna e del riposino pomeridiano, a differenza di quanto solitamente accade nelle strutture protette, considerata la tipologia di ospiti che accolgono e le loro grandi dimensioni. Benché la comunità sia aperta, rimane alta l’attenzione alla sicurezza per gli ambienti a rischio (ascensori, scale, ingressi). La Comunità residenziale offre una soluzione abitativa temporanea ai malati affetti da demenza lieve, sia per un periodo di tempo transitorio, in attesa di una riorganizzazione del ritorno al domicilio, sia per un periodo medio-lungo ipotizzato in 6-12-24 mesi, ritardando l’ingresso in RSA. Intende essere una risposta qualiicata, protettiva ed economicamente sostenibile al bisogno di un ambiente di vita adatto alla persona affetta da demenza, valida alternativa alla vita a domicilio non sempre praticabile dalle famiglie. Per economica si intende che il Progetto che l’ex ASL ha elaborato sottolinea anche il rispetto dell’equilibrio costi/beneici, proponendo l’applicazione di una retta contenuta, tendenzialmente inferiore a quella media delle RSA del territorio, benché disponga di un numero esiguo di posti letto. Le funzioni della Comunità sono prevalentemente di tipo assistenziale, in sostituzione della famiglia; assume pertanto un ruolo signiicativo il coordinatore, che deve essere igura esperta di gestione delle relazioni e di organizzazione dei servizi. La richiesta di ingresso in struttura può essere motivata da condizioni di isolamento sociale (assenza di familiari, o loro presenza così limitata da non “coprire” i bisogni ed i tempi di supervisione), o dal venir meno dei sistemi di supporto e controllo familiare (malattia o decesso del principale caregiver). Anche condizioni di tipo clinico o funzionale possono determinare la necessità di un supporto residenziale, seppur per un periodo temporaneo. I punti chiave che qualiicano la Comunità residenziale sono le fasi di ammissione, monitoraggio e dimissione dell’ospite. La diagnosi certiicata di demenza, a cura delle Strutture per le demenze, e la valutazione multidimensionale delle équipe multidisciplinari sono la premessa all’ammissione. Particolare attenzione viene dedicata alla deinizione del grado di compromissione clinica, funzionale e comportamentale del paziente, per persegui- 6. I SeRVIzI DI SuPPoRTo re la massima personalizzazione degli interventi, anziché rispondere meramente al bisogno di “custodia”. La valutazione pre-ingresso da parte dell’équipe multidimensionale, successiva alla diagnosi, è inalizzata a rilevare anche altri aspetti, psicologici, sociali, motivazionali e relativi al contesto familiare. Il monitoraggio dei pazienti è un altro momento fondamentale, non solo per garantire un servizio adeguato ai bisogni, ma anche per veriicare la persistenza dei requisiti indispensabili alla permanenza in Comunità. Sono state pertanto previste rivalutazioni semestrali e/o al bisogno da parte dell’équipe multidisciplinare e della Struttura per le demenze di riferimento, anche per la pianiicazione di eventuali dimissioni quando sopraggiunge un aggravamento che rende incompatibile la situazione della persona con la vita in Comunità residenziale. In questo caso l’anziano viene accompagnato, con dimissione protetta, verso altro servizio più idoneo, di solito la RSA. Questo progetto favorisce la vita in comunità di un gruppo di persone affette da deicit cognitivo, ma in grado di esprimere il proprio consenso per il trasferimento in essa e per permanervi. Persone capaci di una vita ancora parzialmente autonoma all’interno ed all’esterno (pur con facilitazioni), bisognose prevalentemente di interventi di supporto per l’esecuzione delle terapie, di accompagnamento nelle varie fasi della giornata, di controllo nelle normali attività della vita quotidiana, di prevenzione degli eventi clinici intercorrenti. Di fatto, la struttura si pone l’obiettivo di garantire una vita nell’ambito della comunità che possa essere di soddisfazione per gli ospiti e le loro famiglie. Il monitoraggio dei vari processi in atto per la funzionalità della struttura, oltre che del quadro globale degli ospiti, è una garanzia per la puntuale veriica del progetto. In particolare, degli ospiti vengono valutate le funzioni cognitive (MMSE, CDR), i disturbi del comportamento (UCLA NPI) e lo stato funzionale (IADL e BADL: funzioni perse), cui si deve aggiungere una valutazione puntuale della comorbilità (scala CIRS) per escludere malati con elevato carico medicoinfermieristico. I dati rilevati attraverso il monitoraggio sono buoni indicatori del quadro generale dell’ospite (stabilità clinica, funzioni e cognitività) e del grado di protezione necessario (numero attivazioni ADI, ADP, SAD, MCA, numero di visite al Pronto soccorso, numero di ricoveri ospedalieri durante la degenza). La responsabilità della salute degli ospiti rimane in carico al MMG, garante del monitoraggio del proprio assistito attraverso accessi almeno settimanali programmati, fondamentali per tutelare la stabilità del quadro globale, prevenire un possibile aggravamento e ridurre le chiamate a carattere di urgenza. Gli interlocutori privilegiati per la realizzazione della Comunità residenziale sono coinvolti già nella fase della progettazione e dell’avvio: oltre all’ATS quale regista del progetto complessivo, il comune di ubicazione, l’Assemblea dei sindaci, l’ente gestore, oltre alle ASST dal 2016 per la funzione di valutazione e rivalutazione degli ospiti. 141 142 FAuSTA PoDAVITTe Appare chiaro che, se aspetti strutturali ed ambientali, localizzazione ed operatori sono facilmente considerabili elementi chiave del Progetto, ancor più determinanti sono i sistemi di collegamento e supporto riguardanti attori esterni alla struttura stessa. Insieme agli aspetti alberghieri ed assistenziali, la diagnosi ed il riferimento specialistico per gli aspetti clinici, il processo di valutazione e rivalutazione e la responsabilità del MMG di gestione del proprio assistito all’interno della Comunità residenziale sono tutti elementi chiave che supportano la vita stessa della struttura. La prima comunità dedicata alle demenze è stata inaugurata a metà del 2014 con 14 posti letto, occupati in breve tempo, confermando il bisogno di soluzioni abitative di nuova concezione. Sono presenti 4 ASA a rotazione, 1 coordinatore part-time ed alcune ore settimanali di altre igure, scelta dell’ente gestore: 8 di infermiere, 5 di educatore e 5 di isioterapista. Gli ospiti hanno un’età media di 82,36 anni e sono prevalentemente donne; presentano una media di 4-5 patologie. Il 54,5% degli ospiti presenta un grado di compromissione funzionale da lieve a moderato, ma è possibile anche la gestione di alcune persone con una compromissione di grado più elevato. La perdita totale di autonomia è però motivo di rivalutazione e proposta di servizio più adeguato. Inoltre il 40% degli ospiti presenta un grado di decadimento cognitivo da lieve a moderato. Le dimissioni sono avvenute per 6 ospiti, di cui 3 inseriti in RSA, 1 rientrato a casa e 2 decessi. Il tempo medio di permanenza è incoraggiante: 1 ospite è inserito dall’apertura della Comunità ed 8 da oltre 365 giorni. Le motivazioni all’ingresso sono la carenza/assenza di supporto famigliare. Vari sono i punti di forza del servizio. Il primo riguarda la partnership fra strutture per le demenze, équipe per la valutazione multidimensionale, MMG, comune e gestore della Comunità residenziale, in sintonia con l’ATS che coordina i lavori, ognuno con un ruolo preciso, per speciiche competenze, intervenendo non solo nella valutazione, ma anche per la eventuale attivazione ed erogazione dei servizi aggiuntivi a favore degli ospiti. Ad oggi è stata confermata la sostenibilità dell’ipotesi che persone affette da demenza, con alcune speciiche caratteristiche, potessero vivere con dignità e sicurezza in un luogo meno protetto della RSA, comunitario, di piccole dimensioni con personale adatto all’assistenza. 5. La scuola di assistenza familiare Come appare chiaro, le famiglie sono ancora oggi un perno essenziale del sistema di welfare, imprescindibile per la sopravvivenza del sistema stesso. 6. I SeRVIzI DI SuPPoRTo Le pratiche assistenziali sono divenute da tempo più complesse e onerose sia per l’incremento degli anni di sopravvivenza alle malattie croniche ed invalidanti, sia per le condizioni cliniche e generali della persona malata, prevalentemente anziana. Anche i familiari e non solo i pazienti sono pertanto meritevoli di attenzioni attraverso varie forme di sostegno, sia formative-educative che di supporto e sollievo, ma si auspica per il futuro anche economiche. Tutte azioni volte a potenziare la tenuta emotiva del caregiver e dell’intero nucleo e la dimestichezza nelle pratiche assistenziali, che divengono particolarmente stressanti quando la persona da assistere è affetta da demenza. Nel sistema attuale di presa in carico multidimensionale e globale, la famiglia assume un ruolo chiave e l’accompagnamento da parte degli operatori del sistema sanitario e socio-sanitario durante il decorso della malattia diviene funzione essenziale. La gestione di persone con patologie complesse come la demenza ha evidenziato il bisogno dei familiari di orientamento e supporto per affrontare la rapida evoluzione dei bisogni. Malato e famiglia divengono attori delle scelte da effettuarsi, supportati e guidati, per tutto il percorso di malattia. All’operatore, anche quando specialista, viene richiesta, oltre alla competenza professionale in senso stretto, anche la capacità di mettersi in gioco nella relazione di “cura”, con valenza anche “educativa”. Il carico assistenziale determina frequentemente un elevato livello di stress in coloro che assistono, legato alla fatica isica e all’impatto che la malattia cronica, la non autosuficienza, la demenza determinano nei rapporti interpersonali, per il modiicarsi dei ruoli e delle modalità di espressione affettiva tra malato e caregiver. L’abitazione è il luogo privilegiato in cui erogare assistenza, fatto che presuppone l’esistenza di una famiglia che si fa carico della situazione e che si assume la responsabilità del prendersi cura. Interventi di aiuto e supporto nel modulare il carico assistenziale e nel condividere e gestire le emozioni e dificoltà hanno come effetto un contenimento della situazione, una maggior tenuta ed il proseguimento nella gestione domiciliare. Di fatto i familiari dimostrano un grande bisogno di supporto nella gestione delle emozioni e degli affetti, fondamentali per reggere il carico della situazione. La Scuola di assistenza familiare è un’iniziativa dell’ex ASL di Brescia nata nel 2006 ed ancora in attività, realizzata attraverso corsi informativo/formativi articolati in circa 6 incontri, organizzati in stretta collaborazione con altri enti e unità d’offerta della rete. I corsi sono gestiti da professionisti ASL che operano nel settore, con il coinvolgimento di MMG e specialisti e sono volti a favorire nelle persone impegnate nella cura di un congiunto l’acquisizione di: 143 144 FAuSTA PoDAVITTe • indicazioni su come orientarsi nei servizi del territorio, per rendere più chiara e mirata la richiesta di aiuto e facilitare l’accesso ai servizi; • conoscenze speciiche rispetto alle patologie croniche, con particolare riferimento al processo di invecchiamento, per garantire maggior dimestichezza con i problemi della disabilità; • strumenti per migliorare l’approccio alla malattia, al malato e meglio gestire le dinamiche relazionali esistenti nell’ambito familiare, dando senso ai comportamenti adottati di fronte alla malattia; • consigli pratici su come gestire gli ausili e comportarsi nei confronti del familiare non più autosuficiente, nel soddisfare i bisogni della vita quotidiana, quali l’alimentazione, l’igiene personale e la mobilizzazione; • indicazioni di comportamento per l’organizzazione degli spazi e per rendere la comunicazione e la modalità di relazione adeguata alle persone affette da demenza, che richiedono un intenso impegno di tutela. La consapevolezza delle caratteristiche della malattia aumenta la capacità di far fronte ai comportamenti ed al modo di comunicare del malato, decodiicandone i bisogni. I corsi monotematici più graditi, realizzati quando il gruppo di partecipanti è omogeneo, sono quelli dedicati al tema delle demenze, con un grado di soddisfazione elevato in tutti i partecipanti. Un ruolo particolare hanno assunto gli psicologi nella realizzazione dei corsi per i familiari, in qualità di tutor, oltre che di docenti e facilitatori nella gestione del gruppo dei partecipanti e di supporto nell’avvio di gruppi di mutuo auto-aiuto. L’innovatività del progetto riguarda la sua inalità generale che consiste nell’accrescere il livello culturale e di consapevolezza, aumentare le conoscenze e la strumentalità, ma, innanzitutto, far sentire le famiglie meno sole, maggiormente guidate, riconosciute nella loro dificoltà e nella sofferenza, oltre che nell’impegno, afinché possano reggere meglio il carico assistenziale. Ancor più ambizioso è l’obiettivo relazionale, fondamentale per le demenze: contenere la sintomatologia disturbante, ridurne l’intensità grazie all’adozione di comportamenti e modi di comunicare atti allo scopo. Il desiderio è quello di favorire la costruzione di alleanze fra familiari, amici e vicini e le unità di offerta del territorio. L’isolamento sociale in cui spesso si trova il malato e la sua famiglia quando perde la capacità di interagire e comunicare, come avviene nelle demenze, è in buona parte determinato dalla paura e dal senso di inadeguatezza di coloro che non hanno dimestichezza con la malattia. Pertanto aumentare le conoscenze aiuta anche ad accrescere la disponibilità, contestualmente alla riduzione dei pregiudizi. La Scuola di assistenza familiare si è dimostrata un’ulteriore occasione di incontro, confronto e collaborazione fra ASL, MMG, comuni e servizi della rete per 6. I SeRVIzI DI SuPPoRTo anziani al ine di rispondere con maggior completezza e continuità sia al numero elevato di persone che perdono l’autonomia, sia alla pluralità dei loro bisogni. Dal 2006 al 2015 sono state realizzate 56 edizioni della scuola, con 278 incontri per ben 966 partecipanti. Nel 2015, le 13 edizioni della Scuola hanno visto presenti 282 persone. Il 58,6 dei caregiver corrisponde ai familiari (tabella 6.9), ma nelle edizioni del 2015 si è osservato un aumento signiicativo della percentuale di assistenti familiari (badanti) rispetto al 2014, dal 3% al 16,5%. Inoltre appare importante la presenza di caregiver che si sono identiicati come “altro” (24,9%), avendo rapporti di varia tipologia con il malato (vicini, volontari, ecc.). Ciò denota una maggior disponibilità di assistenza da parte di chi non ha un rapporto di parentela con persone non autosuficienti. Tabella 6.9 - Tipologia di caregiver partecipanti alle Scuole di assistenza familiare, anno 2015, ASL di brescia (valori percentuali sul totale dei partecipanti) Caregiver % Familiari 58,6 Assistenti familiari 16,5 Altro 24,9 I familiari caregiver più coinvolti nell’assistenza nelle edizioni di SAF 2015 sono i coniugi (21%), i genitori (18%) ed i igli (9%), seguiti da fratelli e sorelle (4,5%), nuore e generi (3%) (igura 6.2). Figura 6.2 - Dettaglio della tipologia di caregiver partecipanti alle Scuole di assistenza familiare, anno 2015, ASL di brescia Genitore 18,05% Altro 24,81% Coniuge 21,05% Assistente familiare 16,54% Nipote 3,01% Nuora/genero 3,01% Figlio/a 9,02% Fratello/sorella 4,51% 145 146 FAuSTA PoDAVITTe Il 44% del totale dei partecipanti ha frequentato le edizioni SAF pur non essendo caregiver, ciò a ribadire quanto questa tipologia di corsi, incentrati su tematiche socio-sanitarie inerenti l’approccio alla non autosuficienza, suscitino interesse, anche da parte di coloro che non sono ancora coinvolti attivamente nell’assistenza informale. Si può dunque presupporre che questi servizi favoriscono la crescita culturale verso l’approccio alla fragilità e alla non autosuficienza. La igura 6.3 rappresenta l’età dei partecipanti alle SAF 2015, compresa tra i 16 e gli 80 anni, con una media di 52,85 anni. Il 63,4% dei partecipanti appartiene a quella che si conferma essere la fascia d’età “critica” dell’assistenza informale, ossia quella compresa tra i 45 e i 65 anni. Figura 6.3 - età dei caregiver partecipanti alle Scuole di assistenza familiare, anno 2015, ASL di brescia tra 75 e oltre < 21 anni 5,28% 1,51% tra 66 e 74 anni 13,96% tra 55 e 65 anni 36,98% tra 21 e 44 anni 15,85% tra 45 e 54 anni 26,42% Il 18% dei caregiver afferma di assistere il proprio malato da sei mesi ad un anno, il 31% dai due ai tre anni e ben il 52% da oltre 3 anni, il 18% da più di 9 anni. Circa il 47% dei caregiver offre al proprio caro 4 h al giorno di assistenza, mentre il 18% da 5 a 8 h al giorno; il 12% è impegnato da 9 a 12 h al giorno e il 24% è coinvolto nella cura del proprio malato 24 h. Un altro dato interessante riguarda il 63% di non occupati fra i caregiver (casalinghe, pensionati e disoccupati). Nel corso degli ultimi 5 anni si è assistito ad un incremento del numero di casalinghe (dal 26 al 40%), si presume a causa della disoccupazione conseguente alla crisi economica. Lo scenario futuro delle famiglie potrà subire inluenze sia determinate dalla riduzione dei componenti sia da una ripresa economica, che potrebbe comportare una riduzione delle disponibilità all’assistenza. 6. I SeRVIzI DI SuPPoRTo L’approccio al contesto assistenziale richiede oggi strategie di coinvolgimento della famiglia e del caregiver lessibili, diversiicate, rispondenti, oltre che al “saper fare” al “saper essere”, per contribuire al raggiungimento di una maggior “solidità” generale sia emotiva che del sistema. 6. Responsabilità e strumenti per la valutazione dei pazienti affetti da demenza e la certificazione ai fini dell’accertamento dell’invalidità civile In un momento storico in cui sono accesi i dibattiti sulla necessità di controlli serrati nell’iter di accertamento dell’invalidità civile e sulla opportunità di riformare l’assegno di accompagnamento, diviene ancor più rilevante un confronto su modalità e criteri di valutazione dei pazienti affetti da demenza ai ini dell’accertamento di entrambi gli istituti. La valutazione dei pazienti affetti da demenza, per le loro caratteristiche, che li differenziano dal paziente non autosuficiente “più tradizionale”, richiede modalità e strumenti speciici, al ine di garantire una sua presentazione circostanziata, documentata ed in grado di evidenziare le aree di bisogno. Per molto tempo invece la perdita di autonomia, quale conseguenza del decadimento cognitivo e di disturbi comportamentali, è stata sottovalutata, in quanto i parametri noti riguardano prevalentemente gli aspetti motori. Il paziente demente infatti presenta una “dipendenza non immobile”, che spesso richiede una precoce forma di vigilanza e tutela con oneri economici a carico dei familiari già nella fase iniziale della malattia, considerato che “la vigilanza” è la prima funzione richiesta per tutelare il paziente, funzione esercitata spesso dalla badante. Nel territorio dell’ATS di Brescia è prassi consolidata da circa otto anni l’utilizzo di strumenti di valutazione uniformi e condivisi, elaborati in accordo tra le Strutture per le demenze, i responsabili delle Commissioni per l’accertamento dell’invalidità civile e l’INPS. Ciò facilita il lavoro delle Commissioni e garantisce ai richiedenti equità nelle decisioni assunte, omogenee per tutto il territorio. A tal ine è in uso da parte degli specialisti delle Strutture per le demenze un set di strumenti di valutazione, un unico modello di certiicazione comprensivo dell’elenco dei test (box 6.1) e un altro contenente riferimenti normativi ed alcuni errori di percorso evitabili (box 6.2). I miglioramenti rilevanti riscontrati nel territorio, grazie alla pertinenza dei criteri di valutazione utilizzati ai ini del riconoscimento dell’invalidità ed in particolare dell’indennità, sono l’esito di tale sistema condiviso, garanti di una diagnosi documentata da parte dello specialista, per fornire elementi oggettivi alla Commissione per l’accertamento dell’invalidità civile. Il riconoscimento dell’assegno di accompagnamento diviene determinante per molte situazioni nella prosecuzione dell’assistenza a domicilio, oltre che nel 147 148 FAuSTA PoDAVITTe perseguire l’obiettivo dell’emersione del lavoro nero delle badanti. Tale igura è impegnata nell’assistenza del maggior numero di pazienti affetti da demenza, spesso integrata da una seconda badante per sostituzione di ferie, riposi. Oggi la crisi economica e sociale sta ponendo in primo piano la precarietà dell’intero sistema, visti i costi determinati dall’assunzione della badante che nessun servizio, se non la RSA, è in grado di sostituire per la copertura 24 ore su 24. Due soggetti fragili, il malato e la sua famiglia da una parte, e la badante dall’altra, entrambi portatori di problemi, bisogni, criticità, si incontrano e suggellano il rapporto attraverso un contratto, formale o no. Però, di fatto, a fronte di maggiori diritti per la badante (giorni di permesso, ferie, ecc.), entra in crisi l’anziano ed il suo nucleo familiare, spesso non più in grado di sostenerne gli oneri economici. Ogni diritto acquisito da parte delle lavoratrici ha paradossalmente indebolito il soggetto delle cure e la sua famiglia; è una dinamica irrisolta, che si rilette sull’intero sistema fondato su reciproche debolezze. Nel complesso, la situazione attuale in forte movimento si potrebbe così schematicamente riassumere: la crisi economica ha ridotto la richiesta di badanti, le quali di conseguenza hanno perso parte della propria capacità contrattuale. Spesso si torna a contratti in nero o il ruolo di badante viene coperto da famigliari giovani (igli, nipoti) che sono rimasti privi di lavoro. Quindi si incontrano sempre più frequentemente due povertà, ciascuna sotto la pressione di un forte bisogno: la famiglia, che ha meno disponibilità inanziarie e che quindi tende ad affrontare al proprio interno le dificoltà poste dall’assistenza e in ogni modo a pagare al minimo i servizi che riceve, e le badanti, che vedono ridursi le possibilità di lavoro, e che, di conseguenza, accettano situazioni che qualche tempo fa avrebbero riiutato. Un approccio negativo al problema badanti ne interpreta la funzione come un male necessario, come la conseguenza di un welfare incapace di adeguarsi alle realtà dei bisogni di una popolazione in forte cambiamento. Vi è invece l’esigenza di osservare in positivo la loro presenza, considerando che un sistema di welfare in grado di farsi carico degli anziani fragili non sarà realizzabile in Italia ancora per molti anni. È quindi necessario sul piano operativo organizzare una protezione delle badanti che ne difenda la dignità, la libertà sostanziale, la possibilità di un lavoro eficace e la condizione di salute e contemporaneamente garantire alla famiglia, datore di lavoro, un sostegno economico. L’assegno di accompagnamento è di un importo ben inferiore della quota sanitaria, anche della fascia più bassa, erogata per gli ospiti delle RSA, pertanto comunque un risparmio nel sistema assistenziale. Il tema dell’assegno di accompagnamento dev’essere dibattuto con grande attenzione e competenza in merito alle drammatiche conseguenze di una sua ipotetica sospensione. 6. I SeRVIzI DI SuPPoRTo box 6.1 - esempio di certificazione per la valutazione dei pazienti affetti da demenza Documento 1 ESEMPIO DI CERTIFICAZIONE PER VALUTAZIONE PAZIENTI AFFETTI DA DEMENZA Gent.mo collega, in data odierna si è sottoposto a visita il/la sig. …………………………………….…………………………..……., nato a ………………………………...... il …………………….., residente a …………………..………..………………….. Il paziente: è attualmente seguito da questa Struttura in regime: o Domiciliare o Ambulatoriale o Ricovero diurno o Ricovero accede per prima visita (non è in carico a questa Struttura). Breve descrizione dei motivi recenti per cui il paziente è giunto all’osservazione …………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………… ……………………………………………………………………………………………………………. In anamnesi risulta: …………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………… …………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………….. Alla luce della documentazione clinica e della valutazione odierna, si certifica che è affetto/a dalle seguenti condizioni patologiche: Diagnosi (1) ……………………………………………………………… ……………………………………………………………… …………………. …………………. COD. ICD9-CM ……………….…. ……………….…. Anno di diagnosi Profilo funzionale: (2) /6 Funzioni perse: data __/__/__ /6 Funzioni perse: data __/__/__ /8 / 5 Funzioni perse /8 / 5 Funzioni perse data __/__/__ data __/__/__ BADL: IADL: Tinetti scale: Equilibrio: .… /16 Andatura: .… /12 Totale: …...…./28 data __/__/__ Equilibrio: … /16 Andatura: .… /12 Totale: …..…./28 data __/__/__ Sul piano cognitivo il/la paziente presenta: (3) ……………………………………………………………………………………………………………………………… ……………………………………………………………………………………………………………………………… Al MMSE: Al GDS: /30 data __/__/__; /30 data __/__/__; /30 data __/__/__; . /30 data __/__/__; /30 data __/__/__ /30 data __/__/__ Sul piano comportamentale sono presenti: (4) ……………………………………………………………………………………………………………………………… ……………………………………………………………………………………………………………………………… In fede (5) (Timbro, firma e recapiti del Responsabile UVA) LEGENDA (1) Elencare tutte le principali patologie presenti (2) Allegare i test disponibili; specificare le funzioni perse (3) Breve descrizione del profilo cognitivo. Se possibile fornire 2/3 MMSE somministrati a distanza di alcuni mesi l’uno dall’altro; somministrare il GDS nei casi in cui si sospetti la presenza di uno stato depressivo in grado di peggiorare il MMSE (4) Specificare, se presenti, i principali disturbi comportamentali (5) Esempio di riferimenti del Responsabile di UVA: Nome & cognome medico certificante Qualifica Struttura di appartenenza Recapito telefonico Recapito e-mail 149 150 FAuSTA PoDAVITTe box 6.2 - Precisazioni su parametri e finalità della valutazione per pazienti affetti da demenza 7. Considerazioni conclusive Il numero consistente di persone affette da demenza e la quota signiicativa di fruitori dei servizi per persone non autosuficienti (ADI, CDI, RSA) affetti 6. I SeRVIzI DI SuPPoRTo da tale patologia (35%), sono dati che impongono a programmatori e responsabili dei servizi una particolare attenzione alla loro pianiicazione e strutturazione gestionale. I dati mostrano che nel prossimo futuro le demenze rappresenteranno ancora un aspetto rilevante nell’ambito della pianiicazione di servizi per anziani. Un’adeguata raccolta-dati dimostra di fornire indicazioni per la costruzione di nuove reti di servizi, la cui caratteristica deve essere la lessibilità. Tali conoscenze, ad esempio, hanno orientato la pubblicizzazione della RSA aperta, consapevoli di chi fossero i potenziali fruitori, favorendo così la piena attuazione del servizio innovativo. La realtà odierna mostra che il ricorso alla soluzione residenziale in struttura protetta è molto rilevante, quando la famiglia non regge più, o non è in grado di garantire l’onerosa assistenza, sia per tempi che per complessità ed intensità, anche emotiva. Come più volte detto, le cure domiciliari sono scarsamente utilizzate ed orientate verso proili di bassa intensità, per l’inadeguatezza della tipologia di approccio e di prestazioni dell’ADI, tradizionalmente rivolte a bisogni prevalentemente sanitari. I pazienti affetti da demenza “pagano” la loro condizione ibrida, cioè di appartenenza alla grande area dei pazienti cronici, non autosuficienti, prevalentemente anziani, caratterizzata però anche da disturbi comportamentali, maggiormente noti nello schematismo dell’attuale gestione all’area psichiatrica. Recenti iniziative e metodologie di approccio qui presentate sono state orientate a compensare tali carenze, spostando l’attenzione anche verso il supporto delle famiglie che assistono. Le sperimentazioni avviate di recente favoriscono nei cittadini la comprensione del signiicato dei nuovi servizi che apprezzano, diventandone fruitori intelligenti. Il personale impiegato diventa parte attiva nella sperimentazione, collaborando al continuo miglioramento del servizio prestato. La lessibilità come frutto di autoanalisi e di autovalutazione è la chiave del successo delle innovazioni. Per ottenere questi risultati è necessaria una formazione continua, l’adozione di criteri standard per la valutazione degli utenti, l’attivazione e l’accurato accompagnamento delle équipe multidisciplinari, un governo dei servizi fondato sul dialogo costante. I risultati devono essere sempre accuratamente valutati, poiché ciò che non si misura rischia di entrare nell’area dell’irrilevanza, in particolare se il servizio è innovativo e quindi non ha una “storia”. Purtroppo è scarsamente diffusa la cultura di raccolta dati-analisi-valutazione-riorganizzazione di un servizio e proposte innovative, per una visione rigida e conservatrice nell’organizzazione dei servizi alla persona. I dati confermano anche che nonostante la crisi della famiglia e i cambiamenti demograici una attenzione accurata ai biso- 151 152 FAuSTA PoDAVITTe gni permette di superare la dicotomia casa-istituzione, con signiicativi risultati sul piano umano e dell’organizzazione sociale. Per concludere, affrontare i problemi inerenti le demenze signiica orientarsi verso una visione a 360 gradi, delineare l’intero percorso della malattia, identiicare gli attori principali del mondo sanitario, socio-sanitario ed assistenziale, da coinvolgere già nella fase programmatoria, condividendo obiettivi, metodologie e strumenti e creando alleanze, favorendo contaminazioni beneiche fra diverse professionalità e culture per una visione lungimirante e completa dell’intero ambito. Imprescindibile è l’attività epidemiologica, che fornisce dati di supporto alla programmazione, orientandola verso bisogni reali e favorendo l’investimento di energie in nuove soluzioni sperimentali arricchenti la rete più nota e consolidata. 7. Prendersi cura dell’anziano con demenza: il ruolo degli interventi psico-sociali Gianni Genga e Cinzia Giuli 1. Introduzione L’aumento della popolazione anziana ha portato ad un incremento dei deicit cognitivi. Il World Alzheimer Report del 2015 (Alzheimer’s Disease International, 2015) stima infatti che attualmente il numero di persone di età superiore ai 60 anni è di quasi 900 milioni a livello mondiale, con un aumento previsto pari al 56% tra il 2015 e il 2050, di coloro che vivono nei paesi ad alto reddito (igura 7.1). Questa rapida crescita numerica si associa purtroppo anche all’aumento della prevalenza di malattie croniche degenerative come la demenza. Figura 7.1 - Numero di persone con demenza (in milioni) Il Report evidenzia che, nel mondo, circa 46,8 milioni di persone convivono con una forma di demenza. Sembra che ogni anno la prevalenza di questa patologia aumenti con una presenza di più di 9 milioni di nuovi casi nel mondo, stimando che nel 2030 il dato potrebbe raggiungere un valore pari a 74,7 milioni di persone e pari a 131,5 milioni nel 2050. All’incremento del numero di malati di demenza consegue un aumento esponenziale dei costi globali diretti di tipo medico e sociale relativi all’assisten- Gianni Genga, Cinzia Giuli 7. Il ruolo degli interveni psico-sociali 154 GIANNI GeNGA, CINzIA GIuLI za formale ed informale verso la malattia, che già, rispetto alla stima rilevata nel 2010, ha registrato nel 2015 un aumento del 35,4%. Sembra infatti che i costi diretti complessivi rappresentino lo 0,65% del prodotto interno lordo mondiale. I disturbi legati alla progressiva perdita delle capacità cognitive si associano spesso a turbe della sfera comportamentale, psicologica, affettiva, con ricadute negative nei confronti della qualità della vita del paziente affetto da demenza e del suo caregiver (chi si occupa dell’assistenza del malato). Considerando l’alto rischio di disturbi legati alla sfera cognitiva a cui sono sottoposte le persone anziane, è necessaria l’individuazione di possibili trattamenti inalizzati alla prevenzione dei deicit, anche applicando programmi di sano stile di vita. Alcuni studi hanno evidenziato che l’utilizzo di farmaci non è risultato essere totalmente eficace nel trattamento dei disturbi cognitivi (Rodakowski et al., 2015). Sebbene attualmente non siano state ancora riconosciute terapie eficaci in grado di curare la demenza, vari autori hanno messo in luce l’importanza delle strategie non farmacologiche, deinibili come interventi psico-sociali, che sembrano essere utili nei confronti del miglioramento degli aspetti cognitivi, psicologici e comportamentali (Giebel et al., 2015; Abraha et al., 2016). Nei paragrai successivi verrà descritto l’importante ruolo degli interventi psico-sociali e verranno indicate alcune tipologie di trattamento risultate utili ed eficaci per gli anziani con demenza. L’ultimo paragrafo, che precede le considerazioni conclusive, descriverà l’applicazione di interventi non farmacologici rivolti ad anziani con diverso status cognitivo, includendo alcuni risultati del progetto di ricerca “My Mind: the effects of cognitive training for elderly” coordinato dall’INRCA e recentemente conclusosi. 2. La socializzazione nell’anziano L’applicazione di programmi ed interventi psico-sociali che tengano conto della possibilità per l’anziano di effettuare attività isiche ricreative e socializzanti può apportare un effetto protettivo verso il deicit cognitivo (Gagliardi et al., 2016). L’importanza della socializzazione e della presenza della rete sociale nell’anziano è stata ampiamente riconosciuta dalla letteratura scientiica, in quanto è stato dimostrato che gli aspetti sociali sembrano essere fattori determinanti della salute, con conseguenti implicazioni anche nel rischio di disabilità e mortalità (Abbott et al., 2016). A causa dei numerosi eventi avversi che l’anziano si trova a sperimentare in relazione all’età, come la vedovanza e la modiicazione dello stato di convivenza, i contatti e le relazioni sociali tendono generalmente a subire una riduzione. 7. IL RuoLo DeGLI INTeRVeNTI PSICo-SoCIALI Alcuni autori hanno affermato che il fenomeno dell’isolamento sociale rappresenta un problema piuttosto rilevante, poiché ha anche un elevato rischio di aumentare in futuro (Nicholson, 2009). Esso è legato a numerosi fattori, tra cui quelli psicologici, cognitivi, funzionali e aspetti quali l’età, il sesso, lo status socio-economico, possono contribuire alla sua insorgenza (Santini et al., 2016). Gli anziani socialmente isolati hanno maggiore rischio di insorgenza di malnutrizione, ospedalizzazione e declino cognitivo, con conseguente riduzione della qualità della vita, come evidenziato da un nostro precedente studio (Giuli et al., 2012). Pertanto, l’applicazione degli interventi psico-sociali agli anziani rimarca ulteriormente la sua importanza, in particolare verso soggetti a rischio di isolamento. 3. Esiste la possibilità di prevenire o ritardare il disturbo cognitivo? L’invecchiamento è associato a speciici cambiamenti degli aspetti cognitivi. Le funzioni maggiormente inluenzate dall’invecchiamento risultano essere la memoria episodica, l’attenzione, il linguaggio, le abilità visuo-spaziali e le funzioni esecutive (Kirova et al., 2015). Tali cambiamenti sono stati osservati sia in soggetti anziani cognitivamente sani, come parte dell’invecchiamento isiologico, che in maniera patologica in soggetti anziani con declino cognitivo lieve, che può progredire in demenza, in particolare quella di Alzheimer. Alcuni studi hanno supportato l’evidenza che le funzioni cognitive possano però essere potenziate anche in età avanzata. A tale scopo, differenti programmi di sano stile di vita, come il training cognitivo, l’effettuare attività isica e utilizzare corrette abitudini alimentari e nutrizionali hanno dimostrato avere una buona eficacia sul potenziamento dei processi di memoria e delle abilità attentive negli anziani cognitivamente sani, con la possibilità di prevenire o ritardare l’insorgenza dei deicit (Kelly et al., 2014). Un importante aspetto riguarda anche la percezione che si ha riguardo alla propria memoria e alla propria cognizione, che sembra inluenzare le performances cognitive dell’anziano. È stato precedentemente evidenziato che questo aspetto può essere migliorato attraverso una corretta informazione, psico-educazione e insegnamento di strategie e tecniche di potenziamento cognitivo (Carretti et al., 2011). Un nostro recente studio ha evidenziato positivi effetti dell’intervento usato nell’ambito del progetto “My Mind” (che verrà descritto in seguito) in riferimento ad alcuni outcome anche in soggetti non affetti da demenza (soggetti cognitivamente sani e con mild cognitive impairment) che hanno effettuato un trattamento multidisciplinare (Giuli et al., 2016a). 155 156 GIANNI GeNGA, CINzIA GIuLI 4. Anziani e declino cognitivo: quali trattamenti di tipo psico-sociale? La letteratura scientiica ha evidenziato che è possibile recuperare e potenziare alcune funzioni cognitive anche in età avanzata e per questo motivo diviene di particolare importanza identiicare i possibili trattamenti atti ad agire sulla gestione e progressione del deicit (Stern, 2012). A tal riguardo, è molto importante promuovere strategie per il mantenimento della salute anche nella fase dell’invecchiamento, tenendo conto degli aspetti collegati alla qualità della vita e al benessere. In questo contesto si collocano gli interventi psico-sociali, comunemente usati nel corso degli ultimi anni nell’approccio verso l’anziano con e senza declino cognitivo, utili ed eficaci in quanto a basso rischio di effetti collaterali e controindicazioni. Molti studi hanno dimostrato un impatto positivo dei trattamenti di riabilitazione e stimolazione cognitiva rivolti a persone con demenza di Alzheimer e con declino cognitivo lieve (mild cognitive impairment), con miglioramenti dal punto di vista neuroisiologico e neuropsicologico (Mowszowski et al., 2014) e un positivo effetto sullo stato funzionale, sul benessere soggettivo e sullo stato dell’umore (Bherer, 2015; Rebok et al., 2014). 4.1. Gli interventi psico-sociali rivolti agli anziani con demenza Un’importante sida riguarda sicuramente la possibilità di rivolgere agli anziani con demenza degli interventi che siano utili ed eficaci. La prevenzione dei disturbi cognitivi e della demenza può avere delle importanti ricadute in termini di riduzione dei costi legati all’utilizzo dei farmaci e dei servizi legati all’assistenza. Numerosi sono i trattamenti non farmacologici, che hanno l’obiettivo di aumentare la qualità di vita e del benessere negli anziani con demenza e dei caregiver, come deinito da vari autori (Olazarán et al., 2010). Gli interventi offrono la possibilità di essere individualizzati e scelti tenendo conto di caratteristiche speciiche del paziente, quali la sua storia, le sue preferenze, le sue capacità, i suoi interessi. I più importanti interventi non farmacologici risultati eficaci, possono essere di vario tipo, a seconda dell’approccio utilizzato, come di seguito indicato. 4.2. Alcune tipologie di intervento Gli anziani con demenza possono beneiciare di miglioramenti nelle funzioni cognitive attraverso alcune modiiche del proprio stile di vita (Van de Rest et al., 2015). I trattamenti possono essere rivolti alla stimolazione e potenziamento delle funzioni cognitive, comportamentali, dell’esercizio isico o alla stimolazione di tipo sensoriale (Gardini et al., 2015; Takeda et al., 2012). 7. IL RuoLo DeGLI INTeRVeNTI PSICo-SoCIALI Tra i trattamenti, è stato individuato il ruolo del training cognitivo, considerato un’importante strategia non farmacologica per l’anziano, avente un’azione eficace sul recupero e il mantenimento di alcune funzioni cognitive, sullo stato dell’umore, sul benessere soggettivo e sulla qualità della vita (Alves et al., 2013). La Cognitive Stimulation Therapy, metodo che comprende un protocollo di stimolazione cognitiva per persone con demenza di grado lieve-moderato, ha evidenziato importanti beneici in termini di miglioramento della qualità della vita e di alcune funzioni cognitive come la memoria (Yates et al., 2015). Questo approccio comprende altre metodologie con approccio multi-strategico tipiche della terapia di riorientamento della realtà, della Validation Therapy, della terapia della riminiscenza. La terapia occupazionale, che ha l’obiettivo di agire sugli aspetti funzionali e ridurre la disabilità attraverso un trattamento riabilitativo e psico-educativo, è risultata eficace in termini di mantenimento della propria autonomia e delle capacità residue, della riduzione della disabilità e dell’isolamento sociale, del potenziamento della motivazione del paziente demente e dei caregiver nella risoluzione dei problemi (Wenborn et al., 2016). Inoltre, altri approcci riabilitativi e di stimolazione comprendono la Musicoterapia, che, attraverso la stimolazione sensoriale ed emotiva, è risultata eficace nel potenziamento di varie funzioni cognitive. Ci sono evidenze scientiiche anche riguardo al trattamento di questo intervento nel trattamento dei disturbi comportamentali (Ueda et al., 2013). Nella tabella 7.1 vengono mostrati alcuni approcci di intervento rivolti a soggetti con demenza. La tabella 7.2 evidenzia invece l’effetto degli interventi in riferimento ad alcuni outcome cognitivi, funzionali e comportamentali. Tabella 7.1 - Tipologie di approccio psico-sociale Tipologia di approccio Intervento Cognitivo Training cognitivo Terapia di stimolazione cognitiva (Cognitive Stimulation Therapy) Multi-strategico Terapia di riorientamento della realtà (Reality orientation Therapy) Terapia di validazione (Validation Therapy) Terapia di riminiscenza Terapia occupazionale Terapia fisica e riabilitazione motoria Comportamentale, ambientale e sensoriale Musicoterapia Aromaterapia Fototerapia Fonte: Gardini et al., 2015. 157 158 GIANNI GeNGA, CINzIA GIuLI Tabella 7.2 - Interventi psico-sociali rivolti ad anziani con Alzheimer e effetti sugli outcome cognitivi, funzionali, comportamentali Outcome cognitivo Outcome funzionale (ADL) Outcome comportamentale (BPSD) Training cognitivo + + + Riabilitazione cognitiva + + + Stimolazione cognitiva + + + Stimolazione multisensoriale + + + RoT + + + Terapia di riminiscenza + - + Terapia di validazione + - + Terapia fisica + + + Fototerapia + - + Musicoterapia + - + Aromaterapia - - + PeT Therapy - - + Intervento Note: ADL – Attività della vita quotidiana; bSPD – Disturbi del comportamento (behavioural and Psychological Symptoms Dementia); RoT – Terapia di Riorientamento della realtà. Fonte: Takeda et al., 2012. 5. Una recente esperienza dell’INRCA: il progetto di ricerca “My Mind” Come accennato precedentemente, l’INRCA di Fermo ha coordinato il progetto di ricerca “My Mind Project: the effect of cognitive training for elderly’’ rivolto ad anziani. Il progetto è stato inanziato dal Ministero della salute e dalla Regione Marche (Grant No. 154/GR-2009-1584108), nell’ambito della ricerca inalizzata dell’anno 2009, bando Giovani ricercatori nell’area clinicoassistenziale. Lo studio ha come obiettivo principale quello di valutare gli effetti di un intervento multidimensionale che includeva il training cognitivo, in persone anziane con diverso status cognitivo. Lo studio ha incluso un campione di 321 soggetti anziani residenti nella Regione Marche, divisi in 3 gruppi sulla base dello stato cognitivo: • 111 anziani cognitivamente sani; 7. IL RuoLo DeGLI INTeRVeNTI PSICo-SoCIALI • 109 anziani con mild cognitive impairment (MCI); • 101 anziani con demenza di Alzheimer di tipo lieve-moderato (AD). Il disegno utilizzato per lo studio era di tipo prospettico randomizzato, per la valutazione dell’effetto dell’intervento, secondo un approccio multidisciplinare. Gli outcome sono stati testati prima dell’intervento (fase di baseline), immediatamente dopo il trattamento (fase di follow-up 1). Ulteriori valutazioni sono effettuate dopo 6 mesi (fase di follow-up 2) e dopo 2 anni (fase di follow-up 3), per analizzare a distanza di tempo gli effetti dell’intervento. Gli obiettivi secondari dello studio riguardavano la valutazione degli effetti dell’intervento sullo stato funzionale e psicologico (benessere soggettivo percepito, stato dell’umore, stress psicologico, presenza di disturbo soggettivo di memoria) dei partecipanti. L’approccio multidisciplinare usato riguardava anche la determinazione di alcuni biomarcatori collegati agli aspetti cognitivi e all’effetto dell’intervento usato. All’interno di ogni gruppo, i soggetti sono stati assegnati in modo casuale al gruppo sperimentale, che ha effettuato l’intervento, o al gruppo di controllo. A seconda del proprio status cognitivo, ogni gruppo ha ricevuto una speciica tipologia di intervento. Il protocollo di studio è stato dettagliatamente descritto in Giuli et al., 2016b. 5.1. Principali risultati dello studio “My Mind” nel gruppo dei soggetti con demenza Dai risultati ottenuti, è stato evidenziato un positivo effetto dell’intervento su vari outcome di tipo cognitivo e funzionale, signiicativamente differenti nel gruppo sperimentale rispetto al gruppo di controllo. I risultati dello studio, indicanti l’effetto dell’intervento applicato, sono stati pubblicati sulla rivista scientiica Rejuvenation Research (Giuli et al., 2016a). Il presente paragrafo riporta alcuni risultati ottenuti focalizzando l’attenzione sul gruppo dei pazienti con demenza di Alzheimer, rilevati nelle fasi di baseline (prima dell’inizio dell’intervento) e del follow-up 1 (immediatamente alla conclusione dell’intervento). In particolare, è stato evidenziato l’effetto del trattamento, valutando le differenze ottenute dal gruppo sperimentale rispetto al gruppo di controllo. Nel gruppo sperimentale dei pazienti con demenza di Alzheimer, si evidenziava, rispetto al gruppo di controllo in seguito all’applicazione dell’intervento, un miglioramento dei processi attentivi (p = 0,036), di memoria a breve termine (p = 0,017) e del punteggio totale dell’Alzheimer’s Disease Assessment Scale (ADAS-Cog, Rosen et al., 1984) (p < 0,001). Le sottoscale dell’ADAS-Cog, quali “rievocazione di parole”, “denominazione”, “riconoscimento di parole”, hanno mostrato un signiicativo migliora- 159 160 GIANNI GeNGA, CINzIA GIuLI mento nel gruppo sperimentale rispetto al gruppo di controllo in seguito all’intervento (p<0,01). L’intervento ha avuto un effetto beneico nei confronti dello stato funzionale del paziente con demenza (misurato con le scale ADL e IADL), osservato nel gruppo sperimentale rispetto al gruppo di controllo. 6. Riflessioni conclusive Attualmente l’eficacia degli interventi di tipo psico-sociale è stata ampiamente riconosciuta da chi si occupa dell’assistenza all’anziano. In particolare, l’utilizzo e l’insegnamento di nuove strategie rivolte agli anziani con e senza declino cognitivo hanno dimostrato avere un positivo effetto nel miglioramento del senso di auto eficacia e di motivazione personale, contrastando la perdita di autonomia funzionale e della disabilità, permettendo di vivere indipendentemente per un maggiore periodo di tempo. Gli interventi psico-sociali possono rappresentare una buona misura di prevenzione o di ritardo dell’insorgenza di malattie degenerative come la demenza, con possibilità di apportare maggiori vantaggi verso il benessere e la qualità di vita degli anziani e dei loro caregiver. La possibile prevenzione di tipo primario e secondario della malattia prevede l’ulteriore vantaggio della riduzione dei costi economici e sociali legati all’assistenza, quale l’uso dei farmaci, dei servizi e dell’ospedalizzazione, con un positivo impatto sul Servizio Sanitario Nazionale. L’effetto beneico degli interventi psico-sociali è stato anche dimostrato in soggetti cognitivamente sani e in quelli con declino cognitivo lieve. Sicuramente è importante attivare percorsi, utilizzabili in vari contesti, rivolti agli anziani e alle loro famiglie grazie alle conoscenze acquisite attraverso i recenti studi sull’argomento, al ine di incentivare l’applicazione di programmi di sano stile di vita e che incentivino la socializzazione dell’anziano e contrastino l’isolamento sociale. Il ruolo delle reti dei servizi assistenziali, sia di tipo formale che informale, divengono in questo contesto estremamente importanti al ine di applicare interventi e servizi inalizzati alla gestione del declino cognitivo dell’anziano. La possibilità da parte degli operatori che si occupano di assistenza all’anziano di acquisire ed applicare nuove conoscenze potrebbe favorire un buon funzionamento dei servizi con ricadute positive verso il welfare. L’applicazione di interventi di potenziamento e di psico-educazione verso le variabili che inluenzano le performace cognitive rivolti a soggetti che non presentano demenza, possono rappresentare trattamenti preliminari al ine di diminuire il tasso di conversione in demenza, agendo sugli aspetti emotivi e motivazionali. Inoltre, intervenire con programmi che tengano conto degli aspetti legati alla me- 7. IL RuoLo DeGLI INTeRVeNTI PSICo-SoCIALI tacognizione e all’idea che il soggetto anziano ha della propria memoria che può inluenzare le performance cognitive, potrebbe avere un positivo impatto verso una migliore gestione degli aspetti psicologici collegati al declino cognitivo, con un conseguente effetto beneico sullo stato di benessere e dello stress psicologico. Bibliografia ABBott K.m., pAChuCKi m.C. 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Non c’è un reparto geriatrico che fa da tutor per tutti gli over 70, in qualsiasi specialistica questi si trovino, e non c’è nemmeno in geriatria un’area “diversa”, speciicatamente studiata per il ricovero di anziani fragili o con demenza. Lo stesso disinteresse lo ritroviamo in quasi tutte le nuove strutture residenziali dove gli anziani in ingresso presentano già gradi di demenza che una volta imponevano l’accoglimento in “nuclei speciali”. Nelle nuove realizzazioni il nucleo speciale, sempre se previsto, rimane uno e gli altri sono hangar più o meno belli per l’accoglimento… di tutti. Non si misura la “qualità di vita”; la struttura si misura in posti letto e nel rispetto degli standard di legge. Probabilmente gli anziani mangeranno per 360 giorni all’anno con davanti la stessa persona, faranno fatica a capire il correre del tempo, non avranno facilitazioni per orientarsi all’interno e per ritrovare la propria stanza: avranno come unica garanzia di sicurezza un letto e la stessa poltrona in soggiorno. Siamo ancora a questo punto. I due mondi, sanitario e assistenziale, devono imparare a rispettare la persona anziana, non solo curarla o assisterla ma rispettarla. Ospedali e case di riposo devono essere elementi di un sistema assistenziale complesso e integrato: sono convinto che ne deriverebbero sensibili miglioramenti del servizio e, cosa impor- Enzo Angiolini 8. Strategie ambientali per malai di demenza 166 eNzo ANGIoLINI tante visti i tempi, consistenti vantaggi economici. Insomma starebbero meglio tutti quanti, clienti, famigliari, operatori e amministratori. Ma questo rimane ancora oggi un semplice auspicio. Nel frattempo rimane un inquietante interrogativo: siamo convinti che oggi, per realizzare una nuova struttura sanitaria o residenziale, ci si interessi di adottare strategie ambientali per migliorare la qualità di vita dei fruitori? È anche una questione in termini: se continuano a essere chiamati “ospiti o pazienti” devono solo ringraziare di quello che gli viene garantito: sono come criceti in gabbia (ma con i pasti alle ore deinite dal padrone). Potranno migliorare le cose quanto li si vedrà realmente come persone vere, anzi meglio come “clienti”. Clienti che pagano per il servizio che ricevono (a volte con tutta la loro pensione). Solo allora potrà nascere il reale rispetto (oggi riscontrabile solamente nella “carta dei servizi” e nella buona volontà di molti dipendenti). 2. Impariamo a crescere L’evoluzione del mondo assistenziale è molto lenta e irregolare. Ci sono regioni che si attivano con norme nuove, a volte “illuminate”, ed altre regioni che tirano il freno non solo dei inanziamenti ma anche delle autorizzazioni per la realizzazione di nuove strutture con capitali privati. E tutto questo condiziona costantemente l’Italia, rendendo dificile uno sviluppo (abbastanza) omogeneo della qualità delle strutture sul territorio. Anche in sanità il “luogo delle cure” è sempre alcuni passi indietro rispetto alle conoscenze ed alle ultime sperimentazioni. Gli stessi operatori del settore (medici, infermieri, terapisti, psicologi, ecc.) lo trattano come argomento secondario che non può più essere dimenticato ma che rimane emarginato nelle relazioni di pochi professionisti illuminati. Per parlare di strategie e soluzioni ambientali bisogna ancora oggi, prima di ogni altro aspetto, riuscire a far capire l’importanza della conformazione dello spazio in cui si opera, l’inluenza di percorsi, locali, colori ed arredi sulla nostra psiche e su quella delle persone che trascorrono parte della loro vita in strutture (teoricamente) per loro conformate ed a loro dedicate. È sempre importante ricordare che gli ospedali sono studiati ed organizzati per chi cura e non per chi viene curato. La funzionalità puramente operativa, l’estetica minimalista, gli orari da caserma sono solo alcuni indici di questa lontananza tra il luogo e il paziente. Un anziano, psicologicamente più debole, risente pesantemente di un ricovero ma il “delirium” connesso al disorientamento ambientale è quasi completamente trascurato. 8. STRATeGIe AMbIeNTALI PeR MALATI DI DeMeNzA Le strutture per l’assistenza, nella maggioranza dei casi, non sono altro che copie più o meno riuscite di cliniche ed ospedali: stesse scelte e quindi, spesso, la stessa lontananza dalla psiche di chi è costretto a sceglierle per viverci. La rilevanza dello spazio nella cura è stata notata da una minoranza. In assistenza solamente dal metodo Gentlecare e le elementari valutazioni di Moyra Jones, ideatrice di questo modello assistenziale, rimangono le fondamenta sulle quali ancora troppo pochi progettisti operano. Un altro fattore rilevante nella deinizione delle strategie per la demenza è il costante aggravamento rilevabile al momento dell’ingresso in struttura: la demenza ormai è parte integrante della stragrande maggioranza dei clienti. Non basta più studiare singoli nuclei per la demenza ma bisogna diversiicare ed organizzare speciicatamente nuclei per le “demenze in movimento”, nuclei per le fasi successive di aggravamento, nuclei insonorizzati per “disturbanti”. Non si potranno più misurare le strutture in posti letto e qualità abitative “generali” ma bisognerà evidenziare tutte le specializzazioni degli spazi e le diverse risposte “residenziali”. Ci sono alcune interessanti sperimentazioni in Italia e all’estero, ma l’assistenza soffre sia di mancanza del “passaparola” che di scarso interesse dei responsabili sanitari sui legami tra comportamento e ambiente. Il passaparola è un modo per conoscere l’esperimento riuscito di qualcuno o il modo per perfezionare qualche esperienza meno riuscita: è il modo con il quale si sono sviluppati interi settori dell’economia. I responsabili delle strutture (dirigenti, medici, psicologi…) trattano ancora le zone giorno come semplici contenitori e arredano le zone notte “come si è sempre fatto”. Invece le aree giorno devono mostrarsi come parti del nostro vivere quotidiano (cucina, pranzo, soggiorno...) e le camere devono differenziarsi da quanto già fatto perché ora si sa che i letti afiancati non sono più adeguati, che è opportuno mettere l’armadio davanti al letto, che bisogna mettere maniglie “vistose” a quello che si vuole che utilizzi l’anziano e ante senza maniglia a quanto utilizzano personale e parenti. I responsabili delle strutture fanno a volte delle modiicazioni ambientali (nuovi arredi, nuove colorazioni alle pareti, riuso di qualche locale…) ma non avviano una breve indagine per veriicare cosa genera irrazionalmente nei clienti. Ma a volte i danni sono notevoli. 3. Soluzioni ambientali Questo capitolo vuole essere un’occasione per conoscere alcune “tematiche ambientali” legate all’anziano fragile e non solo a lui e attivare soluzioni anche semplici. Avere evidenza di queste problematiche ambientali potrà anche consentire di indirizzare tutti i prossimi interventi manutentivi, ordinari o straordi- 167 168 eNzo ANGIoLINI nari, nella direzione giusta. Non più rifare perché “si è sempre fatto così” ma far conoscere anche ai manutentori le problematiche e le nuove, spesso semplici, soluzioni. Luce naturale Bisogna ricordare che l’anziano soffre l’abbaglio quindi bisogna prestare attenzione alle zone soleggiate. Per farlo bisognerà abituarsi a conoscere l’orientamento delle singole facciate. A nord la luce del sole sarà sempre contenuta ed omogenea e quindi è l’orientamento ideale per le aree giorno e per posizionare giardini d’inverno e giardini sensoriali. A est la luce sarà più marcata solamente il mattino mentre a sud il sole creerà un abbagliamento che andrà controllato con vetri “stop sol chiaro”, oppure con frangisole, pergole o tendaggi. A ovest la luce ritorna meno fastidiosa e tende verso l’arancio del tramonto. Evitare quindi di portare anziani che soffrono di stati agitativi il pomeriggio in ambienti con l’esposizione a ovest (sindrome del tramonto) oppure in quei locali mettere tendaggi che attenuino la colorazione della luce naturale. Luce artiiciale Siamo nel 2016 eppure ancora oggi le luci che vengono accese nei vari reparti e nuclei dipendono, salvo poche eccezioni, dalla casualità di valutazione del personale in turno. La luce artiiciale ha una grande relazione con alcuni aspetti comportamentali, con il mantenimento delle capacità autonome di movimento e con la stessa incontinenza. Bisogna partire dal dato elementare e conclamato che l’anziano ha un campo visivo ridotto e offuscato. Necessita quindi di maggiore intensità luminosa anche se questo il personale, spesso in maniera involontaria, lo dimentica. L’anziano demente, inoltre, dà signiicati diversi alle zone eccessivamente illuminate o rilettenti (percepite come bagnate), a quelle poco illuminate (paura del buio o di cadere) e a quelle illuminate “a singhiozzo” come i lunghi corridoi dove si alternano neon accesi a lunghi tratti bui (dove percepisce buche e dislivelli). Questi sono dati che ho appreso dai geriatri decine di anni fa, ma che ancora oggi non determinano regole chiare sulla regolazione delle luci artiiciali, sulla collocazione dei punti luce, sulla loro accensione o sullo spegnimento. Sino ad oggi, una delle giustiicazioni sulla scarsa illuminazione era quella legata al risparmio ma oggi, con l’illuminazione led a bassissimo consumo, questo non ha più un senso compiuto. L’accensione delle luci e la loro regolazione nell’intera giornata è opportuno che siano guidate da una centralina e da alcuni sensori di rilevazione. Le luci dovranno essere tutte dimerabili (regolabili in intensità) e anche il semplice annuvolamento temporaneo porterà all’automatica accensione delle lu- 8. STRATeGIe AMbIeNTALI PeR MALATI DI DeMeNzA ci nelle sale e nei corridoi. L’intensità luminosa sarà studiata con i medici in maniera da dare, nei corridoi e nelle sale volute, una certa omogeneità nelle 24 ore. Le luci dei bagni dovranno invece sempre accendersi con il rilevatore di presenza, così l’anziano, anche demente, non dovrà più cercare improbabili interruttori. La fotocellula dovrà accendere anche le luci di depositi, magazzini, dispense e spogliatoi in modo che la direzione non sia più costretta a pagare tutte le luci dimenticate accese per notti intere. Inine è opportuno segnalare che la luce notturna adeguata nelle camere da letto è quella da collocare sotto ai letti. Questa luce radente non darà fastidio nelle fasi del sonno ma faciliterà la visione della distanza del pavimento scendendo dal letto e renderà molto evidenti gli eventuali ostacoli posti a terra (pantofole, girelli, ecc.). Colori alle pareti Vi sono anche in questo caso alcune cose che dobbiamo considerare chiarite. La prima fra queste è che il bianco è da usare meno possibile. È stato chiarito che va usato prevalentemente sui sofitti e, per il resto degli ambienti, veramente con il contagocce. Il bianco è solamente una cattiva abitudine nata con i trattamenti a calce fatti secoli fa negli ospedali per garantirne l’igiene. Un’altra cosa veriicata in questi anni è che il semplice colore scelto per corrimani e fasce perimetrali non aiuta in alcun modo l’orientamento spaziale. Oggi le pitture possono essere antibatteriche pur con pigmentazioni di vario tipo. Questo però non deve trasformare gli ospedali e le case di riposo in asili multicolore. Il piano del colore deve essere attento (anche in semplice fase manutentiva) perché il colore può aiutare ad individuare il proprio nucleo o reparto perché una parete a tinte forti si memorizza facilmente e aiuta a far ricordare (anche irrazionalmente) da dove si è arrivati, ritrovando così la via del ritorno. Un’altra innovazione che ultimamente si sta dimostrando utile è quella di cambiare l’abitudine di pitturare in modo uguale le due pareti dei corridoi. Se una parete è diversa da quella di fronte la persona ha maggiore facilità a ricordare su quale lato è collocata la sua stanza e potrà meglio orientarsi ed intuire in quale senso lo sta percorrendo. Parlando di demenza, utilizzare il termine “ricordare” è improprio però questo è quello che rilevo da architetto: una delle massime soddisfazioni di un anziano demente inserito in un nuovo nucleo è quella di saper ritrovare la propria stanza. Organizzazione delle camere Non so dare certezze sulla migliore soluzione tra stanze singole o doppie in demenza. Va da sé che sono da evitare, se possibile, tutte le soluzioni con un maggiore numero di letti per stanza. Probabilmente per alcuni è decisamente più confacente la stanza singola, sia per aspetti comportamentali che per un’irrazionale paura o fastidio verso altre 169 170 eNzo ANGIoLINI presenze. Quello che ho potuto veriicare in modo empirico e senza regole rigide è che gli anziani con demenza difidano degli altri, del “branco”, per un certo periodo, ma quando decidono inconsciamente che non devono più temere quelli che gli stanno vicino, non ci sono pregiudizi per la convivenza. Questa accettazione si traduce in tranquillità e questa diventa spesso causa di piccoli “soprusi involontari”. Viene letta come “sottomissione” che autorizza il personale a modiicazioni ambientali “casuali” oppure a decisioni prevaricanti sulla posizione dove stazionare nelle aree di socializzazione. Per ritornare alle stanze, è opportuno che i letti non siano afiancati ma contrapposti in modo da consentire di vedere facilmente se ci sono altre presenze nella stanza. Se possibile è opportuno collocare l’armadio di fronte al letto in modo da avere anche un controllo “sulle proprie cose”. Se la stanza è singola è bene che dal posto letto ci sia visione dell’ingresso per attenuare la tensione legata agli eventuali rumori. Se le stanze dispongono di bagno è bene che la sua porta sia visibile dai letti in modo da facilitarne l’uso autonomo. Organizzazione delle aree giorno In sanità ed assistenza non vi è quasi mai collegamento estetico tra le aree giorno e gli ambienti di casa. Se in sanità questo non è gravissimo perché il ricovero è il più breve possibile, in assistenza invece diventa assurdo perché lì le persone vanno a vivere anche per molti anni. Probabilmente il continuare a copiare in malo modo le scelte ospedaliere condiziona la mente di progettisti e gestori di strutture assistenziali che continuano a deinire arredi che mai metterebbero nella loro casa. Ma procediamo con ordine. In casa abbiamo o vorremmo avere tre ambiti deiniti: la cucina, la sala da pranzo e il soggiorno. Le persone trascorrono buona parte della giornata in cucina. In cucina consumano la colazione e, quasi sempre, anche il pranzo e la cena, svolgono molte attività domestiche, spesso è il luogo delle chiacchere con amici e famigliari, è il luogo del “vieni che ti offro un caffè”. In Italia la cucina è “il luogo” per eccellenza. La sala da pranzo è più di rappresentanza, solitamente è poco usata e non rappresenta lo spazio più caldo e avvolgente. Il soggiorno invece è il luogo degli incontri un po’ più formali ed è il luogo della lettura e della televisione. Solitamente si divide in due parti: quella del/dei divano/i che rappresenta l’area di socializzazione e quella della poltrona un po’ isolata con la sua luce, quella dedicata alla lettura, che rappresenta lo spazio del singolo, l’area dell’intimità. Tenendo presente che gli anziani si trasferiscono in maniera permanente nelle strutture assistenziali, bisogna ricreare esattamente questi ambiti. Se questi locali sono presenti, sono identiicabili e sono liberamente frequentabili, solo in questo caso i clienti troveranno realmente un “ambiente famigliare”. La cucina è il luogo di 8. STRATeGIe AMbIeNTALI PeR MALATI DI DeMeNzA riferimento e quindi tutti i nuclei devono averne una. Piccola o grande è indifferente, l’importante è che sia realmente “cucinosa” nel suo aspetto, che abbia i mobili completi di piano cottura, forno e lavello, che ci siano un po’ di pensili e che ci sia un vero tavolo da cucina con le sue sedie. È un luogo che anche in demenze attrae e rilassa. La sala da pranzo è decisamente meno importante, anche se diventa anche il luogo di alcune attività organizzate o libere. Deve avere mobili diversi da quelli del o dei soggiorni e deve essere completata con qualche mobile e un po’ di quadri. Il soggiorno deve comprendere lo spazio della socialità ed anche quello dell’intimità. Lo spazio dedicato allo stare con gli altri non deve essere organizzato con il vecchio principio delle sedie e dei divani messi in cerchio. Socialità assolutamente non vuol dire TUTTI assieme. Gli spazi per stare con gli altri devono essere comunque frazionati perché le persone non amano stare con tutte le altre presenti nel nucleo; soprattutto in età avanzata e a maggior ragione con forme di demenza non ci deve essere l’obbligo del TUTTI assieme. Inoltre i famigliari non amano sempre colloquiare con tante altre presenze attorno. Quindi, vanno creati angoli diversi di socializzazione, più ampi e meno ampi, utilizzando, come a casa, divani e poltrone ma posizionando anche qualche tavolo con le sue sedie. Gli spazi di intimità devono essere realizzati con accorgimenti minimi. La formula preferita è quella di un muretto basso o meglio di una ioriera o una libreria a giorno che fa da divisorio tra l’angolo di privacy e il resto dello spazio. Angoli di intimità si possono ricavare anche sul fondo di qualche corridoio o in qualche disimpegno poco utilizzato. Per l’intimità è meglio non usare divanetti perché consentirebbero ad altri di turbare questa scelta di isolamento. Bisogna optare per poltroncine e tra queste preferire quelle più avvolgenti e “protettive” come quelle a pozzetto o quelle con lo schienale alto che si richiude con due “grandi orecchie”. 4. Strategie ambientali Per migliorare la qualità del vivere dell’anziano fragile all’interno di case di riposo, RSA e ospedali bisogna, per prima cosa ridurre il numero di porte e pareti. Il frazionamento di alcuni spazi deve essere fatto con elementi di arredo in maniera da facilitare l’individuazione dei locali e garantire anche la lessibilità per futuri adeguamenti nell’uso degli spazi. Eliminare quindi pareti tra corridoi e soggiorni, e tra soggiorni, sale da pranzo e sale per attività. Non mettere un disimpegno ai servizi igienici se questi già prospettano su un corridoio che, di suo, è già riconosciuto come disimpegno. Nei nuclei Alzheimer si può richiedere all’ASS la deroga dal creare il disimpegno dei bagni anche se prospettano di- 171 172 eNzo ANGIoLINI rettamente nelle zone giorno: se l’anziano vede il bagno lo utilizza più facilmente ed in autonomia. Questa riduzione di pareti divisorie dovrà portare anche a una conseguente riduzione dei corridoi e di alcuni disimpegni. Gli ambienti saranno visibili e ci saranno meno porte a dividere percorsi che risultano comunque complessi. La maggiore apertura degli spazi nella struttura e nel nucleo consentirà anche di costruire con gli arredi “prospettive” che garantiscano il “controllo” dello spazio e del branco. Si riuscirà a realizzare l’angolo che io chiamo “della sicurezza”, quello dal quale si può vedere quasi l’intera area giorno e controllare il movimento delle altre persone. Un’altra scelta importante per l’orientamento spaziale è quella relativa ai pavimenti perché gli anziani tendono a guardare verso il basso e quindi pavimenti ben contrastati tra loro fanno “leggere” il passaggio da un ambiente all’altro. A volte questi pavimenti è bene che “sbordino” in corridoio per essere maggiormente individuabili. Nelle strutture esistenti dove la cattiva abitudine dei progettisti ha generato ambienti tutti uguali, si può ovviare con l’applicazione di resine colorate oppure con pellicole adesive a basso grado di scivolosità. Questi consigli sulla riduzione di pareti e porte e sulla differenziazione dei pavimenti vengono ancora oggi sottovalutati da direttori amministrativi e direttori sanitari ma le prime dimostrazioni (non schedate in maniera scientiica) evidenziano un maggiore mantenimento delle capacità residue, una diminuzione dello stress causato anche dal senso di smarrimento e di non riconoscibilità dei luoghi. Oltre a queste strategie architettoniche ci sono quelle altrettanto importanti legate alla scelta degli arredi e dei loro colori. Gli arredi devono essere ben distinti per i singoli ambiti, i mobili della cucina devono essere tutti da cucina, e quelli del soggiorno devono essere diversi da quelli previsti in sala da pranzo. Le sedie non devono essere tutte uguali e non tutte devono avere i braccioli. Poltrone e divani devono avere forme e colorazioni diverse in modo da essere riconoscibili e da fungere anche da elementi di orientamento. Il tema del colore degli arredi è molto importante e sottovalutato. Bisogna sempre ricordare che l’anziano, e ancor peggio l’anziano demente, ha una vista offuscata quindi è fondamentale che su pavimenti chiari ci siano arredi con legni o rivestimenti scuri e, all’opposto, su pavimenti scuri arredi chiari e ben contrastati. Inoltre gli arredi abituali e le tappezzerie di rivestimento delle sedute sono spesso “impersonali” e, soprattutto, sono caratterizzati da “non colori” come grigetti e beige: colori non percepibili dall’anziano. Invece bisogna mettere colori pieni per dare un minimo di garanzia che questi vengano percepiti, che consentano di scegliere in base all’irrazionale e all’umore, che aiutino a capire in qua- 8. STRATeGIe AMbIeNTALI PeR MALATI DI DeMeNzA le sala si è, e da dove si è arrivati. Bisogna andare al di là dei propri gusti e fare scelte coraggiose dove il verde, il marrone, il rosso… sono colori decisi, marcati. Chiuderei con un ultimo elemento di strategia ambientale che considero molto importante. In ciascun ospedale e in qualsiasi struttura per anziani tutto è molto simile, tutti i piani spesso si confondono tra loro, gli arredi “si impastano” e l’individuazione dei singoli nuclei è evidente solamente sulla carta. Questo è uno degli aspetti che, anche in demenza, distingue una buona struttura da un “istituto”. L’istituzionalizzazione è anche inserire una persona in un ediicio tutto uguale, dove tutto, anche la personalità, volutamente o inconsciamente si impastano, trasformando questo “tutto” in qualcosa di piatto, impersonale e sgradevole. Nelle strutture ospedaliere e residenziali si devono ben differenziare i piani e volutamente marcare le pertinenze di ogni singolo nucleo o reparto. La persona ha bisogno di poter scegliere: distinguendo il suo nucleo di pertinenza dal resto dell’ediicio gli sarà consentito scegliere tra restare nel suo ambito o “uscire”. Una scelta a difesa della sua qualità del vivere e assolutamente non marginale. Tutte le cose elencate tra le soluzioni ambientali e le strategie ambientali sono elementi piccoli ma non marginali, sono interventi di “chirurgia architettonica” che consentiranno reali trasformazioni qualitative dei contenitori sanitari ed assistenziali. Sono tutti elementi che, se applicati adeguatamente, diventano essi stessi protesi per tutti, non solo per l’anziano fragile. Sono miglioramenti della qualità di vita di chi è ospitato in queste strutture ma anche di chi ci lavora quotidianamente. O meglio, non sono migliorie ma adeguamenti assolutamente indispensabili per organizzare le strutture secondo canoni più moderni ed eficienti. Bibliografia Bortolomiol e., lionetti l., Angiolini e. (2015), Gentlecare cronache di assistenza. Soluzioni, modalità e idee di applicazione del metodo, Trento, erickson. BretAgnA g., Bottoli A. (2013), Scienza del colore per il design, Santarcangelo di Romagna (Rn), Maggioli. legA F., mAuri m., prenestini A. (2010), L’ospedale tra presente e futuro. Analisi, diagnosi e linee di cambiamento per il sistema ospedaliero italiano, Milano, egea. 173 9. I Centri diurni Alzheimer Franco Pesaresi Il capitolo si occupa dei Centri diurni Alzheimer (CDA). In particolare vengono affrontati i temi relativi alla diffusione nel territorio nazionale, all’organizzazione e ai costi. Con la dizione Centri diurni Alzheimer si intendono anche i centri diurni per persone con demenza o sindromi correlate. 1. I Centri diurni Alzheimer Il decreto 29 novembre 2001 sui Livelli essenziali di assistenza (LEA) ha identiicato l’assistenza semiresidenziale come un livello essenziale che ogni territorio deve garantire agli anziani non autosuficienti. I centri diurni perseguono i seguenti obiettivi: • favorire la permanenza a domicilio dell’assistito; • garantire l’erogazione di prestazioni sanitarie e di riabilitazione atte a mantenere le condizioni di autonomia e a rallentare il processo di decadimento isico e psichico; • perseguire il benessere isico e relazionale attraverso un miglioramento delle condizioni di vita; • promuovere il sostegno alla famiglia nella gestione dell’assistito totalmente o parzialmente non autosuficiente. Le regioni hanno previsto quattro diverse tipologie di Centri diurni per anziani. La tipologia prevalente adottata dalle regioni è quella del Centro diurno per anziani non autosuficienti o parzialmente non autosuficienti che è stata scelta da 14 regioni. Tre di queste regioni (Lazio, Liguria e Trento) hanno previsto anche l’eventuale inserimento di adulti nelle medesime condizioni. Il Centro diurno Alzheimer (o per demenze) è stato invece previsto dalle seguenti 12 regioni la metà delle quali ha aperto le strutture anche agli adulti: Abruzzo, Campania, Emilia Romagna, Lazio, Liguria, Marche, Molise, Piemonte, Puglia, Trento, Umbria, Valle d’Aosta. La conseguenza è che nelle altre 8 regioni non possono essere riconosciuti i centri diurni esclusivamente dedicati ai malati di Alzheimer e questo ovviamente colpisce alla radice la possibilità di ero- Franco Pesaresi 9. I centri diurni Alzheimer 176 FRANCo PeSAReSI gare assistenza specialistica ai malati garantendo loro pari possibilità di accesso alle cure in tutte le regioni italiane. È vero che i malati di Alzheimer possono essere accolti anche nei centri diurni per anziani non autosuficienti ma è altrettanto vero che in quella sede non possono avere una assistenza completamente calata sulle loro esigenze. I Centri diurni Alzheimer si sono dimostrati eficaci nel ridurre i disturbi del comportamento, che è la manifestazione di maggiore rilievo sia per il paziente sia per il caregiver (Mossello et al., 2008; Quayhagen et al., 2000; Zarit et al., 1998 e 2011). Studi controllati, ma non randomizzati, hanno dimostrato, inoltre, che l’assistenza di soggetti affetti da demenza in Centri diurni pospone l’istituzionalizzazione, probabilmente attraverso una riduzione dello stress e dei sintomi depressivi dei caregiver (Ministero della salute, 2010). 2. L’utenza Secondo i Quaderni del Ministero della salute (2010) il Centro diurno è destinato ad anziani con disabilità grave e con disagio sociale. In realtà, le regioni italiane hanno badato poco alla presenza o meno della non autosuficienza. Il criterio di gran lunga prevalente è la presenza di una diagnosi di demenza, Alzheimer o di sindromi correlate, indipendentemente dal grado di gravità della malattia. Solo la Regione Molise ammette anziani con disabilità gravi o gravissime. Inoltre, quasi tutte le regioni – ad eccezione di Liguria e Molise – ammettono tutti nei Centri diurni Alzheimer indipendentemente dall’età (e quindi indipendentemente dall’essere anziani o meno). Tabella 9.1 - utenza dei Centri diurni Alzheimer Utenza Regioni Anziani e, residualmente gli adulti, con Alzheimer o altra demenza di grado lieve, moderato o con gravi disturbi del Trento comportamento Anziani con vario grado di non autosufficienza affetti da forLiguria me psicoinvolutive cerebrali severe Anziani per lo più affetti da demenze con disabilità grave e gravissima Molise Abruzzo, basilicata, Campania, MarPersone affette da demenza, da Alzheimer e sindromi corche, Piemonte*, Puglia, Sicilia, umrelate bria Nota: *di norma con età superiore a 65 anni. Fonte: bibliografia. 9. I CeNTRI DIuRNI ALzheIMeR 3. I posti previsti Il documento della Commissione nazionale LEA dal titolo “Prestazioni residenziali e semiresidenziali” (2007) propone l’obiettivo di 1,5 posti ogni 1.000 anziani (pari a 19.829 posti) nei Centri diurni Alzheimer. Si tratta di un obiettivo apparentemente contenuto ma stanti i bassi livelli attuali di offerta esso comporterebbe più che un raddoppio dell’attuale offerta. Solo metà delle regioni ha issato gli obiettivi in termini di posti nei CDA. Si tratta di 11 regioni che nel complesso prevedono di realizzare 8.842 posti dedicati alle demenze/Alzheimer pari a 0,7 posti per 1.000 anziani per l’intero paese (cfr. tabella 9.2). Tabella 9.2 - La programmazione regionale dei posti previsti nei Centri diurni Alzheimer Regione Denominazione Utenza Posti previsti per 1.000 anziani* Abruzzo Semiresidenze demenze Soggetti con demenza senile 0,7 basilicata Semiresidenzialità demenze Soggetti con demenza senile 1,0 Campania Centro diurno per anziani Anziani non autosufficienti e affetti da demenza 2,2 Lazio estensivo semiresidenziale Persone con disturbi cognitivi comportamentali gravi 0,6 Liguria Centro diurno di 2° livello Anziani non autosufficienti con prevalente disturbo cognitivo 3,9 Marche Centro diurno demenze Anziani con disturbi cognitivi 0,8 Molise Centro diurno Alzheimer Anziani per lo più affetti da demenze 0,4 Piemonte CDAA-CDAI Soggetti affetti da demenza 1,0 Sicilia Centri diurni Alzheimer Anziani affetti da demenza 0,2 Anziani con demenza ed altre malattie neurologiche invalidanti 1,6 Anziani con Alzheimer 3,0 Toscana umbria Centri diurni Alzheimer ITALIA – media comparata 0,7 Nota: *Le regioni hanno utilizzato parametri diversi per formulare la programmazione dei posti dei Centri diurni. Alcune regioni hanno previsto delle percentuali in base alla popolazione anziana, altre in base agli ultrasettantacinquenni, altre in base a tutta la popolazione, altre, infine, hanno previsto solo il numero dei posti da realizzare. Per permettere la comparazione, tutti i dati regionali sono stati trasformati in posti per 1.000 anziani, indicati nella colonna 4. Fonte: delibere e leggi regionali. Le previsioni programmatiche delle regioni sono molto diversiicate. Si passa dallo zero di metà delle regioni ai 3,9 posti per mille anziani della Liguria. So- 177 178 FRANCo PeSAReSI lo 4 regioni (Campania, Liguria, Toscana e Umbria) hanno adottato degli obiettivi pari o superiori a quelli proposti dal documento della Commissione nazionale LEA dal titolo “Prestazioni residenziali e semiresidenziali” (2007). Gli standard regionali di posti risultano straordinariamente inferiori alle indicazioni nazionali. Si tratta probabilmente del primo caso in cui fra indicazioni nazionali e previsioni regionali si registra un simile scarto. Occorre ricercare le motivazioni dello scarso interesse delle regioni per i Centri diurni Alzheimer che hanno portato – con alcune lodevoli eccezioni – alla previsione di un numero molto basso di posti rispetto alle necessità del Paese. Probabilmente molte regioni, sbagliando, ritengono questa struttura non abbastanza eficace e gli obiettivi che persegue non strategici all’interno del Servizio sanitario. È su questo che occorrerà lavorare in futuro. 4. I posti attivati In Italia sono presenti 975 Centri diurni per anziani che gestiscono 19.421 posti (1) che accolgono annualmente 24.936 anziani, pari all’1,47 per mille. Di questi, solo 141 Centri diurni sono interamente dedicati ai malati di Alzheimer o con demenza. Si tratta di 2.511 posti, pari al 13% del totale (tabella 9.3). Annualmente per ogni posto transitano mediamente 1,3 anziani. Il dato è in parte confermato anche dalle giornate di frequenza media dei centri che è di 135 giornate annue per utente. Un indicatore per la verità un po’ basso che potrebbe essere giustiicato dalla scarsa qualità dei dati disponibili e/o dalla elevata morbilità degli anziani accolti. I Centri diurni Alzheimer costituiscono un servizio utile per gli anziani e per le loro famiglie anche se incidono poco nella realtà assistenziale italiana raggiungendo solo 0,19 anziani su mille pari ad un posto ogni 5.000 anziani. Questa sembra essere la criticità più grave soprattutto se la confrontiamo con la prevalenza della demenza. Per dare un dato di sintesi ogni posto nei Centri diurni Alzheimer deve fronteggiare 320 malati. Considerato il costante aumento del numero complessivo di anziani affetti da demenza, la carenza complessiva di posti, in assenza di una diversa politica, sposta l’onere assistenziale sulle strutture residenziale o caricando pesantemente sulle spalle delle famiglie tutto il fardello dell’assistenza. Ma questo è esattamente quello che non si dovrebbe fare per evitare un uso inappropriato delle struttu- (1) Sono considerati anche i posti non convenzionati che, comunque, costituiscono una quota modesta del totale complessivo. In Lombardia, per esempio, i posti non convenzionati sono 396 pari al 5% del totale dei posti. 9. I CeNTRI DIuRNI ALzheIMeR re sanitarie e socio-sanitarie e per garantire la permanenza dell’anziano al proprio domicilio supportandone la famiglia. Tabella 9.3 - Centri diurni attivi per persone affette da demenza o Alzheimer Regione Centri diurni Posti Posti per 1.000 anziani Liguria 8 336 0,76 umbria 12 148 0,67 Marche 9 179 0,49 Valle d’Aosta 1 12 0,42 Toscana 23 312 0,34 Trento 2 38 0,34 Lazio 19 401 0,33 Piemonte 18 304 0,28 Molise 1 15 0,20 Sicilia 15 188 0,19 emilia Romagna 12 193 0,18 basilicata 1 20 0,16 Sardegna 2 55 0,15 Abruzzo 1 30 0,10 Lombardia 10 154 0,07 Puglia 2 60 0,07 Veneto 3 48 0,04 Friuli Venezia Giulia 1 8 0,03 Campania 1 10 0,01 bolzano, Calabria 0 0 0,00 141 2.511 0,19 Totale Fonti: http://www.centridiurni Alzheimer.it/, Regione Marche oRPS (2012), d.G.r. n. 289/2015; Lazio: http://151.1.149.50/ Alzheimer/offerta-assistenziale/centri-diurni- Alzheimer-anno-2012; SPI CGIL (2013); Piemonte d.G.r. n. 45-4248/2012; Trento d.G.p. n. 2226/2014; Istat, Popolazione anziana al 1° gennaio 2015. 179 180 FRANCo PeSAReSI 5. Gli standard assistenziali Il documento della Commissione nazionale LEA sulle “Prestazioni residenziali e semiresidenziali” del 2007 ha proposto gli standard assistenziali minimi del Centro diurno per anziani non autosuficienti e del Centro diurno per anziani con demenza introducendo un concetto nuovo negli standard, quello quell’“assistenza globale”. In sostanza, la Commissione nazionale LEA ha proposto un minutaggio assistenziale minimo giornaliero per ospite da garantire con igure professionali (OSS, animazione, infermiere, psicologo) il cui mix non è stato deinito e l’ha chiamato “assistenza globale”. Le regioni, nella loro autonomia, possono o meno deinire nel dettaglio questo mix professionale. Le due tipologie di CD sono abbastanza diverse per cui la Commissione nazionale LEA ha previsto due diversi standard assistenziali minimi: più di 50 minuti di assistenza globale giornaliera per ospite nei Centri diurni per anziani non autosuficienti e più di 80 minuti nei Centri diurni per anziani con demenza. Gli standard assistenziali regionali dei Centri diurni per anziani con demenza/ Alzheimer Le regioni italiane hanno dato applicazione agli standard proposti rispettando le indicazioni con una sola eccezione ma con una straordinaria varietà. Le comparazioni degli standard regionali vengono realizzate utilizzando il parametro dell’“assistenza globale”. Giova a questo proposito precisare che per assistenza globale si intende il lavoro di infermieri, OSS, OTA, animatori, terapisti della riabilitazione, terapisti occupazionali e psicologi (2). Non sono invece considerati il coordinatore del centro, il medico, il personale amministrativo e il personale per i servizi generali. La media delle regioni italiane è di 113 minuti al giorno di assistenza globale per ospite. Si tratta di una media elevata se si pensa che è rapportabile allo standard assistenziale di diverse residenze protette per anziani (che erogano una assistenza 24 ore su 24). Tutte le regioni meno l’Abruzzo rispettano, superandolo, lo standard proposto dalla commissione nazionale LEA. Le differenze fra le regioni italiane sono notevoli; al livello più basso si trova l’Abruzzo con 60 minuti giornalieri per ospite di assistenza globale mentre al livello più alto si trova la Campania che garantisce 154 minuti di assistenza globale. Lo standard più elevato è addirittura 2,5 volte quello più basso. La distribuzione regionale dei diversi standard è eccessiva; per trovare il range assistenziale che raggruppi la maggioranza delle regioni è stato necessario arrivare alla forbice 90-127 minuti di assistenza globale. (2) Secondo le indicazioni della Commissione nazionale LEA. 9. I CeNTRI DIuRNI ALzheIMeR Per quel che riguarda le singole professioni si rileva che la gran parte dell’assistenza viene fornita da un gruppo di igure che comprende OSS, OTA ed altri addetti all’assistenza tutelare. Tabella 9.4 - Gli standard di personale dei Centri diurni Alzheimer Regione Anno Struttura Standard assistenziali Assistenza globale (minuti)* Abruzzo 2008 SR demenze Assistenza globale: > 60 min. (infermiere, oSS, psicologo) > 60 basilicata 2012 SRD demenze Infermiere, oSS, psicologo: terapia cognitiva e orientamento, assistenza globale > 80 minuti > 80 > 80 Lazio 2013 CD disturbi cognitivi gravi Assistenza globale (infermiere, oSS, animatore, ter. occup.): > 80 minuti/die persona + medico specialista per almeno 4 ore settimanali. Di cui infermiere coordinatore almeno 18 ore sett/20 posti; oTA/oSS: 1 ogni 3 posti; educatore prof./ter. occup: 18 ore sett./15-20 posti; infermiere: min. 4 ore sett./15-20 posti; fisioterapista: presenza programmata Marche 2014 SR Alzheimer Assistenza globale (infermiere, oSS, animazione, terapista occupazionale, educatore, psicologo): 90 min./die/paziente atteso come media 90 Piemonte 2012 CD Alzheimer (CDAA, CDAI) 3 min. medico responsabile; 2 min. psicologo; 28 min. ass. infermieristica – riabilitazione/mantenimento psico-fisico; 82 min. assistenza tutelare 112 2013 Modulo 24 posti: medico spec.: 6 ore settimanali (360’ settimanali); psicologo 30 ore settimanali (1.800’ settimanali); infermiere CD sperimen- 6 ore settimanali (360’ settimanali); lauretale per perato in scienze motorie/musico terapista, sone affette terapista occupazionale/animatore socioda Alzheimer educativo/educatore: 90 ore settimanali (5.400’ settimanali); oSS-oTA-oSA o altre figure qualificate con compiti assistenziali 100 ore settimanali (6.000’ settimanali) 113 Liguria Segue 181 182 FRANCo PeSAReSI Regione Trento emilia Romagna Liguria Puglia Valle d’Aosta Campania Media Struttura Standard assistenziali Assistenza globale (minuti)* Centri diurni Alzheimer 1 operatore assistenziale/animazione ogni 3 posti convenzionati; 1 coordinatore ogni 25 posti convenzionati (72 minuti settimanali a posto convenzionato); 1 psicologo (5 ore settimanali ogni 15 posti convenzionati). Almeno 110 minuti al giorno di operatore assistenziale/animazione e 20 minuti di assistenza psicologica alla settimana 114 Servizi di presa in carico diurna continuativa per persone affette da demenza con gravi disturbi 1 operatore assistenziale/animazione ogni 3 posti convenzionati; disponibilità al bisogno dell’apporto dell’infermiere RSA. Almeno 110 minuti al giorno di operatore assistenziale/animazione, 20 minuti di assistenza psicologica alla settimana e la presenza di personale infermieristico al bisogno 114 Disturbi cognitivi Coordinatore, oSS, animatore: parametro oSS 1 ogni 5; oSS 100%, durante le ore di attività assistenziali, socio-riabilitative e di animazione 120 + animatore 2013 CD 2° livello con disturbo cognitivo 1 coordinatore; psicologo/neuropsicologo: 4’/die-20’ settimanali; Infermiere: 3’/die-15’ settimanali, operatori di assistenza (oSS, oTA, ecc.): 90’/die-450’ settimanali; laureato in scienze motorie, educatore, animatore socio-educativo, terap. occup.: 30’/die-150’ settimanali. Totale: 127’/die-635’ settimanali 127 2010 CD Alzheimer Per 30 posti: coordinatore: 0,33; psicologo: 0,50; tecnico della riabilitazione: 1; infermiere professionale: 0,33; educatore professionale: 4; oSS: 4 148 CD Alzheimer Nucleo da 10 posti: minuti di assistenza al giorno per ospite: direttore sanitario: 1; medico geriatrico uVA: 3; medico di struttura: 0,60; infermiere: 9; ADeST o oSS: 120; educatore professionale: 24 153 CD demenze Infermiere: 54 min. sett./ospite; fisioterapisti: 108 min. sett./ospite; terapista occupazionale: 108 min. sett./ospite; animatore di comunità: 108 min. sett./ospite; psicologo: 36 min. sett./ospite; assistente sociale: 36 min. sett./ospite; oSA: 216 min. sett./ospite; oSS: 108 min. sett./ospite; amministrativo: 36 min. sett./ospite 154 minuti Anno 2015 2009 2007 2013 113 Note: * La colonna “assistenza globale” trasforma i vari standard assistenziali regionali in minuti di assistenza giornalieri pro capite per permettere una comparazione fra i vari standard. Quando non indi- 9. I CeNTRI DIuRNI ALzheIMeR cato il calcolo ha utilizzato gli orari di apertura dei Centri diurni indicati nella normativa delle singole regioni e, in caso di mancanza, si è assunto come punto di riferimento l’orario di apertura medio che è di 8 ore per 5 giorni settimanali. Non sono stati considerati il coordinatore, il medico e l’amministrativo, il personale per i servizi generali. Fonte: Abruzzo l.r. n. 5/2008; basilicata d.C.r. n. 317/2012; Campania d. n. 43/2013; emilia Romagna d.G.r. n. 2110/2009; Friuli Venezia Giulia d.G.r. n. 2326/2010; Lazio D. 105/2013; Liguria: d.G.r. n. 1773/2013; Marche d.G.r. n. 1011/2013; Piemonte d.G.r. n. 45-4248/2012; Puglia d.G.r. n. 3032/2010; Sardegna d.G.r. n. 47-42/2010; Toscana d.P.G.R. 15/R-2008; Valle d’Aosta d.G.r. n. 3745/2007; Veneto d.G.r. n. 84/2007. L’infermiere in media garantisce 10 minuti di assistenza giornaliera per ospite ma c’è chi come il Lazio e la Liguria prevedono 3 minuti giornalieri di assistenza e il Piemonte che invece ne prevede 28. Diverse regioni hanno previsto un’attività educativa e di animazione di volta in volta fatta eseguire da igure diverse (animatori, educatori professionali, laureati in scienze motorie, terapisti occupazionali, ecc.) il cui tempo medio di attività giornaliero per ospite è di 32 minuti (lo standard minimo è del Lazio con 12 minuti pro capite e quello massimo è della Puglia con 58 minuti al giorno per ospite). Due regioni hanno previsto il terapista della riabilitazione (Puglia con 14 minuti al giorno e Campania con 21 minuti al giorno). Diverse regioni hanno inine previsto la presenza dello psicologo. Lo standard medio per ospite è di 6 minuti al giorno di assistenza (il minimo in Piemonte con 2 minuti e il massimo in Liguria con 15 minuti) (cfr. tabella 9.4). Gli standard assistenziali del Centri diurni Alzheimer sono, mediamente, del 39% più elevati di quelli dei centri diurni per anziani non autosuficienti (Pesaresi, 2015). Questa signiicativa differenza è determinata soprattutto da una maggior presenza di personale educativo e di animazione (+ 20 minuti circa per ospite), dello psicologo (+ 6 minuti circa per ospite) e degli OSS/OTA (+5 minuti circa per ospite). Le differenze riscontrate negli standard assistenziali delle diverse regioni sono elevatissime e costituiscono un caso a parte nella organizzazione sanitaria e socio-sanitaria italiana. In nessun altro settore le differenze regionali sono così ampie e diffuse (lo standard più alto è mediamente il triplo di quello più basso). 6. Le prestazioni assistenziali Per i Centri diurni Alzheimer, i servizi offerti sono in parte gli stessi previsti per i Centri diurni per anziani con disabilità generica; in aggiunta, sono previsti programmi speciici di riabilitazione cognitiva, di trattamento dei disturbi comportamentali, di utilizzazione terapeutica dei Giardini Alzheimer, laddove presenti. Anche attività formative-educazionali rivolte ai familiari e ai caregiver dovranno essere adeguatamente implementate come mezzo per migliorare l’assistenza degli ospiti e ridurre lo stress dei caregiver. Inine, dovranno essere at- 183 184 FRANCo PeSAReSI tentamente previste norme e programmi di sorveglianza che garantiscano la sicurezza degli ospiti (Ministero della salute, 2010). Le regioni hanno dato disposizioni molto diversiicate sull’organizzazione assistenziale dei CDA. Il numero più ampio di regioni ha previsto l’assistenza tutelare e di aiuto nelle attività di base della vita quotidiana, l’attività di animazione/terapia occupazionale e di socializzazione e l’assistenza infermieristica. Per il resto c’è ampia varietà. Un gruppo di sole 5 regioni ha previsto la necessità di realizzare una costante attività motoria a favore degli assistiti mentre un gruppo di 4 regioni, molto opportunamente ha previsto una serie di attività anche a sostegno diretto della famiglia dell’assistito. Poche regioni hanno previsto l’assistenza medica a cura del medico di Medicina generale (MMG) ma probabilmente si tratta solo di una dimenticanza. Si segnala come un elemento negativo che solo tre regioni hanno previsto, all’interno della struttura, una periodica valutazione geriatrica. Si rileva inoltre che solo tre regioni hanno previsto esplicitamente tra le funzioni da garantire il trasporto da e verso il centro. Sempre tre regioni hanno previsto anche il bagno e la doccia assistiti insieme all’igiene e cura della persona. Sempre su questo fronte, inine, si evidenzia che la regione Campania e la provincia autonoma di Trento hanno previsto, con oneri aggiuntivi a carico dell’assistito, anche la possibilità di usufruire del podologo e del barbiere/parrucchiere. Una ricerca del CNESPS (Istituto superiore di sanità) ha rilevato quali sono le tipologie dei servizi effettivamente erogati nei Centri diurni. La ricerca ha coinvolto 289 Centri diurni. Siccome i Centri diurni dedicati esclusivamente alle demenze/Alzheimer sono circa la metà risulta evidente che la ricerca ha coinvolto tutte e due le tipologie di Centro diurno (per anziani non autosuficienti e per demenze/Alzheimer). Come si può vedere nell’ultima colonna della tabella 9.5 l’attività di gran lunga più presente è quella di animazione, socializzazione e ludico-ricreativa che è presente nell’82% dei Centri diurni. Seguono altre due attività, entrambi presenti nel 78% dei Centri diurni: l’attività di stimolazione/riabilitazione cognitiva e l’attività di assistenza infermieristica. Da rilevare che dalla stessa ricerca risulta che solo nel 51% dei Centri diurni si effettua un trattamento psico-sociale e comportamentale e che meno della metà dei centri possono godere di una qualche presenza medica (Di Pucchio, 2015). Non si può non confrontare questi dati con le “Linee di indirizzo per i centri diurni Alzheimer” di Masotti et al. (2013) che prevedono per gli stessi un piano delle attività che deve garantire momenti di socializzazione, animazione, stimolazione, attività isica, riabilitazione motoria, stimolazione-riattivazione cognitiva, terapia occupazionale da svolgere individualmente o in piccoli gruppi, attività di prevenzione e trattamento delle sindromi geriatriche. 9. I CeNTRI DIuRNI ALzheIMeR Tabella 9.5 - Le prestazioni erogate nei Centri diurni Alzheimer Prestazioni Medicina generale (MMG) Prevista nella normativa delle regioni Note esplicative Assicura le prestazioni sanitarie preCampania, Friuli V.G., viste dalla normativa convenzionale Piemonte, Sardegna vigente Servizi forniti: % dei CD* italiani 48,6 Valutazione geriatrica, con programmazione delle attività sanitarie, controllo periodico e gestione dei problemi cognitivi, comportamentali, funzionali e delle patologie intercorrenti Valutazione Lombardia, Piemonte, Valle d’Aosta Specialistiche Campania Farmaceutiche Campania, Lombardia Protesiche Campania Integrative Campania Infermieristiche Somministrazione della terapia prescritta dal medico curante, rilievo Campania, Friuli V.G., di pressione arteriosa, frequenza Lombardia, Piemonte, cardiaca, alvo e diuresi, rilievo del 77,9 Sardegna, Trento, Valle peso corporeo e dello stato nutrizionale, prevenzione e medicazione d’Aosta delle ferite e delle lesioni da pressione, ecc. Fisioterapiche e riabilitative Le prestazioni sono finalizzate al mantenimento delle abilità, allo svolgimento delle comuni attività Campania, Friuli V.G., quotidiane, nonché alla rieducazioLombardia, Piemonte, ne psicosociale. Nei Centri diurni 66,2 Sardegna, Trento, um- Alzheimer previste attività terapeubria, Valle d’Aosta tiche-riabilitative per il mantenimento e miglioramento delle capacità funzionali e comportamentali, cognitive e affettive-relazionali Assistenza tutelare o sociosanitarie o alla persona Comprendono l’insieme delle attività di aiuto alla persona nello svolgimento delle attività di base (ADL) e strumentali della vita quotidiana (IADL). Le prestazioni comprenCampania, Friuli V.G., dono l’igiene dell’ospite e del suo Liguria, Lombardia, Mo- abbigliamento, l’aiuto personale e lise, Piemonte, Sardegna, l’alimentazione dell’ospite, l’accomTrento, Valle d’Aosta pagnamento e il supporto a terapie sanitarie e riabilitative, la mobilizzazione periodica dell’ospite, la sorveglianza generica continuativa, lo svolgimento di altre attività previste dal PAI 36,9 Segue 185 186 FRANCo PeSAReSI Servizi forniti: % dei CD* italiani Prestazioni Prevista nella normativa delle regioni Note esplicative bagno e igiene Liguria, Piemonte, Trento bagno e doccia assistiti e igiene e cura della persona Campania Consistono in: coordinamento degli operatori addetti al servizio e dei volontari; mantenimento dei rapporti sociali tra l’ospite, la sua famiglia, la rete amicale Assistenza sociale Campania, Liguria essa comprende: attività di segretariato sociale; attività di tutela anche relativamente a nomina di tutori, 43,1 amministratori di sostegno, ecc.; assistenza sociale al nucleo familiare Sostegno psicologico Campania Vitto Campania, Friuli V.G., Liguria, Molise, Piemonte, Sardegna, Trento, Valle d’Aosta Lavanderia Molise, Valle d’Aosta Attività di animazione, occupazionale, socializzazione Campania, Liguria, Lombardia, Molise, Piemonte, Sardegna, Trento, umbria, Valle d’Aosta Attività motoria Liguria, Molise, PiemonAttività e riattivazione motoria te, Trento, Valle d’Aosta Servizi di sostegno alla famiglia Interventi di informazione ed educazione per favorire l’utilizzo al domicilio di tuti i presidi, gli ausili e le procedure che adattino l’ambiente domestico al grado di non Liguria, Lombardia, Pie- autosufficienza raggiunto. In Pie61,7 monte, umbria monte è previsto un intervento per la riduzione dello stress; l’acquisizione di conoscenze sulla malattia e di capacità di gestire il paziente; il miglioramento della relazione con il familiare Trasporto Campania, Trento Personali accessorie (podologo, barbiere, parrucchiere) Campania, Trento Attività sociali Comprende colazione, pranzo e merenda. La tabella dietetica deve essere validata dalla ASL. In Liguria e Trento anche diete personalizzate Interventi di gruppo o individuali (quali spettacoli, giochi, attività manuali e pratiche, letture ecc.) per 81,7 contenere il rallentamento psicofisico e la tendenza all’isolamento sociale e culturale Piemonte, A Trento solo se espressamente previsto dal PAI formulato dall’uVM Con oneri aggiuntivi a carico dei richiedenti Segue 9. I CeNTRI DIuRNI ALzheIMeR Prevista nella normativa delle regioni Prestazioni Assistenza religiosa Note esplicative Servizi forniti: % dei CD* italiani Campania Trattamento psico-sociale e comportamentale 51,4 Attività di stimolazione/ riabilitaz. cognitiva 78,3 Consulenza e controllo dietologico 21,4 Giardino Alzheimer 27,6 Note: * I dati dell’ultima colonna sono tratti da Di Pucchio (2015) e sono riferiti all’insieme dei Centri diurni italiani (e dunque non solo alle regioni indicate nella riga corrispondente della tabella). Nel complesso, anche sul fronte delle prestazioni da erogare, il panorama regionale è molto diversiicato ed ancora alla ricerca di uno o più modelli organizzativi a cui fare riferimento. La letteratura e i documenti tecnici istituzionali suggeriscono una organizzazione dell’assistenza sulla falsariga di quella indicata nella tabella 9.6 che si sviluppi seguendo tre assi: 1) gli interventi psicosociali; 2) la prevenzione e il trattamento delle sindromi geriatriche; 3) il sostegno ai caregiver. Il primo asse è evidentemente quello che caratterizza l’attività del Centro diurno Alzheimer rispetto al Centro diurno per anziani non autosuficienti. Tabella 9.6 - L’organizzazione delle attività nei Centri diurni Alzheimer Aree di attività L’organizzazione di una giornata-tipo Attività del vivere quotidiano (ADL): abbiglia- • Apertura del Centro e arrivo degli anziani mento, alimentazione, cure igienicosanitarie • Colazioni e somministrazione terapie farmacologiche Inizio attività giornaliere Attività strumentali (IADL): attività domesti• Attività di gruppo: attività motoria/lettura quotidiani che, giardinaggio, uso del telefono, del de• Attività di piccolo gruppo (stimolazione cognitiva) naro, ecc. • Attività individualizzate Attività motoria: esercizi di tipo psicomoto- • Bagni rio, danza, giochi, attività creative manuali • Prestazioni infermieristiche, parametri vitali, testistica Attività verbali: canto, lettura, proverbi, Re- • Pranzo e somministrazione terapie farmacologiche ality orientation Therapy (RoT) informale, • Riposo conversazione, reminescenza ed altre attività • Attività individualizzate/attività di gruppo/animazione volte a stimolare la memoria (in particolare • Merenda/Intrattenimento • Rientro scaglionato quella procedurale) Fonte: Regione emilia-Romagna, 2006. 187 188 FRANCo PeSAReSI 6.1. Gli interventi psico-sociali nei Centri diurni Alzheimer (CDA) I farmaci oggi a disposizione per il trattamento dei disturbi cognitivi nella malattia di Alzheimer si sono dimostrati eficaci nel rallentare la progressione della malattia solo in una quota minoritaria dei pazienti. Anche per questo si è rafforzata l’importanza degli interventi psicosociali orientati alla stimolazione cognitiva e sensoriale, al benessere psicologico e alla riduzione dei disturbi del comportamento. Questo orientamento è confermato e promosso anche dal “Piano nazionale demenze” che raccomanda anche per le strutture semiresidenziali la gestione dei sintomi psicologici e comportamentali (BPSD) delle persone affette da demenza – fonte di un notevole carico assistenziale e di depressione per i caregiver e di un aumento del tasso di istituzionalizzazione per le persone con demenza – con interventi individualizzati per il paziente e il caregiver combinando interventi psico-sociali e terapie farmacologiche (Presidenza del Consiglio dei ministri – Conferenza uniicata, 2014). Gli interventi psico-sociali consistono in una serie di trattamenti non farmacologici orientati alla stimolazione cognitiva e sensoriale, al benessere psicologico e alla riduzione dei disturbi del comportamento, con l’obiettivo di potenziare le capacità di adattamento della persona alle conseguenze della malattia. Gli interventi psico-sociali sono orientati principalmente a migliorare la qualità della vita dei pazienti attraverso la costruzione di una relazione interpersonale positiva, la realizzazione di modiicazioni ambientali ed attività speciiche. Essi dispongono di un numero crescente di dimostrazioni scientiiche di eficacia e di applicabilità indipendentemente dal setting di attuazione nel ritardare la progressione del deicit cognitivo e nel migliorare i sintomi comportamentali e psicologici della demenza (BPSD) (De Vreese et al., 2013). Gli interventi psico-sociali devono essere individualizzati a seconda dello stadio di malattia, delle problematiche e dei desideri dei singoli ospiti. Per questo l’ospite deve essere valutato dal punto di vista clinico, del proilo neuropsicologico, funzionale e comportamentale e della storia e degli interessi personali, al ine di deinire in modo personalizzato il suo trattamento psico-sociale. De Vreese et al. (2013) hanno dedicato un capitolo delle Linee di indirizzo per i centri diurni Alzheimer (Masotti et al., 2013) agli interventi psico-sociali. Tali interventi “orientati alla cognitività si basano su tecniche di stimolazione cognitiva, di arricchimento sociale e di attivazione comportamentale. Tali interventi possono essere effettuati nell’ambito di protocolli formalizzati o inseriti nella routine quotidiana, possono essere eseguiti singolarmente o in gruppo, con lo scopo di mantenere quanto più a lungo possibile le capacità cognitive e le abilità residue dei soggetti affetti da demenza con l’obiettivo inale di promuoverne il benessere e migliorare la qualità della vita”. 9. I CeNTRI DIuRNI ALzheIMeR “Le modalità di approccio non farmacologico con dimostrata eficacia, lieve-moderata ma statisticamente signiicativa, sui sintomi cognitivi e sulla progressione della disabilità nella demenza in stadio iniziale ed intermedio sono: • esercizio isico, di cui è noto il potenziale ruolo neuroprotettivo e di cui è stato dimostrato un beneicio sulle funzioni cognitive in dalla fase di Mild Cognitive Impairment. L’attività motoria, oltre a beneici già citati sul livello cognitivo e funzionale, è associata ad un miglioramento del tono dell’umore in corso di demenza moderata-grave; • training neuropsicologico di speciiche aree cognitive, eseguito individualmente o in gruppo (Memory Training, Cognitive Training); • stimolazione cognitiva individuale o di gruppo, formale o mediante attività ludico-ricreative:  reality Orientation Therapy, volta a migliorare l’orientamento del paziente verso se stesso, la propria storia, l’ambiente circostante;  terapia della reminiscenza, volta alla stimolazione della memoria autobiograica e al recupero della propria storia personale, mediante racconti, spunti artistici, letterari, ecc.;  terapia della rimotivazione, volta ad aumentare il livello di autostima, l’interazione con gli altri ed il coinvolgimento del paziente nelle attività proposte; • terapia occupazionale (kitchen therapy, ortoterapia, giardinaggio, cura della persona…), volta a ridurre la disabilità e il carico assistenziale. Le attività occupazionali-ricreative, che tengano conto degli interessi precedenti, delle attitudini e delle capacità conservate, sono in grado di ridurre i comportamenti agitati in corso di demenza moderata-grave; • utilizzo della musica, che potrebbe potenziare le capacità di apprendimento e rievocazione (3)” (De Vreese et al., 2013). Altri interventi come la stimolazione multisensoriale (possibile beneicio della “snoezelen” sull’apatia e sui comportamenti agitati) l’aromaterapia e l’attività con l’ausilio di animali e doll-therapy, possono ridurre i comportamenti agitati ed aumentare gli effetti positivi (De Vreese et al., 2013). Gli interventi multimodali di stimolazione cognitiva di gruppo associata a terapia della reminiscenza, esercizio isico, terapia occupazionale (in pazienti in fase moderata di malattia) possono dare beneicio sia sullo stato affettivo sia sui comportamenti agitati. (3) Sia l’ascolto musicale della musica preferita che la musicoterapia (intervento strutturato guidato da un operatore qualiicato e comprendente l’utilizzo terapeutico della musica e dei suoi elementi), applicabile dalle fasi lievi a quelle gravi di malattia. 189 190 FRANCo PeSAReSI Elemento comune alle varie attività, in qualsiasi stadio di malattia, è la creazione di un clima ambientale e relazionale ottimale, inalizzato a valorizzare le risorse e le capacità conservate di ogni soggetto, limitare l’isolamento sociale, favorire la condivisione delle esperienze e mantenere il senso di autostima e di identità personale. Nei limiti delle risorse disponibili, ogni attività deve essere adattata alla storia personale, al livello cognitivo-funzionale e allo stato psicologico-comportamentale degli ospiti, con l’obiettivo di formulare piani assistenziali individualizzati, inalizzati in particolare al trattamento dei BPSD. Tali attività devono essere semplici, devono tenere conto della ridotta capacità attentiva dei pazienti, non devono durare troppo a lungo per non risultare faticose e stressanti, con rispetto del coinvolgimento corporeo e multisensoriale e con enfasi sulla comunicazione verbale e non verbale. Tali tecniche possono opportunamente essere scelte e associate a seconda della tipologia degli ospiti e delle competenze speciiche degli operatori (De Vreese et al., 2013). Gli interventi psico-sociali devono essere concepiti non come un modo per tenere impegnato l’anziano, ma come l’essenza della vita stessa dell’anziano, evidenziando che le attività hanno maggiore eficacia se sono parti integranti di un regime di vita normale. L’obiettivo è la creazione di una protesi individuale che tenga conto del più alto livello di motivazione a cui l’individuo si assesta, e che si adatti esattamente al tipo e al grado di disabilità presenti. Per questo sono utili, oltre alle attività a carattere assistenziale, in linea con i Piani personalizzati, anche le attività di stimolo di natura ricreativa, culturale, ludica ed occupazionale presentate in modo accessibile, così che l’utente possa viverle come signiicative, divertenti o anche utili e gratiicanti. La lessibilità nella gestione quotidiana delle attività è un elemento imprescindibile date le caratteristiche e la variabilità dell’utenza e può essere realizzata solo grazie ad un’organizzazione del lavoro elastica e con pochi vincoli. L’équipe ha infatti l’autonomia nell’arco della giornata o di più giornate, di scegliere quando effettuare determinati interventi compatibilmente con la disponibilità, le condizioni e la motivazione dell’anziano facendo però attenzione alle caratteristiche di tali attività che dovrebbero tendere a quanto indicato nella tabella 9.7 (Regione Emilia Romagna, 2006). 9. I CeNTRI DIuRNI ALzheIMeR Tabella 9.7 - Caratteristiche e modalità delle attività da realizzare nei Centri diurni Alzheimer Modalità Le attività devono essere: brevi Durata: non più di 15-20 minuti Compiute Devono giungere a compimento, ciò aiuta a coglierne il significato Divertenti Possibilmente interessanti ed allegre Familiari basate su precedenti abilità o capacità dell’anziano Non stressanti La persona deve essere in grado di svolgerle con successo Personali Devono richiamare qualcosa che l’anziano riconosce o identifica Realistiche Devono avere un senso percepibile all’anziano Semplici Azioni singole e non sequenza. Non devono richiedere apprendimento utili Percepire l’utilità di ciò che si fa, da valore al proprio operato Attività individualizzate Attività di gruppo Attività cognitive Attività cognitive Attività igienico-estetiche Attività di laboratorio/atelieristica Attività motorie Attività motorie Attività casalinghe Attività ludiche Attività strumentali Attività musicali Attività religiose Attività religiose Attività sul territorio Fonte: Regione emilia-Romagna, 2006. 6.2. Il sostegno ai caregiver Il caregiver gioca un ruolo fondamentale nella vita del malato perché costituisce contemporaneamente sia la igura costantemente impegnata nel garantire l’assistenza sia la igura quotidianamente impegnata nel sostegno emotivo al proprio caro. Il caregiver dedica al malato di Alzheimer mediamente 4,4 ore di assistenza diretta e 10,8 ore di sorveglianza media (Censis-Aima, 2016). Contare sul contributo del Centro diurno determina una riduzione importante delle ore giornaliere destinate dal caregiver all’assistenza e alla sorveglianza del malato. Ciononostante rimane un pesante coinvolgimento del caregiver che va supportato afinché venga ridotto il proprio impegno psicoisico e superata la sensazione di isolamento e di inadeguatezza che possono inluenzare negativamente sia la condizione del caregiver a livello isico, psicologico, sociale ed economico che la qualità del compito assistenziale. Per questo anche le più recenti linee guida internazionali sulla demenza (American Psychiatric Association, American Academy of Neurology, NICE, SCIE, European Federeration of Neurological Societies) includono, oltre alle indi- 191 192 FRANCo PeSAReSI cazioni su diagnosi e trattamento della malattia, le Raccomandazioni per il supporto delle famiglie (Simoni et al., 2013). Diversi studi hanno dimostrato che interventi di supporto psicologico e formativo riducono signiicativamente lo stato di stress dei caregiver e il rischio di istituzionalizzazione dei malati. Il Centro diurno Alzheimer deve operare anche sul fronte dei caregiver mediante interventi di supporto, informazione e formazione dei familiari. Il CDA, pertanto, deve saper costruire con i caregiver un canale continuativo di comunicazione e di ascolto anche attraverso riunioni collettive, informali e di intrattenimento in tutte le fasi. Il costante rapporto deve iniziare prima dell’ingresso dell’anziano nel CDA, deve svilupparsi nel momento della condivisione del PAI e ino al momento in cui si conduce e si indirizza la famiglia verso il percorso di dimissione. In seguito al primo colloquio dopo un’attenta valutazione complessiva dello stress assistenziale del familiare (con l’ausilio di scale validate come la Caregiver Burden Inventory (CBI)), da ripetere periodicamente, lo psicologo del CDA può concordare con lui una serie di incontri individuali con cadenza variabile. Si ritiene, inine, “necessario supportare il familiare di riferimento in dalle primissime fasi della malattia, attraverso una formazione sia sulle problematiche assistenziali che sul riconoscimento dei propri bisogni, oltre che aumentando la conoscenza dei servizi territoriali a cui potersi rivolgere. Dovranno pertanto essere programmati interventi indirizzati ai caregiver quali programmi di formazione sui principali aspetti della malattia, gruppi di supporto e counseling. Gli argomenti da trattare per la formazione del caregiver devono comprendere sia conoscenze teoriche che procedure operative. La preparazione teorica dovrà trattare soprattutto il decorso della malattia, i disturbi del comportamento, la consapevolezza della malattia, i disturbi isici, la sessualità, le questioni medico-legali. La formazione operativa dovrà invece indirizzarsi verso il supporto al proprio assistito nelle attività quotidiane, le modalità per mantenere l’attività motoria, la corretta assunzione della terapia farmacologica e il riconoscimento degli effetti collaterali dei farmaci, specialmente di quelli attivi sul SNC, la prevenzione e gestione delle sindromi geriatriche, l’eventuale adattamento dell’ambiente domestico alla nuova condizione cognitiva del paziente. Inine il caregiver dovrà esser addestrato al riconoscimento dei segni del proprio stress assistenziale e ad esser formato a trovare un senso di coerenza tra il proprio comportamento e le proprie aspettative“ (Simoni et al., 2013). I programmi di formazione e supporto del caregiver costituiscono dunque un vero e proprio mezzo di cura e di monitoraggio di grande eficacia e possono svolgere un’azione sinergica e di potenziamento con le altre modalità assistenziali attuate nel Centro. 6.3. L’orario di funzionamento Uno degli elementi più signiicativi e caratterizzanti di un Centro diurno è costituito dal numero di ore settimanali di apertura. È del tutto evidente che un Centro che funziona per un numero maggiore di ore e di giorni settimanali è in grado 9. I CeNTRI DIuRNI ALzheIMeR di soddisfare meglio le necessità dell’utenza. È però altrettanto evidente che il funzionamento per un maggior numero di ore determina un costo più elevato. Le regioni, ancora una volta, presentano un panorama estremamente differenziato. La grande maggioranza prevede un funzionamento di almeno 5 giorni alla settimana rispetto ad un quarto delle regioni che prevede il funzionamento anche il sabato. Ciò che cambia in modo più signiicativo è il numero di ore giornaliere di funzionamento che oscilla fra le 6 e le 10 ore. Questo fa sì che ci siano territori come la provincia autonoma di Bolzano che garantisce almeno 30 ore settimanali di funzionamento o come la regione Emilia-Romagna che ne garantisce 60 (cfr. tabella 9.8). La media delle regioni è comunque di 41 ore settimanali di funzionamento. Questa grande variabilità anche nel numero di ore di apertura dei Centri testimonia ancora una volta l’assenza di uno o più modelli organizzativi a cui far riferimento e richiama gli osservatori a tener conto di queste differenze quando si realizzano le comparazioni. Nel merito, una apertura settimanale di 30 ore appare insuficiente a realizzare un eficace supporto delle famiglie che assistono a casa un anziano non autosuficiente perché questo orario non riesce a “coprire” l’intero pomeriggio. L’operatività eficace minima è invece costituita da una apertura di 8 ore per almeno 5 giorni la settimana. L’apertura dei Centri anche nelle giornate del sabato costituisce uno standard di grande qualità delle strutture. Tabella 9.8 - L’orario di apertura dei Centri diurni Orario di apertura Ore settimanali minime di apertura Almeno cinque giorni alla settimana e 6 ore ogni giorno 30 Friuli V.G., Lazio (x almeno 10 mesi), Almeno 5 giorni alla settimana per 7 ore Marche, Liguria (di norma x 12 mesi), giornaliere Veneto 35 Campania, Molise (di norma x 12 mesi), Almeno 8 ore al giorno e per almeno 5 Piemonte (C.D.A.A./C.D.A.I) giorni a settimana 40 Trento 5 giorni in settimana per un totale di 9 ore giornaliere 45 Sardegna, Toscana (x almeno 11 mesi) 6 giorni a settimana per almeno 8 ore al giorno 48 Piemonte (CDI e CDIA) Almeno 5 giorni alla settimana (con preferenza per 6 giorni) per almeno 10 ore al giorno (preferibilmente dalle 8.00 alle 18.00) 50 Emilia-Romagna (290 giorni/anno) 10 ore al giorno per 6 giorni 60 Media Almeno 5 giorni per almeno 8 ore 41 Regione Bolzano 193 194 FRANCo PeSAReSI 7. Le tariffe La tariffa media dei Centri diurni Alzheimer è di 63,12 euro al giorno, il 28% in più rispetto al Centro diurno per anziani non autosuficienti. La tariffa media equivale al 51,4% della tariffa media giornaliera delle RSA per Alzheimer (Pesaresi, 2016). Anche in questo caso le differenze fra le regioni sono grandi: la tariffa più bassa si registra in Liguria con 45,19 euro al giorno e la più alta nel Lazio con 78 euro al giorno (cfr. tabella 9.9). Tabella 9.9 - Tariffe giornaliere nei Centri diurni Alzheimer Anno deliberazione Struttura Tariffa complessiva Di cui a carico del SSR Di cui a carico dell’utente/ comune Abruzzo 2008 CD demenze 45-60 30-40 15-20 Campania 2014 CD demenze 70,65 35,33 35,33 2016 CD livello disturbi del comportamento 59,05 29,70+ trasporto max 2,5 29,35+ trasporto max 2,5 10,5-12,5 utente: 37,50-47; trasporto 4,50 Regione emilia Romagna Friuli V.G. 2010 CD Alzheimer Lazio 2016 CD per disturbi cognitivo comportamentali gravi Liguria 2013 CD 2° l. disturbi cognitivi 78,00 45,19 32,84 12,35+trasporto 50,40 (media) 29,60 almeno 8 ore consecutive, 15 da 4 a 8 ore, 3 meno di 4 ore Media 21,80/ die (2009) Lombardia 2010 Marche 2014 SRD demenze 58,00 29,00 29,00+trasporto Piemonte 2013 CDAA-CDAI Alzheimer 70 35,00 35,00 Puglia 2010 CD demenza 63,65 2009 CD non autosufficienti Toscana +trasporto 34,53 per demenze 28,53 media Segue 9. I CeNTRI DIuRNI ALzheIMeR Regione Trento Valle d’Aosta Anno deliberazione 2015 2007 Media Struttura Tariffa complessiva Cd Alzheimer 73,76 Servizio presa in carico diurna continuativa per soggetti affetti da demenza 57,36 CD Alzheimer 77 CD demenze 63,12 Di cui a carico del SSR Di cui a carico dell’utente/ comune 30,30 29,92* Note: *La quota sociale a carico dell’utente/comune ha tenuto conto del costo del trasporto sommando, quando non indicato diversamente, un costo giornaliero di 4,50 euro per utente. **Nella colonna della quota sanitaria abbiamo considerato anche la Toscana che non ha previsto una tariffa specifica per i CD Alzheimer ma che all’interno dei CD anziani ha previsto una specifica quota sanitaria per gli anziani con demenza. Fonte: Abruzzo l.r. n. 5/2008; Campania d. n. 92/2013; Liguria d.G.r. n. 969/2008; Lombardia d.G.r. n. 399/2010; Marche d.G.r. n. 1195/2013; Molise d. n. 5/2011; Piemonte d.G.r. n. 85-6287/2013; Puglia d.G.r. n. 3032/2010; umbria d.G.r. n. 1708/2009; Veneto d.G.r. n. 1673/2010. Trasporto al Centro diurno In quasi metà delle regioni, le tariffe appena indicate non comprendono il costo del trasporto al Centro diurno che deve essere sostenuto con una spesa aggiuntiva dall’utente o dal comune (cfr. tabella 9.10). Tabella 9.10 - Il trasporto al Centro diurno e la tariffa Regione emilia-Romagna, Marche, Valle d’Aosta Liguria Puglia Norma di riferimento Oneri del trasporto Le tariffe non sono compren- oneri aggiuntivi ripartiti equamente al 50% fra ASL ed utente/comune. Costo massimo 5 euro al giorno sive del trasporto Il costo definito direttamente con l’utente sulla base della distanza percorsa, del numero dei sogLe tariffe non sono comprengetti trasportati e di altre eventuali variabili sino ad sive del trasporto un massimo del 50% della tariffa complessiva giornaliera a persona (ovvero max 14,95-22,60) Il servizio è garantito dalle ASL. I comuni e gli utenti Le tariffe non sono comprenconcorrono in misura non superiore al 60 per cento del sive del trasporto costo, restando a carico della ASL la quota residua Friuli Venezia Giulia Le tariffe non sono comprenCosto aggiuntivo giornaliero di 4,50 euro sive del trasporto PA Trento Le tariffe non sono compren- La provincia autonoma rimborsa ai centri 0,59 € per km percorso (extra tariffa) sive del trasporto Abruzzo, CampaNulla si dice per cui si presunia, Lombardia, me che le tariffe siano comPiemonte, Sarprensive del trasporto degna, Toscana, umbria, Veneto Fonte: norme in bibliografia. 195 196 FRANCo PeSAReSI Nel complesso si può affermare che ci sono delle variabili importanti che inluenzano le tariffe stabilite dalle singole regioni. Esse sono: a) i diversi standard assistenziali; b) i diversi CCNL assunti come punto di riferimento per il calcolo dei costi; c) la diversa apertura oraria settimanale dei centri; d) la presenza o meno del trasporto. La gran parte delle differenze possono essere spiegate dalle variabili indicate ciononostante rimangono diversi sistemi tariffari regionali confusi ed incoerenti. La quota sanitaria La quota sanitaria media che viene rimborsata dalle ASL ai gestori è di 30,30 euro al giorno (+19,2% rispetto al CD per anziani non autosuficienti). Anche in questo caso le differenze regionali sono molto elevate e agli estremi troviamo il Friuli-Venezia Giulia (10,5-12,5 euro) e la Campania (35,33 euro). Non si può fare a meno di rilevare che la differenza è di uno a tre. Il d.P.C.M. 29 novembre 2001 prevede una ripartizione dei costi dei Centri diurni per anziani non autosuficienti al 50% a carico della sanità e del 50% a carico dell’utente o del comune. La maggioranza delle regioni ha adottato la stessa ripartizione della spesa prevista dalla normativa nazionale. In 3 casi, le regioni hanno approvato delle quote sanitarie superiori al 50%. La compartecipazione alla spesa dell’utenza Solo 4 regioni hanno deinito i criteri per la compartecipazione alla spesa da parte degli utenti. Tutte le altre hanno lasciato che siano i singoli comuni a deinirle. Tre regioni (Campania, Molise e Toscana) su quattro hanno stabilito di issare le quote di compartecipazione in base al criterio del reddito del beneiciario della prestazione il che vuol dire, in generale, che ci saranno delle soglie di esenzione e delle quote variabili di compartecipazione. 8. Conclusioni Il Centro diurno Alzheimer ha lo scopo di favorire il recupero o il mantenimento delle capacità psicoisiche residue al ine di consentire la permanenza della persona con demenza al proprio domicilio il più a lungo possibile, offrendo sostegno al nucleo familiare. I Centri diurni costituiscono dunque un servizio necessario per gli anziani e per le loro famiglie anche se ancora incidono pochissimo nella realtà assistenziale italiana raggiungendo solo 1,5 anziani su mille nonostante che i Centri stessi siano previsti fra i livelli essenziali di assistenza. 9. I CeNTRI DIuRNI ALzheIMeR Inoltre, tale forma di assistenza è caratterizzata da una distribuzione diseguale da regione a regione, con ampi territori quasi del tutto privi di tali strutture. L’attuazione della rete dei CDA ha evidenziato una straordinaria differenziazione fra tutte le regioni italiane sia negli standard assistenziali (spesso elevati) che nelle prestazioni erogate. Analoga situazione si registra nel sistema tariffario adottato dalle regioni italiane. Un quadro organizzativo così diversiicato probabilmente non ha pari nel sistema sanitario italiano. La causa principale di questa perdurante disomogeneità che riduce l’eficacia e la capacità di sviluppo dei Centri diurni è da ricondurre all’assenza di modelli organizzativi di riferimento e quindi alla mancanza di gruppi di regioni che tendono verso un’organizzazione similare. La mancata affermazione di modelli organizzativi di riferimento sottrae afidabilità ai centri diurni che pur avendo già raccolto le prove di eficacia circa l’utilità del loro intervento non riescono ancora a dimostrare quale è l’organizzazione giusta per raggiungere i buoni risultati presentati in letteratura. È soprattutto su questo che occorre fare un grande lavoro di ricerca organizzativa, di benchmarking e di disseminazione delle società scientiiche e dei professionisti che dovrebbe essere alimentato soprattutto dal Ministero della salute perché l’appropriatezza organizzativa è un tema che interessa trasversalmente tutti per i beneici di eficacia e di economicità che ne possono derivare. Tra i servizi per la non autosuficienza, il Centro diurno è senz’altro il meno sviluppato e diffuso. Occorre pertanto lanciare una grande campagna nazionale per lo sviluppo e la diffusione in tutte le regioni italiane dei Centri diurni Alzheimer. Bibliografia Censis-AimA (2016), L’impatto economico e sociale della malattia di Alzheimer: rifare il punto dopo 16 anni. Sintesi dei risultati. www.alzheimer-aima.it/img/iniziative/Aima-Censis24-febbraio_Sintesi-dei-risultati.pdf. De vreese l., ChAttAt r., gori g., meCAtti e., mello Am., De montis s., osCAri p.l., rAgni S. (2013), Il trattamento psico-sociale. In: g. mAsotti., C.A. BiAgini, A. Cester, e. mossello (a cura di), Linee di indirizzo per i Centri diurni Alzheimer, 4° Convegno nazionale sui Centri diurni Alzheimer, Pistoia, 31 maggio-1 giugno. www.centridiurnialzheimer.it/sites/default/files/Linee%20guida%202013.pdf. Di puCChio A. 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Secondo dati Istat, circa il 47% degli individui di età superiore o uguale a 75 anni è affetto da almeno una patologia cronica e il 56% dei soggetti di questa fascia di età ne è affetto da tre. Quando alle problematiche mediche si associa il decadimento cognitivo la complessità della gestione aumenta notevolmente. Gli ospedali “classici”, concepiti senza una chiara impronta geriatrica, sono del tutto inadeguati. Per questi pazienti sarebbe sempre auspicabile la presenza di una vera Unità geriatrica per acuti (UGA), che risponde a queste inalità mediante un team multidisciplinare, attraverso la valutazione multidimensionale e l’attuazione di un piano assistenziale individuale che integri la valutazione clinica tradizionale. La strutturazione edilizia e logistica dell’UGA soddisfa alcune esigenze, quali l’abbattimento delle barriere architettoniche, la presenza di ambienti per la riabilitazione e spazi per la terapia occupazionale che, insieme ad un numero più elevato di personale infermieristico e riabilitativo, garantisce la prevenzione ed il recupero funzionale della disabilità. Questi concetti sono noti da molto tempo e ben espressi in un documento della Società italiana di gerontologia e geriatria (“Il modello di assistenza continuativa per l’anziano: l’Unità geriatrica per acuti nella rete dei servizi”, www.sigg.it). Nel presente capitolo saranno analizzate le principali problematiche dell’ospedalizzazione del paziente con decadimento cognitivo. 2. Malattie somatiche e demenza: un rapporto complesso Malattie somatiche diverse sono frequenti in fasi diverse della malattia di Alzheimer (AD) e delle altre forme di demenza. Quelle che usualmente sono associate alla demenza in fase lieve o moderata sono le neoplasie, le broncopneumopatie croniche, il diabete, le malattie gastrointestinali, mentre quelle associate alla demenza grave sono più frequentemente le malattie infettive (ad es. polmoniti e le infezioni urinarie), lo stroke, le fratture di femore, le piaghe da decubito. Andrea Ungar, Renzo Rozzini 10. Problemaiche somaiche 200 ANDReA uNGAR, ReNzo RozzINI Quando il paziente con demenza affetto da una patologia somatica giunge al medico presenta generalmente problemi relativi all’area dell’autosuficienza (la brusca perdita della funzione senza deicit focali rilevabili) e problemi relativi al comportamento (agitazione, aggressività, alterazione del ciclo sonno-veglia, ecc); la demenza complica la gestione delle patologie croniche, compromettendo l’abilità dei pazienti di percepire la presenza di un malfunzionamento incipiente, di rilevare la severità della malattia, di riportare accuratamente i sintomi, di seguire con attenzione le prescrizioni mediche. La demenza è una patologia che di per sé riduce la sopravvivenza, anche se non appare chiaro se abbia un effetto aggiuntivo sul rischio di mortalità legato allo stato di salute premorboso o un effetto moltiplicativo. Nella prima ipotesi la malattia deve essere vista come un fattore che aumenta il rischio collegato ad altre cause di mortalità (ad esempio, il rischio di morte in caso di polmonite è aumentato in un paziente con demenza rispetto ad un altro senza demenza). Nella seconda ipotesi (effetto moltiplicativo) la demenza inluenza la comparsa stessa delle malattie che poi portano a morte. Sebbene il signiicato di queste osservazioni non sia stato completamente deinito, è però scientiicamente stabilito che la demenza non rappresenta soltanto una malattia che colpisce il cervello determinando una compromissione delle funzioni cognitive, ma coinvolge le capacità omeostatiche complessive e l’equilibrio del rapporto fra l’individuo e l’ambiente. Le manifestazioni cliniche delle malattie isiche nei soggetti affetti da demenza possono essere atipiche e dissonanti dal modello fenomenologico delle stesse nei pazienti cognitivamente integri; ad esempio, nei pazienti con un deterioramento cognitivo conclamato, la comparsa di malattie acute o la riacutizzazione di quelle croniche si manifesta frequentemente come delirium. La demenza rappresenta uno dei principali fattori di rischio per lo sviluppo di delirium nel soggetto anziano (un decadimento cognitivo è riscontrabile nel 70% dei casi di delirium): dal 40 al 60% dei soggetti con demenza sviluppa almeno un episodio di delirium durante il decorso della malattia. Le malattie somatiche (infezioni, disidratazione, stroke) e i farmaci rappresentano spesso il “fattore scatenante” il quadro clinico del delirium. Talvolta il delirium costituisce l’esordio della demenza o rappresenta l’episodio al quale i familiari fanno risalire l’inizio della malattia. Nonostante la frequente coesistenza fra delirium e demenza, la caratterizzazione del quadro clinico del delirium nei pazienti senza e con decadimento cognitivo è poco chiara, così come l’evoluzione in risposta ai trattamenti farmacologici e ambientali. La probabilità che si manifesti delirium è proporzionale alla gravità della patologia somatica ed inversamente proporzionale al grado di compromissione cognitiva. Questo dato è facilmente deducibile dalla prevalenza del delirium nei diversi setting di cura. Ad esempio la prevalenza di delirium cumulativo (cioè la somma dei casi di delirium prevalente e di delirium inciden- 10. PRobLeMATIChe SoMATIChe te) nei pazienti ricoverati in reparti medici convenzionali è del 6,9% contro il 31% nei pazienti ricoverati nell’Unità di cura sub-intensiva dedicata ai pazienti più gravi (Ranhoff et al., 2006). Nelle fasi avanzate della malattia il quadro clinico somatico è dominato da particolari condizioni (cadute, malnutrizione, allettamento, piaghe da decubito), la cui relazione diretta con la malattia dementigena non è però completamente chiarita. Ad esempio, quali sono i fattori che esercitano un ruolo prioritario nella perdita di peso nel paziente con demenza di Alzheimer? Prevalgono i fattori biologici, quelli associati alle modiicazioni dell’assunzione di cibo, alle modiicazioni del metabolismo o all’aumento dell’attività motoria (al wandering?) In assenza di elementi in grado di spiegare il fenomeno anche gli interventi atti a contrastarlo hanno basse probabilità di successo. Questo tuttavia non signiica che sia lecito omettere interventi preventivi. La prevenzione delle cadute, che verosimilmente hanno genesi multifattoriale (fattori propri della condizione di base – quali deicit dell’equilibrio e dell’andatura, deicit sensoriali e cognitivi, effetto di trattamenti farmacologici-neurolettici e benzodiazepine in particolare –, patologie concomitanti), e che sono causa di conseguenze devastanti, impone interventi di controllo; la comparsa di cadute in un soggetto con deterioramento cognitivo deve essere sempre considerata un “evento spia” di malattie somatiche (Bianchetti e Trabucchi, 2005). Il paziente con demenza in fase avanzata presenta molti fattori di rischio per lo sviluppo di piaghe da decubito: immobilità, alterazione della capacità di percepire il dolore da malposizionamento (e di comunicare il dolore: come si manifesta nel paziente con demenza?), incapacità di modiicare la posizione nel letto, incontinenza urinaria e fecale, jatrogenesi farmacologica (sedazione) e non farmacologica (mezzi di contenzione), anemia e malnutrizione. Se è indubbio che la presenza di questi fattori, spesso la loro co-presenza, rende più impegnativa la gestione del paziente, è altrettanto vero che lo sviluppo di lesioni da decubito rappresenta sempre l’epifenomeno di malpratica. A parità di gravità di malattia e di disabilità nei pazienti con piaghe da decubito la mortalità è circa 5-6 volte maggiore rispetto ai pazienti senza piaghe. Per questo motivo le modalità preventive dovrebbero rappresentare una delle procedure routinarie della gestione del paziente con demenza in fare avanzata. In ogni reparto dovrebbe essere implementato uno speciico protocollo di prevenzione che prevede l’identiicazione del paziente a rischio, il posizionamento corretto a letto e in sedia, il cambiamento periodico di posizione e l’utilizzo corretto dei presidi. Utile anche l’impiego di un protocollo per la cura delle piaghe da decubito: sebbene i risultati disponibili relativi a quelli di più comune impiego (ad es. AHCPR) presentino aspetti controversi, essi sono risultati suficienti per deinire la superiorità di questa linea di intervento rispetto alla frequente e diffusa improvvisazione. 201 202 ANDReA uNGAR, ReNzo RozzINI Un ulteriore problema clinico di riscontro frequente nelle corsie ospedaliere è la gestione delle fasi terminali della malattia. Negli ultimi anni il problema è stato affrontato da diversi punti di vista: 1) Etico (quali cure e ino a quando estenderle?). Per i pazienti affetti da demenza con basso livello di comorbilità e disabilità l’orientamento attuale va dagli interventi cosiddetti globali che prevedono un livello ordinario di cura con l’esclusione della rianimazione della quale il paziente non si gioverebbe in alcun modo, mentre per il paziente con demenza grave gli interventi, di base, che non prevedono test invasivi e il trattamento ha la inalità di mantenere il comfort e la funzione (in nessun caso comunque il solo prolungamento della vita rappresenta una inalità realistica da perseguire); 2) Economico (quanto costa la cura dei terminali?); 3) Clinico: la gestione del paziente è ispirata dalle regole della medicina palliativa (la terapia prevede l’impiego di ossigeno, di analgesici, di antiemetici) che rappresenta il punto più avanzato e accettato di cure anche in questa tipologia di pazienti. Secondo la prospettiva descritta l’approccio al paziente con demenza non può prescindere dalla valutazione delle problematiche mediche generali, ed in particolare da quelle condizioni che modiicano signiicativamente il decorso della malattia e la qualità di vita. Le demenza, e la malattia di Alzheimer (AD) in particolare, colpisce un numero sempre crescente di persone sia nei paesi occidentali che in quelli in via di sviluppo e rappresenta una delle maggiori side ai sistemi socio-sanitari (Wimo et al., 2003; Bianchetti e Trabucchi, 2005). Negli anni passati ci si era interrogati sul rapporto fra demenza e salute somatica (arrivando ad ipotizzare che i pazienti affetti da AD fossero “più sani”) e sulla possibilità che la demenza di per sé non incidesse sulla sopravvivenza ma solo sulla qualità della vita delle persone (Mc Cormick et al., 1994; Schubert et al., 2006). È oggi ormai chiaro che l’AD (e le demenze in generale) rappresenta non solo una delle principali cause di disabilità, ma anche di mortalità nella popolazione anziana. Lo studio ILSA (Italian Longitudinal Stady on Aging) ha dimostrato che il rischio di mortalità a due anni è 3.61 negli anziani dementi, mentre è 2.01 in quelli affetti da neoplasia, 1.87 in chi ha uno scompenso cardiaco e 1.62 in chi è diabetico (Baldereschi et al., 1999). Il Cache County Study ha dimostrato che la demenza è tra le malattie croniche il più forte predittore di mortalità a 5 anni, con un aumento che si osserva per ogni livello di severità e anche nelle età più avanzate (tabella 10.1) (Tschanz et al., 2004). È interessante osservare come tra i soggetti valutati per la presenza di un deterioramento cognitivo vengono frequentemente riscontrate patologie somatiche ino a quel momento misconosciute (Larson et al., 1984; Brauner et al., 2000). Il loro mancato (o tardivo) riconoscimento è il risultato di un approccio clinico concentrato esclusivamente sugli aspetti cognitivi o comportamentali e che non considera la componente isica come signiicativa nell’equilibrio complessivo del paziente (Bianchetti et al., 1993). L’identiicazione 10. PRobLeMATIChe SoMATIChe precoce e il pronto trattamento della comorbilità rappresentano invece uno degli aspetti centrali nella clinica della malattia organica nel demente, poiché il mancato trattamento delle patologie somatiche inluenza in modo signiicativo sia la salute in generale sia l’evoluzione della cognitività e dello stato funzionale (Bianchetti et al., 2006). È stato osservato che in pazienti affetti da AD valutati longitudinalmente il principale fattore predittivo di decadimento cognitivo a sei mesi è la terapia medica della comorbilità somatica (Bianchetti, 1990). È anche dimostrato che la demenza aggrava la prognosi delle malattia acute, sia nel paziente che vive al domicilio, che in quello ricoverato in ospedale o in casa di riposo (Erkinjuntti et al., 1986; Eaker et al., 2002; Schubert et al., 2006). Tabella 10.1 - Costo sociale della malattia di Alzheimer. Confronto fra vari paesi (stime dei costi in dollari uSA, valuta anno 2000) Autori ernst et al., 1994 Wimo et al., 1997 Andersen et al., 1999 o’Shea et al., 2000 Trabucchi, 1999 Nazione uSA Svezia Danimarca Irlanda Italia Anno 1991 1991 1996 1994-1996 1995-96 N. di soggetti Stima su scala nazionale Stima su scala nazionale Stima su scala nazionale 245 103 Durata dell’osservazione Metanalisi Metanalisi Metanalisi 24 mesi 12 mesi Costo totale 33.210 201.800 54.836 11.822 53.560 Costo spese ospedaliere 1.600 102.200 29.400 3.468 3.727 Proporzione spese ospedaliere 4,82 50,64 53,61 29,34 6,96 Il rapporto fra malattie isiche e demenza è perciò bidirezionale e più complesso di quanto ino ad ora si fosse ritenuto. Non solo la demenza rappresenta un fattore di rischio per la comparsa di malattie somatiche, ma le patologie somatiche possono avere un ruolo causale (o concausale) nella patogenesi del processo dementigeno e rappresentare un fattore di aggravamento delle manifestazioni sintomatologiche (sia cognitive che comportamentali) e della disabilità (Resnick e Marcantonio, 1997). Il malato di demenza, quando affetto da una patologia somatica, giunge frequentemente al medico con una presentazione “indiretta”, manifestando la comparsa di problemi relativi all’autosuficienza (ad esempio, la rapida perdita funzionale in assenza di deicit neurologici focali, che si può riscontrare in corso di polmonite o disidratazione) o problemi relativi al comportamento (agitazione, aggressività, insonnia) (Bianchetti e Trabucchi, 2005). In ge- 203 204 ANDReA uNGAR, ReNzo RozzINI nere i soggetti con demenza riportano meno puntualmente i sintomi somatici, creando quindi una sottostima nella diagnosi e cura (Ueki et al., 2001; McCormick, 1994). L’interfaccia tra demenza e comorbilità somatica trova nell’ospedale una espressione speciica e di particolare rilievo per la salute dei pazienti. È infatti dimostrato che l’outcome ospedaliero di molte patologie acute (polmonite, infarto del miocardio, frattura di femore) è peggiore nel paziente con demenza, indipendentemente dalla gravità speciica della patologia di base, e questi pazienti alla dimissione con minore frequenza ricevono il trattamento ottimale (Sloan et al., 2004). Inoltre, una parte sostanziale dei costi sociali dell’AD è determinata dalla cura delle patologie somatiche che devono essere viste come una vera “complicanza” della malattia di fondo e non solo come una concomitanza casuale (Ernst e Hay, 1994; Bianchetti e Trabucchi, 2003). È stato calcolato che il 63% dei costi sostenuti da Medicare per l’AD è dovuto all’ospedalizzazione (Weiner et al., 1998). Questo dato è inluenzato dall’organizzazione dei sistemi sociosanitari; dove infatti vi è un forte sviluppo dei servizi territoriali e dove la struttura familiare mostra una elevata capacità di sostenere il carico assistenziale il costo per l’ospedalizzazione si riduce fortemente; uno studio condotto in Italia su una coorte di soggetti con AD in fase lieve ha infatti dimostrato che il costo per l’ospedale per acuti è circa il 7% del totale (tabella 10.1) (Trabucchi, 1999). 3. L’ospedalizzazione del paziente con demenza: quanti, quando e perché Gli studi sul tasso di ospedalizzazione dei pazienti con malattia di Alzheimer sono contraddittori per le differenze in termini di setting di studio e di metodologia di raccolta dei dati. Nella maggior parte dei casi vengono utilizzati i sistemi di codiica delle diagnosi alla dimissione (Scheda di dimissione ospedaliera – SDO). La codiica della diagnosi di malattia di Alzheimer o di demenza in generale nei reparti per acuti non rende però ragione della effettiva dimensione del fenomeno; vi è, infatti, una sottovalutazione sia per ragioni di tipo culturale che di tipo amministrativo. Infatti, nella IX versione della Classiicazione internazionale delle malattie (International Classiication of Disease, 9th Revision – Clinical Modiication – ICD9-CM) esiste un solo codice per la malattia di Alzheimer (331), che non permette di differenziare i vari livelli di gravità e le possibili complicanze che determinano un aumento signiicativo delle risorse impiegate, mentre i codici per le forme di demenza (la serie 290) rientra tra le malattie mentali che ottengono un rimborso inferiore (tabella 10.2) (Fillit et al., 2002). 10. PRobLeMATIChe SoMATIChe Tabella 10.2 - Classificazione della demenza secondo la IX versione della Classificazione internazionale delle malattie (International Classification of Disease – 9th revision – Clinical Modification) 290 Stati psicotici organici senili e presenili 290.0 Demenza senile, non complicata Demenza senile: SAI tipo semplice 290.1 Demenza presenile Sindrome organica con malattia presenile del cervello 290.10 Demenza presenile, noncomplicata Demenza presenile: tipo semplice SAI 290.11 Demenza presenile con delirium Demenza presenile con stato confusionale acuto 290.12 Demenza presenile con aspetti deliranti Demenza presenile, tipo paranoide 290.13 Demenza presenile con aspetti depressivi Demenza presenile, tipo depressivo 290.2 Demenza senile con aspetti deliranti o depressivi 290.20 Demenza senile con aspetti deliranti Demenza senile, tipo paranoide Psicosi senile SAI 290.21 Demenza senile con aspetti depressivi 290.3 Demenza senile con delirium Demenza senile con stato confusionale acuto 290.4 Demenza arteriosclerotica Demenza o psicosi multi-infartuale 290.40 Demenza arteriosclerotica, non complicata Demenza arteriosclerotica: SAI tipo semplice 290.41 Demenza arteriosclerotica con delirium Demenza arteriosclerotica con stato confusionale acuto 290.42 Demenza arteriosclerotica con aspetti deliranti Demenza arteriosclerotica, tipo paranoide 290.43 Demenza arteriosclerotica con aspetti depressivi Demenza arteriosclerotica, tipo depressivo 290.8 Altre condizioni psicotiche senili specificate Psicosi presbiofrenica 290.9 Condizioni psicotiche senili non specificate Fonte: Classificazione delle malattie, dei traumatismi, degli interventi chirurgici e delle procedure diagnostiche e terapeutiche, versione italiana dell’ICD9-CM, Regione Lombardia, 2002. Nel Regno Unito viene stimato che il 66% dei posti letto in un tipico ospedale generale è occupato da persone anziane, delle quali il 30% circa è affetto da demenza (Royal College of Psychiatrists, 2005). In uno studio condotto su oltre 21.000 cartelle di soggetti ultrasessantenni dimessi dal John Hopkins Hospital di Baltimora la diagnosi di demenza (codici 290 e 331 dell’ICD9) è stata effettuata nel 3,9% dei casi (Lyketsos et al., 2000). Gli autori rilevano un aumento del- 205 206 ANDReA uNGAR, ReNzo RozzINI la frequenza di diagnosi di demenza in relazione all’età (dal 2,6% per i soggetti con età fra 60 e 64 anni all’8,9% fra gli ultraottantacinquenni); i pazienti dementi risultano più vecchi dei non dementi (74 vs 71 anni rispettivamente) ed hanno una durata della degenza superiore (10,4 vs 6,5 giorni). La demenza di per sé o le sue complicanze (delirium, disturbi comportamentali) erano la causa del ricovero soltanto nel 12,2% dei casi, mentre nei restanti erano patologie somatiche (le più frequenti sono cardiopatia ischemica, disidratazione, infezioni urinarie, polmonite, scompenso cardiaco). In uno studio condotto su circa 2.000 soggetti con età superiore a 55 anni, ricoverati consecutivamente in un reparto universitario di Medicina di Helsinki, la frequenza di demenza è risultata del 9,1%, con un incremento dallo 0,8% per i soggetti con età fra 55 e 64 anni al 31,2% fra gli ultraottantacinquenni (Erkinjuntti et al., 1986). In uno studio condotto in Italia da Greco e coll. su oltre 50.000 pazienti ultrasessantacinquenni ricoverati in un ospedale per acuti la prevalenza di demenza utilizzando i codici desunti dalle SDO è risultata dello 0,58%, sorprendentemente più bassa di quanto descritto in letteratura, a dimostrazione dell’inluenza determinante delle variabili di tipo culturale ed organizzativo (Greco et al., 2005). In questo studio nel 42% dei casi la diagnosi di demenza era la diagnosi principale, mentre nel restante 58% si trattava di una diagnosi secondaria. Il ricovero di un paziente con demenza è motivato dalla presenza di complicanze somatiche o da condizioni legate alla malattia di base, quali il delirium, la presenza di disturbi comportamentali o la malnutrizione (Lyketsos et al., 2000). I pazienti con AD a maggior rischio di ospedalizzazione sono quelli con maggiore severità del deicit cognitivo, con malnutrizione e con un minore autosuficienza nelle attività della vita quotidiana, con minore disponibilità di servizi domiciliari di supporto familiare (Balardy et al., 2005). La comorbilità somatica nel paziente con demenza ricoverato in ospedale ha un impatto determinante sulla mortalità a breve e lungo termine (Rozzini, 2005). La compresenza della demenza determina un aumento della mortalità a due anni, anche in pazienti istituzionalizzati ed affetti da decadimento cognitivo (Lapane et al., 2001). La demenza rappresenta per il paziente ospedalizzato un predittore indipendente di aumentata durata della degenza, di maggiore perdita funzionale e di più elevata frequenza di istituzionalizzazione (Holmes e House, 2000). I pazienti con demenza ricoverati in ospedale per acuti sono maggiormente suscettibili al rischio di contrarre infezioni, sepsi e danni iatrogeni (Torian et al., 1992). Con l’obiettivo di veriicare se i pazienti con AD fossero a maggior rischio di mortalità intraospedaliera rispetto ai pazienti non affetti da AD è stato condotto uno studio utilizzando i dati di oltre 7 milioni di ricoveri avvenuti nello stato di New York dal 1995 al 2000 (Laditka et al., 2005). Tra gli uomini l’odds ratio del- 10. PRobLeMATIChe SoMATIChe la mortalità è più alto per i soggetti con AD affetti da emorragia gastrointestinale (+52%), scompenso cardiaco (+35%), frattura di femore (+35%), infarto miocardio (+30%) (p<0,001 in tutti i casi). Tra le donne affette da AD non è stato osservato un aumento di rischio per nessuna condizione medica. La mortalità a sei mesi, in un gruppo di pazienti con deterioramento cognitivo ricoverati in un reparto di geriatria per acuti, si dimostra superiore nei malati che presentano minore autosuficienza premorbosa nelle attività della vita quotidiana, o che sono affetti da patologia di maggiore gravità, quali scompenso cardiaco severo e neoplasie (Rozzini et al., 2003). Le patologie infettive rappresentano una delle cause più frequenti di ospedalizzazione del paziente con demenza e sono caratterizzate da una maggiore mortalità rispetto ai soggetti anziani cognitivamente integri, particolarmente nelle fasi più avanzate della demenza (Panza et al., 2003). In uno studio condotto al Mount Sinai Hospital di New York è stato rilevato che la mortalità a sei mesi di soggetti ultrasettantenni con demenza severa ricoverati per polmonite è del 53% confrontata con il 13% dei soggetti non dementi (Morrison e Siu, 2000). Tra i soggetti ricoverati per frattura di femore la mortalità è risultata rispettivamente del 55% e del 12%. Malgrado esistano atteggiamenti terapeutici che, sulla scorta di questi dati, privilegiano interventi a bassa intensità nel paziente demente con infezioni acute, caratterizzati dal solo trattamento sintomatico, è stato dimostrato che un intervento terapeutico intensivo in speciici setting (reparti internistici o geriatrici ad alto livello di intensività), anche nel paziente affetto da demenza severa e grave comorbilità, può determinare la guarigione della patologia infettiva acuta e condizionare la prognosi, rispetto al trattamento convenzionale (van der Steen et al., 2001; Saltvedt et al., 2002; Trabucchi e Bianchetti, 2004). La gravità della prognosi delle patologie acute nel paziente dipende anche dal fatto che queste giungono all’osservazione del medico in stadio più avanzato per la relativa incapacità del paziente nel comunicare i propri sintomi somatici, condizione che ritarda la diagnosi ed il trattamento della patologia infettiva, anche perché la sua presentazione può essere paucisintomatica: l’assenza di febbre, tosse e dispnea è caratteristica della presentazione atipica della polmonite nell’anziano demente, per esempio. Quest’ultima patologia può infatti presentarsi con sintomi atipici quali apatia, oppure la comparsa di stato confusionale (Gaillat, 2003). La decisione pertanto di trattare l’infezione in ambiente ospedaliero, piuttosto che in altri setting (domicilio, residenza sanitaria assistenziale), dovrebbe venire valutata non in reazione a elementi di carattere organizzativo od economico, ma in base alle caratteristiche di gravità clinica, cognitiva e funzionale del paziente demente (Brooks et al., 1994). 207 208 ANDReA uNGAR, ReNzo RozzINI 4. Trattamento della malnutrizione e della disfagia (NE, PEG) La maggiore mortalità frequentemente rilevata nei pazienti ospedalizzati affetti da demenza è, almeno in parte, attribuibile alla presenza di malnutrizione. In molti studi effettuati su pazienti ricoverati in RSA, la malnutrizione caloricoproteica è stata rilevata nel 50% circa dei pazienti, ed il calo ponderale è più frequente nei dementi rispetto ai non dementi istituzionalizzati (Wang et al., 1997). La malnutrizione è associata ad incremento della comorbilità (in particolare la comparsa di infezioni, la lenta riparazione cellulare nelle piaghe da decubito) e della mortalità: infatti lo stato nutrizionale è associato con il funzionamento dei processi immunitari, la produzione delle emazie e la sintesi proteica. Poiché il calo ponderale e la malnutrizione rappresentano un importante problema nel corso della malattia, diventa fondamentale conoscerne il momento di insorgenza e pianiicare i programmi terapeutici per contrastarli. Alcuni studi hanno dimostrato che un’attenta supervisione dei pazienti dementi determinava il mantenimento dello stato nutrizionale, garantendo una pari sopravvivenza fra dementi e non dementi istituzionalizzati a due anni (Franzoni et al., 1996); inoltre, la somministrazione di una dieta adeguata e bilanciata si associava con il mantenimento dello stato nutrizionale anche per un anno in pazienti dementi non malnutriti (Spindler, 1996). Nei pazienti affetti da demenza esiste pertanto la necessità di un maggiore controllo, o di un aumento dell’introito alimentare, rispetto ai pazienti non dementi della stessa età. Questa condizione supporterebbe l’adozione di un protocollo nutrizionale, in grado di modiicare tutti i fattori coinvolti nel calo ponderale: caratteristiche del paziente e dell’ambiente, composizione della dieta (Boffelli et al., 2004). L’obiettivo inale è il benessere somatico, la diminuzione dei costi e del carico familiare attraverso la riduzione delle complicanze da malnutrizione (infezioni, decondizionamento funzionale con rischio di caduta e di frattura, allettamento). Se l’intervento nutrizionale preventivo sembra avere raggiunto un livello di eficacia e di deinizione operativa, meno certa è l’evidenza di eficacia della nutrizione enterale (NE) effettuata tramite sondino naso-gastrico (SNG) oppure tramite PEG (gastrostomia endoscopica percutanea). La letteratura ha evidenziato una maggiore mortalità nei pazienti cui viene posizionata la PEG, con conseguente diminuzione del ricorso a tale procedura (White et al., 1996; Gillick, 2000; Grant 1998). Tuttavia, tutti gli studi pubblicati a tale proposito presentano macroscopici bias di selezione: popolazioni miste (neoplasie in fase terminale con disfagia; pazienti con demenza vascolare o altre patologie neurologiche con disfagia severa; pazienti con malattia di Alzheimer in diversi stadi della malattia o con patologie acute), scarsa considerazione degli indicatori prognostici biologi- 10. PRobLeMATIChe SoMATIChe ci (albumina e colesterolo) o di altra natura (stato funzionale, lesioni da decubito) (Gillick, 2000). Limitati studi osservazionali hanno comunque rilevato che, quando utilizzata correttamente, la nutrizione enterale tramite PEG si dimostra superiore al SNG nel migliorare la prognosi e lo stato nutrizionale (Dwolatzky et al., 2001; Cervo et al., 2006). È però dimostrato in letteratura che il ricorso alla PEG nel paziente con demenza grave non modiica la life span, anzi ridurrebbe la vita in relazione alla maggiore comparsa di eventi negativi quali polmoniti ab ingestis, per cattiva gestione dello strumento: pertanto, il ricorso alla NE non sembrerebbe avere indicazioni cliniche se l’outcome atteso è l’aumento della sopravvivenza (Braun, 2001). In peculiari situazioni, tuttavia, la PEG potrebbe rappresentare l’unico strumento per garantire la somministrazione di cibo, liquidi e farmaci alla persona demente qualora, per limiti legati al setting o all’agitazione, tali procedure non siano ottenibili tramite le vie convenzionali (orale o parenterale). In questa situazione la PEG troverebbe giustiicazione come strumento utile per la “palliazione” e la terapia sintomatica, non ottenibili in altro modo (Boffelli et al., 2004; Cervo et al., 2006). Alcuni studi hanno determinato l’eficacia del ricorso a linee guida, basate sulla prognosi del paziente, per l’indicazione al posizionamento della PEG: sulla base di queste (prognosi superiore a sei mesi), il numero di PEG posizionate in ospedale è drasticamente ridotto (Sanders et al., 2002). Analogo tentativo avviene per i pazienti istituzionalizzati: sia in Italia che negli USA sono state pubblicate linee guida sulla prevenzione e cura della malnutrizione (Casale et al., 2001; Thomas et al., 2000). In particolare, tendono ad indirizzare al posizionamento della PEG soprattutto i pazienti dementi con disfagia e rischio di malnutrizione, quando le condizioni cliniche non siano gravemente compromesse. Il ricorso a tali linee guida potrebbe evitare l’inutile posizionamento di PEG ai pazienti terminali (che non si beneiciano, in termini di sopravvivenza, dell’intervento): pertanto, la PEG verrebbe posizionata solo ai pazienti con prognosi superiore a sei mesi e iniziale (e perciò reversibile) malnutrizione dovuta alla recente comparsa di disfagia (Boffelli et al., 2004; Monteleoni e Clark, 2004). 5. La valutazione della prognosi per il trattamento delle infezioni L’appropriatezza della diagnosi e l’impatto della “care” dovrebbero essere basate sulla prognosi del paziente, in particolare nelle fasi avanzate della demenza (Morrison e Diane, 2004). I dementi si trovano prevalentemente nella categoria delle persone fragili, caratterizzate da una limitata speranza di vita, sia per gli uomini che per le donne. Qualsiasi intervento terapeutico deve quindi tenere in conto di questo limite: ciò induce ad adottare provvedimenti che si collochi- 209 210 ANDReA uNGAR, ReNzo RozzINI no all’interno della prospettiva di vita, senza interventismi inutili, ma allo stesso tempo senza rinunce pessimistiche. Non esistono linee guida precise: deve essere valutata, caso per caso, ogni singola situazione, considerando la variabilità individuale, le scelte personali (anche quelle espresse dal paziente nello stato pre-demenza), le dinamiche psicologiche dei familiari e le loro scelte etiche. A tale proposito, esistono notevoli differenze culturali nei diversi Paesi: ad esempio, la somministrazione di antibiotici per la polmonite viene considerata inadeguata in Olanda, ove prevale un atteggiamento astensionista (van der Steen et al., 2001). Al contrario, in Italia si seguono le più comuni linee guida per il trattamento della polmonite, indipendentemente dalla presenza di demenza (Rozzini et al., 2003). Parimenti, negli Stati Uniti, l’atteggiamento è caratterizzato da un maggiore atteggiamento interventista: i pazienti affetti da demenza vengono più facilmente sottoposti a terapia antibiotica (e con diverse molecole), vengono più facilmente ospedalizzati, e ricevono cure reidratanti intravenose rispetto ai pazienti olandesi. D’altra parte, si evidenzia che il trattamento viene eseguito indipendentemente dal grado di severità della demenza; inoltre, scarsa attenzione viene data ai sintomi del paziente (van der Steen et al., 2001). Allo stato attuale della letteratura non esistono trial randomizzati e controllati, o linee guida da essi derivati, che indichino un diverso atteggiamento terapeutico, nei confronti delle infezioni del paziente demente, in base alla prognosi. È stato tuttavia dimostrato che un intervento terapeutico intensivo in speciici setting (reparto geriatrico intensivo per acuti), anche nel paziente affetto da demenza severa e grave comorbilità, può determinare la guarigione della patologia infettiva acuta e condizionare la prognosi (Saltvedt et al., 2002). 6. La contenzione fisica L’uso di mezzi di contenzione è utilizzato nel 30-60% dei pazienti affetti da demenza ricoverati nei reparti ospedalieri per acuti (Hamers e Huizing, 2005). Le ragioni più frequentemente addotte sono la prevenzione dei comportamenti autolesivi (come lo scendere dal letto in assenza del necessario aiuto) o l’interruzione ingiustiicata di un trattamento medico (Cotter, 2005). La protezione di presidi medicali conduce sovente all’uso della contenzione; i dispositivi terapeutici più comunemente protetti sono i cateteri venosi periferici e centrali, il sondino nasogastrico ed endotracheale ed il catetere vescicale (Marks, 1992). Altri contenimenti sono applicati esclusivamente per l’irrequietezza o l’agitazione dei pazienti o per evitare che questi arrechino disturbo agli altri degenti (Chien, 2000). Si deve considerare che lo stress conseguente al trasferimento in ospedale è spesso la causa principale di comportamenti aberranti; ogni risposta contentiva deve prima considerare questo disagio ed attuare atteggiamenti tranquillizzanti. 10. PRobLeMATIChe SoMATIChe La contenzione isica della persona anziana appare come antitetica alla deinizione stessa di assistenza; purtroppo spesso è applicata non come estrema ratio, ma come metodica routinaria di fronte ai pazienti che manifestano disturbi comportamentali o che mettono a repentaglio la propria o altrui sicurezza (Zanetti, 1997). Il ricorso ai mezzi di contenzione è inoltre privo di qualsiasi evidenza di beneicio per il soggetto a fronte di un’evidente lesività della dignità personale, ben note e gravi complicanze, nonché notevoli ripercussioni sulla qualità della vita dei soggetti. L’uso sistematico della contenzione isica non previene le cadute (Rubenstein et al., 1994; Shorr et al., 2002) né controlla la confusione (Bredthauer et al., 2005); anzi l’uso dei mezzi di contenzione è associato ad un aumento di cadute; vi sono dati che confermano che le conseguenze più gravi dopo una caduta riguardano soggetti che cadono mentre sono sottoposti a contenzione (Marks, 1992; Tinetti et al., 1992). L’uso della contenzione per ridurre il vagabondaggio è più dannoso che beneico (Marini e Salsi, 1994). La discussione sorta negli ultimi anni, soprattutto negli USA, sull’utilità della contenzione isica in geriatria ha determinato un ampio consenso sui gravi rischi del suo utilizzo e sulla sua ineficacia rispetto alle motivazioni che ne hanno sostenuto il ricorso. La contenzione può essere pertanto considerata come raramente appropriata nei pazienti anziani (Evans et al., 1991; Capezuti, 2004; Zanetti, 1997). Le indicazioni al ricorso alla contenzione riportate in letteratura, spesso all’interno delle linee guida che ne regolamentano l’utilizzo, sono esclusivamente: circostanze eccezionali, situazioni di emergenza, quando il comportamento del paziente rappresenti un immediato pericolo per sé o/e per altri, e l’uso della contenzione si dimostri la scelta migliore; protezione di presidi medicali specialmente quando necessari per l’immediato benessere del paziente (Scherer et al., 1993). Rubenstein et al. deiniscono ragionevole e necessario il ricorso alla contenzione (almeno nella forma delle spondine) nelle seguenti circostanze, indipendentemente dall’età del soggetto: iperattività associata a stato confusionale, trasporto con barella, periodo pre e post sedazione, stato di incoscienza o di ebbrezza e quando è in pericolo la sicurezza del paziente (Rubenstein et al., 1983). Vi sono pareri contrastanti circa l’utilizzo della contenzione per mantenere correttamente seduto sulla sedia o poltrona il paziente: alcuni indicano che la soluzione migliore debba essere ricercata nella possibilità di disporre di diversi tipi di sedie e poltrone adattabili alle esigenze del paziente e nell’incremento di tecniche riabilitative appropriate (Zanetti, 1997). L’obiettivo principale di una rivalutazione della pratica della contenzione è volto a ridurne il ricorso in ambito ospedaliero, sebbene ciò non si prospetti né immediato né facile, poiché richiede uno sforzo non indifferente e notevoli cambiamenti culturali, organizzativi e professionali. 211 212 ANDReA uNGAR, ReNzo RozzINI 7. Le cure palliative Numerosi lavori hanno dimostrato che nei pazienti affetti da demenza ricoverati in ospedale l’uso di cure palliative è inadeguato (Sampson et al., 2006). Le “cure palliative” sottolineano la complessità dell’approccio terapeutico-assistenziale, non limitato ai sintomi isici, ma comprendente anche gli aspetti psicologici, sociali e spirituali delle patologie per le quali non è possibile un intervento curativo (Hughes et al., 2005). Un approccio palliativo deve essere parte integrante di ogni pratica clinica nelle patologie croniche in fase avanzata ed è rivolto al controllo del dolore, al supporto dell’idratazione e della nutrizione, al controllo dei sintomi comportamentali senza il ricorso alla contenzione isica, al controllo non aggressivo delle infezioni intercorrenti (Aminoff e Adunsky, 2005; Hughes et al., 2005). Negli ultimi anni si sono sviluppate esperienza di servizi speciicamente disegnati per fornire un elevato livello di cure palliative ai pazienti dementi in fase avanzata (Sampson et al., 2005). Negli USA alcune Special Care Units (SCU) si sono specializzate nelle cure palliative (Volicer et al., 1994) con risultati contraddittori rispetto alla realtà italiana nella quale questa tipologia di servizi è rivolta alla massimizzazione delle risorse residue ed alla riduzione delle contenzioni (Bellelli et al., 1998). In alcune esperienze si è cercato di integrare le cure palliative nell’assistenza primaria, con risultati non chiari in termini di stress dei familiari (Shega et al., 2003). Una recente revisione sistematica degli studi disponibili non è stata in grado di dimostrare una effettiva superiorità di servizi strutturati per fornire cure palliative rispetto ai servizi tradizionali (Thomas et al., 2006). Questo suggerisce che un approccio clinico al paziente demente in fase avanzata orientato al controllo dei sintomi (dolore in particolare), attento alle dimensioni psicologica e relazionale, in grado di fornire le cure appropriate, nel contempo evitando di superare il limite dell’accanimento terapeutico, è appropriato e necessario in ogni setting di cura e particolarmente nell’ospedale per acuti (Trabucchi e Bianchetti, 2004). La cura del dolore è uno degli obiettivi principali delle cure palliative, partendo dalla considerazione di quanto sia ancora limitata in questo campo la cultura degli operatori. Troppo spesso nel trattamento del demente grave il dolore ha uno spazio secondario; ciò rappresenta una grave mancanza di rispetto verso uno degli scopi primari della stessa struttura ospedaliera. Il ricovero in ospedale per un paziente con malattia di Alzheimer o demenza rappresenta un evento cruciale per la sopravvivenza e per la funzione, che richiede un approccio specialistico, in grado di fornire, in base alla prognosi del paziente, il livello più adeguato di cure che può essere talvolta altamente intensivo, talaltra limitato agli interventi palliativi, con una grande attenzione alle problematiche sociali e familiari. L’approccio clinico al paziente con demenza in ospedale è quindi il paradigma dell’approccio geriatrico alla persona ammalata. 10. 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Problematiche riabilitative nelle persone affette da demenza Simona Gentile, Alessandro Morandi, Christian Pozzi, Michela bozzini, elena Lucchi e Giuseppe bellelli 1. Introduzione Il deicit cognitivo, e la demenza in particolare, sono stati tradizionalmente guardati con difidenza da chi si è occupato e si occupa di riabilitazione, ne è esempio che nei corsi di laurea e di formazione dei futuri riabilitatori, medici, infermieri e isioterapisti, l’insegnamento del corretto approccio al paziente affetto da disturbo cognitivo riveste un ruolo ancora marginale. Certamente pesa molto lo stigma nei confronti delle patologie mentali, che sono viste ancora oggi da molti come potenziali minacce allo stereotipo culturale, per cui la riabilitazione è possibile solo per chi è pregiudizialmente collaborante alle indicazioni di chi eroga l’intervento. Tale visione è oggi messa in discussione da evidenze scientiiche che suggeriscono, da un lato, la possibilità di recupero anche nei pazienti, affetti da deicit cognitivo e, dall’altro, una “esplosione” del fenomeno “demenza” atteso per i prossimi anni, che costringerà a ripensare modelli e schemi di approccio. In questo contesto di grande complessità, diventa quindi obbligatorio, sul piano clinico ed ancor più sul piano etico, non banalizzare il problema e dedicarvi attenzione. 2. La riabilitazione della persona affetta da demenza: dalle evidenze scientifiche alla pratica clinica Nei prossimi anni, il numero delle persone anziane e molto anziane è destinato a crescere in modo esponenziale. Tra queste, le persone affette da demenza aumenteranno in modo ancor più rilevante. Ciò non tanto per un’ineficacia degli interventi di prevenzione, che al contrario sembrano funzionare (Jagger, 2016), quanto perché aumentando il numero assoluto delle persone anziane e molto anziane, aumenterà in modo inevitabile anche il numero assoluto delle persone affette da demenza. Si tenga inoltre conto che proprio i pazienti affetti da demenza, dopo un evento acuto disabilitante quale ad esempio una frattura di femore o un ictus, sono tra le categorie a maggior rischio di outcome negativi dal punto di vista funzionale (Seitz et al., 2014) e dello stato di salute complessiva (Seitz et al., S. Genile, A. Morandi, C. Pozzi, M. Bozzini, E. Lucchi, G. Bellelli 11. Problemaiche riabilitaive nelle persone con demenza 220 S. GeNTILe, A. MoRANDI, C. PozzI, M. bozzINI, e. LuCChI, G. beLLeLLI 2014; Hannan et al., 2001). Ciò potrebbe favorire un fenomeno di continua migrazione da un contesto sanitario ad un altro (ad esempio da riabilitazione a riabilitazione o da ospedale a riabilitazione e poi ancora ospedale), che inirebbe con l’ingolfare il sistema sanitario. 2.1. L’efficacia degli interventi riabilitativi nei pazienti affetti da demenza: le evidenze Negli ultimi anni un numero crescente di evidenze scientiiche ha dimostrato che anche individui affetti da decadimento cognitivo moderato-severo possono trarre beneicio da un trattamento riabilitativo. Uno studio italiano, ad esempio, ha valutato l’associazione tra funzioni cognitive all’ingresso in riabilitazione e recupero funzionale alla dimissione e dopo un anno, in 306 pazienti con frattura di femore, dimostrando maggiori chances di recupero in relazione ad un miglior funzionamento cognitivo. Il dato interessante è che, tuttavia, anche un terzo dei soggetti affetti da deicit cognitivo moderato-severo (MMSE 0-15/30) era in grado di recuperare un cammino indipendente alla dimissione, se opportunamente trattati, mantenendo tali performances a distanza di un anno in circa la metà dei casi (Morghen et al., 2011). Recentissima la pubblicazione di uno studio retrospettivo di ricercatori canadesi che ha valutato gli effetti delle terapie riabilitative post-intervento per frattura di femore in una popolazione di anziani affetti da demenza e residenti in Ontario. I partecipanti (11.200 pazienti arruolati dal 2003 al 2011) sono stati suddivisi in quattro gruppi secondo il tipo di trattamento riabilitativo effettuato dopo l’intervento chirurgico: no riabilitazione (NR) (n=4.494; 40,1%), Complex Continuing Care (CCC) (n=2.474; 22,1%), paragonabile alle nostre Unità di subacuti, Home Care Rehabilitation (HCR) (n=1.157; 10,3%), paragonabile alla nostra Riabilitazione domiciliare e InPatient riabilitazione intensiva (IPR) (n=3.075; 27,4%), paragonabile alla nostra Riabilitazione intensiva. I risultati hanno evidenziato come i pazienti inseriti nei gruppi HCR e IPR abbiano ottenuto nel corso degli anni un maggior recupero funzionale, con un minor rischio d’istituzionalizzazione; inoltre per tutti i pazienti che hanno effettuato la riabilitazione (CCC, HCR, IPR), ma soprattutto per chi ha ricevuto una riabilitazione più intensiva (IPR), la mortalità è risultata più bassa, rispetto al gruppo di coloro che non venivano indirizzati alla stessa (NR) (Seitz et al., 2016). Pur con i limiti legati al disegno di tipo retrospettivo, lo studio rappresenta un contributo determinante per questo argomento, suggerendo che nessun paziente anziano demente con frattura di femore dovrebbe essere escluso dal trattamento riabilitativo. 11. PRobLeMATIChe RIAbILITATIVe NeLLe PeRSoNe CoN DeMeNzA 2.2. L’efficacia degli interventi riabilitativi nei pazienti con disturbi del comportamento: le evidenze Malgrado non ne sia fatta menzione nei criteri diagnostici comunemente utilizzati per la diagnosi di demenza, i cosiddetti “sintomi psicologici e comportamentali” (Beahvioral and Psychological Symptoms of Dementia – BPSD), deiniti come “disturbi della percezione, del contenuto del pensiero, dell’umore o del comportamento” (International Psychogeriatric Association, 1996) sono un tratto distintivo, si potrebbe dire paradigmatico, delle demenze. Sebbene non sia possibile una regola precisa, i BPSD in genere tendono a differire in funzione del tipo di demenza e s’intensiicano con l’aggravarsi della condizione stessa. I sintomi che più comunemente si osservano nella demenza di Alzheimer e nella demenza vascolare (più o meno associata alla demenza di Alzheimer), sono la labilità emotiva, l’apatia, l’ansia, l’irritabilità e l’affaccendamento motorio ainalistico. Spesso si osservano anche deliri e misidentiicazioni. Nella demenza a corpi di Lewy sono invece più frequenti le allucinazioni visive, mentre nella demenza frontotemporale si osservano impulsività e disinibizione. In ambito riabilitativo esistono pochi studi che hanno valutato l’impatto dei BPSD sugli outcome riabilitativi. In uno studio del 2007 Lenze e collaboratori hanno valutato se la presenza di depressione, apatia e deicit cognitivo rappresentassero un ostacolo al recupero motorio in due popolazioni di pazienti con frattura di femore, ricoverati presso Unità riabilitative di tipo “intensivo” (cioè con trattamenti riabilitativi di almeno tre ore /die da parte di isioterapisti e/o terapisti occupazionali) o estensivo (in cui i pazienti ricevevano non più di due ore riabilitative e un minutaggio inferiore di presenza di medici e infermieri). Il miglioramento funzionale era stato misurato mediante la Functional Independence Measure alla baseline e a 12 settimane (Lenze et al., 2007). Seppur con i limiti di un’esigua numerosità del campione, i risultati dimostravano che depressione e apatia non ostacolavano il recupero funzionale solo nel setting di riabilitazione intensiva, suggerendo indirettamente che un approccio multidisciplinare e quotidiano come quello che si può trovare in una riabilitazione intensiva può migliorare l’outcome motorio anche attraverso meccanismi non strettamente correlati all’esercizio isico ed alla tecnica isioterapica (Lenze et al., 2007). In quest’ottica si fa sempre più importante l’unione tra il mondo riabilitativo geriatrico e la Terapia occupazionale (TO). Infatti, quest’ultima si avvale di modelli concettuali rigorosi dal punto di vista scientiico, ma lessibili dal punto di vista pratico. Il processo terapeutico parte da un colloquio incentrato sulla narrazione della propria storia occupazionale, e arriva, attraverso il ragionamento clinico, al core della terapia: la valutazione e la riabilitazione dell’occupazione tramite il recupero e il rinforzo di attività signiicative e culturalmente importanti, che supportano il soggetto a partecipare, in uno speciico ambiente sociale. Per 221 222 S. GeNTILe, A. MoRANDI, C. PozzI, M. bozzINI, e. LuCChI, G. beLLeLLI far ciò la Terapia occupazionale usa approcci per sviluppare, recuperare o mantenere le abilità di vita quotidiana in un’ottica “client centred pratice”. Propone interventi terapeutici focalizzati sull’adattamento dell’ambiente, sulla modiica del compito, l’insegnamento di abilità e l’educazione della famiglia e del paziente, allo scopo di aumentare la partecipazione alle attività quotidiane. L’intervento del terapista occupazionale non deve essere prescrittivo, ma concordato con il malato ed il suo caregiver in modo che, attraverso un’intervista, un’osservazione e una valutazione si ricostruisca la storia dell’anziano e del suo caregiver, concentrandosi poi sulle esigenze delle persone, rispettando le loro speciicità personali e i loro bisogni di esprimere se stessi in un’attività, in un compito e un’azione particolarmente signiicativa (Pozzi et al., 2011). È stato dimostrato, dalla ricerca scientiica internazionale, come il trattamento di Terapia occupazionale nella demenza porti risultati positivi sia sul paziente che sul caregiver (Rieckmann et al., 2009), i più evidenti dei quali sono relativi alla qualità di vita. Attraverso un’adeguata valutazione dell’ambiente e delle competenze del paziente, il terapista occupazionale è in grado di istruire e migliorare le competenze del caregiver (Graff et al., 2006). La stimolazione ad incrementare lo svolgimento di attività da parte del malato, mantenendo le autonomie nelle attività quotidiane e signiicative presso il domicilio e le strutture di ricovero porta, ad esempio, ad una signiicativa riduzione delle cadute (Lamura, 2008). Un innovativo ed interessante intervento in ambito domiciliare è il metodo EDOMAH – Olanda (Graff et al., 2006; Graff et al., 2007) che in Italia viene chiamato COTiD-IT, questo è risultato eficace per migliorare la qualità di vita dell’anziano e del caregiver, attivare la persona e minimizzare il rischio di caduta. Da vari anni si sta diffondendo, con i primi confortanti risultati avuti, anche in Italia, in progetti sperimentali nella Regione Emilia-Romagna. 3. La Valutazione multi dimensionale, il lavoro in équipe e la comunicazione La Valutazione multi dimensionale (VMD) e il lavoro in équipe rappresentano (o dovrebbero rappresentare) lo standard dell’intervento riabilitativo e lo sono tanto più quando i soggetti dell’intervento sono persone affette da demenza. La VMD ha un duplice scopo: da un lato è necessaria per comprendere il paziente nella sua complessità, utilizzando vari strumenti e misure di outcome che, ragionate e discusse, forniscono una visione di insieme dei problemi, ma è anche un sistema di comunicazione del team per una trasmissione omogenea e coerente di dati e messaggi. La VMD è utile soprattutto quando in aggiunta agli attori del progetto riabilitativo tradizionalmente intesi (medici, terapisti della riabilitazione, infermieri) sono coinvolti anche professionisti con conoscenze e competenze diverse, quali ad esempio i terapisti occupazionali, gli psicologi, i logopedisti e gli assistenti sociali. Facendo riferimento ai dati emersi dalla VMD i molteplici 11. PRobLeMATIChe RIAbILITATIVe NeLLe PeRSoNe CoN DeMeNzA problemi della persona affetta da demenza sono adeguatamente descritti, indagati e, per quanto possibile, affrontati e risolti (Trabucchi, 2003). In riabilitazione gli aspetti della comunicazione – tra paziente e operatore e tra operatore e paziente – sono fondamentali. La capacità di collaborazione che il paziente affetto da demenza è in grado di offrire, di comprendere il signiicato degli ordini impartiti e di riferire i propri bisogni/disagi sono da sempre considerati requisiti essenziali per accedere ad un percorso riabilitativo. È dunque ovvio che, quando si debba riabilitare una persona che, proprio perché affetta da demenza, non presenta tali requisiti, inizino i problemi e si palesino dificoltà. È tuttavia opportuno ricordare, come ben deinito da Paul Watzlawick, uno dei massimi studiosi della comunicazione umana, che è “impossibile non comunicare”. Qualsiasi comportamento, in qualche modo, è già una forma di comunicazione. In questo senso anche il paziente affetto da demenza comunica, sebbene non attraverso i canali verbali tradizionali. Al contempo anche il riabilitatore non può pensare di afidare tutta la sua capacità comunicativa al canale verbale. È stato, infatti, ampiamente dimostrato che la comunicazione verbale rappresenta solo il 7% della comunicazione interpersonale (Mehrabian, a cura di, 1972) e che la maggior parte della comunicazione tra individui avviene attraverso i canali non verbale/paraverbale (Burgoon e Bacue, a cura di, 2003). Pertanto il problema non è se un paziente sia o meno in grado di comunicare, ma cosa e come sta comunicando; chi deve interpretare la comunicazione è bene che si ponga nella disposizione d’animo e nella condizione di cercare di interpretare segni del corpo e della comunicazione paraverbale che apparentemente sembrano irrilevanti. In altri termini ogni operatore dovrà prestare massima attenzione alla mimica, alla gestualità, alle posture e ai movimenti del corpo di ogni paziente affetto da demenza e utilizzare un timbro di voce e un tono che non vengano percepiti come disturbanti dal paziente. Qualunque movimento o risposta del corpo può rappresentare un potenziale segnale comunicativo, non è necessario che i segnali siano prodotti in modo intenzionale, essi devono sempre essere (ri)conosciuti come dotati di signiicato. Ne deriva che in un paziente affetto da deicit del linguaggio (ovviamente il discorso non vale soltanto per la persona affetta da demenza moderato-grave ma anche ad esempio per la persona con ictus ed afasia), l’approccio non potrà essere lo stesso utilizzato nei pazienti senza tali disturbi. In questo contesto l’osservazione del paziente e l’attenzione alle modalità di interazione con esso sono fondamentali. L’osservazione del paziente permetterà di individuare strategie di comunicazione non verbale che potrebbero essere misconosciute. Il tono, il timbro e il volume della voce, invece, sono utili per entrare in contatto con il paziente e rassicurarlo. In condizioni di demenza in fase avanzata, infatti, il paziente tenderà a reagire non tanto in funzione del messaggio comunicato verbalmente dal terapista (messaggio che il paziente spesso non è in gra- 223 224 S. GeNTILe, A. MoRANDI, C. PozzI, M. bozzINI, e. LuCChI, G. beLLeLLI do di decifrare) quanto in funzione dei modi con cui questo è comunicato. Se il tono e il timbro della voce saranno particolarmente decisi e assertivi, il paziente potrebbe identiicarci come “nemico”, ostacolando il modo decisivo il percorso ed il progetto riabilitativo. È evidente che anche l’ambiente – in cui avvengono la comunicazione e la relazione – diventa importante. Un ambiente tranquillo, sicuro e conosciuto rappresenta il contesto ideale per contrastare il gap attentivo del paziente affetto da demenza. A questo proposito è bene rilevare come sarebbe necessaria una maggiore lessibilità sia da parte di chi progetta e dirige gli ambienti in cui avviene la riabilitazione, sia di chi svolge la riabilitazione stessa. Sarebbe indispensabile, ad esempio, ridurre i rumori di fondo in palestra, spegnere la radio, evitare il chiacchiericcio e stimoli interferenti (come ad esempio le telefonate). Se ciò non fosse possibile (come ad esempio può accadere in ambienti ipertecnologici o sovraffollati), meglio sperimentare ambienti alternativi quali ad esempio le stanze di degenza. Inine, è bene ricordare che anche i BPSD possono rappresentare una sorta di comunicazione non verbale: ad esempio, se un paziente affetto da demenza e frattura di femore si oppone al tentativo di essere posizionato in sedia dopo le manovre di igiene, e diventa aggressivo, la domanda da porsi è la seguente: cosa ci suggerisce questo comportamento? Vuole comunicarci dolore? L’impossibilità di comunicare verbalmente, ancora una volta, è sostituita dalla comunicazione non verbale (Bucholz et al., a cura di, 1998). 4. Le problematiche del delirium sovrapposto a demenza in riabilitazione Il delirium è un disturbo neuropsichiatrico acuto caratterizzato dall’alterazione di molteplici funzioni cognitive (principalmente l’attenzione e le funzioni esecutive) che occorre il più delle volte a seguito dell’insorgenza di un problema clinico acuto (o cronico riacutizzato) ed è espressione di una sofferenza metabolica cerebrale. Quando il delirium si presenta nei pazienti con demenza preesistente è deinito con il termine di delirium superimposto a demenza (DSD). La prevalenza del DSD varia dal 50% all’89% in pazienti ospedalizzati. La presenza di delirium e demenza può inluire in modo signiicativo sul recupero funzionale ed in particolare sulle abilità di deambulare dopo un evento acuto (Marcantonio et al., 2000; Murray et al., 1993; Inouye et al., 1998; O’Keeffe e Lavan, 1997; Francis e Kapoor, 1992; Huusko et al., 2000; Landi et al., 2002; Stenvall et al., 2012; Yu et al., 2005; Fick et al., 2013; McCusker et al., 2001). È stato infatti dimostrato che la presenza di DSD è un importante fattore predittivo della capacità di deambulare in modo autonomo alla dimissione da un dipartimento di riabilitazione e ad un anno di distanza (Morandi et al., 2014). Il valore prognostico della rilevazione del DSD è stato inoltre confermato nel pre- 11. PRobLeMATIChe RIAbILITATIVe NeLLe PeRSoNe CoN DeMeNzA dire il maggior rischio d’istituzionalizzazione e di mortalità a sei mesi e a un anno dall’intervento riabilitativo (Fick et al., 2013; McCusker et al., 2001). Inine l’insorgenza del DSD nei pazienti ricoverati in setting riabilitativi è associata a un importante stress nei pazienti, negli operatori sanitari e nei familiari (Bellelli et al., 2007; Morandi et al., 2015a, Morandi et al., 2015b). L’interpretazione e la conoscenza da parte degli operatori sanitari dell’esperienza correlata all’episodio delirium in pazienti con demenza consentono di migliorare la gestione di tali pazienti e di fornire informazioni importanti ai familiari sull’interpretazione di un evento stressante. Il monitoraggio e l’assessment della presenza di DSD in un reparto di riabilitazione sono quindi un elemento essenziale della valutazione multidimensionale geriatrica dal quale non si può prescindere per la programmazione mulidisciplinare del percorso riabilitativo del paziente con demenza. 5. La “tecnica riabilitativa” Come già sottolineato, per garantire la partecipazione all’intervento riabilitativo da parte del paziente affetto da demenza è necessario allontanarsi dalle procedure convenzionali e adottare un approccio interdisciplinare che riconsideri gli interventi alla luce dei deicit cognitivo-comportamentali. Ciò può avvenire da parte dei riabilitatori esclusivamente attraverso un approccio omnicomprensivo che preveda non solo l’inquadramento del deicit motorio/funzionale, ma anche l’identiicazione delle disabilità comunicative (deicit cognitivo e disturbi del comportamento), l’acquisizione del punto di vista del paziente, l’analisi delle possibili fonti di disagio e la conseguente implementazione di strategie compensative. Un punto fondamentale è la valutazione delle abilità motorie e della storia personale del paziente pre-morbose ed attuali. È necessario ricavare tutte le informazioni riguardanti le abilità motorie (cammino, trasferimenti) raccogliendo i dati anche attraverso il colloquio con il caregiver principale (Staples, 2006). Servono poi informazioni per instaurare la relazione ed adattare il trattamento e l’ambiente alle necessità della persona da trattare: come è composto il nucleo familiare e come sono i rapporti famigliari, conoscerne i nomi, il lavoro svolto, gli hobby e le attività che svolgeva volentieri, se presenta deicit visivi o uditivi. È consigliabile eseguire la valutazione iniziale nella stanza del paziente, poiché rappresenta un ambiente generalmente calmo, per evitare eccessive distrazioni. Successivamente si potrà osservare come il paziente è in grado di comunicare, come mantiene la posizione seduta e l’eventuale presenza di dolore in relazione a posture particolari. Il rapporto instaurato e le notizie raccolte renderanno possibile procedere con la valutazione funzionale: la capacità di muoversi nel letto, di mettersi seduto, di portare a termine i trasferimenti, l’equilibrio e il cammino. Gli strumenti standardizzati di valutazione motoria dovranno varia- 225 226 S. GeNTILe, A. MoRANDI, C. PozzI, M. bozzINI, e. LuCChI, G. beLLeLLI re in relazione al grado di deicit cognitivo. Il lavoro, soprattutto per i pazienti affetti da demenza in fase severa, dovrà prevedere attività comuni della vita quotidiana a forte contenuto riabilitativo (come ad esempio fare i passaggi posturali sul letto della stanza di degenza, più che sul lettino della palestra che invece potrebbe essere percepito come “altro”) e/o particolarmente gradite al paziente (Teri et al., 2008). 5.1. Le differenze tra l’approccio al paziente affetto da demenza lieve e demenza moderato-severa Il paziente affetto da demenza lieve è generalmente in grado di comprendere le inalità della riabilitazione e può relazionarsi verbalmente in modo eficace con il riabilitatore. È comunque buona norma, anche quando ci si avvicini ad una persona con demenza di grado lieve, evitare una sovrapposizione di stimoli verbali e/o ambientali (Marshall e English, 2004). Per i pazienti nei quali il deicit delle funzioni esecutive ed attentive risulti più evidente potrà essere indicato tentare di scomporre le attività complesse nell’ambito delle procedure riabilitative in task sequenziali, per cui, ad esempio, anziché rivolgersi al paziente chiedendo “si alzi e cammini” ci si potrà rivolgere chiedendo “impugni il deambulatore con la mano destra” poi “con la mano sinistra” e quindi “si alzi in piedi”. Il paziente affetto da demenza in fase moderata, a differenza del paziente affetto da demenza lieve, potrebbe invece fraintendere il signiicato stesso dell’atto riabilitativo. Sarà dunque opportuno ricordare frequentemente il senso di ciò che si sta compiendo. In questa fase di malattia vi possono essere dificoltà di linguaggio (comprensione verbale), che dovrebbero essere superate utilizzando particolari accorgimenti (Staples, 2006), quali il parlare vis a vis, rallentare la velocità dell’eloquio e fornire tempi maggiori per le risposte, sempliicare la struttura sintattica (ad esempio, usare frasi brevi con possibilità di risposta si/no), fornire informazioni gestuali supplementari e aumentare la salienza del messaggio. Il paziente affetto da demenza severa, essendo incapace di esprimere verbalmente le proprie sensazioni (di dolore, disagio e insicurezza), tenderà ad esprimere queste sensazioni attraverso comportamenti che potrebbero essere interpretati come inadeguati (ad esempio, manifestando agitazione o diventando addirittura aggressivo se avvicinato da più persone). Per tale motivo, durante ogni sessione, il terapista dovrà osservare le espressioni del viso e del corpo, tenendole costantemente monitorate. Starà alla capacità del terapista capire se gesti di allontanamento o espressioni come “non voglio!” possano in realtà signiicare “non capisco”, “ho paura”, o ancora “ho molto dolore e non riesco a farlo” (Staples, 2006). All’aumentare della gravità del deterioramento cognitivo, si renderà spesso necessario modiicare le procedure dell’approccio riabilitativo “tradizionale”: ad 11. PRobLeMATIChe RIAbILITATIVe NeLLe PeRSoNe CoN DeMeNzA esempio, per lavorare sull’equilibrio si potrà chiedere al paziente di rifare il letto e sistemare le lenzuola, per lavorare sulla resistenza ed il cammino si potrà chiedere al paziente di uscire dalla stanza “per prendere una boccata d’aria”, andare a portare la biancheria da cambiare nell’armadio, andare a portare gli asciugamani in bagno, andare in salottino a vedere se ci sono i famigliari. Tali attività, che per il paziente potranno risultare più piacevoli e potranno avere una maggior salienza emotiva (rispetto ad esempio al camminare tra le parallele) permetteranno di stimolare il paziente a compiere gesti ed attività isica utili alla riabilitazione. All’interno del contesto riabilitativo è fondamentale il coinvolgimento dei familiari, in particolare nei pazienti affetti da demenza moderata o severa, nei quali i deicit cognitivi sono gravi e precludono la possibilità di apprendere in modo deinitivo le procedure riabilitative da mettere in atto. Il familiare deve essere incoraggiato a osservare e discutere i trattamenti messi in atto dal terapista allo scopo di individuare eventuali dificoltà applicative e possibili nuove strategie. Nell’équipe riabilitativa il isioterapista dovrà istruire i familiari riguardo a come mobilizzare ed attivare il paziente, ai bisogni assistenziali ed alle attività più opportune in funzione del rientro al domicilio (Wilken e Isaacson, 2005). Ad esempio, nell’insegnare al familiare il trasferimento dalla carrozzina alla sedia, il caregiver vorrà sapere a che distanza posizionare la stessa rispetto al letto, come bloccare i freni, come rimuovere eventuali parti ingombranti della carrozzina, come supportare in sicurezza il paziente nell’atto del trasferimento e come ottenerne la compliance (Wilken e Isaacson, 2005). In quest’ottica la partecipazione in palestra rappresenta momento ‘educativo’ volto alla continuità delle cure tra ospedale e domicilio. Inoltre se, per i motivi sopra descritti, ci si troverà a lavorare con un paziente poco compliante o addirittura oppositivo, la presenza e il coinvolgimento di un familiare in palestra potrà facilitare lo svolgimento dell’attività riabilitativa (Bozzini e Gentile, 2014). 6. Conclusioni Risulta indispensabile prendere in carico la persona affetta da demenza attraverso un approccio comunicativo attivo e studiato. Una comunicazione eficace ci permette di entrare in contatto con il paziente ed all’interno di questa comunicazione si possono scoprire strategie per migliorare la compliance del paziente al trattamento. Il percorso riabilitativo va “calibrato” su misura (tailor made) per le esigenze del paziente e gli obiettivi riabilitativi possono essere raggiunti, per lo più, ricorrendo a strategie adattative e compensative che mirano alla riconquista di semplici attività quotidiane adattandole al setting riabilitativo. L’ottica interdisciplinare, prerogativa del lavoro in équipe, rappresenta la modalità più eficace per raccogliere e scambiare informazioni provenienti da 227 228 S. GeNTILe, A. MoRANDI, C. PozzI, M. bozzINI, e. LuCChI, G. beLLeLLI fonti diverse. All’interno di quest’ottica è fondamentale riconoscere l’importanza della presenza dei familiari nel percorso di cura. La famiglia rappresenta, infatti, il principale supporto per l’anziano non autosuficiente, dunque la loro competenza nelle mansioni assistenziali, presenta delle implicazioni fondamentali sulla qualità dell’assistenza e sulla vita dei pazienti. Questo è ancor più vero laddove, come nella demenza moderata/severa, l’incompetenza cognitiva del paziente fa diventare il familiare punto assoluto di continuità di cura, vera “strategia riabilitativa”. Bibliografia Bellelli g., Frisoni g.B., turCo r., luCChi e., mAgniFiCo F., trABuCChi m. 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L’accoglienza in residenza della persona con malattia di Alzheimer enrico brizioli 1. Introduzione La demenza rappresenta la principale causa di istituzionalizzazione degli anziani e, tra tutte, la principale causa di non autosuficienza e la più dificilmente gestibile nel tempo da parte del nucleo familiare (Agüero-Torres et al., 1998; Alzheimer’s Disease International, 2009). La scelta dell’inserimento in residenza di un familiare rappresenta una delle fasi più critiche del percorso di malattia che la famiglia deve affrontare nella sua storia di cura di una persona con malattia di Alzheimer. Si tratta quasi sempre di una scelta che giunge al termine di una lunga serie di tentativi protratti nel tempo e matura in genere quando i caregiver hanno esaurito le loro capacità assistenziale e sperimentato l’inadeguatezza di un sistema assistenziale domestico che è entrato in crisi, anche perché magari la badante se ne è andata o non ha più la iducia dei familiari (Friedman et al., 2006). Anche se questo, di solito, avviene quando il paziente è arrivato ad aver scarsa consapevolezza di ciò che gli accade intorno, si tratta comunque di una scelta dificile che procura ai familiari dubbi e sensi di colpa (Fischer e Lieberman, 1999). Altrettanto dificile è la scelta della residenza (sempre che nel territorio ci siano opzioni di scelta plurime). In linea teorica la decisione sulla struttura di destinazione andrebbe presa insieme all’Unità valutativa del Distretto, che dovrebbe individuare quella con l’organizzazione più adeguata ad assistere quello speciico paziente. Tuttavia spesso è la famiglia che deve − e vuole − fare la scelta, per cui dovrà sapersi orientare tra le diverse opzioni disponibili in un panorama di offerta non sempre facilmente leggibile. 2. Le strutture Poiché l’Alzheimer rappresenta una delle principali cause di ricovero nelle strutture residenziali, i cui ospiti per oltre il 50% presentano una diagnosi di demenza, ciascuna struttura dovrebbe avere una propria organizzazione e pro- Enrico Brizioli 12. l’accoglienza in residenza della persona con Alzheimer 232 eNRICo bRIzIoLI pri protocolli dedicati a questi pazienti. In assenza di una normativa chiara che possa orientarle, per la gestione dei pazienti con demenza le RSA adottano strategie e modelli molto vari, che possiamo classiicare in due principali categorie: 1) le strutture con Nuclei Alzheimer dedicati; 2) le strutture con organizzazione indistinta. Si tratta di due approcci organizzativi che non sono di per sé garanzia o meno di qualità del servizio, per la quale si dovrà valutare la singola organizzazione dei servizi e la qualità del lavoro effettivamente svolto, anche se i nuclei Alzheimer, se ben gestiti, sembrano produrre migliori risultati (Nobili et al., 2008; Kok et al., 2013). Il modello dei Nuclei Alzheimer (Alzheimer’s Special Care Units) è stato sviluppato negli Stati Uniti negli anni ’90 (Burns, 1992; Sloane et al., 1995) e prevede la realizzazione, all’interno delle RSA, di reparti autonomi e specialistici riconoscibili sia dal punto vista architettonico che organizzativo. La scelta di inserire i pazienti dementi in nuclei dedicati può rispondere a diverse esigenze (Grant et al., 1996; Grant e Potthoff, 1997): 1) separare persone con gravi problemi cognitivi e disturbi del comportamento dagli ospiti cognitivamente intatti della struttura, per preservare la qualità della vita di questi ultimi; 2) inserire le persone in questione in ambienti organizzati per gestire al meglio i loro problemi, sia in termini di sicurezza che di libertà di movimento e di stimoli psico-sensoriali, riducendo al massimo forme di contenzione farmacologica o isica; 3) deinire aree con personale appositamente formato, in modo da specializzare e focalizzare l’assistenza; 4) favorire il lavoro degli operatori migliorando l’eficacia dei loro interventi e riducendo il loro “burden”. Alcuni, tuttavia, evidenziano i rischi di questa scelta portando i seguenti argomenti (Wills et al., 1998). 1) La percentuale di pazienti dementi inseriti in residenze sanitarie è talmente elevata da dover imporre “a tutta la struttura” soluzioni architettoniche, organizzative e professionali adeguate per una corretta gestione delle persone con malattia di Alzheimer. 2) La concentrazione dei pazienti con maggiori problemi comportamentali in un unico nucleo determina per tutti loro peggiori condizioni di vita e la riedizione di un modello pseudo-manicomiale. È evidente che le diverse scelte organizzative devono tener conto del singolo contesto, del mix dei pazienti e della organizzazione degli spazi: tuttavia la soluzione del modulo specializzato si è dimostrata nel tempo la più idonea a gestire le problematiche comportamentali complesse, non solo dal punto di vista della 12. L’ACCoGLIeNzA IN ReSIDeNzA DeLLA PeRSoNA CoN ALzheIMeR serenità degli altri ospiti della struttura, ma anche in termini di corretta gestione del paziente (Sloane et al., 1995; Kok et al., 2013). Inoltre l’esistenza di un Nucleo Alzheimer all’interno di una struttura residenziale lascia presupporre che il problema sia stato affrontato in un’ottica di comprensione più ampia e professionale, per cui ci si dovrebbe aspettare in quelle strutture una maggior cultura nella gestione di queste problematiche. Va anche detto che ci sono esperienze di grande professionalità e competenza anche in strutture che, pur in assenza di nuclei dedicati, hanno orientato la loro intera organizzazione verso modelli di assistenza psico-sociale e relazionale, anche per far fronte alla elevata percentuale di ospiti con demenza. L’Unità valutativa Alzheimer, ove esistente ed operativa, dovrebbe collaborare con la l’Unità valutativa distrettuale individuando le strutture più idonee anche in relazione ai singoli proili dei pazienti. Contestualmente le RSA dovrebbero operare come “residenze aperte”, in stretta connessione con il territorio, assicurando il pieno coinvolgimento di familiari e volontari, ricoveri di sollievo, servizi diurni ed accessi domiciliari. L’apertura ai familiari e volontari non solo migliora la qualità della vita dei pazienti, ma rappresenta anche un fondamentale strumento di apertura della struttura al territorio e di interazione con la restante rete dei servizi. Altro elemento fondamentale è l’integrazione con i servizi domiciliari e diurni, specie se sono gestiti dalla medesima RSA. Le gestione dei servizi diurni e domiciliari da parte della RSA offre infatti molteplici vantaggi: • garanzia di impiego di personale professionalmente qualiicato ad assistere anziani fragili e dementi; • sinergie operative ed organizzative, che impegnano le strutture della RSA e ne ottimizzano tempi e capacità produttiva; • continuità assistenziale e graduale adattamento dei pazienti ai modelli di assistenza della struttura, che possono realizzare un percorso facilitante prima di un eventuale inserimento in RSA; • garanzia di coerente applicazione dei medesimi protocolli nei diversi setting assistenziali. In questa ottica vanno valutate con attenzione anche le soluzioni offerte da “residenze a bassa intensità”. La realizzazione di strutture di questo tipo è ispirata ad una logica di contenimento dei costi e di riiuto di una eccessiva medicalizzazione dell’assistenza. La logica è quella di evitare di offrire per default un eccesso di protezione sanitaria a pazienti che possono essere gestiti in un sistema di tipo alberghiero-assistito (Brizioli e Trabucchi, 2009). Si tratta di strutture con uno standard assistenziale compreso tra gli 80 e i 110 minuti/paziente/die, compatibili con livelli di bisogno relativamente bassi e quindi con quadri di parziale autosuficienza. L’inserimento in queste struttu- 233 234 eNRICo bRIzIoLI re di persone affette da demenza può costituire una alternativa al Centro diurno nei casi in cui non vi siano le condizioni minime per il mantenimento a domicilio, per totale o sostanziale assenza di caregiver. Queste strutture, tuttavia, devono essere collocate in una rete di offerta ove siano presenti tutti gli altri nodi, ed in particolare un adeguato numero di posti letto di RSA con adeguati standard assistenziali e competenze ed organizzazione idonee ad assistere pazienti con quadri di demenza avanzata. Diversamente si rischia di creare un unico livello “low cost” ove inserire indistintamente pazienti anche complessi, che inirebbero per ricevere assistenza inadeguata. È evidente quindi che la scelta di una struttura residenziale da parte della famiglia deve essere basata su una valutazione della capacità della stessa (dal punto di vista culturale ed organizzativo) di affrontare in particolare le due problematiche fondamentali che caratterizzano l’assistenza al paziente con malattia di Alzheimer: 1) la gestione dei disturbi non cognitivi (comportamentali e psicologici); 2) la progressiva non autosuficienza. 3. I disturbi non cognitivi I disturbi non cognitivi rappresentano sicuramente la maggior complicanza assistenziale della persona con malati di Alzheimer e sono un grave corollario del deterioramento cognitivo rappresentando un outcome cruciale nella gestione delle demenze (Finkel e Burns, 2000; Bianchetti e Trabucchi, 2000; Lawlor, 2004). Le conseguenze di disturbi non cognitivi non controllati in residenza sono: • aumento della disabilità e peggioramento delle prestazioni cognitive; • aumento del rischio di contenzione isica; • aumento della contenzione farmacologica con antipsicotici; • problemi per gli altri ospiti, ed inluenza negativa sui loro comportamenti; • aumento dello stress isico e psichico dei caregiver e dello staff assistenziale; • aumento signiicativo dei costi assistenziali. I disturbi non cognitivi, o BPSD (Behavioural and psychological signs and symptoms of dementia) sono costituiti da un gruppo eterogeneo di sintomi riferiti all’alterazione del pensiero, dell’umore e del comportamento, che includono: • alterazioni dell’umore: ansia, depressione, labilità emotiva, disforia; • sintomi psicotici: deliri e allucinazioni; • sintomi neurovegetativi: alterazioni del ritmo sonno-veglia, dell’appetito; • alterazioni del comportamento sessuale; • disturbi della personalità: indifferenza, apatia, disinibizione, irritabilità; 12. L’ACCoGLIeNzA IN ReSIDeNzA DeLLA PeRSoNA CoN ALzheIMeR • disturbi dell’attività psicomotoria: vagabondaggio, affaccendamento ainalistico, acatisia; • comportamenti compulsivi: agitazione, aggressività, vocalizzazione persistente, perseverazioni. Questi tipi di disturbi si presentano in circa il 50% di tutti i pazienti con diagnosi di demenza, ma nella quasi totalità dei pazienti con malattia di Alzheimer; anche se non sono necessariamente correlati al grado di deterioramento cognitivo la loro prevalenza sale ino al 90% nelle fasi più avanzate di malattia (Bianchetti e Trabucchi, 2000; Carbone, 2009). Presentano peraltro una grande variabilità nella loro espressione e nel loro andamento. Generalmente quelli che compaiono più precocemente sono i disturbi di personalità e quelli legati alla sfera dell’umore, mentre il delirio è tipico degli stadi più avanzati. L’attività motoria ainalistica, l’affaccendamento e la manipolazione inconcludente di oggetti si presentano in una alta percentuale di pazienti. Frequente è anche l’irrequietezza motoria, che può sfociare in un incremento deambulatorio continuo, senza scopo, ino a conigurare il fenomeno del “wandering”, e spesso la tendenza alla fuga. Un’altra manifestazione tipica è la “spinta verso casa” che induce il paziente a raccogliere gli oggetti che si trova intorno, ritenendoli propri, e cercare di uscire per “andare a casa”: questo si veriica quando si trova in ambienti non familiari o che non riconosce come tali, anche a causa del disorientamento spazio-temporale legato ai deicit mnesici. Di grande impatto sui caregiver sono le dispercezioni, i deliri, le derive paranoiche, ma anche la ampliicazione di preoccupazione che hanno un logico fondamento nella situazione in cui si trova il paziente (paure per la sua salute, per i suoi beni, per il suo ambiente di vita). Altri disturbi ricorrenti sono quelli della alterazione del ritmo sonno/veglia e del comportamento alimentare. Frequente anche il fenomeno del “sundowning” costituito dal peggioramento della sintomatologia al tramontare del sole e nelle situazioni di scarsa illuminazione, probabilmente a causa della dificoltà di orientamento che ne consegue. Si manifesta con stati d’ansia, agitazione e aggressività, urla, attività motoria non controllata, oppositività e reazioni catastroiche. Un altro aspetto che mette a dura prova la capacità di risposta della struttura residenziale e la sua organizzazione è l’aggressività, che si esprime in varie forma: verbale isica, contro le cose, contro gli altri, contro se stessi. Si tratta del fenomeno che crea maggior allarme tra i caregiver domestici, ma anche la principale causa di contenzione delle strutture residenziali a cui deve essere invece richiesta una speciica strategia, farmacologica e relazionale, per limitare questi fenomeni e ricondurli in limiti accettabili (Rodney, 2000). 235 236 eNRICo bRIzIoLI Condizione fondamentale per trattare in modo eficace i BPSD è la loro identiicazione e quantiicazione, utilizzando scale oggettive di valutazione come Neuropsychiatric Inventory (NPI-NH), e la Behavioral Pathology in Alzheimer Disease (BEHAVE-AD), che sono tra le più usate (Zaudig, 2000; De Deyn e Wirshing, 2001). L’utilizzo di scale di misurazione dei BPSD diventa utile sia in fase di scelta dei trattamenti, sia per la misurazione degli effetti del trattamento stesso al ine di garantirne il monitoraggio e l’eventuale sospensione o variazione. Decisamente più importanti sono la cultura ed il modello organizzativo della struttura, che dovrebbe essere orientato ad una delle strategie di approccio alla persona basate sui modelli psico-sociali (Kitwood, 1997) o della Reality Orientation Therapy (Spector et al., 2003). I principi su cui si muovono questi approcci sono basati sulla considerazione che molte delle reazioni psico-affettive dei pazienti con malattia di Alzheimer abbiano un fondamento “razionale”, dovuto alla loro diversa percezione della realtà, e possono essere trattate in modo più eficace con la terapia comportamentale piuttosto che farmacologicamente. In molti casi non si tratterebbe quindi di un delirio di tipo psicotico, ma degli effetti di una alterata rapportualità con il mondo esterno e con la propria memoria. I fenomeni d’ansia sono in larghissima parte riconducibili a questo modello (CohenMansield et al., 2011). Più in generale la comprensione di questi comportamenti e la loro relazione causale con percezioni e vissuti del paziente sono essenziali per contrastarne gli effetti in un’ottica relazionale e comportamentale, attraverso azioni empatiche, comprensive e di accompagnamento. Si stanno quindi facendo strada protocolli e modelli organizzativi che si distanziano dal tradizionale modello biomedico incentrato sui sintomi di malattia e sulla cura, dove il personale è incoraggiato a rimanere emozionalmente neutro, in ambienti formali e il lavoro è ripartito in modo rigido tra le diverse igure professionali ricercando nel paziente la piena aderenza al trattamento medico ed assistenziale. Questi nuovi approcci teorici caratteristici del modello “Gentle Care” si traducono in programmi di assistenza di tipo “protesico” in cui le tre componenti dell’assistenza – persone, programmi e ambiente isico – operano in modo coordinato ed armonico per favorire le migliori condizioni di adattamento del paziente e ridurre la sua ansia (Jones, et al., 1996; Jones, 1999; Vitali, 2004). I caregiver ed il personale di assistenza vengono formati per creare un ambiente armonico agendo sull’organizzazione dello spazio, la successione delle attività quotidiane, l’atteggiamento delle presone che interagiscono con il paziente (Zanetti et al., 2009). È evidente tuttavia che approcci di questo tipo non possono sostituire del tutto il trattamento farmacologico, che resta necessario in molte situazioni. Le categorie di farmaci utilizzabili nella gestione dei BPSD sono plurime ed includo- 12. L’ACCoGLIeNzA IN ReSIDeNzA DeLLA PeRSoNA CoN ALzheIMeR no ansiolitici, antidepressivi, antiepilettici, inibitori delle colinesterasi, modulatori dei recettori NMDA e antipsicotici. Poiché BPSD diversi sono causati da stress emozionali e da alterazioni neurotrasmettitoriali e recettoriali di classi differenti, anche i trattamenti devono essere mirati in base al tipo di BPSD (Kozman et al., 2006). Inoltre i farmaci devono essere monitorati e variati con relativa frequenza, sia per dar conto della evoluzione dei sintomi BPSD che per valutare gli effetti collaterali, di assuefazione, interazione accumulo dei farmaci stessi. In conclusione, la gestione adeguata di una struttura residenziale che ospita pazienti con malattia di Alzheimer e disturbi non cognitivi, sia essa organizzata in Nuclei Alzheimer o no, non è assimilabile ad una generica gestione di anziani non autosuficienti, ma presuppone un progetto terapeutico articolato che coinvolge la formazione specialistica di tutti gli operatori, la scelta di un modello assistenziale psico-sociale e la sua applicazione, una costante supervisione medica con adattamento progressivo della terapia sia farmacologica che psico-relazionale. 4. La non autosufficienza Altro aspetto cruciale dell’assistenza al demente in RSA, è la progressiva perdita della autosuficienza nelle diverse aree di autonomia, che si realizza in genere nella seguente successione: Igiene personale/Continenza/Alimentazione/Mobilità. La perdita di autonomia nell’igiene personale e nella cura della persona (lavarsi, farsi la barba, lavarsi i denti, pettinarsi, fare la doccia) è un evento molto frequente ed abbastanza precoce e comporta la necessità di interventi sostitutivi da parte del personale di assistenza, che devono presentarsi con costanza e cura tali da preservare non solo l’igiene ma anche la dignità della persona e le sue abitudini. Devono inoltre essere evitati in ogni modo interventi che forzino la volontà del malato e che ledano il suo pudore. La struttura residenziale deve essere in grado di proporre ai familiari un protocollo di igiene personale adeguato a questo scopo, ed il semplice programma del bagno settimanale non è suficiente a questo scopo. L’incontinenza è presente nel 40-60% dei pazienti dementi deambulanti e si manifesta in uno stadio intermedio della malattia di Alzheimer, mentre nella demenza vascolare e nell’idrocefalo normoteso può essere presente in dalle fasi iniziali (Skelly e Flynt, 1995; Offermans et al., 2009). L’incontinenza, tuttavia, non deve essere considerata come una condizione irreversibile, perché spesso è un sintomo che può essere controllato o curato. Le principali cause reversibili di incontinenza urinaria sono lo stato confusionale acuto, la riduzione dell’autonomia nella deambulazione e l’allettamento, le infezioni urinarie, la stitichezza, ed 237 238 eNRICo bRIzIoLI i farmaci. Prima di considerare l’incontinenza incurabile è necessaria un’accurata valutazione di queste cause e la struttura deve essere organizzata in una ottica riabilitativa. Soprattutto nel caso in cui il paziente proviene da un ricovero ospedaliero (ove l’utilizzo del catetere costituisce un protocollo standard) deve essere accuratamente valutata la possibilità di un suo rapido svezzamento, nell’obiettivo di recuperare un controllo sinterico e di ridurre il rischio di infezioni urinarie (Aslan et al., 2009). L’utilizzo prolungato del catetere può rendere irreversibile una incontinenza altrimenti gestibile (Brizioli e Trabucchi, a cura di, 2015). Vanno inoltre valutate forme di urgenza minzionale o di scarsa capacità logico-motoria: spesso i pazienti dementi non sono in grado di inibire la minzione per il tempo necessario a trovare e raggiungere la toilette. In questi casi è utile provvedere con raccoglitori di urine portatili, ma anche sistemi di riconoscimento rapido dei percorsi per il bagno e l’utilizzo di indumenti facili da togliere, privi di bottoni e cerniere. Una volta instauratasi un’incontinenza irreversibile, è opportuno programmare la minzione, accompagnando periodicamente il paziente in bagno ogni 2-3 ore, soprattutto appena si sveglia al mattino, prima di coricarsi e una volta durante la notte. Può essere utile impiegare raccoglitori per urine esterni soprattutto di notte e limitare l’apporto di liquidi nelle ore serali. L’impiego del catetere vescicale deve quindi essere limitato ai pazienti allettati con piaghe da decubito, oppure quando l’incontinenza non può essere corretta con interventi medici, chirurgici o con presidi esterni. È stato inoltre rilevato che aspetti di bassa qualità assistenziale, come la malnutrizione, l’allettamento e la riduzione degli stimoli alla mobilità, sono fattori di rischio aggiuntivi per una incontinenza grave (Rose et al., 2013). La tempestiva valutazione delle forme reversibili di incontinenza ed il corretto controllo delle forme croniche consentono di limitare le conseguenze isiche e psicologiche a carico del paziente, il sovraccarico assistenziale dei familiari e degli operatori, nonché di contenere l’impatto economico derivante dal ricorso ai presidi per l’incontinenza, come i pannoloni. Ogni struttura residenziale dovrebbe essere dotata di un adeguato protocollo per la prevenzione ed il controllo dell’incontinenza. In una scala di complessità assistenziale l’incontinenza fecale è di gran lunga molto superiore di quella urinaria (Barucha et al., 2005): si presenta in circa il 25% dei pazienti Alzheimer con più di 5 anni di storia di malattia e tende ad avere un’evoluzione non controllabile, con forte incremento del rischio di lesioni da decubito e infezioni (Bliss et al., 2004). Rappresenta inoltre una delle principali cause di stress dei caregiver, inclusi gli operatori delle strutture sanitarie (Finne-Sovery et al., 2008). La prevenzione di questo disturbo è molto più comples- 12. L’ACCoGLIeNzA IN ReSIDeNzA DeLLA PeRSoNA CoN ALzheIMeR sa, perché legata sia a fattori neurovegetativi che a problematiche cognitive. Una struttura residenziale deve tuttavia essere organizzata in modo tale da ridurne gli effetti sui pazienti, con un programma di cambi e pulizie strutturato sia nelle ore diurne che in quelle notturne ed una adeguata formazione degli operatori. Un altro aspetto critico dell’assistenza all’anziano demente in RSA è l’alimentazione. È infatti abbastanza frequente che il paziente necessiti di aiuto ed è probabile che si sporchi mentre mangia; spesso. Inoltre, deve essere aiutato a usare coltello e forchetta. Negli stadi iniziali di malattia queste situazioni possono essere causa di irritazione o di imbarazzo di fronte agli ospiti. Alcuni disturbi neurovegetativi tipici della malattia o effetti collaterali dei farmaci, come la stitichezza e i disturbi del gusto, causano alterazioni del comportamento alimentare. Ma anche la memoria ed i disturbi cognitivi possono determinare situazioni critiche, e può succedere che il malato voglia mangiare più spesso perché dimentica di aver già mangiato o al contrario che non mangi del tutto. È anche possibile che morda e mangi qualsiasi cosa gli capita tra le mani, oppure che voglia mangiare un solo determinato cibo. A questi disturbi si possono associare disturbi di deglutizione, con rischi di soffocamento o infezioni ab ingestis, o reazioni di riiuto. Mangiare e bere, in sostanza, possono diventare un problema sia per il malato che per chi lo assiste, per cui il tema dell’alimentazione deve essere presidiato in modo sistematico e professionale (Williams e Weatherhead, 2013) Negli stadi iniziali è necessario aiutare il paziente in modo discreto con l’obiettivo di fargli mantenere un certo livello di indipendenza. • Fare in modo che i pasti siano un’esperienza piacevole, scegliendo cibi graditi. • Evitare coercizioni. • Non preoccuparsi troppo delle buone maniere e della pulizia. • Organizzare i pasti in base alle particolari esigenze del malato. • Assicurare un’adeguata idratazione (almeno un litro e mezzo al giorno). • Valutare gli effetti collaterali dei farmaci in merito a gusto e salivazione. • Valutare gli aspetti masticatori. • Valutare l’apporto nutrizionale insieme ad un dietista. • Eventualmente inserire integratori nei cibi e nelle bevande gradite. La presenza di familiari o di volontari durante l’ora dei pasti può risultare molto utile al ine di garantire un aiuto più diretto ed una relazione più rassicurante, tuttavia queste persone dovranno essere correttamente formate ed attenersi a rigidi protocolli discussi con il personale della struttura, per evitare rischi e reazioni controproducenti. Nelle fasi più avanzate potrà risultare necessario utilizzare forme di nutrizione parenterale (Biernacki e Barratt, 2001). Un ultimo aspetto della non autosuficienza da valutare è quello della mobilità, che in termini assistenziali rappresenta tuttavia il problema minore, anche se fortemente invalidante e foriero di rapido decadimento per il paziente. 239 240 eNRICo bRIzIoLI La mobilità incontrollata, come abbiamo visto, rappresenta infatti una delle principali problematiche assistenziali e di gestione del paziente demente: per questo motivo la progressiva riduzione della mobilità, che si presenta come naturale evoluzione della malattia nelle fasi avanzate, può essere vissuta dai caregiver come un parziale sollievo. In realtà la ridotta autonomia motoria limita fortemente le possibilità di una assistenza “ecologica” del paziente, aumenta il rischio di incontinenza urinaria e fecale, aumenta il rischio di lesioni da decubito e di infezioni, determina un più rapido decadimento, anche cognitivo (Koppitz et al., 2016). Per questi motivi una struttura che operi secondo un elevato standard di servizio dovrà favorire ino alla ine le massime possibilità di mobilità e di autonomia motoria del paziente. Il paziente demente può tuttavia incorrere in limitazioni della mobilità non solo per la naturale evoluzione della malattia, ma anche per cause intercorrenti, come un ictus o una frattura di femore (Rozzini et al., 2006). In questi casi è diffuso il pregiudizio in merito alla impossibilità di riabilitare un paziente demente non collaborante (Heruti et al., 2002). In realtà, come già sviluppato dal precedente capitolo, il paziente demente, sebbene sicuramente meno performante di una persona collaborante, può trarre enormi beneici da un trattamento riabilitativo che tenga conto delle sue limitazioni. Programmi riabilitativi speciici (gestiti direttamente o in collaborazione con centri di riabilitazione geriatrica) devono costituire parte essenziale dei protocolli di cura di una struttura residenziale ed i familiari devono chiedere la loro applicazione, in un’ottica di dignità e qualità della vita complessiva del paziente (Muir-Hunter et al., 2016). 5. Conclusioni Non vogliamo e non possiamo entrare nel merito delle scelte di una famiglia che decide di inserire una persona demente in RSA: si tratta di una decisione assolutamente personale che tiene conto di aspetti emotivi, organizzativi, clinico-assistenziali, economici, culturali e di qualità dell’offerta (Luppa et al., 2010). Nella prassi dobbiamo rilevare che si tratta di una scelta che ricorre in modo molto frequente e la demenza rappresenta la principale diagnosi di malattia rilevata nelle RSA (Di Carlo et al., 2002). Non sempre, tuttavia, le strutture residenziali sono organizzate in modo adeguato per affrontare le speciiche necessità di un paziente con malattia di Alzheimer nelle diverse fasi della sua vita (Montemurro, 2012; Verbeek et al., 2015). Questo è un problema che deve essere assolutamente messo in evidenza, perché incide sul contratto di servizio che la struttura istaura con la famiglia e, se convenzionata, con il Servizio sanitario nazionale. 12. L’ACCoGLIeNzA IN ReSIDeNzA DeLLA PeRSoNA CoN ALzheIMeR Tuttavia nei programmi di studio e formazione delle diverse igure coinvolte nella gestione pratica di una RSA (essenzialmente infermieri, operatori sociosanitari ed assistenti sociali) pochissimo spazio è dedicato allo studio delle problematiche assistenziali della demenza ed alle sue strategie: pertanto dobbiamo presumere di avere personale che, in assenza di speciici corsi di aggiornamento, è poco competente nella funzione assistenziale principale che gli viene afidata (Masera et al., 2011). Va anche detto che i requisiti di autorizzazione ed accreditamento poco dicono, in genere, su questi temi, lasciando all’iniziativa dei gestori la decisione in merito ai protocolli assistenziali da adottare (Brizioli, 2007). Una azione di stimolo e controllo in questo senso è assolutamente necessaria da parte delle famiglie e delle associazioni, perché il rischio è di afidare pazienti con elevati proili di fragilità alle cure di strutture totalmente incompetenti, sia in termini culturali, che strutturali, che organizzativi. È necessario che i sistemi di accreditamento affrontino questi temi prevedendo che le strutture che ospitano pazienti con malattia di Alzheimer debbano possedere speciici requisiti strutturali ed organizzativi, disporre di personale appositamente formato ed applicare protocolli di assistenza validati speciici per queste tipologie di assistenza. È auspicabile peraltro, in parallelo, che le associazioni dei familiari promuovano programmi di valutazione indipendenti della qualità delle strutture che sappiano orientare le scelte dell’utenza fungendo da valutatore terzo e da stimolo al miglioramento del servizio da parte delle stesse strutture. 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Introduzione La storia naturale delle demenze e in particolare della malattia di Alzheimer (AD), la più frequente di esse, è particolarmente complessa. Le dificoltà a deinire l’esordio clinico, il lungo intervallo di tempo che divide l’inizio del danno biologico dai primi sintomi (la cosiddetta fase pre-clinica), le persistenti incertezze sull’iter diagnostico e il ritardo diagnostico sono solo alcuni dei fattori che ancora oggi ostacolano la deinizione della durata complessiva della malattia e i tentativi di stadiarne il decorso. Probabilmente anche per queste dificoltà descrittive e prognostiche le fasi avanzate della demenza, quelle che si concludono con la morte del paziente, sono le più trascurate. In una review sulla fase terminale della demenza si dice che “morire con la demenza sarà il destino di molti di noi; nonostante ciò l’attenzione del mondo scientiico e della società nel suo complesso è stata molto scarsa su questo tema” (van der Steen, 2010). Nella prima decade del 2000 solo 45 sono i lavori scientiici che si occupano del trattamento, dei sintomi, del benessere, della soddisfazione dei famigliari delle persone con demenza in fase terminale. Si tratta di pochi studi, molti piccoli e retrospettivi, in maggioranza (56%) proveniente dagli USA. L’attenzione dei ricercatori e dei clinici si è rivolta con maggiore impegno alle fasi precoci e precliniche della malattia, alle prospettive farmacologiche, all’espressione neuropsicologica, ai sintomi neuropsichiatrici. Ma quando, dopo anni di malattia, il malato è costretto a letto, incontinente, si esprime con pochissime parole, ha dificoltà di alimentazione, sviluppa infezioni, che cosa accade? Quali sono i sintomi più frequenti e più disturbanti? Quali sono i farmaci usati e quali sarebbe meglio usare? L’obiettivo delle cure è la qualità della vita o il prolungamento della vita? Ancora: dove sono curati questi malati alla ine della vita e dove vorrebbero essere curati? Ricevono adeguate cure palliative o sono sottoposti a trattamenti invasivi e futili? Come muoiono? La volontà del malato, i suoi valori di riferimento, i suoi principi etici che spazio hanno nel processo decisionale? Inine, o prima di ogni altra cosa: è possibile deinire una fase terminale della demenza? 246 DANIeLe VILLANI 2. Quando inizia la fase terminale della demenza? Una persona diventa terminale quando, a causa di un’alterazione irreversibile del funzionamento degli organi e degli apparati del corpo − situazione che siamo soliti deinire come “malattia inguaribile in fase evolutiva” −, comincia a venire meno quel meccanismo d’autoregolazione che consente a un organismo di vivere, sia pure a livelli diversi di salute. Il processo così iniziato ha come esito la morte. Il concetto di terminalità non dipende dall’età, dalla malattia (tutte le malattie possono essere mortali), non dipende neppure dall’inguaribilità della malattia (il diabete ad esempio, malattia inguaribile non è certamente terminale). La terminalità è, in effetti, una condizione in parte isica e in parte psicologica; essa si realizza quando la malattia (inguaribile, in fase rapidamente evolutiva) induce nella mente del medico, della famiglia e dello stesso paziente un’attesa di morte in breve tempo (Toscani, 1997). Le principali scale funzionali utilizzate nella pratica clinica includono una “fase terminale”. La persona con demenza in fase terminale è in genere descritta come un malato che non cammina, non parla, ha incontinenza sinterica. Tuttavia sappiamo che malati simili, se adeguatamente assistiti, possono vivere anni. È dunque possibile deinirli terminali? Vediamo di seguito le scale più utilizzate. La CDR Clinical Dementia Rating Scale (Morris, 1997), descrive tre stadi di malattia, portati in un secondo tempo a cinque (Hughes et al., 1982); nella CDR si deinisce terminale il paziente che “richiede assistenza totale perché completamente incapace di comunicare, in stato vegetativo, allettato, incontinente” e lo si colloca nello stadio 5, l’ultimo. La GDS Global Deterioration Scale (Reisberg et al., 1982) divide in sette stadi il decorso della demenza, dall’assenza di declino cognitivo (stadio 1) al declino cognitivo molto severo (stadio 7). Nello stadio sette della GDS si colloca un paziente con caratteristiche analoghe a quello della CDR 5, quindi terminale. La FAST Functional Assessment Staging Tool (Reisberg, 1988), scala che descrive il declino funzionale della persona con demenza, in particolare quella da malattia di Alzheimer, suddivide il decorso in sette stadi. Lo stadio sette (demenza severa) è a sua volta suddiviso in sei sotto-stadi (a, b, c, d, e, f). Nello stadio 7f il paziente non parla, non cammina, è incontinente, non sorride, non sostiene il capo. Lo stadio 7 della FAST nel suo complesso, ma in particolare i sottogruppi da “c” a “f”, descrive un paziente gravemente dipendente, incapace di comunicare e controllare gli sinteri, allettato. Nello stadio 7c il paziente perde la capacità di camminare, diventando così ancor più dipendente: si tratta quindi di una condizione molto avanzata di malattia, la più vicina alla morte. Tuttavia un malato in questa fase di malattia, come si diceva, se ben curato e assistito, può vivere anni. Deinire tout-court termina- 13. LA FASe TeRMINALe DeLLA MALATTIA le una persona con demenza in fase FAST 7c non è quindi appropriato. Devono intervenire complicanze infettive e/o disturbi dell’alimentazione perché la speranza di vita sia statisticamente abbastanza breve − inferiore ai sei mesi − così da rendere più corretta l’attribuzione di terminalità. La demenza è una malattia che accorcia la speranza di vita (Lee e Chodosh, 2009), determinando una sopravvivenza signiicativamente inferiore rispetto a controlli della stessa età (Boersma et al., 1999). La traiettoria della demenza è tipicamente quella della “frailty” (Lunney et al., 2003), con un lento, irregolare declino e una costante, severa disabilità nell’ultimo anno di vita (Gill et al., 2010). Differisce dalla traiettoria del cancro, nella quale si assiste a un certo punto a un netto declino delle funzioni vitali, e da quella delle insuficienze d’organo (renale, cardiaca, respiratoria), caratterizzata da fasi di peggioramento seguite da un recupero funzionale a un livello sempre più basso. Queste ultime condizioni, soprattutto il cancro, sono state per decenni oggetto di studio dei palliativisti, che ne hanno analizzati i sintomi, le cure, gli aspetti psicologici e quelli organizzativi. Gli Hospice e le Unità di cure palliative sono nate e si sono sviluppate avendo il malato di cancro e, in minor grado, il malato con insuficienza d’organo, come oggetto e modello di cura. Molti tipi di cancro raggiungono una fase avanzata o metastatica con un declino prevedibile e breve: è possibile individuare una fase terminale e predire una speranza di vita inferiore ai sei mesi. Il decorso della demenza è invece dificilmente prevedibile, sia per la grande variabilità tra un individuo e l’altro, sia perché fortemente condizionato da fattori clinici (comorbilità in primis) e ambientali (luogo di cura, qualità del nursing). Le perdite che accadono lungo il decorso della demenza sono tali e tante, e coinvolgono funzioni così importanti, da sollecitare dubbi che esulano dall’ortodossia clinica per scivolare nella ilosoia, nella morale, nell’etica. Perdita della memoria, anche di quella autobiograica, relativa cioè alla propria vita; perdita della capacità di scegliere e decidere, di esercitare una funzione critica; perdita della capacità di muoversi e di esprimere bisogni elementari; perdita dell’identità personale, quella che si costruisce lungo l’arco della vita attraverso le esperienze, le conoscenze, i sentimenti, i rapporti, i legami con il mondo esterno. Una persona che dimentica la propria autobiograia, i propri ricordi, il senso dei legami con chi gli vive accanto, la propria storia, è ancora la stessa persona? La sua identità personale – che a differenza di quella anagraica e di quella biologica è fatta di elementi cognitivi, esistenziali, relazionali, emozionali – sino a quando si mantiene? Il diritto a scegliere, e in deinitiva a decidere come vivere e come morire, a un certo punto si estingue o appartiene alla persona sino all’ultimo respiro? Dificile in un decorso così complesso parlare di terminalità, stabilire quando incomincia la ine-vita. 247 248 DANIeLe VILLANI Con il problema della fase terminale della demenza si sono confrontati esperti di tutto il mondo, principalmente quelli del Nord America, dove l’accesso alle cure palliative è normato da criteri rigidi, e il diritto delle persone con demenza a ricevere cure palliative (al pari dei malati di cancro) è rivendicato a gran voce. I tentativi di realizzare scale (The National Hospice Organization: Medical guidelines for Determining prognosis in selected non-cancer diseases; The Palliative Performance Scale; The Mortality Risk Index Score; ADEPT) (Aa.Vv., 1996; Anderson et al., 1996; Mitchell et al., 2004; Mitchell et al., 2010) in grado di predire il rischio di morte a sei mesi hanno dato risultati non del tutto soddisfacenti, ma hanno certamente portato un contributo di conoscenza e, soprattutto, sono serviti ad affermare un concetto importante: che la demenza avanzata è una condizione terminale, che si conclude con la morte, al pari del cancro. L’idea che la demenza sia causa di morte stenta a essere compresa e accettata. Le persone con demenza avanzata, a causa dell’immobilità, della disfagia, dell’immunodepressione, dell’incapacità a comunicare (e quindi a esprimere bisogni e richieste di aiuto) sono predisposte in misura crescente a complicanze infettive, vascolari, traumatiche che potranno essere l’evento conclusivo: ma la causa di morte è il fatto di essere affetti da demenza, sia che si tratti di malattia di Alzheimer che di demenza vascolare o altre forme. Il concetto da interiorizzare è che la demenza di per sé sola conduce alla morte (Sachs et al., 2004). Acquisire questa consapevolezza è importante, per i medici e per i famigliari. Consente ai medici di valutare gli interventi farmacologici e non farmacologici calibrandoli su una breve speranza di vita; di informare adeguatamente i famigliari preparandoli al lutto; di condividere con loro le scelte, attuando una strategia di cura che abbia come principale obiettivo il sollievo di un malato che sta morendo; inine, consente di assumere decisioni coerenti con la volontà del malato, con i suoi valori di riferimento, con la sua fede (queste volontà potranno essere state espresse in dichiarazioni anticipate di trattamento, che avranno un valore legale o “solamente” morale a seconda delle legislazioni vigenti; oppure potranno essere desunte da colloqui precedenti con il malato, dalla conoscenza che del malato hanno avuto i famigliari stessi o il medico curante). Essere informati che la demenza avanzata è una condizione terminale è importante per i famigliari: questa consapevolezza consente di affrontare i problemi che di volta in volta si presentano con il giusto atteggiamento, signiica non nutrire false speranze e aspettative che saranno costantemente disattese, signiica anche far sì che il malato sia sottoposto ad interventi meno aggressivi (Mitchell et al., 2009). Le nostre conoscenze attuali ci consentono di dire che una persona con demenza che sia allettata, non più in grado di parlare, incontinente, e che abbia infezioni respiratorie o d’altro tipo e dificoltà di alimentazione, è a elevato rischio di morte nei sei mesi successivi (Mitchell et al., 2009). Questa considerazione, di 13. LA FASe TeRMINALe DeLLA MALATTIA ordine puramente probabilistico, non va tradotta in non c’è più nulla da fare ma semmai in c’è da fare di più. Bisogna confortare il malato sul piano psicologico, affettivo, spirituale. Alleviarne le sofferenze isiche. Accompagnarlo a una morte che sia dignitosa, circondata di attenzioni e di affetto, il più possibile priva di quei marcatori ospedalieri (sonde, contenzioni, respiratori, cateteri, ecc.) che nulla hanno a che fare con la morte di una persona con demenza, e che spesso stanno a signiicare che l’impegno tecnologico sta vicariando il disimpegno umano. 3. I sintomi La descrizione della sintomatologia della persona con demenza in fase terminale presenta due dificoltà: la scarsità degli studi e la dificoltà di rilevazione dei sintomi, in particolare del dolore. Quanto alla scarsità degli studi vogliamo ricordare che ino a pochi anni fa le persone con demenza erano escluse dalla maggior parte dei clinical trials. Nel 2012 Taylor et al. (2012) esaminarono 434 articoli pubblicati su JAGS nel 20089, con l’obiettivo di valutare l’entità dell’esclusione dagli studi clinici di persone con deterioramento cognitivo. Le conclusioni furono che le persone con deterioramento cognitivo erano frequentemente escluse, spesso senza motivazioni e senza porre l’accento sul fatto che la mancata inclusione di questi pazienti potesse compromettere le evidenze ricavate dagli studi stessi. La dificoltà di rilevazione dei sintomi riguarda principalmente il dolore (altri sintomi come il vomito, la dispnea, l’agitazione sono facilmente oggettivabili), mentre il dolore non è espresso con le modalità abituali, quelle tipiche di una persona cognitivamente competente. I deicit di linguaggio, memoria, capacità critica, prassia, orientamento spaziale rendono problematica la rilevazione del sintomo-dolore, delle sue caratteristiche, della risposta al trattamento. Il dolore può manifestarsi con peggioramento cognitivo o funzionale, con agitazione, irrequietezza, delirium iper-ipocinetico, inducendo talvolta a trattare con neurolettici una manifestazione che si gioverebbe degli antidoloriici. A queste oggettive dificoltà va aggiunto un diffuso atteggiamento di scarsa attenzione ai sintomi delle persone con demenza, che spesso sono attribuiti in modo sbrigativo “alla sua malattia...”. Tuttavia la persona con demenza prova dolore, anche in fase terminale. Anzi, quanto più si avvicina la ine della vita, tanto più il dolore è frequente e grave. Dolore non necessariamente isico, ma anche (soprattutto?) psicologico, legato alla condizione estrema di abbandono e dipendenza in cui versano questi malati. Si pone quindi con forte evidenza il problema della valutazione del dolore, tanto più ardua quanto più avanzato è il livello di decadimento cognitivo. Nelle fa- 249 250 DANIeLe VILLANI si avanzate della demenza è dunque necessario il ricorso a scale osservazionali che consentono, osservando i gesti, le espressioni, le parole del paziente durante le varie fasi della giornata (igiene, pasti, mobilizzazione, sonno) di presumere la presenza di dolore. Nonostante recenti review in materia (Hadjistavropoulos et al., 2014; Lichtener et al., 2014) ribadiscano i limiti di ripetibilità e validità delle scale in uso, il ricorso a una scala osservazionale è necessario. Essa ci permette di avere uno strumento descrittivo, e inoltre di abituare il personale di cura a rilevare sintomi in persone che non chiedono aiuto, che non possono comunicare secondo i canali tradizionali. La raccomandazione è di utilizzare una scala validata e suficientemente diffusa (PAINAD, NOPPAIN, DS-DAT, ecc.), abituarsi a usarla e farla entrare nella routine valutativa, al pari di altri indicatori di parametri vitali. Il dolore e la dispnea sono sintomi frequenti nella fase terminale della demenza. Il dolore è riportato nei lavori scientiici con frequenza variabile (dal 12 al 76%). I valori più bassi si trovano negli studi che utilizzano il Minimum Data Set (MDS), strumento impiegato nelle Nursing Homes (NH’s) (1) americane che sottostima il sintomo dolore. Studi più recenti riportano frequenze più elevate del dolore e segnalano che esso aumenta con l’approssimarsi della ine della vita (Mitchell et al., 2009). Le variazioni di frequenza riportate sono imputabili alla scarsa attenzione attribuita al dolore nelle persone con demenza: per dificoltà di comunicazione del paziente, per modalità atipiche di manifestazione del dolore, per insuficiente utilizzo di scale osservazionali. Anche la dispnea aumenta con l’avvicinarsi della morte (Mitchell et al., 2009) e anch’essa è riportata con percentuali di frequenza molto variabili, dall’8% all’80%. Oltre al dolore e alla dispnea alcuni studi riportano malessere, irrequietezza, disfagia (van der Steen et al., 2009a; Van der Steen et al., 2009b; Hendriks et al., 2014). L’agitazione è un sintomo poco riportato negli studi relativi all’ultima fase della vita, ma potrebbe essere frequente come il dolore e la dispnea (van der Steen et al., 2009a; Van der Steen et al., 2009b; Hendriks et al., 2014). Uno studio retrospettivo condotto nella provincia di Cremona nell’ultimo mese di vita di pazienti in fase FAST 7c ricoverati in RSA (Di Giulio et al., 2008) ha documentato la elevata frequenza di febbre (64%), dispnea (39%), dolore (26%), ma anche ulcere da pressione (47%) e disturbi del sonno (20%), confermando la necessità di maggiore attenzione alle cure palliative. Un contributo signiicativo alla conoscenza dei sintomi tipici della fase avanzata viene dal già citato studio osservazionale prospettico (Mitchell et al., 2009) condotto su 323 pazienti con demenza di grado avanzato (stadio 7 della Global Deterioration Scale di Reisberg) ospiti di 22 NH’s. Gli Autori hanno dimostrato che la (1) Si tratta di strutture che forniscono assistenza infermieristica e cure mediche limitate, a persone che non richiedono l’ospedalizzazione e non sono in grado di vivere al domicilio (residenze sanitarie assistenziali). 13. LA FASe TeRMINALe DeLLA MALATTIA sopravvivenza media era stata di 1,3 anni, paragonabile a quella di malati con altre condizioni di ine-vita come il cancro della mammella metastatizzato e lo scompenso cardiaco in fase IV NYHA; il 25% di questi pazienti moriva entro 6 mesi dall’arruolamento nello studio. Le polmoniti, gli episodi febbrili e i disturbi dell’alimentazione erano risultati molto frequenti, più del 50% dei pazienti. In particolare i pazienti con una di queste complicazioni avevano fatto registrare una mortalità più elevata (il 40-50% sono deceduti entro sei mesi dall’evento). Dispnea, dolore e agitazione si erano veriicati nel 40-50% dei pazienti, aumentando di frequenza con l’approssimarsi della morte. La maggior parte delle morti non era stata causata da eventi precipitanti acuti (ad es. infarto miocardico), altre condizioni terminali (ad es. cancro) o scompensi d’organo (ad es. scompenso cardiaco), confermando il fatto che la demenza è una malattia mortale. Si tratta di sintomi che, curati, possono ridurre signiicativamente la sofferenza del paziente. Il dolore, l’agitazione e la dispnea erano frequenti (52%, 35%, 35% rispettivamente) anche nello studio condotto nell’ultima settimana di vita su persone con demenza da Hendrix et al. (2014). Lo studio dei sintomi delle persone con demenza in fase terminale è ancora in una fase embrionale, e gli studi condotti sono pochi, ma suficienti per dire che le persone con demenza in fase terminale soffrono pene evitabili, e che un migliore approccio palliativo è necessario. Figura 13.1 - Studi (45, tra il 1994 e il 22 gennaio 2010) che riportano trattamenti, sintomi, soddisfazione dei famigliari di pazienti che muoiono con demenza Switzerland Australia Japan Italy Canada Spain Israel Netherlands UK USA Fonte: modificato da van der Steen, 2010. 251 252 DANIeLe VILLANI Non sappiamo ancora sino a che punto certi sintomi possono essere controllati, e quali siano le cure migliori (van der Steen, 2010). Certamente una maggiore attenzione alla persona con demenza in questa fase, l’utilizzo più estensivo di scale osservazionali, una migliore formazione del personale e nuovi studi clinici condotti nel nostro paese e nei diversi setting di cura, contribuiranno a una migliore conoscenza dei sintomi e conseguentemente a cure più eficaci. 4. Le cure Le persone con demenza in fase terminale ci pongono, con il loro silenzio e la loro immobilità, una domanda che viene prima della scelta e dell’uso di un farmaco o di un qualsiasi trattamento: qual è il signiicato della cura? Queste persone non sanno e non possono chiedere di mangiare, di essere lavate, di stare sedute o coricate; non sanno e non possono dire di avere dolore, di essere tristi, di soffrire; queste persone non possono decidere nulla da sole. Certamente hanno emozioni, desideri, paure, angosce: il problema, per loro, è non potersi esprimere; la dificoltà, per noi, è cercare di comprenderli e diventare i loro interpreti, i loro difensori privilegiati (M. Trabucchi). In genere non chiedono, non urlano. Le prime rilessioni sul signiicato della cura delle persone con demenza in fase avanzata e sulle diverse opzioni di cura (tema che spesso viene radicalizzato nella dicotomia un po’ riduttiva tra cure aggressive/attive e cure palliative) compaiono nella letteratura scientiica negli anni ’80. Confrontarsi con una malattia che si presenta come un modello di cronicità, complicata dall’incompetenza cognitiva del paziente e dalla necessità conseguente di prendere decisioni al suo posto, pone il medico di fronte a una serie di problemi nuovi. Ci si domanda quali trattamenti interrompere, e se interromperli (Besdine, 1983). Chi debba prendere decisioni importanti (trasferimento in ospedale, interventi chirurgici ecc.) posto che il paziente non è in grado di farlo (Mariner, 1984). Se e quando iniziare la nutrizione artiiciale (“Guiding the hand that feeds”) (Lo e Dornbrand, 1984). Quando permettere di morire alle persone in fase terminale (“Allowing the debilitated to die”) (Hiliker, 1983). Si affrontano anche gli aspetti economici che derivano da cure intensive piuttosto che da cure palliative (Bayer et al., 1983). Si affacciano come temi emergenti di grande rilievo la speciicità dei dementi negli istituti di lunga degenza (RSA, Nursing Homes) e il signiicato di protrarre cure futili e a volte dannose per la qualità di vita della persona (Rango, 1985). Nel 1986 Volicer et al. propongono, per le persone con demenza avanzata, un programma di cure che ha come obiettivo quello di garantire il massimo comfort al paziente, senza tendere esclusivamente al prolungamento della so- 13. LA FASe TeRMINALe DeLLA MALATTIA pravvivenza. Lo studio sottolinea l’importanza della condivisione delle decisioni con i famigliari e della pianiicazione anticipata delle cure. Si tratta del primo studio che, sia pure con qualche limite ma con metodologia scientiica, affronta il tema di un programma di cura che sia speciico per le persone con demenza avanzata, promuovendo l’estensione delle cure palliative, da sempre riservate ai malati di cancro, alle persone con malattie croniche, come appunto la demenza. L’aspetto più innovativo dello studio di Volicer è l’utilizzo di un approccio palliativista alle persone con demenza. Si apre la discussione sull’utilità e il signiicato di trattamenti potenzialmente life-extending nelle persone con demenza avanzata, e sulla possibilità di sospenderli o non iniziarli. Si sottolinea la necessità di approfondire quattro temi ritenuti centrali nel processo decisionale: la rianimazione cardiorespiratoria, il trasferimento in ospedale, il trattamento delle infezioni, la nutrizione e l’idratazione. La possibilità di concordare anticipatamente certi interventi (pianiicazione anticipata delle cure) è un aspetto importante della cura, ma presenta oggettive dificoltà, data la fragilità del paziente di cui si parla, la prolungata incompetenza cognitiva e la dificoltà di stabilire comportamenti omogenei. Se nel caso della rianimazione cardiorespiratoria, ad esempio, pare improbabile che vi si ricorra in pazienti con demenza avanzata, il trattamento delle infezioni risulta invece più problematico. L’uso degli antibiotici in caso di polmonite o altre infezioni dovrebbe essere improntato a lessibilità, valutando il singolo paziente in quel preciso momento. In un malato che soffre a causa di un’infezione urinaria è giustiicato un trattamento antibiotico. Nel caso di una polmonite, il trattamento antibiotico può essere futile in un malato estremamente debilitato e senza segni evidenti di sofferenza, mentre può migliorare la sofferenza in un malato sibrato dalle febbre e dalla tosse. L’obiettivo è procurare al paziente la minima sofferenza, attuando o evitando interventi che non giovino al suo benessere, e mettendosi sempre dalla parte del malato. Si affronta anche il tema della potestà decisionale, preigurando la igura del proxy o iduciario (istituto che sarà adottato nei decenni successivi in diversi paesi) come persona legalmente autorizzata a rappresentare il malato. Inine, l’argomentazione più signiicativa del lavoro di Volicer è, secondo l’editoriale di commento di Lynn, l’evidenza che “ci sono malati così gravemente deteriorati che neppure chi li ama di più si sentirebbe di costringerli a prolungare l’esistenza” (Lynn, 1986). Si tratta di una considerazione che attiene alla qualità della vita: non si tratta di un giudizio sociale relativo a persone improduttive o troppo costose, o troppo vicine alla morte perché la società debba fornire cure che prolunghino la vita; è semplicemente un giudizio umano, che ci porta a ritenere che questi malati probabilmente non vorrebbero vivere quel prolungamento della vita che certi trattamenti riservano loro. È bene rilettere su come il tema della cura, intesa nel senso più ampio, tenda oggi, nel nostro paese, a radicalizzarsi su due estremi. Da una parte le cure 253 254 DANIeLe VILLANI attive, che hanno come scopo la guarigione e il prolungamento della vita; all’altro estremo l’eutanasia, il suicidio assistito, le diverse forme d’intervento medico proibite nella maggior parte dei paesi, legalizzate in alcuni. Il rischio è di creare due stereotipi: il medico “buono”, che fa, che fa sempre e comunque per conservare la vita; il medico “cattivo”, che non fa, che si ferma, che forse vuole accorciare la vita. Questa visione dicotomica è sbagliata, fuorviante e tende a far dimenticare che fra questi due estremi gli interventi utili per il malato sono molti: la cura dei sintomi, l’attenzione alla qualità della vita, i piccoli grandi gesti che accompagnano i malati inguaribili, la rilessione sulla speranza di vita, il rispetto della volontà del malato, le cure palliative, la ricerca di un morire dignitoso, spogliato di sofferenze evitabili. In sintesi, tra i due estremi delle cure attive (a volte ini a se stesse e futilmente aggressive) e l’eutanasia e il suicidio assistito (temi su cui si dovrà ragionare in un clima non ideologico), esiste un ampio terreno di cura che potremmo chiamare buona medicina, buona pratica clinica o, se vogliamo, medicina antropocentrica. Una medicina capace di accompagnare l’uomo malato, anche e forse soprattutto quando muore, in contrasto con quella medicina morbocentrica che, concentrata sulla malattia, perde di vista il malato e si concentra sull’organo e sull’apparato, in un’ottusa, accanita battaglia contro la natura e contro l’uomo che si crede di curare. Ma torniamo alle cure della persona con demenza in fase terminale, ai farmaci e ai trattamenti. Lo studio italiano EoLO-PSODEC (Toscani et al., 2013), prospettico osservazionale su 496 pazienti con demenza in fase FAST ≥7, 315 ospiti di 33 RSA della Regione Lombardia e 181 assistiti al proprio domicilio (ADI) in quattro distretti della Regione Emilia Romagna, ci ha fornito informazioni signiicative relativamente ai trattamenti e alle decisioni critiche assunte nei sei mesi di durata dell’osservazione. Quanto ai trattamenti farmacologici e non, condotti sui 410 pazienti più gravi (FAST ≥7c) (tabella 13.1), si è riscontrato un utilizzo di nutrizione artiiciale (PEG/SNG) del 9,9%, senza differenze signiicative tra RSA e ADI. Differenze signiicative si sono invece trovate nel ricorso al cateterismo vescicale, superiore (p<0,0001) nei pazienti in ADI (63%) rispetto a quelli in RSA (13,5%), nelle diverse forme di contenzione isica superiori (p<0,0001) in RSA rispetto al domicilio (92,7% vs 67,9%), nel ricorso alla isioterapia superiore in RSA rispetto all’ADI (19,2% vs 4,3%). 13. LA FASe TeRMINALe DeLLA MALATTIA Tabella 13.1 - Caratteristiche di base della popolazione FAST ≥7c (valori percentuali; livello di significatività osservato) Totale (n=410) Assistiti in RSA (n=245) Assistiti a domicilio (ADI) (n=165) p Maschi (%) 19,7 13,1 29,7 <0,0001 età mediana 86,0 85,0 88,0 0,0003 Anni dalla diagnosi 7,0 7,0 6,0 0,747 PeG 6,3 5,7 8,5 0,275 SNG 3,6 4,9 1,8 0,103 Catetere urinario 33,4 13,5 63,0 <0,0001 Forme di contenzione fisica 82,6 92,7 67,9 <0,0001 Fisioterapia 13,2 19,2 4,3 <0,0001 Fonte: modificato da Toscani et al., 2013. Quanto ai farmaci utilizzati i risultati più interessanti sono stati i seguenti: gli antipertensivi e gli anticoagulanti/antiaggreganti sono stati impiegati in misura signiicativamente superiore (p<0,0001) in ADI rispetto alla RSA (63,0 e 53,9% vs 36,3 e 33,5%); i lassativi più in RSA che in ADI (p<0,0001), 43,3% vs 13,9%. Antidepressivi, antipsicotici e ansiolitici/ipnotici sono stati impiegati senza differenze signiicative nei due setting, ma complessivamente in percentuale elevata (25,6%, 25,6%, 24,3% rispettivamente). Gli antidoloriici sono stati utilizzati complessivamente nell’8,1% dei casi, senza differenze signiicative tra RSA e ADI. Tabella 13.2 - Farmaci prescritti per paziente FAST ≥7c (valori percentuali; livello di significatività osservato) Totale (n=410) Assistiti in RSA (n=245) Assistiti a domicilio (ADI) (n=165) p Antipertensivi 47,1 36,3 63,0 <0,0001 Anticoagulanti / antiaggreganti 41,7 33,5 53,9 <0,0001 Lassativi 31,5 43,3 13,9 <0,0001 Antiacidi / farmaci gastroprotettivi 30,2 33,9 24,9 n.s. Antipsicotici 25,6 29,8 19,4 n.s. Antidepressivi 25,6 20,8 32,7 n.s. Ansiolitici / ipnotici 24,2 29,4 16,4 n.s. Antiepilettici 16,1 17,6 6,1 n.s. Nutrienti generali 12,9 17,6 6,1 <0,0001 Farmaci utilizzati Fonte: modificato da Toscani et al., 2013. 255 256 DANIeLe VILLANI Quanto all’appropriatezza giudicata secondo i criteri di Holmes et al. (2006), le prescrizioni sono più frequentemente “sempre appropriate” in RSA rispetto al domicilio (72,6% vs 50,9%) con una differenza statisticamente signiicativa (p<0,0001). Il numero medio di farmaci/paziente, 4/paziente, è uguale nei due setting e inferiore rispetto a quello, 6,5/paziente, segnalato in uno studio US su pazienti con demenza avanzata in NH (Tjia et al., 2010). L’uso di analgesici (8,1% complessivamente) è basso in entrambi i setting, e contrasta con l’elevata percentuale di comorbilità potenzialmente dolorose come anchilosi/contratture (69% in RSA, 41,8% in ADI). Gli psicofarmaci sono prescritti in percentuale elevata in entrambi i setting, anche se è dificile capire come in questa fase di malattia la depressione, l’ansia e i sintomi psicotici possano essere correttamente diagnosticati. L’inadeguato trattamento del dolore e dei sintomi di ine-vita nella demenza è già stato segnalato in Italia (Di Giulio et al., 2008) e in altri paesi (Elseviers et al., 2010). I risultati di questo studio ci portano a ritenere che la cura di persone con demenza in fase terminale di uguale gravità, sia orientata al trattamento della malattia (piuttosto che del malato) nei pazienti in ADI rispetto a quelli in RSA. In tal senso depone il maggior uso di antipertensivi, anticoagulanti/antiaggreganti, cardioattivi. È anche probabile che il medico di Medicina generale (MMG) sia restio a modiicare trattamenti impostati generalmente dallo specialista, rispetto al medico di RSA il quale (specialista in geriatria o no) è più abituato a curare pazienti di questo tipo. Deve comunque fare rilettere che pazienti con caratteristiche cliniche simili ricevano, in due regioni coninanti della stessa nazione, trattamenti signiicativamente diversi. Evidentemente le diverse politiche sanitarie orientano in maniera rilevante la cura dei pazienti, incidendo in misura non piccola sull’uso dei farmaci, della contenzione isica, del cateterismo vescicale, della isioterapia. Più in generale, rispetto alla cura della persona con demenza in fase terminale, qualsiasi decisione deve essere la conclusione di un ragionamento che tenga conto: della prognosi, e quindi della speranza di vita di quel malato; degli obiettivi del trattamento; del tempo necessario perché il farmaco produca il suo effetto; della reale utilità per il malato (evitando interventi di facciata, volti solo a placare le ansie di un famigliare che, semmai, vanno gestite in altro modo); del bilancio tra il risultato atteso e il disagio del paziente (si pensi alla dolorosa ricerca di un accesso venoso a fronte di una semplice ipodermoclisi di facile accesso e pari eficacia). Inine si può dire che la periodica, frequente revisione delle prescrizioni è fortemente raccomandata, chiedendosi ogni volta: al paziente è utile quello che sto facendo? 13. LA FASe TeRMINALe DeLLA MALATTIA 5. I luoghi del fine-vita: gli Hospice sono appropriati? Dove muoiono le persone affette da demenza? A questa domanda apparentemente semplice relativa al ine-vita non corrispondono risposte certe. La letteratura palliativista oncologica è ricca di documenti che ci spiegano dove muoiono i malati di cancro, e dove vorrebbero morire. La neonata letteratura palliativista geriatrica è invece molto povera d’informazioni, quelle poche sono spesso contrastanti e mancano informazioni circa il luogo preferito dai pazienti. Passiamo brevemente in rassegna i principali studi internazionali relativi al luogo dove muoiono le persone con demenza. Lo studio di Mitchell et al. (2005) , condotto su ultra65enni morti in USA nel 2001 per cause non traumatiche e suddivisi in tre coorti (demenza, cancro, altre malattie), ha dimostrato che la maggior parte delle persone con demenza muore in NH’s (66,9%). Tabella 13.3 - Luogo del decesso delle persone anziane con demenza (valori percentuali) Luogo del decesso Demenza Cancro Altre malattie ospedale 15,6 35,4 52,2 Residenza sanitaria assistenziale (Nh) 66,9 20,6 28,0 Casa 12,7 37,8 17,8 Altro 4,7 6,2 2,8 Fonte: modificato da Mitchell et al., 2005. In contrasto, la maggior parte degli anziani con cancro muore a casa (37,8%) o in ospedale (35,4%). L’ospedale è anche il luogo dove più frequentemente muoiono gli anziani con altre malattie (52,2%). Gli Stati con un maggior numero di posti letto ospedalieri/abitante sono quelli con la più alta percentuale di morti ospedaliere nelle tre coorti. La maggior parte delle persone con demenza muore negli USA in NH’s: nella coorte-demenza gli Stati con meno posti-letto in NH’s hanno fatto registrare il maggior numero di morti in ospedale. La disponibilità di posti-letto in ospedale e in NH’s e l’età dei pazienti rendono ragione delle differenze registrate fra Stato e Stato. In questo studio spicca la differenza delle morti in NH’s tra persone con demenza (66,9%) e malati di cancro (20,6%), come pure la differenza tra le morti a casa nelle persone con demenza (12,7%) e quelle con cancro (37,8%). I fattori che possono giustiicare questo divario sono numerosi; tra questi la diversa durata di malattia e il diverso carico assistenziale per la famiglia hanno un ruolo di primo piano. Lo studio europeo di Houttekier et al., pubblicato nel 2010, ha analizzato il luogo dove sono morti nel 2003 gli ultra65enni di cinque Paesi europei: Belgio, 257 258 DANIeLe VILLANI Olanda, Scozia, Galles, Inghilterra. Tre le coorti di pazienti per patologia: demenza (Alzheimer, Vascolari, altre demenze); cancro; altre malattie. Cinque i possibili luoghi: casa, ospedale, nursing-home, hospice o altri istituti di cure palliative, altri luoghi. Tre gruppi di età: 65-74, 75-84, ≥85 anni. Tabella 13.4 - Luogo del decesso delle persone anziane con demenza in cinque Paesi europei (valori percentuali) Luogo Casa RSA (Nh) ospedale hospice Belgio 11,4 65,9 22,7 0,0 Olanda 3,8 92,3 2,8 0,5 Inghilterra 3,7 59,7 36,0 0,3 Galles 3,2 50,2 46,3 0,1 Scozia 5,0 60,8 33,9 0,4 Totale 4,5 67,5 27,4 0,3 Fonte: modificato da houttekier et al., 2010. La maggior parte delle persone con demenza muore in NH’s (67,5%) (tabella 13.4), in percentuale molto simile a quella dello studio USA. La lunga durata della malattia, il crescere del carico assistenziale con il passare degli anni e la scarsa prevedibilità della prognosi aumentano la probabilità di ricovero in NH’s e diminuiscono, rispetto al cancro, le possibilità di cura a casa. Le morti a casa sono rare (4,5%) tranne che in Belgio (11,4%). La probabilità di morire in ospedale è alta nel Regno Unito (38,7%) e in Belgio (22,7%), bassa in Olanda (2,8%). Il trasferimento in ospedale di questi malati alla ine della vita è un indicatore negativo di qualità per l’elevato rischio di complicazioni e l’alta percentuale d’interventi futili prestati in ospedale a questi malati. Confrontate con le persone con cancro o altre malattie, quelle con demenza hanno meno probabilità di morire a casa, in ospedale o in hospice, e molte più probabilità di morire in NH’s. La probabilità di morire in un luogo piuttosto che in un altro dipende dall’età, dal sesso e dalla disponibilità di posti letto in ospedale e in NH’s. La probabilità di morire a casa cala con il crescere dell’età. Le donne rispetto agli uomini muoiono più spesso a casa che in NH’s o in ospedale. L’analisi multivariata mostra che la grande disponibilità di posti letto di NH’s con personale specializzato rende ragione della bassa probabilità di morire in ospedale registrata in Olanda. Questo Paese ha sviluppato un sistema di cure residenziali preparato a fornire cure di ine-vita, con infermieri presenti 24 ore su 24 e medici specializzati in Long-Term Care. Questo assetto organizzativo porta a una maggiore attenzione alla pianiicazione anticipata delle cure, migliore comunicazione con i famigliari, meno interventi invasivi. Il domicilio come luogo di ine-vita per le persone con demenza, rimane un’opportunità ancora improbabile, anche se alcuni studi hanno dimostrato che è possibile, con opportuni programmi di assistenza, ridurre il rischio di ospedalizzazione in pazienti curati a domicilio (Shega et al., 2008). 13. LA FASe TeRMINALe DeLLA MALATTIA I due studi, quello europeo e quello americano, sembrano convergere verso un’indicazione: la disponibilità di posti letto in NH’s deve essere una priorità di politica sanitaria, inalizzata a prevenire la morte in ospedale delle persone con demenza e a fornire un ambiente adatto alla fase terminale della loro vita. I due studi, che analizzano il luogo di morte delle persone con demenza, non avevano come obiettivo quello di valutare la qualità delle cure. Lo studio di Reyniers et al. (2015), il più recente, ha analizzato il luogo di morte degli >65enni con demenza (demenza vascolare ICD-10:F01, demenza in altre malattie ICD-10:F02, demenza non speciicata ICD10:F03, malattia di Alzheimer ICD-10:G30) in 14 nazioni di quattro continenti. In questo lavoro, che include anche l’Italia, i luoghi di morte sono cinque: casa, Long-Term Care (LTC: incluse Nursing Homes e Care Homes), istituti di cure palliative (Hospice), ospedali, altro (ad es. spazi pubblici). La fonte dei dati sono i certiicati di morte. Le morti per demenza sono state il 4,8% di tutte le morti (3,7% in Italia). Circa 2/3 erano donne, sopra gli 80 anni al momento del decesso, per lo più vedove (tabella 13.5). La morte in ospedale varia dall’1,6% dell’Olanda al 73,6% della Corea del Sud. In tre paesi (Corea del Sud, Ungheria, Francia) l’ospedale è il luogo dove muoiono più frequentemente le persone con demenza. In tre Paesi, tra cui l’Italia, la casa è il posto dove più frequentemente muoiono questi malati (Italia 42,2%, Spagna 46,1%, Messico 69,3%). In 8 Paesi la maggior parte dei decessi è avvenuta in LTC, dal 48,9% del Galles al 93,1% dell’Olanda. La morte in Hospice è segnalata solo in quattro paesi, e in percentuali bassissime: Inghilterra e Galles (0,1%), Nuova Zelanda (0,3%), USA (2,9%). Tabella 13.5 - Luogo del decesso di persone morte per demenza nel 2008 (N= 262.993) (valori percentuali) BE NL ENG WAL FRA ITA ESP HUN CZR NZE USA CAN MEX ospedale Luogo 21,.6 1,6 31,7 43,1 35,9 31,1 33,6 62,3 27,5 14,3 13,2 32,3 26,2 73,6 Casa 11,2 3,8 5,0 4,2 27,2 42,2 46,1 – 10,6 4,5 15,3 3,4 69,3 20,5 Residenze Sanitarie Assistenziali 66,7 93,1 61,7 48,9 34,0 19,5 20,1 – 61,5 76,6 62,6 59,4 – 5,5 hospice Altro KOR – – 0,1 0,1 – – – – – 0,3 2,9 – – – 0,5 1,5 1,5 1,5 3,7 2,9 0,2 37,7 0,4 4,4 6,0 4,9 4,5 0,4 Legenda: be, belgio: NL, Paesi bassi; eNG, Inghilterra; WAL, Galles; FRA, Francia; ITA, Italia; eSP, Spagna (Andalusia); huN, ungheria; CzR, Repubblica Ceca; Nze, Nuova zelanda; uSA, Stati uniti; CAN, Canada (Quebec escluso); MeX, Messico; KoR, Corea del Sud. Fonte: modificato da Reyniers et al., 2015. 259 260 DANIeLe VILLANI Queste differenze tra un Paese e l’altro non cambiano in modo signiicativo dopo aggiustamento per i fattori socio-demograici e il sostegno sociale. L’analisi di 264.604 decessi per demenze in 14 Paesi del mondo mostra sostanziali differenze, con una percentuale molto bassa di morti in ospedale per l’Olanda (1,6%). Il sesso maschile e l’età meno avanzata (65-79 anni) aumentano le probabilità di morte in ospedale, mentre una maggiore disponibilità di letti in LTC è associata a una minore probabilità di morte ospedaliera. Gli Autori sottolineano che l’utilizzo dei certiicati di morte come fonte dei dati condiziona i risultati dello studio. Infatti la demenza come causa di morte è sottostimata, la demenza lieve è raramente riportata, e la demenza può non essere indicata come la causa di morte quando esistono altre (immediate) cause di morte. Questo studio – come i due citati in precedenza − suggerisce che l’aumento dei posti letto di LTC sia in grado di ridurre il numero di decessi in ospedale. Tuttavia, poiché il numero di morti in ospedale è tuttora elevato soprattutto in alcuni Paesi, gli Autori ritengono che gli ospedali debbano attrezzarsi per fornire buone cure di ine-vita. Le informazioni fornite dal lavoro di Reyniers et al. riguardo al nostro Paese, ci dicono che le persone con demenza muoiono a casa nel 42,2% dei casi, quindi in percentuale elevata. Va detto che si tratta di un valore medio, che nella realtà si scontra con le grandi differenze organizzative dei diversi Servizi Sanitari Regionali e probabilmente non trova riscontro in Regioni con alta dotazione di posti di LTC, come ad esempio la Lombardia, con i suoi 86.000 posti letto di RSA e il basso sviluppo di assistenza domiciliare. Sapere dove muoiono oggi le persone con demenza signiica potere pianiicare una migliore organizzazione dei servizi, allocare bene le risorse, formare il personale che dovrà curare la fase terminale di questi malati. Gli studi che abbiamo passato in rassegna danno informazioni sul luogo di ine-vita, ma non affrontano gli aspetti qualitativi della cura e neppure ci dicono quale sarebbe il luogo dove la persona con demenza sceglierebbe di morire. In uno scenario così articolato viene naturale chiedersi quale sia il ruolo dell’Hospice che, come abbiamo visto, è eccezionalmente il luogo di morte delle persone con demenza (con il 2,9% degli USA come valore massimo). La demenza è una malattia lunga, altamente invalidante per il malato, molto logorante per chi lo cura, un prototipo di malattia nella quale interventi attivi e cure palliative si embricano gradualmente (simultaneous care). La fatica di una lunga malattia induce spesso i famigliari a ricoverare il proprio caro in RSA, laddove l’organizzazione dei servizi lo consente. Il medico e l’équipe di RSA assumono un ruolo di cura attivo e palliativo nello stesso tempo. Spesso sono loro a prendere le decisioni, non potendo il malato esprimere opinioni e in attesa che nel nostro Paese direttive anticipate di trattamento possano avere un riconoscimento giuridico. L’ambiente (umano e 13. LA FASe TeRMINALe DeLLA MALATTIA costruito) di vita del malato – in questo caso la RSA − assume un aspetto terapeutico, perché può dare tranquillità, calore, serenità. In situazioni come queste siamo d’accordo con Toscani sul fatto che “il passaggio in cura a un servizio di cure palliative è improponibile, così come improponibile sarebbe il trasferimento in un Hospice” (2009). Al personale dei luoghi di Long-Term Care, RSA nello speciico, sono dunque richieste competenze palliative, oltre che sensibilità, doti empatiche e comunicative. Le malattie degenerative del SNC aprono così uno scenario nel quale i conini delle diverse discipline mediche diventano più sfumati e complessi. Le cure palliative dovrebbero transitare da specializzazione rivolta a certi malati (neoplastici) e praticata in certi luoghi (hospice in primis) a un nuovo modo di cura. La medicina palliativa dovrà “in un certo senso sciogliersi permeando e fecondando le altre discipline e gli altri ruoli: la medicina di famiglia, la medicina interna, le diverse specialità, la geriatria” (Toscani, 2009). Geriatria, aggiungiamo noi, che per vocazione e storia è spesso, spontaneamente e a volte inconsapevolmente, di per sé palliativa. 6. Conclusione La cura della persona con demenza è un duro banco di prova per chiunque e in qualsiasi momento della malattia. La fase terminale costituisce la dificile conclusione di un lungo percorso. Dificile per la complessità, per l’assenza del protagonista − il malato, incapace di esprimere volontà e opinioni − e per l’impreparazione di un servizio sanitario ripiegato sull’acuzie, sulla tecnologia, sull’eficientismo e la produttività. Abbiamo visto come questi malati patiscano sofferenze evitabili, siano spesso trasferiti negli ultimi giorni di vita in ospedale, dove sono sottoposti a trattamenti futili o dolorosi. Fortunatamente strutture considerate da taluni ancillari nel nostro sistema sanitario (penso alle RSA), si stanno facendo carico di malattie e malati che altrove non trovano risposte. Negli ultimi anni inoltre la letteratura scientiica e la pratica quotidiana ci hanno fornito strumenti di conoscenza in grado di migliorare la cura delle persone con demenza in fase terminale. Rimane aperto il tema della volontà del malato. Parliamo di una persona che, nella fase inale della vita (mesi, non giorni o ore), non è in grado di esprimere i propri desideri, bisogni, volontà; una persona che però, per tutto l’arco della sua vita, ha avuto dei valori e ha espresso delle scelte che si vorrebbe fossero rispettate ino alla ine della vita, e che invece rischiano di essere stravolte e violate, di essere oscurate dalla routine quotidiana, dall’indifferenza verso un malato che non parla, talvolta dai pregiudizi e dalla scarsa competenza di chi cura. La pianiicazione anticipata delle cure (ACP, advance care planning) presenta ancora molte dificoltà applicative, in questa speciica malattia (Wickson-Grifiths et al., 2014; Am- 261 262 DANIeLe VILLANI pe et al., 2016). Le direttive anticipate di trattamento, che darebbero una legittimità alle volontà del malato e di chi lo rappresenta, non esistono ancora nel nostro Paese. In carenza di queste cornici legislative, il processo decisionale, nella fase di ine-vita di una persona con demenza, si deve fondare su una triade: la competenza del medico, che deve orientare la famiglia sulla base delle conoscenze scientiiche; la conoscenza della volontà del malato, che può essere desunta, soprattutto in RSA dove il malato vive a lungo, da conversazioni fatte con il malato stesso inché possibile e con i suoi cari, da testimonianze scritte, da scelte di vita che la persona ha fatto e che ci fanno capire il suo orientamento; la comunicazione con i famigliari, indispensabile per trasmettere informazioni, condividere scelte, stabilire un ponte ideale tra il paziente e chi lo cura. Su quest’ultimo punto, la comunicazione con i famigliari, troppo spesso trascurato nella pratica quotidiana, non s’insisterà mai abbastanza. Lo studio prospettico EoLO-PSODEC (Toscani et al., 2015) ha dimostrato che quasi nessuno dei 481 pazienti con demenza in fase FAST ≥7c aveva ACP o direttive anticipate, e la maggior parte delle decisioni critiche era presa, in RSA, senza confronto con le famiglie, nonostante la loro assidua presenza. Queste lacune decisionali e comunicative in futuro dovranno essere colmate. Inine, siamo pienamente d’accordo con Miller (2015), che recentemente scrive “Non esistono scelte sbagliate quando esse rilettono preferenze ben informate. Ci sono invece occasioni perdute per comunicare, e forse un eccesso di valore attribuito ai moduli irmati”. Bibliografia AA.vv. (1996), Medical guidelines for Determining prognosis in selected non-cancer diseases. The National Hospice Organization, hosp J, 11(2):47-63. Ampe s., sevenAnts A., smets t., DeClerCq A., vAn AuDenhove C. (2016), Advance care planning for nursing home residents with dementia: policy vs practice, J Adv Nurs, 72:569-81. 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L’innovazione in ambito diagnostico e terapeutico Stefano Govoni Il titolo dell’articolo richiama un concetto che pare ovvio: l’importanza di una contaminazione tra saperi diversi per produrre innovazione in ambito biomedico. Il titolo suggerisce inoltre come l’accademia non sia l’unico spazio dello sviluppo del sapere. Queste affermazioni, semplici in apparenza, implicano invece una straordinaria complessità sul piano educativo e organizzativo, nonché un signiicativo impegno inanziario. 1. L’importanza di una cultura diffusa sulla ricerca biomedica La mancanza della diffusione della cultura della ricerca si può percepire quando si interroghi un bambino sulle sue intenzioni per il futuro: è dificile che questo pensi ad un futuro nella ricerca biomedica a meno che non abbia provato sofferenza per un familiare gravemente ammalato. L’immaginario pubblico sulla ricerca e sugli scienziati ha sempre sottolineato prevalentemente gli aspetti negativi e le possibilità che la ricerca sfugga al controllo. In altri paesi si sta operando perché tutto questo cambi. A Washington, accanto agli altri grandi musei, è operativo da tempo un museo sulla storia e sui progressi della medicina (si veda: http://www.medicalmuseum.mil). In Italia, esistono esempi di musei legati alla storia della medicina (si vedano ad esempio i casi dell’Università di Firenze e dell’Università di Pavia: http://www.msn.unii.it; http:// musei.unipv.it) che contengono reperti di grande valore, ma ancora incentrati su un concetto museale settecentesco ed europeo: il museo è una raccolta che stimola la curiosità e rilette lo spirito del collezionista e perciò deve meravigliare, non educare. Un esempio di innovazione, almeno tecnologica, potrebbe essere il museo di Scienze Biomediche, Biotecnologiche e Traslazionali dell’Università di Parma (si veda: http://www.musei.unipr.it/it/musei-e-collezioni/museo-sbibit/ricerca), impegnato in progetti di realtà virtuale per la messa in rete delle proprie collezioni. Si tratta comunque di esperienze lontane, anche per le dimensioni, dall’obiettivo di promuovere nel grande pubblico conoscenza, consuetudine e sensibilità ai temi della ricerca biomedica. Si assiste a qualche timido esempio, non suficien- 266 STeFANo GoVoNI temente pubblicizzato presso il grande pubblico, come il portale Research Italy (si veda: https://www.researchitaly.it/conoscere). Manca un grande riferimento nazionale, l’equivalente nell’immaginario pubblico di una Pompei, di una Valle dei Templi o di un museo egizio dedicato alla ricerca biomedica. Nell’immaginario delle nuove generazioni la ricerca e il ricercatore devono acquistare un ruolo positivo e imporsi come dimensione di pieno sviluppo umano e morale. 2. Dialogo tra ricerca di base e ricerca applicata Un centro di formazione e ricerca interdisciplinare in ambito diagnostico e terapeutico non deve necessariamente essere indirizzato alla sola ricerca applicata, anche se verosimilmente quest’ultima sarà prevalente. Sia la ricerca di base, sia la ricerca applicata contribuiscono all’avanzamento delle conoscenze, anche se hanno obiettivi differenti. La prima ha per scopo la pura acquisizione di nuove conoscenze, la seconda invece è orientata a risolvere speciici problemi. Un esempio in ambito biomedico: lo studio dei circuiti e meccanismi neuronali sottesi alle funzioni cognitive appartiene alla ricerca di base, mentre lo studio delle cause della malattia di Alzheimer è ricerca applicata. Com’è evidente dall’esempio, il conine tra i due domini è labile e la cross-fertilization tra le due tipologie di ricerca è possibile e talora fonte di scoperte innovative. Spesso, infatti, la ricerca applicata avanza grazie a nuove informazioni emerse dalla ricerca di base. Si pensi, ad esempio, a come la scoperta dell’esistenza dei neurotrasmettitori, dei recettori e dei meccanismi di base del signalling inter- e intracellulare ha inluenzato lo sviluppo di nuovi farmaci. La ricerca di base non è apprezzata da tutti; alcuni ritengono che sia costosa, più della ricerca applicata, e senza ricadute immediate utili all’uomo o, nel caso della ricerca biomedica, alla salute dell’uomo. Tale impostazione è irrazionale. Razionalmente, invece, la ricerca di base permette di evitare di ristudiare ogni volta i princìpi fondanti che sottendono ogni ricerca applicata. Tendenzialmente non dovrebbe esistere una separazione netta tra ricerca di base e ricerca applicata che possono costituire fasi diverse e talora alternantesi del lavoro di uno stesso ricercatore o gruppo. Questa lessibilità nella ricerca è critica, in quanto fonte di innovazione e della capacità di usare nuovi approcci. Cross-fertilization e lessibilità sono per lo più esito di processi casuali, mentre dovrebbero essere pianiicati o almeno andrebbe pensata un’organizzazione della ricerca tale da facilitare il processo. 3. Insegnare a fare ricerca Chi insegna a fare ricerca e come si costruisce una carriera scientiica in ambito biomedico? In alcune università americane e canadesi sono stati avviati cor- 14. L’INNoVAzIoNe IN AMbITo DIAGNoSTICo e TeRAPeuTICo si indirizzati a stimolare il pensiero critico e l’esecuzione di progetti indipendenti di ricerca. Questi corsi dovrebbero portare alla formazione di medici che comprendano il ruolo vitale che la ricerca ha nel sistema sanitario moderno, studiosi capaci di incorporare la ricerca nel proprio percorso medico (si veda: http://medicine.dal.ca/ research-dal-med/programs/rim.html, consultato il 7 marzo 2016), non solo ai ini della propria carriera professionale, ma anche per migliorare impostazioni ed esiti dei processi diagnostici e della terapia. Si tratta di curriculum molto interessanti che comprendono aspetti salienti del lavoro di ricerca; come la tabella 14.1 bene illustra, è possibile insegnare a fare ricerca in un corso strutturato. Non tutti i partecipanti diventeranno ricercatori, ma tutti apprenderanno a essere sensibili alle istanze della ricerca e informati sulle sue modalità. Da sottolineare l’importanza che nel programma viene data alle medical humanities, cioè a quegli aspetti spesso ed erroneamente poco percepiti come rilevanti per un ricercatore. Si noti anche, all’interno della organizzazione del percorso, il rilievo di insegnamenti e attività volti ad apprendere l’how to do piuttosto che la sola erogazione di basi teoriche. In Italia, le esperienze al riguardo hanno un carattere meno sistematico. Ad esempio, in molte università sono spontaneamente ioriti centri di ricerca interdipartimentali che, per statuto, hanno lo scopo di sviluppare e coordinare importanti attività pluriennali e interdisciplinari di ricerca di base e/o applicata. Tuttavia, a modo di vedere di chi scrive, si tratta per lo più di costruzioni sterili aventi prevalentemente lo scopo, esplicito o meno, di permettere un’autonomia (limitata) amministrativa senza mai strutturarsi come veri propulsori di una nuova capacità di formazione scientiica. Posto che qualcuno di questi centri riesca a soddisfare i criteri proposti in questo articolo, si tratterebbe comunque di singole realtà e non di una volontà sistematica delle università italiane di dare risposta a una precisa richiesta di formazione di personale per la ricerca in possesso di alcune caratteristiche predeterminate. Dunque, quello della formazione continua a ricorrere come problema centrale. Va considerato superato il “mito romantico” del ricercatore o del gruppo di ricerca geniale e isolato; tali igure possono continuare ad esistere, ma il problema è quello di creare un’intera classe di ricercatori e strutture che abbiano le dovute caratteristiche ed impianto organizzativo. Impegno economico e intellettuale di adeguato dimensionamento servono anche a lasciare spazio a quelle genialità che possono altrimenti isterilirsi. Vale la pena di notare che sono in corso rilessioni profonde sui processi di apprendimento e di trasmissione delle conoscenze. I sistemi “tradizionali” ai quali siamo abituati, basati sulla erogazione piuttosto standardizzata di alcune conoscenze di base (i cosiddetti programmi ministeriali, abbastanza omogenei anche nelle diverse nazioni, che, in Italia, disciplinano l’istruzione dalle scuole elementari all’università), sono probabilmente superati e non più capaci di stimolare adeguatamente l’interesse a nessuno dei livelli interessati. Lo sviluppo tecnologico e 267 268 STeFANo GoVoNI la disponibilità di risorse informative attuali non hanno precedenti e vanno integrati nel processo di ingaggio degli studenti e usati come strumento per sviluppare la passione per l’apprendimento che oggi richiede, più che nel passato, buone guide e mentori all’interno di percorsi personalizzati, piuttosto che docenti-enciclopedie (al proposito vale la pena di ascoltare l’intervento del 2006 di Ken Robinson ‘‘Do Schools Kill Creativity’’ – https://www.ted.com/playlists/171/the_most_popular_talks_of_all). La ricerca, nel momento in cui deve essere insegnata e praticata, non può sottrarsi a questa evoluzione. La commistione di scienze diverse, ma anche di ricercatori diversi, costituisce il valore che deve permeare un nuovo modo di fare ricerca, fortemente basato sul confronto, sullo scambio e sulla condivisione di dati, risultati e conoscenza. Al centro del percorso investigativo si pongono dunque il problema affrontato da diverse angolazioni e le sue possibili soluzioni, non più le prospettive individuali e le soluzioni parziali date da approcci settoriali. Strade diverse devono essere percorse simultaneamente, arrivando, con maggiore eficacia, a un traguardo che diventa nuovo punto di partenza. Tabella 14.1 - Argomenti del curriculum “Ricerca in Medicina” alla Dalhousie university (Canada) Corsi di base • Quali domande porsi in ricerca • Quali sono le metodologie di base • Saper consultare la letteratura scientifica ed identificare le fonti • Valutazione critica della ricerca • Disegno di uno studio • Raccolta e analisi dei dati Selezione di un progetto Facendo seguito agli incontri con i gruppi di ricerca gli studenti devono: • Scegliere un referente e un progetto, individuare il quesito al quale intendono dare una risposta con la propria ricerca e scegliere la metodologia da impiegare • Sviluppare una proposta di ricerca • Decidere l’arco temporale nel quale svolgerla • Sottoporre la proposta al comitato etico, se richiesto • Sottoporre la proposta completa a un board di esperti Sessioni pratiche e incontro con gruppi di ricerca direttamente coinvolti in ricerche di elevato profilo • epidemiologia clinica • Studi di popolazione • Ricerche di base • Aggiornamento medico • organizzazione ed esiti di un servizio medico • Politiche sanitarie • Principi etici in sanità • Medical humanities* Conduzione della ricerca una volta scelto l’arco temporale gli studenti devono: • Raccogliere i dati • Analizzare i dati • Presentare i risultati (sotto forma di manoscritto, poster, presentazione a una conferenza – il risultato ideale è un manoscritto da presentare a un peer reviewed journal) *Con il termine Medical Humanities ci riferisce a un insieme interdisciplinare che comprende aspetti antropologici, letterari, artistici, filosofici, etici e sociali applicati alla formazione e pratica medica diretto a stimolare creatività e innovatività degli approcci all’interno di una visione complessiva (olistica) dei problemi. 14. L’INNoVAzIoNe IN AMbITo DIAGNoSTICo e TeRAPeuTICo 4. Medico e ricercatore La ricerca biomedica deve molto al contributo di medici-ricercatori sin dalla sua origine: Theodor Schwann, Camillo Golgi, Robert Koch, Paul Erlich sono solo alcuni esempi di scienziati che svilupparono tecniche originali di colorazione di tessuti, misura di processi isiologici, coltivazione di batteri che diedero esito alla comprensione delle normali funzioni e struttura cellulari e alla comprensione di malattie dell’uomo. Da un punto di vista generale, a parte gli esempi storici, tutti i medici acquisiscono una formazione scientiica importante nel corso della loro carriera accademica e vita professionale; ad esempio, processi come quello della diagnosi si basano sul metodo scientiico, in quanto paragonano ipotesi diverse. Tuttavia, nella comune prassi, i medici non possono essere identiicati con il termine di “scienziati” a meno che non affrontino programmi sistematici di ricerca capaci di generare nuove conoscenze. La ricerca biomedica contemporanea, basata su un’altissima specializzazione e su tecniche molecolari, comporta uno svantaggio competitivo per i medici che seguano il percorso formativo tradizionale. Il doppio titolo MD – Ph.D. (medico e dottore di ricerca) offre in molte realtà nazionali un approccio consolidato allo sviluppo di una doppia competenza. Si tratta tuttavia di percorsi formativi di non facile organizzazione e relativamente poco remunerativi rispetto alle tradizionali specializzazioni. In Italia vi è qualcosa a livello di corsi di perfezionamento e di master, ma si tratta di un’offerta sporadica. Eppure, gli studenti di medicina e, ancora più, gli specializzandi costituiscono una grande risorsa intellettuale, nonché in termini di manpower per un’istituzione che ne sappia organizzare bene il lavoro. All’interno di questo contesto un certo credito va dato agli Istituti di Ricovero e Cura a Carattere Scientiico (IRCCS), molti dei quali sanno dare una chiara impronta in doppia traccia (ricerca e assistenza clinica) al proprio personale medico e di ricerca. Chi scrive presiede il comitato etico di un grande IRCCS, e una delle attività più qualiicanti, e faticose, è stata quella di aiutare alcuni gruppi clinici a sviluppare le sensibilità e le competenze sopra ricordate, grazie alla sensibilità dell’istituzione al problema e alla precisa volontà di fare formazione in questo ambito. Qual è dunque il contributo speciico che un medico-scienziato può dare alla ricerca? Da un punto di vista generale si può immaginare che il medico al letto del malato sia un ricercatore “sul campo” con la possibilità di fare osservazioni di prima mano. L’impressione attuale è che esista a livello clinico una ricchezza di informazioni che a volte non è pienamente apprezzata per la mancanza della capacità di classiicare e sistematizzare i dati. Un centro “interdisciplinare di ricerca”, soprattutto se indirizzato alla ricerca in campo geriatrico, dovrà essere capace di sviluppare metodologie che permettano di organizzare l’insieme delle informazioni che derivano non solo dai pazienti, ma anche dai caregiver formali e informali, un lavoro adatto a un team che preveda un medico specialista, un 269 270 STeFANo GoVoNI neuropsicologo ed esperto nella stesura e validazione di questionari e un ricercatore in ambito biomedico che sappia individuare marcatori biologici signiicativi. Occorre integrare parti di medicina narrativa all’interno della raccolta di dati sul paziente, un lavoro che in alcune situazioni, anche se non necessariamente legate alla ricerca, si sta rivelando utilissimo a ricavare informazioni di altrimenti dificile valutazione. Si tratta di un lavoro che può essere organizzato tramite riunioni strutturate periodiche e frequenti dello staff coinvolto in un’ipotesi di ricerca. Si tratta di un’abitudine relativamente poco diffusa da noi sia nell’ambito della ricerca sia in ambiente accademico, molto impiegata invece nei team che devono produrre innovazione nelle aziende delle più varie tipologie. Almeno nelle fasi iniziali non si tratta di un processo completamente spontaneo, occorre un training speciico e un conduttore esperto (in genere uno psicologo) perché le riunioni, sia quando focalizzate su uno speciico argomento, sia quando basate su un approccio a brainstorming, portino a percorsi realizzabili. La struttura stessa di quanto qui proposto lascia e amplia lo spazio alla serendipità in ricerca, spesso invocata come nume tutelare dell’innovazione, che non è esito di un mero caso, ma è la possibilità di individuare vie innovative proprio perché si è costruito un background fertile per riconoscerle e accettarle. 5. Aspetti etici nell’organizzazione della ricerca L’organizzazione di un moderno centro di ricerca innovativa non può ignorare il contributo della bioetica. In ambito biomedico esiste un conine incerto tra scienza medica, umanesimo del medico e tecnologie a disposizione (non solo macchine, ma, soprattutto, biotecnologie e bioingegnerizzazione di organismi o parti di organismo). Occorre lo sviluppo di una nuova cultura e una discussione sui limiti etici alla ricerca. Si tratta di un compito che deve vedere lavorare ianco a ianco biologo, medico e bioeticista. L’umanità, nel passato, ha elaborato etiche che facevano riferimento a un agire limitato nello spazio e nel tempo, e sostanzialmente innocuo nei confronti della natura. Ciò ha comportato: a) un’incapacità previsionale dei processi trasformativi, perché la natura dell’uomo era pensata come costante e il raggio della sua azione limitato. La povertà dei mezzi disponibili rendeva prevedibili i ini e controllabili i comportamenti; b) una neutralità nei confronti del mondo extra-umano la cui capacità di autoconservazione, rispetto alla modestia degli interventi tecnici, non esigeva alcuna prescrizione etica; c) un’indifferenza nei confronti della strumentazione tecnica, le cui possibilità erano facilmente governabili dall’uomo, che quindi rimaneva soggetto del fare tecnico e non a sua volta oggetto della sua potenzialità. Tutto questo è cambiato, il compito di un gruppo interdisciplinare di ricerca deve saper considerare anche tali ricadute. 14. L’INNoVAzIoNe IN AMbITo DIAGNoSTICo e TeRAPeuTICo È facile immaginare l’inadeguatezza di tale impianto morale nel momento in cui il mezzo tecnico acquista il potere di modiicare la realtà in modo così incisivo da mutarla a livello planetario e con conseguenze che si proiettano, peraltro in modo poco prevedibile, nel futuro. L’attuale preparazione accademica di medici e biologi a questi temi non è sistematica e così anche nei centri interdisciplinari di ricerca, dove i temi di questo tipo sono negletti e lasciati piuttosto all’iniziativa di conferenze occasionali invece che essere integrati strutturalmente. 6. Una storia personale Chi scrive ha avuto la fortuna di lavorare in due centri clinici sensibili alla ricerca svolgendo indagini sulla malattia di Alzheimer. Il testo nel suo complesso, e questo paragrafo in particolare, sono stati scritti sulla base dell’esperienza personale diretta (con tutti i limiti che questo comporta) presso due istituzioni che nel tempo sono state coordinate dai due curatori di questo volume, con i quali chi scrive ha una consuetudine pluridecennale. Sì, ci può essere un bias, ma le storie di ricerca hanno spesso questi connotati. Il punto è cercare di sistematizzare e razionalizzare quello che è stato l’impianto della propria esperienza e proporlo afinché sia trasferibile e applicato da altri come modello. Il lavoro di ricerca presso il Centro Studi Malattia di Alzheimer di Brescia e, più recentemente, presso la Fondazione Golgi-Cenci in Abbiategrasso (per un periodo purtroppo breve a causa di nuovi impegni accademici) non nasce formalmente come esperienza all’interno di un centro indirizzato a fare formazione nell’ambito della ricerca e a tale ine organizzato e strutturato. Si è trattato piuttosto di una crescita in questo senso di un gruppo di medici e di biologi interessati a condividere alcuni temi di ricerca. Devo dire, indipendentemente dalle motivazioni d’origine, che si tratta di due tra le esperienze più entusiasmanti che abbia vissuto come ricercatore, che mi hanno permesso di non “innamorarmi” perdutamente ed esclusivamente di una via di segnale cellulare (il negletto del contesto a favore del particolarismo è il rischio costante di ogni ricercatore e ogni gruppo di ricerca che non abbia suficienti interazioni e “contaminazioni” di apporti differenti). Quali i tratti comuni delle due esperienze? In entrambi i casi la costruzione di laboratori di ricerca avanzata all’interno di un contesto clinico e le riunioni almeno settimanali tra i gruppi di ricerca clinici e di base, con discussione di ogni progetto, anche se non necessariamente condotto in comune, e dei relativi avanzamenti nei due campi. Discussione sulle ricadute delle ricerche in termini di miglioramento di diagnosi, benessere, cura del paziente e indagini sulle possibili ricadute sulla sfera dei caregiver. Quali i limiti? Le dimensioni, l’investimento, la durata nel tempo, la stabilizzazione dei ricercatori. Quindi molto positiva l’esperienza di “laboratorio sociale” su come organizzare un gruppo di ricerca interdi- 271 272 STeFANo GoVoNI sciplinare, meno rewarding gli aspetti relativi al poter dare continuità all’esperienza al di là della formazione e della gratiicazione intellettuale delle persone che hanno partecipato all’iniziativa. Sempre in relazione alle due esperienze e alla loro non sistematicità, la mancanza dell’individuazione di un assetto organizzativo stabile e non legato a leadership personali è stato certamente un aspetto negativo. 7. Sta accadendo ora: i modelli di innovazione L’innovazione deve essere guidata e richiede investimenti in denari e persone, l’esempio che mi viene in mente è quello del Wyss Institute (si veda: http:// wyss.harvard.edu/viewpage/271/grid-what-is-the-wyss). Vale la pena di leggere la mission dell’istituto e di esplorare alcuni dei programmi e l’assetto organizzativo, che vede la partecipazione ben strutturata di biologi, ingegneri, genetisti, medici, informatici e ricercatori clinici. Secondo il sito, la mission è sviluppare materiali e strumenti ispirati alla natura e alla biologia che risolvano problemi medici e ambientali e trasformare queste innovazioni in tecnologie in prodotti che abbiano impatto sulla società. L’istituto raccoglie al proprio interno gruppi che collaborano trasversalmente piuttosto che operare come singoli gruppi indipendenti capaci, appunto, di immaginare e sviluppare la ricerca letteralmente from benchto-bedside. L’organizzazione del Wyss Institute costituisce un modello di innovazione. Uno degli esempi degli studi del Wyss Institute che più mi hanno colpito è quello presentato da Geraldine Hamilton (si veda: https://www.ted.com/talks/ geraldine_hamilton_body_parts_on_a_chip), che letteralmente parla di “un paziente su un chip” e descrive la possibilità di inserire in oggetti di dimensioni pari a quelle di un vetrino da microscopio colture cellulari in un sistema ingegnerizzato che permette di ricreare un ambiente simil-isiologico, di mimare lussi di liquidi e gas e analizzare tramite sensori l’attività cellulare. Più di questi sistemi, opportunatamente collegati, possono ricostruire un insieme funzionale utile a studiare, ad esempio, l’effetto di un farmaco. Si può pensare anche a sistemi fondati sull’impiego di cellule ingegnerizzate a riprodurre una condizione patologica o di cellule derivate dai pazienti per sviluppare una medicina personalizzata. Forse, al di là delle battaglie e delle risse che ha suscitato, lo “Human Technopole”, il grande progetto basato sull’impiego di una parte dell’area Expo di Milano, potrebbe costituire un’idea interessante, anche se la consultazione del sito di riferimento così come si presenta a tutt’oggi (si veda: www.humantechnopole.com) non permette di apprezzare la vera consistenza del progetto scientiico, al di là di quanto comparso sulla stampa non specializzata (si vedano anche le critiche espresse al progetto nel corso del mese di febbraio dalla senatrice Elena Cattaneo nel suo articolo comparso su “La Repubblica” e più recentemente sull’inserto domenicale del Sole 24 Ore). 14. L’INNoVAzIoNe IN AMbITo DIAGNoSTICo e TeRAPeuTICo Le organizzazioni di questa complessità vanno ovviamente oltre gli scopi della discussione condotta in questo articolo, tuttavia serve capire che la ricerca è un campo complesso che investe sia aspetti metodologici sia aspetti organizzativi. Va ricordato con forza che, come per ogni attività umana complessa, esistono metodologie di management. Ogni sistema di management delle conoscenze deve promuovere una ricerca eficace e incanalare i risultati in modo tale che creino benessere. Occorre un sistema di management (si veda Betz, 2011 o J. Craig Venter, 2014 https://hbr.org/ideacast/2014/08/the-art-of-managing-science.html) che integri il contesto sociale, organizzativo, istituzionale e infrastrutturale necessario al disegno e alla conduzione dei progetti di ricerca e che ne consideri anche il percorso successivo, quello che dall’indagine di successo porta allo sviluppo di un mercato (qui inteso non solo nel senso economico, ma anche di trasferibilità e applicabilità del risultato della ricerca). Questi ultimi aspetti vengono spesso considerati con sospetto da chi fa ricerca, dimenticando che la sostenibilità nel tempo della ricerca stessa dipende in buona misura da essi. Nel contesto più ristretto della discussione proposta nell’articolo sui centri interdisciplinari di ricerca questi aspetti forse hanno una minore incisività, ma non dovrebbe comunque mai essere dimenticato che, se si vuole superare lo stadio del volontarismo, gli aspetti di disegno, di organizzazione e di management devono essere considerati scientiicamente anche nelle strutture di dimensioni contenute. Bibliografia Nella scrittura di questo capitolo non ho fatto uso di riferimenti bibliografici standard, piuttosto ho consultato e citato direttamente nel testo alcuni siti web e il volume di Betz Frederick [Managing Science: Methodology and Organization of Research, Springer-Verlag, 2011] che mi sono stati utili per la compilazione. Soprattutto per ciò che riguarda i cenni ai problemi etici ho rivisitato due miei scritti degli anni passati, qui di seguito ricordati. govoni S. (2002), La sofferenza dell’uomo e la ricerca biomedica. In: N. FAlCitelli, m. trABuCChi, F. vAnArA (a cura di), Rapporto Sanità 2002. Il cittadino e il futuro del Servizio sanitario nazionale, bologna, Il Mulino. govoni S. (2004), La ricerca umana senza fine di ciò che serve per la salute. In: N. FAlCitelli, m. trABuCChi, F. vAnArA (a cura di), Rapporto Sanità 2004. L’appropriatezza in sanità: uno strumento per migliorare la pratica clinica, bologna, Il Mulino. 273 Anna banchero 15. Alzheimer: Il ruolo del programmatore di fronte alle difficoltà 15. Alzheimer: il ruolo del programmatore di fronte alle difficoltà economiche, culturali e di una medicina poco abituata alla manutenzione Anna banchero 1. Dai sistemi sanitari ai “sistemi di salute” Prima di entrare nel merito dei contenuti da approfondire, ritengo utile fare alcune premesse che introducano con più chiarezza gli elementi della complessità sanitaria. Un primo aspetto riguarda il proilo del nostro sistema sanitario, che specie nell’ultimo decennio, manifesta sempre più incongruenze ed ineficienze. La regionalizzazione ha portato a grosse differenze, non solo sui costi, ma sulle prestazioni erogate, particolarmente sul piano della qualità. Si vive più a lungo, ma non sempre in salute e soprattutto sono fortemente aumentate le cronicità e le patologie che richiedono lungo-assistenza cui non si risponde in maniera adeguata. Nonostante si voglia passare ad un sistema per la salute, va sottolineato che, a partire dalla formazione universitaria, permane nella medicina quello che Michel Foucault deiniva un “bio potere” e cioè un sistema ancorato ad una visione del corpo come macchina complessa, trascurando il concetto di “persona” e le molteplici dimensioni della salute che ne derivano, a favore di una medicina d’organo che vede come traguardo la guarigione e si cura meno della complessità coordinata di corpo/mente/vita. Sotto questo aspetto, le malattie croniche inguaribili e a prognosi degenerativa suscitano minor attenzione rispetto l’acuzie, anche se sono gravi. Questo ha potuto avere solo ripercussioni negative sulle cronicità e sull’assistenza a lungo termine, coninate in quel concetto più sociale che clinico di “non-autosuficienza”, relegato a sua volta in un limbo tra prestazioni di aiuto sociale e accudimento familiare, che nessuna disciplina clinica ha mai voluto considerare come proprie. Le lunghe discussioni che hanno caratterizzato la ine degli anni ’90 sulle competenze sociali e sanitarie hanno snaturato la visione di “persona” che ha un continuum di necessità e di bisogni che non si possono “spacchettare” e che frequentemente, proprio nell’ultimo decennio e soprattutto dopo la pesante crisi economica che ha colpito le famiglie, hanno fatto sì che spesso si siano cercate soluzioni sui tavoli della magistratura, con miriadi di sentenze ad-personam, 276 ANNA bANCheRo che pochi risultati hanno portato all’evoluzione del sistema salute a favore delle cronicità. Il secondo aspetto è quello economico, trattandosi di un sistema a inanziamento pubblico, la crisi dell’ultimo quinquennio lo ha fortemente toccato con la necessità di riduzione della spesa di oltre 4 miliardi di euro, comunque ancora oggi con un budget di 117 miliardi di euro, intorno al 5,5% del PIL e secondo solo alla previdenza, peraltro anch’essa ridotta dalla riforma Fornero. Ci troviamo quindi di fronte ad un sistema che per tornare nei ranghi deve tagliare i costi. Ed ha un bel dire il Ministero della salute che si tagliano solo i rami secchi, in concreto, la mancanza di cultura, l’approccio più medico che umanistico, uniti ad una limitazione dei inanziamenti hanno prodotto quella miscela negativa che è sfociata nel mancato potenziamento di servizi quali l’assistenza domiciliare, la residenzialità (anche diurna) socio-sanitaria e di altre prestazioni legate alla specialistica e alla diagnostica strumentale e per immagini, la cui ripetitività stava divenendo troppo costosa e inappropriata. In pratica, nelle regioni, servizi avviati in via sperimentale o in virtù di progetti-obiettivo ritenuti un’innovazione nel sistema salute, sono stati via via sacriicati da tagli alla spesa, magari per garantire l’esistenza di un piccolo ospedale, che è comunque sempre un orgoglio per i sindaci, soprattutto di piccoli comuni, ma che non ha funzionalità positive per i cittadini, che dificilmente si rivolgono a strutture verso cui non nutrono alcuna iducia. Nell’ambito di quanto osservato, si inserisce positivamente la crescita dei cittadini che nelle società post-industriali pongono la salute come uno dei maggiori problemi ad impatto sociale. Pensiamo a tutto il movimento che si è creato di fronte ad un’assistenza psichiatrica segregante, da Basaglia in poi, per non citare l’esperienza descritta da Oliver Sacks in Risvegli, dove Sacks descrive così bene il passaggio dalla biologia alla biograia della persona: “Quando iniziai il lavoro lo concepii in termini limitati e rigorosamente scientiici, ma subito mi resi conto che avremmo dovuto abbandonare il protocollo originale per descrivere le mie osservazioni con un occhio fenomenologico e non solo medico e terapeutico”. Come si può osservare, si evidenzia un recupero della medicina come complessa sintesi di competenze e sensibilità empatica, per rispondere alle richieste di cure più umane. In questo contesto, si sviluppa la programmazione sanitaria dell’ultimo decennio derivata, in parte, dalle osservazioni sopra espresse. 15. ALzheIMeR: IL RuoLo DeL PRoGRAMMAToRe DI FRoNTe ALLe DIFFICoLTà 2. Le criticità del programmatore Entrando nel merito della funzione programmatoria, pare troppo semplice attribuire la debole risposta dei servizi sanitari e sociali alle patologie cronico-degenerative, solo alle valenze culturali della medicina, ai tagli economici o alle dificoltà di integrare sanitario e sociale. Vanno sottolineate – senza mezzi termini – le responsabilità politiche di sottovalutazione dei problemi, anche queste derivate da una scarsa cultura di ciò che è un sistema di crescita sociale. Dobbiamo purtroppo mutuare dagli economisti illuminati la gravità delle disuguaglianze. Si deve ad Amartya Sen, economista indiano Nobel per l’economia del 1998, lo studio sugli effetti sociali dell’allocazione delle risorse e dei beni nei confronti delle povertà e delle disuguaglianze. Alle responsabilità politiche in tema di programmazione o di norme, si aggiungono anche quelle dei tecnici, spesso con scarsa cultura sugli aspetti della crescita sociale e quindi anch’essi fortemente inluenzati dagli elementi economico-inanziari e talvolta da gruppi di studio e approfondimento, portatori di interessi professionali “di parte”. Proprio Sen è uno dei critici più severi della concezione dominante dell’economia nel Novecento, che la riduce alla sola dimensione del “pensiero calcolante”, alla massimizzazione dell’interesse egoistico del singolo attore. Richiamandosi a Kautilya, (ilosofo indiano del IV sec. a.C.), ma anche alla migliore rilessione occidentale (da Aristotele ad Adam Smith), Sen rivendica la necessità di mantenere sempre, accanto al pensiero calcolante (dominante nella scienza del governo e nella scienza della ricchezza), il pensiero pensante (metaisico ed etico), capace di cogliere il senso e la direzione complessiva dell’agire umano. In altre parole, si può affermare che la tutela della salute non è più ambito esclusivo dei professionisti sanitari, ma richiede il coordinamento e l’integrazione tra le azioni diagnostico-terapeutiche e quelle della prevenzione primaria e secondaria, con azioni promozionali e innovative ad opera di altri soggetti all’interno delle comunità territoriali. La stretta interdipendenza tra salute e reti sociali di mediazione/supporto alla malattia, mostra come il ricorso al sistema istituzionale delle cure è solo una parte delle diverse opzioni che la persona/famiglia possono attualizzare all’interno di un percorso di guarigione/miglioramento caratterizzato dall’incontro anche con soggetti non professionali (parenti, amici, vicinato, ecc.) che possono consigliare e supportare pazienti e familiari con vissuti positivi, esperienze personali e attività di volontariato. Soprattutto per le malattie croniche o di lungo assistenza si consolida sempre di più il concetto che non è solo il sistema sanitario che può rispondere ai problemi che si determinano per assistere una persona con patologie cronico-degenerative, ma è necessario un sistema più ampio, includente e pluralista, dove le risorse terapeutiche si alleano con il sistema comunitario cioè con il capitale so- 277 278 ANNA bANCheRo ciale, per arrivare all’home-care e alla community care, secondo una concezione olistica della persona e della stessa malattia. Questo, per il programmatore è un compito arduo perché deve sapere/potere rivolgersi a soggetti esterni al sistema sanitario e, per farli diventare collaterali ad esso, deve predisporre una progettualità molto più ampia delle sue “tradizionali” conoscenze. Le tradizionali conoscenze, o meglio la conoscenza di tipo burocratico che ha ancora un forte appeal negli Ufici ministeriali ed anche nei Dipartimenti regionali, spesso non aiuta la progettualità aperta che vuole cultura e professionalità duttile, capace di un atteggiamento di ricerca che può portare solo innovazione e nuovi modelli operativi. La sperimentalità che ha trovato buona accoglienza nel sistema sanitario intorno agli anni 2000, poi soffocata dalle esigenze inanziarie (più che economiche) dell’ultimo decennio, si è molto afievolita e viene coltivata prevalentemente negli Istituti di ricerca scientiica che poca attinenza hanno con la lungo assistenza delle malattie croniche. Purtroppo, anche sotto il proilo tecnico-politico, gli ultimi decenni non hanno regalato al sistema sanitario manager fortemente innovativi (certo, ci sono eccezioni positive). È chiaro che sperimentare, allargare il campo di azione all’esterno delle “mura sanitarie”, richiede − oltre ad un atteggiamento innovativo di chi “ci mette la faccia” − anche una notevole disponibilità a mediare e talvolta anche a scontrarsi con l’ambiente e con il sistema politico, perché attivare la community care vuol dire capacità di riprogettare i servizi a livello delle comunità locali, integrare i servizi pubblici (non a parole) e collaborare con soggetti del settore informale (associazioni, volontariato, ecc.) con una reciprocità sinergica. È una sorta di restituzione delle competenza di cura ai corpi intermedi della società civile per costruire percorsi assistenziali tra l’intensità assistenziale di presidi e istituzioni sanitarie e l’estensività dell’accudimento a domicilio. In altre parole, per le cronicità di tipo degenerativo si tratta di costruire modelli in cui la salute diventa un insieme di connessioni multidimensionali tra servizi pubblici o accreditati con le risorse delle comunità locali. Qui, entrano fortemente in gioco i comuni e quindi si ritorna a quel tabù del sociale e sanitario, mai completamente fugato – anzi rivitalizzato – dai problemi inanziari. Però il “sistema salute” può essere solo questo, altrimenti ci troviamo di fronte ad un sistema sanitario che cura prevalentemente le patologie d’organo. Molti tentativi sono stati fatti, sia in sede nazionale che dalle regioni, per disciplinare il socio-sanitario, dal d.lgs. n. 229/1999 all’Atto di indirizzo sull’integrazione del 14 febbraio 2001. Anche se è trascorso più di un decennio, la cultura socio-sanitaria è nebulosa e sono rimaste solo regole sull’attribuzione della spesa tra sistema sanitario, comuni e cittadini che spesso si sono irrigidite al punto che non vi è più progettualità. Molto dificoltosi sono anche i rapporti tra ASL (Distretti) e comuni, elemento basilare per avviare e consolidare la community care. 15. ALzheIMeR: IL RuoLo DeL PRoGRAMMAToRe DI FRoNTe ALLe DIFFICoLTà Le esigenze del pareggio di bilancio non facilitano l’incontro tra Autonomie locali e Aziende sanitarie a favore di un rigore delle competenze, piuttosto che cercare soluzioni negoziate, che non sempre sono un aumento di spesa, ma certamente un cambiamento dei paradigmi organizzativi. La presa in carico ed il progetto individualizzato per cui tanto si sono battute le associazioni di tutela, ma anche operatori e amministratori, si è coninata nella regola di far entrare in assistenza, specie nelle strutture residenziali a ciclo continuativo o diurno, nuovi utenti solo se si liberano posti, ovvero qualcuno muore. Forse nell’assistenza domiciliare ci sono un po’ meno rigidezze, ma comunque è ancora lontano il traguardo di assistenze continuative con diversi gradi di intensità per rispondere alle esigenze terapeutiche dei malati. È molto dificile assicurare una domiciliarità sanitaria protratta nel tempo ai cronici; oggi, sia pure con qualche dificoltà, si risponde alle cure oncologiche e per malati terminali, forse, proprio perché sono “a termine”. Nonostante sia passato poco più di una decennio, non solo la cultura sociosanitaria non si è consolidata, ma progetti innovativi e alternativi all’istitutizzazione, peraltro con meno spesa del ricovero in struttura − quale potrebbe essere il “budget di cura” erogato ad un non autosuficiente, a un demente o ad un disabile grave − sono portati avanti in poche regioni e soprattutto le regioni che avrebbero maggior bisogno di innovare (quelle con i Piani di rientro) (1) sono quelle che debbono irrigidire e comprimere la spesa e quindi dificilmente possono “investire in innovazioni” che comunque richiedono come startup investimenti anche minimi. La situazione attuale ha lasciato spesso in ombra anche innovazioni in termini di formazione, nonostante siamo tutti consapevoli che la formazione è l’elemento base per il cambiamento dei paradigmi assistenziali. Un altro aspetto fortemente critico, anche per riallocare risorse (umane e inanziarie) è la veriica sulla qualità dei servizi che potrebbe costituire un punto forte per modiicarne alcuni inadeguati (ci si riferisce ad esempio ai piccoli presidi ospedalieri inadatti alla loro funzione, ma fortemente difesi dalle autorità politiche locali). Ci sono valide esperienze sulle veriiche della qualità, ma purtroppo poco diffuse oppure prevalentemente collegate all’accreditamento. (1) I Piani di rientro sono pianiicazioni regionali sottoposte al vaglio del Ministero dell’economia e a quello della salute, per garantire che le regioni con spesa sanitaria superiore alle assegnazioni rientrino nei budget di spesa previsti dallo Stato. 279 280 ANNA bANCheRo 3. I provvedimenti per l’invecchiamento e le demenze È però doveroso, dopo queste analisi che hanno mostrato le criticità ed i nodi della programmazione socio-sanitaria, sottolineare che lo Stato e le regioni (queste ultime con grosse differenze) hanno regolamentato i Livelli di assistenza, che almeno sotto il proilo giuridico sono diritti omogenei garantiti a tutti i cittadini. Di fatto, però, i LEA sono stati regolamentati nel 2001, con qualche ritocco nel 2005, per cui la loro deinizione è oggi anacronistica e lontana dalle reali esigenze dei malati cronici, sia per la residenzialità che per la domiciliarità. Va detto che nella legge di stabilità del 2016 è previsto un piccolo stanziamento (600 milioni) per aggiornare i LEA, con documenti già affrontati dalla Conferenza dei presidenti delle regioni anche all’interno del Patto per la salute 2014/2016. È materia dei nostri giorni, quindi vedremo dove si approda. Nell’universo più ridotto delle politiche sociali, ad un esiguo Fondo nazionale sociale che è variato nell’ultimo triennio tra i 200 e i 370 milioni, con la legge di stabilità 2015 si è aggiunto stabilmente per un triennio il Fondo per la non autosuficienza con la dotazione annuale di 400 milioni di euro, in parte inalizzati alle malattie neurovegetative tra cui la SLA. Da parte del Ministero della salute, nell’ottobre 2014 si è proposto alla Conferenza Stato-regioni, che lo ha approvato, un Piano demenze (aggiornato nel 2015) che si propone di rideinire le strutture specialistiche per la presa in carico diagnostica e terapeutica come Centri per disturbi cognitivi e demenze (CDCD) che ereditano i compiti prima attribuiti alle Unità di valutazione Alzheimer (UVA). Si tratta di circa 500 unità distribuite sul territorio nazionale con oltre 2.000 operatori dedicati. L’obiettivo è ambizioso: prendere in carico tutte le persone affette da demenza, dove l’Alzheimer rappresenta circa un 60% della casistica. Si pone anche l’accento ad una presa in carico integrata socio-sanitaria, che resta ad oggi, come sopra osservato, uno dei più grossi problemi per questa tipologia di pazienti. Il Piano invita anche a migliorare l’erogazione dei servizi a favore dei dementi, a monitorare l’offerta e a valutare l’appropriatezza delle prestazioni erogate, per renderle omogenee nelle diverse regioni italiane. Gli obiettivi del Piano riguardano: 1) interventi e misure di politica sanitaria e socio-sanitaria, con diffusione delle conoscenze per una diagnosi tempestiva, trattamento e assistenza dei pazienti con demenza migliorando la loro qualità di vita e sostegno ai loro carers, realizzando anche sistemi di rilevazione epidemiologica; 2) creazione di una rete integrata per le demenze di carattere socio-sanitario per adottare percorsi diagnostico-terapeutici (PDTA) adeguati; 3) razionalizzazione dell’offerta migliorando l’appropriatezza, anche attraverso la deinizione di linee guida, adeguatamente monitorate e realizzando interventi formativi adeguati; 15. ALzheIMeR: IL RuoLo DeL PRoGRAMMAToRe DI FRoNTe ALLe DIFFICoLTà 4) investimenti per la riduzione dello stigma con particolare attenzione ai caregiver. Il Piano nazionale demenze ha però un vulnus: non è dotato di risorse inanziarie, ma non sempre sono le risorse inanziarie a consolidare i servizi; spesso si tratta di problemi organizzativi a costo molto basso e talvolta a costo zero, quindi le regioni e le ASL dovrebbero comunque attuare gli interventi previsti. Sarebbe stato positivo se il Piano avesse introdotto incentivi e premialità per chi attua gli interventi innovativi o viceversa sanzioni per chi non applica le sue indicazioni. Qualche volta, basta poco per promuovere un percorso innovativo, particolarmente se dirigenti e operatori credono in nuove scommesse che migliorano le condizioni dei cittadini più sofferenti. Una recente ricerca sulla cura delle persone affette da Alzheimer condotta da CENSIS e AIMA (Associazione italiana malattia di Alzheimer), resa nota a ine febbraio 2016, fa emergere che i malati di Alzheimer in Italia sono destinati ad aumentare a causa dell’invecchiamento della popolazione e l’ADI (Alzheimer’s Disease International) ha stimato a livello mondiale per il 2015 oltre 9,9 milioni di nuovi casi di demenza all’anno. La ricerca pone in evidenza che gli aiuti pubblici sono in netta diminuzione; per contrastare questa tendenza è urgente che decisori politici e programmatori prendano atto che l’epidemiologia è cambiata ed ai nostri giorni sono molto più devastanti alcune malattie croniche, che non le gravi patologie acute e per questo l’attuale struttura di spesa del sistema sanitario va modiicata per rispondere ai nuovi bisogni della lungo assistenza. 4. Osservazioni finali Per concludere, una breve annotazione autobiograica, chi scrive, ha operato per oltre 30 anni ino a giugno 2015, nell’ambito della Programmazione sociale e socio-sanitaria, prima come dirigente della Regione Liguria e nell’ultimo quinquennio come coordinatore tecnico della Commissione interregionale delle politiche sociali e socio-sanitarie della Conferenza dei Presidenti delle Regioni e Province Autonome. Ad un anno di distanza, in questa occasione, ho ricordato le tappe più importanti del mio lavoro: quante battaglie, discussioni, relazioni e memorie per far passare i principi che ho sopra descritto, quanta fatica, tenacia e coraggio per far comprendere al livello politico che i programmi a favore delle persone, soprattutto le più fragili, non possono essere progettati per la durata di un ciclo amministrativo. Devo anche affermare, però, che qualche amministratore illuminato ha permesso non a me, ma ai cittadini liguri, molte vittorie, concretizzate con leggi, piani e altri provvedimenti regionali per la nascita di servizi innovativi ed il conso- 281 282 ANNA bANCheRo lidamento di sperimentazioni e di tutte quelle attività che possono migliorare l’assistenza a domicilio: dalle cure domiciliari, al Fondo regionale per la non autosuficienza che è stato poi rafforzato con le norme nazionali. E poi, i Centri diurni per Alzheimer, le agevolazioni sul trasporto e la mobilità, forme residenziali più accoglienti e competenti (soprattutto controllabili e controllate), interventi per l’inclusione dei disabili, che hanno tracciato strade riprese anche in campo nazionale. Molte volte la commozione di una lettera scritta da una mano malferma che mi diceva… “grazie dottoressa di aver pensato anche a noi”, oppure “mio iglio è entrato a lavorare con ‘la borsa lavoro’, anche per lui un po’ di giustizia”. Certo, quando si tratta di beneici alle persone, anche il più piccolo cambiamento ti gratiica molto. Ma ciò che mi ha davvero riempito di orgoglio, è stato − ed è − prendere atto che molti dei miei allievi dell’Università di Genova che hanno frequentato la laurea specialistica in Direzione dei servizi sociali e socio-sanitari e che oggi operano nelle realtà locali della Liguria, affrontano con “grande serietà e con voglia di lottare e ottenere ciò per cui si battono” nei confronti delle situazioni e dei problemi che giornalmente si pongono agli enti pubblici e non: dalle gravi situazioni derivate dalla crisi economica, alle necessità di opporre a tagli indiscriminati, razionalizzazioni e innovazioni, sostenendo con tenacia i principi culturali contro le diseguaglianze, che vogliono salvaguardare, chi ha meno, chi è malato e chi non possiede nulla. Quindi, se mi è consentito tracciare un bilancio delle molteplici esperienze di lavoro, dico senz’altro che le soddisfazioni hanno superato le amarezze e sono convinta che in presenza di volontà, competenza e coraggio, cambiare... è possibile! Bibliografia BAnChero A. (2005), Programmare i servizi sociali e sociosanitari, bologna, Il Mulino. CosmACini G. (2013), La medicina non è una scienza. Breve storia delle sue scienze di base, Milano, Raffaello Cortina. sen A. (2013), La misura sbagliata delle nostre vite. Perché il PIL non basta più per valutare benessere e progresso sociale, Milano, Rizzoli etas. Ketty Vaccaro 16. La condizione dei malati di Alzheimer e dei loro caregiver 16. Cittadini come gli altri? La condizione dei malati di Alzheimer e dei loro caregiver Ketty Vaccaro Uno dei vantaggi principali del nuovo studio realizzato da Censis e Aima sulla malattia di Alzheimer (1) è la possibilità di riscostruire cosa è cambiato in un percorso lungo 16 anni nella situazione dei malati di Alzheimer e delle loro famiglie. Nel 1999, la prima ricerca, “La mente rubata” (2) contribuì ad una sorta di emersione nell’immaginario collettivo di una patologia grave, nei fatti ben poco conosciuta, ma già allora avvolta da un alone di timore, mentre il secondo, realizzato nel 2006 (3), pur ribadendo la condizione di particolare dificoltà in cui versano le persone affette da Alzheimer e i loro caregiver, aveva evidenziato l’accrescersi della consapevolezza sociale sulla malattia e messo in luce alcuni importanti cambiamenti nel sistema delle cure, dalla disponibilità gratuita dei farmaci inibitori della Acetilcolinesterasi per il trattamento dei sintomi alla istituzione delle Unità di valutazione Alzheimer (UVA), punti di riferimento sul territorio per la diagnosi, la terapia e la cura, importante lascito della sperimentazione del Progetto Cronos avviato nel 2000. Anche nello studio del 2015 la scelta metodologica è stata quella di realizzare un’indagine che valorizzasse il punto di vista dei caregiver: 425 caregiver di malati di Alzheimer diagnosticati e non istituzionalizzati sono stati intervistati grazie all’AIMA, che ha realizzato sia la selezione degli intervistati, a partire da un campione a quote deinito sulla base della distribuzione nazionale dei pazienti affetti da questa patologia ricavata dall’ultima indagine multiscopo dell’Istat (4) che la somministrazione telefonica dei questionari, fornendo un fondamentale contributo anche nella predisposizione dei questionari e nell’analisi dei risultati. (1) Spadin P., Vaccaro C.M. (a cura di) (2016), Cittadini come gli altri? La condizione dei malati di Alzheimer e dei loro caregiver, Roma, Carocci. (2) Censis (1999), La Mente rubata. Bisogni e costi sociali della malattia di Alzheimer, Milano, Franco Angeli. (3) Spadin P., Vaccaro C.M. (a cura di) (2007), La vita riposta: i costi sociali ed economici della malattia di Alzheimer, Milano, Franco Angeli. (4) Istat (2014), Indagine multiscopo, Condizioni di salute e il ricorso ai servizi sanitari 2013. 284 KeTTY VACCARo In questo nuovo studio non mancano importanti segnali, spesso piccoli e non sempre evidenti, di quanto stia progressivamente cambiando il mondo che racchiude i malati di Alzheimer e le loro famiglie. Un mondo che invecchia, prima di tutto, si alza infatti l’età media di pazienti e caregiver, ed un mondo al femminile sul quale cresce l’impatto della malattia soprattutto in termini di isolamento sociale. Sono donne 2 pazienti su 3 e l’età media dei malati con Alzheimer si è progressivamente innalzata (73,6 anni nel 1999, 77,8 anni nel 2006 e 78,8 anni nel 2015) (tabella 16.1) come quella dei caregiver coinvolti nella loro assistenza, 73% dei quali di sesso femminile: 53,3 anni nel 1999, 54,8 anni nel 2006 e 59,2 anni nel 2015. In questo caso si assiste quasi al raddoppio degli ultra64enni, che erano il 20% nel 2006 e raggiungono il 37% nel 2015. Aumentano così i caregiver che non lavorano, non solo in quanto pensionati ma anche perché disoccupati. Tabella 16.1 - Genere ed età dei pazienti, 2015, confronto con indagine 1999 e 2006 (valori percentuali) Sesso Maschio Femmina Totale Età Fino a 55 anni da 56 a 65 anni da 66 a 75 anni da 76 a 85 anni 86 anni e più Totale Età media 2015 2006 1999 34,1 65,9 100,0 32,2 67,8 100,0 31,9 68,1 100,0 – 6,8 23,8 49,9 19,5 100,0 78,8 1,3 7,6 24,3 51,1 15,7 100,0 77,8 2,9 17,0 34,2 37,3 8,5 100,0 73,6 Fonte: indagine Censis, 1999-2006-2015. Se è vero che i igli, e soprattutto le iglie, sono ancora i caregiver prevalenti (53,5%), il ruolo dei coniugi, soprattutto delle mogli anziane dei pazienti maschi si fa più rilevante (37,0% contro il 25,2%). Ma anche i caregiver maschi che si occupano delle malate sono soprattutto i mariti e sono anziani (igura 16.1). 16. LA CoNDIzIoNe DeI MALATI DI ALzheIMeR e DeI LoRo CAReGIVeR Figura 16.1 - Grado di parentela del caregiver con il paziente, per genere del paziente (valori percentuali) Fonte: indagine Censis, 2015. È un cambiamento ancora poco percettibile, ma importante: la famiglia è ancora protagonista dell’assistenza, ma tende a restringersi in nuclei più di ridotti e più fragili, come segnalato anche dall’aumento dei malati che vivono solo con il caregiver (dal 22,9 al 34,3%), soltanto con la badante (dal 12,7 al 17,7%) o da soli (dall’8,0 al 15,6%). Cambia anche il panorama dei servizi a disposizione, a partire da quelli sanitari. Le UVA che, grazie ai vantaggi di un équipe multidisciplinare per la diagnosi ed alla deinizione del piano terapeutico apparivano in veloce affermazione nell’indagine del 2006, con il 40% circa dei pazienti che vi era stato diagnosticato ed il 47,6% che le indicava come proprio punto di riferimento della cura, sembrano oggi aver ridimensionato il proprio ruolo (tabella 16.2). 285 286 KeTTY VACCARo Tabella 16.2 - Chi ha effettuato la diagnosi (valori percentuali) uVA Specialista pubblico di cui Neurologo Geriatra Altro specialista Specialista privato di cui Neurologo Geriatra Altro specialista Medico di medicina generale Totale 2006 41,1 37,9 2015 20,6 65,5 22,2 9,2 6,5 18,2 35,6 29,9 0,0 13,4 11,0 5,5 1,7 2,8 100,0 8,1 5,3 0,0 0,5 100,0 Fonte: indagine Censis, 2006 e 2015. Nel frattempo hanno spesso assunto una visione più ampia che ingloba le diverse tipologie di demenza ed in qualche caso hanno anche cambiato denominazione (Centri per la demenza, Centri per la memoria, Centri per il decadimento cognitivo), ma sono meno citate sia come soggetto che effettua la diagnosi (20,6%) che come punto di riferimento unico nella cura del malato di Alzheimer (19,2%). A fronte delle dificoltà di accesso, il ruolo delle UVA o di analogo centro pubblico di varia denominazione dedicato all’Alzheimer e alle demenze sembra essere focalizzato sulla predisposizione del piano terapeutico e sulla somministrazione di farmaci speciici per l’Alzheimer; non è un caso che la quota di pazienti che vi è seguita sia sovrapponibile a quella che assume i farmaci speciici per l’Alzheimer (gli inibitori dell’acetilcolinesterasi e la Memantina), pari al 56% circa. In questo ridimensionamento acquistano invece ruolo gli specialisti pubblici che lavorano presso gli ambulatori ospedalieri o della ASL (sono citati dal 65,5% come soggetti che hanno effettuato la diagnosi e dal 35,6% come punto di riferimento) (tabella 16.3). 16. LA CoNDIzIoNe DeI MALATI DI ALzheIMeR e DeI LoRo CAReGIVeR Tabella 16.3 - Il punto di riferimento unico per il trattamento della malattia di Alzheimer (valori percentuali) Sì, è l’ambulatorio medico ospedaliero o della ASL Sì, è lo studio privato dello specialista Sì è l’uVA Sì, è l’associazione dei pazienti/familiari Sì, è il medico di medicina generale Sì, è una cooperativa socio-assistenziale Sì, altro Non ho un unico punto di riferimento Non ho alcun punto di riferimento Totale 2006 14,7 10,7 47,6 12,1 4,2 2,5 4,5 3,7 100,0 2015 35,6 20,4 19,2 1,5 7,9 1,3 3,8 3,8 6,5 100,0 Fonte: indagine Censis, 2006 e 2015. Inoltre, se va segnalata la riduzione dei tempi della diagnosi che, dopo essere rimasti pari a 2,5 anni dal 1999 al 2006, sono passati nel 2015 a 1,8 anni, non si può non ricordare che la quota di caregiver che indica la presenza di dubbi o incertezze prima di arrivare alla diagnosi appare sostanzialmente stabile nel tempo (44,5%), incertezze ancora più marcate, rispetto al passato, nei casi in cui ci si è rivolti al medico di medicina generale (81,6%). Sono citate in primo luogo dificoltà legate alla necessità di rivolgersi a più specialisti prima di ottenere la diagnosi (17,2% dell’intero campione), a cui si afiancano problemi legati all’aver ricondotto i sintomi all’invecchiamento escludendo la malattia di Alzheimer (13,4%) o, ancora, all’averli confusi con forme di depressione (12,5%) o all’averli considerati non degni di rilievo (8,5%). Anche l’accesso ai farmaci speciici per l’Alzheimer sottoposti a piano terapeutico risulta sostanzialmente stabile nell’arco dei 16 anni: 52,0% dei pazienti nel 1999, quando il loro costo ricadeva interamente sulle famiglie, 59,9% dei pazienti nel 2006, con l’accesso ai farmaci gratuito con l’esclusione della Memantina, 56,1% nel 2015, con questo ultimo farmaco ormai disponibile gratuitamente. Naturalmente su questo aspetto pesa l’indicazione ai farmaci, ma rimane il fatto che la quota di chi è sottratto alla terapia speciica per l’Alzheimer a causa di una diagnosi tardiva che non li rende più indicati diminuisce poco nel tempo (dal 24,9% del 2006 al 20,4% del 2015). E mentre aumenta il ricorso ai farmaci per i disturbi comportamentali (dal 62,8 al 69,8%), si restringe l’offerta di servizi socio-sanitari e socio-assistenziali. Dopo l’incremento registrato dalla prima alla seconda indagine del numero di pazienti che avevano accesso ai centri diurni (dal 7,6% al 24,9%) e all’assistenza domiciliare integrata (dal 6,1% all’11,0%), nel 2015 si assiste ad un signiicativo ridimensionamento, soprattutto nel caso dei centri diurni in cui praticamente ri- 287 288 KeTTY VACCARo sulta dimezzato il numero di chi vi accede (12,5%), per lo più con una frequenza ridotta: poco meno di 4 giorni a settimana, per una media settimanale di 24,6 ore complessive. Permangono, peraltro, le profonde differenziazioni territoriali nella disponibilità dei servizi (si va dal 10,2% di pazienti frequentanti i centri diurni al Nord al 25,7% di quelli residenti al Centro, ino al 5,6% tra chi vive al Sud) e lo stesso vale per i servizi di nuova generazione: mediamente il 20% dei pazienti frequenta i laboratori di stimolazione cognitiva o, soprattutto, gli Alzheimer caffè, ma questa opportunità è presente soprattutto al Nord (27,3%) mentre al Centro ed al Sud si ferma intorno al 16%. Di fronte ad un’offerta di servizi che si ritrae, il tratto del modello assistenziale che non muta è quello della centralità dell’assistenza informale, garantita dalle famiglie attraverso il ricorso alla badante. Quello che nel 2006 si delineava come un’innovazione, appare oggi come la soluzione più ricorrente, con il 38,0% di caregiver che ricorrono alla badante, quota solo di poco ridotta rispetto al 2006 (40,9%) e che aumenta in modo signiicativo al crescere della gravità percepita della malattia (tra i pazienti deiniti gravi il ricorso alla badante sale al 52,6%) (igura 16.2). Figura 16.2 - Il ricorso alla badante, per gravità della malattia percepita dal caregiver (valori percentuali) 52,6 38,0 32,7 8,2 Lieve Moderato Grave Totale Fonte: indagine Censis, 2015. Una igura che mantiene i suoi tratti essenziali: in prevalenza l’assistente familiare è donna, straniera e non qualiicata e convive con il paziente, con compiti di sorveglianza e soprattutto di assistenza limitati (rispettivamente 6,3 ore e 2,8 ore giornaliere), un impegno che si afianca a quello della gestione domesti- 16. LA CoNDIzIoNe DeI MALATI DI ALzheIMeR e DeI LoRo CAReGIVeR ca e soprattutto solleva solo in parte il caregiver dal suo impegno assistenziale, nonostante l’innegabile impatto positivo della presenza della badante sulla riduzione dei tempi di assistenza prestata dal caregiver e sulla qualità della sua vita. Anche per questo la nuova indagine conferma largamente le importanti conseguenze che la malattia esercita su tutti i membri del nucleo familiare del paziente e sul caregiver in particolare, sul piano lavorativo, sociale e in termini di salute, con una chiara connotazione di genere che penalizza in misura maggiore le caregiver di sesso femminile. Tra i caregiver occupati quasi la metà segnala cambiamenti nella vita lavorativa e tra chi attualmente non lavora soprattutto le donne indicano i cambiamenti più drastici, dall’andare in pensione al perdere il lavoro ino al rinunciare a cercarlo per potersi dedicare all’assistenza del congiunto. Allo stesso modo, se oltre un caregiver su 3 segnala almeno un impatto sulla salute, le diverse conseguenze risultano tendenzialmente più presenti tra le donne (tabella 16.4). Tabella 16.4 - L’impatto dell’assistenza sui compiti del caregiver, per genere del caregiver (valori percentuali; N=75,5%)* Si sente fisicamente stanco/a Non dorme a sufficienza Soffre di depressione È dovuto ricorrere a supporto psicologico Si ammala più spesso ha perso o aumentato sensibilmente il suo peso È stato/a ricoverato in ospedale Maschio Femmina 68,8 58,0 35,1 24,6 17,9 31,9 3,6 80,3 63,2 45,3 25,7 26,1 19,2 2,1 Totale 2015 77,2 61,8 42,5 25,4 23,8 23,5 2,5 Totale 2006 87,3 53,6 43,1 23,2 21,9 31,9 0,5 (*) Risponde chi ha indicato di aver subito almeno una tipologia di impatto; i risultati si riferiscono a coloro che hanno risposto sì agli item proposti. Il totale è diverso da 100 perché erano possibili più risposte. Fonte: indagine Censis, 2006 e 2015. Riduzione della vita sociale, solitudine ma anche riconsiderazione delle priorità e sensazione di sentirsi utile sono le situazioni sociali ed emotive più citate, insieme alla conferma dell’impatto negativo della malattia su tutti membri della famiglia. Quello delle famiglie colpite dall’Alzheimer si rivela dunque come un microcosmo sempre più fragile e più isolato, per le sue stesse caratteristiche anagraiche, ma anche per un arretramento dell’impegno pubblico che risulta evidente dai giudizi espressi dagli stessi caregiver. Se nel 2006 erano prevalenti le opinioni positive sul complesso dei servizi disponibili per i malati di Alzheimer, anche alla luce delle novità introdotte a partire dal 2000, oggi la situazione appare ribaltata rispetto alla rilevazione precedente, con il 57% di caregiver che esprime 289 290 KeTTY VACCARo una valutazione negativa ed il 45% che ritiene i servizi inadeguati, contro il precedente 17%. Costante dalle indicazioni degli intervistati appare poi la differenziazione territoriale della situazione di offerta, con il netto prevalere dei giudizi negativi al Sud (73,1%) così come il bisogno ancora insoddisfatto di informazione sia sulla malattia che sui servizi, con l’81,4% di caregiver che ritiene insuficiente l’informazione disponibile sui servizi sanitari e sociali ed il 76,3% sulla malattia, percentuali addirittura in crescita rispetto al passato. Circa il modello auspicabile di assistenza risulta confermata l’opzione per la rete di servizi pubblici sul territorio (59,1% dei caregiver), ma nell’indicare un’azione prioritaria da porre in essere per migliorare da subito la condizione dei malati e delle famiglie, gli intervistati mettono in luce a pari merito l’importanza di un intervento di tipo economico per rispondere alle esigenze attuali dell’assistenza, in cui il ruolo dei servizi informali a carico delle famiglie appare estremamente rilevante ed il loro costo sempre più dificile da sostenere. La stima dei costi sociali ed economici della malattia di Alzheimer conferma questa situazione: non solo il costo medio annuo per paziente (CMAP) stimato, comprensivo sia dei costi familiari che di quelli a carico del SSN e della collettività, risultato pari a 70.586 euro, è in crescita, ma è soprattutto la quota dei costi diretti ad essere aumentata nel tempo. Si tratta di 18.941 euro (27% circa del totale), di cui circa 14.000 euro sono costi legati all’acquisto di beni e servizi da parte delle famiglie, con ben il 60% del totale dei costi diretti riconducibili all’assistenza informale interamente a carico delle famiglie (tabella 16.5). Tabella 16.5 - Stima dei costi sociali, confronto con indagini 1999 e 2006 (v.a. in euro correnti e costanti, var. % reale) Costi diretti (per acquisto di beni Costi indiretti (ore di assistenza e servizi da parte delle famiglie) e sorveglianza monetizzate) Valori in euro prezzi correnti 1999 2006 2015 Valori in euro a prezzi 2015 1999 2006 2015 Var. % reale 1999-2015 1999-2006 2006-2015 Fonte: indagini Censis, 1999, 2006 e 2015. 5.390,26 10.627,04 13.868,90 43.175,81 43.355,82 50.022,82 7.260,68 12.242,35 13.868,90 58.157,82 49.945,90 50.022,82 91,0 68,6 13,3 -14,0 -14,1 0,2 16. LA CoNDIzIoNe DeI MALATI DI ALzheIMeR e DeI LoRo CAReGIVeR Di fronte a questa situazione, tutti i dubbi già da tempo evidenziati sulle possibilità di sopravvivenza di questo modello squilibrato di assistenza, che troppo pesa sulle famiglie, riemergono con forza, tanto più che sono presenti importanti trasformazioni familiari ed economiche, evidenti nella attuale situazione dei malati di Alzheimer, che già generano il loro impatto. La questione della gestione della non autosuficienza in una società che invecchia si delinea sempre di più come una necessità ineludibile, che richiede capacità di attivazione di interventi realmente innovativi, sia nel sistema delle cure che nelle sue fonti di inanziamento. 291 Patrizia Spadin 17. Le associazioni – aima 17. Le associazioni di malati e familiari Le prossime pagine sono dedicate alle tre più importanti associazioni operanti nel nostro Paese in favore dei malati di Alzheimer e delle loro famiglie: AIMA, Alzheimer Uniti e la Federazione Alzheimer Italia. AIMA Patrizia Spadin I trent’anni di AIMA, festeggiati nel 2015, sono stati un’occasione di rilessione e bilanci, non soltanto per i soci di AIMA, ma per tanti di coloro che in questi 30 anni si sono occupati di demenza. Perché AIMA è stata l’apripista: la prima in Italia a parlare pubblicamente di demenza e dei problemi delle famiglie, la prima a dare visibilità al problema sociale e a cercare un modo nuovo per comunicarlo; la prima che instancabilmente ha lavorato per migliorare la qualità della vita di malati e familiari. Ma tutti (medici, operatori e Sanità in generale...) riconoscono il ruolo fondamentale di AIMA che percorrendo la strada della trasformazione da dono generoso ad azione, da beneicenza a intervento ha messo in campo capacità innovativa e progettuale, capacità di lettura politica dei bisogni, “sdoganando” una patologia che trent’anni fa era purtroppo ignorata. Le caratteristiche peculiari della demenza, il suo essere inguaribile, i danni incommensurabili che provoca nell’individuo, nel nucleo familiare e nel tessuto sociale, e la vastità e la profondità del dramma dell’Alzheimer hanno sollecitato e sollecitano tutta la sensibilità, tutti gli sforzi di traduzione del bisogno, tutta la generosità insita nel volontariato di AIMA. Ogni esperienza e ogni spunto sono stati “lavorati” per farli diventare patrimonio comune e condivisibile: nel niente che circondava le famiglie colpite dalla demenza, AIMA ha prima imparato e poi insegnato a cercare nel tanto di ogni binomio malato-caregiver e della realtà quotidiana, modi e strategie per far stare meglio i malati. Il lavoro da, con e per gli utenti, unito alla capacità di leggere e analizzare il bisogno di cui si occupa e alla capacità di produrre progetti e risposte, alla capacità di ottimizzare le risorse, di “inventare” soluzioni, lavoro e servizi, è diventato la spinta per far nascere via via i gruppi di sostegno, la formazione dei familiari, la Linea Verde, il Vademecum Alzheimer, l’Alzheimer Caffè..., e la spinta a rilettere sul sistema del welfare, per suggerire e proporre modiiche e cambiamenti a tutela di malato e familiari. L’area in cui AIMA si è mossa, il panorama attraversato in questi trent’anni, gli interlocutori incontrati, tutto si è modiicato nel tempo, in alcuni casi nel 294 PATRIzIA SPADIN segno dell’evoluzione, in altri decisamente no. E la stessa considerazione che ad AIMA è stata dedicata è mutata negli anni, non tanto per i meriti guadagnati ma piuttosto per la convenienza di governare un fenomeno che acquisiva sempre più forza eversiva e di rottura. È chiaro che se denunci le incapacità organizzative o economiche, o le incapacità di assunzioni di responsabilità dei sistemi di welfare, se denunci le logiche della parcellizzazione e frammentazione ad esempio del sistema dell’offerta in medicina, o se denunci uno Stato incapace di organizzare le risorse sulla base di priorità eticamente fondate, o una politica naufragata nell’esiguità delle risorse e incapace di porre un freno agli sprechi, alle corruzioni del sistema, alle esigenze del mercato e del proitto, devi essere “capace” di rappresentare gli interessi della tua parte e soprattutto devi essere in grado di partecipare alle decisioni. E AIMA nel tempo si è attrezzata per portare avanti le battaglie in cui credeva, per conto di malati e familiari. Ricordiamo la raccolta di trentamila irme per il diritto alla cura, che ha “smosso le acque” a tal punto da indurre il governo a varare il Progetto Cronos. Ricordiamo la richiesta di riconoscimento formale del lavoro del caregiver, che dopo 16 anni dalla sua formulazione vede proprio in questi giorni un disegno di legge (il n. 2128) cominciare il suo iter in Senato. Ricordiamo lo sciopero della fame condotto nel 2004 per l’uniformità di cura sul territorio italiano, che ha portato al miglioramento delle cure in alcune regioni e la rimborsabilità per farmaci che in Italia erano ancora a pagamento. Ricordiamo l’emendamento alla inanziaria del 2006 volto a vincolare la concessione dell’invalidità e dell’indennità di accompagnamento alla formulazione della diagnosi del centro esperto. E ricordiamo le tante piccole e grandi battaglie condotte dalle associazioni AIMA territoriali che hanno visto piccole e grandi vittorie, in città, province e regioni, sempre per il miglioramento della qualità di cura e di vita per malati e familiari. AIMA non ha mai tradito la mission sulla quale è stata fondata, che era ed è aiutare le vittime della malattia di Alzheimer (malati e familiari) per far loro vivere “meno peggio” il lungo percorso di malattia: ha agito e agisce in quell’area vasta della ricerca del benessere, fungendo da tutor, iancheggiatore, sostenitore del benessere isico, psicologico, anche economico, di malato e familiare, e si è dotata degli strumenti che più riteneva adeguati per accompagnare il malato nella sua battaglia contro la malattia e il familiare nella sua dificile strada di caregiver. AIMA ha fatto tanto in questi trent’anni, e vale la pena ricordarlo, sia per valutarne l’operato e la direzione, sia per scoprire cosa “manca” e dove è più corretto concentrare gli sforzi. Non a caso si è sentita la necessità di fotografare la situazione delle famiglie con indagini sui costi e bisogni della malattia, condot- 17. Le ASSoCIAzIoNI – AIMA te con il Censis nel 1987 (La mente rubata, Franco Angeli), nel 2007 (La vita riposta, Franco Angeli) e nel 2015 (Cittadini come gli altri?, Carocci). Avere i dati del disagio e dei diritti non tutelati aiuta a programmare gli interventi: per questo AIMA si è assunta il compito di incidere sulle politiche culturali per la sensibilizzazione dell’opinione pubblica, attraverso un capillare lavoro di informazione e promozione sui temi d’interesse; per questo vuole incidere sulle politiche di welfare, con un attento monitoraggio dell’attività legislativa nazionale e regionale, anche in alleanza con altre grandi associazioni per la tutela dei diritti. E per questo promuove la ricerca biochimica per una sempre più approfondita conoscenza dei meccanismi eziopatogenetici della demenza, e svolge essa stessa ricerca epidemiologica ed economica inalizzata ad una sempre più approfondita conoscenza della malattia. Grazie ad AIMA, è cambiato anche il modo di comunicare: fumetto, letteratura e immagini, per la prima volta sono stati messi al servizio dell’Alzheimer. Quasi trentennale la collaborazione con Enzo Lunari che ha prestato ad AIMA Eritreo Cazzulati che è diventato subito il testimonial per eccellenza. Patrocinio del fumetto Rughe di Paco Roca e patrocinio della distribuzione del ilm che ne è stato tratto. Pubblicazione del libro Mia nonna è diversa dalle altre, distribuito nelle scuole elementari, e pubblicazione del Vademecum Alzheimer, 75.000 copie vendute nel 1997, Vademecum Alzheimer nuova edizione presentato nel settembre 2011; Più o meno qui vicino al cuore, racconti di Rosangela Percoco, e Mi Manchi, romanzo di Nadine Trintignant. Produzione del ilm Quel che resta di lei di Riccardo Rovescalli e promozione e collaborazione all’uscita del documentario Vittorio, Capitan Pistone e tutti gli altri di Mara Consoli, e del corto Il sorriso di Candida di Rita Bugliosi e Angelo Caruso. Produzione di due spot per la regia di Dario Argento e Giuseppe Tornatore. Tabella 17.1 - I riferimenti di AIMA Associazione Italiana Malattia di Alzheimer (AIMA) Via Varazze 6 - 20149 Milano Tel. 02.89.40.62.54 - Fax 02.89.40.41.92 www.alzheimer-aima.it aimanaz@tin.it Nella sede AIMA è nato il primo gruppo di lavoro sull’etica e sulle cure di ine vita (gruppo che ha contribuito alla stesura di alcune proposte di legge sul testamento biologico, e pubblicato un manuale sulle Cure di ine vita) e quello sui bisogni del paziente demente in pronto soccorso con la stesura di una prima car- 295 296 PATRIzIA SPADIN ta dei diritti. Sono nati i primi corsi di formazione per le badanti e i primi “laboratori” per i familiari. Si è sperimentato il “Centro di soccorso per la memoria” (ambulatorio neurologico e geriatrico per la valutazione e il monitoraggio sia delle fasi iniziali di malattia che delle fasi più problematiche e avanzate), e l’“ADknitAtelier” (laboratorio di lavori femminili per pazienti in fase lieve). AIMA ha istituito un servizio di consulenza per le tesi di laurea o di diploma; lavorato sull’ambiente, sul sostegno psicologico ai familiari, sulla riabilitazione e sulla conoscenza delle terapie farmacologiche, sui centri diurni e su nuove tecniche per limitare la contenzione. Ha sperimentato servizi innovativi per pazienti e familiari: nella sede AIMA sono nati i gruppi di sostegno (antesignani dei gruppi di auto mutuo aiuto) e l’Alzheimer caffè, ora diffuso su tutto il territorio nazionale e realizzato anche da altre associazioni. Ma AIMA non dimentica il suo primo obiettivo di sostegno alle famiglie e attraverso la Linea Verde Alzheimer 800 679679, dal 1997 è accanto ai familiari, che da tutta Italia chiedono informazioni e chiarimenti sulla malattia e le cure, consigli, suggerimenti e indicazioni per vivere accanto al malato, ma anche consulenza e supporto di tipo legale o psicologico (10.000 telefonate l’anno, rendono la Linea Verde Alzheimer una inestra “privilegiata” sul mondo delle vittime della malattia). E ora? Ci possiamo dare obiettivi ragionevoli? Ci sono alcuni argomenti particolarmente “sensibili” che stanno a cuore all’AIMA, e ai quali AIMA dedicherà il suo impegno: ISEE: nonostante le sentenze di TAR e Consiglio di Stato abbiano dichiarato illegittimo conteggiare le prestazioni assistenziali nel computo dei redditi, ancora manca all’appello l’adeguamento normativo, così come richiesto dalla sentenza. Da 15 anni aspettiamo i nuovi Livelli essenziali di assistenza: la legge di stabilità ha vincolato 800 milioni di euro per approvare i LEA entro febbraio 2016! A tutt’oggi non sappiamo né quali siano i tempi di approvazione, né soprattutto cosa conterranno. Invalidità civile, indennità di accompagnamento e altre provvidenze di legge (come l’assegno di cura...): a parere di AIMA sono troppo spesso violate le normative a tutela del malato. Lavoro del caregiver: AIMA seguirà con particolare attenzione l’iter del disegno di legge, perché è datata 2000 la prima proposta di tutela per il lavoro del caregiver, che tanti soldi fa risparmiare al sistema di welfare! Mai come in questo momento vale la pena di diffondere lo slogan di AIMA “Non dimenticare chi dimentica”: nell’attuale scenario economico di crisi feroce, purtroppo si pensa sempre a soluzioni nell’immediato, senza deinire un programma di innovazione dei modelli organizzativi partendo dalla lettura dei bisogni e dal valore del prendersi cura. La fragilità dei nostri malati e delle loro famiglie pretende un impegno sociale e politico di assoluto rigore. Luisa Bartorelli 17. Le associazioni – Alzheimer Uniti 17. Le ASSoCIAzIoNI – ALzheIMeR uNITI Alzheimer Uniti Luisa bartorelli È una associazione di volontariato che unisce una maggioranza di persone affette da demenza e i loro familiari con alcuni operatori del settore, nella convinzione che da tale connubio scaturiscano progetti di vita adeguati, nonché le buone pratiche necessarie a sostenerli, evitando la separazione fra i bisogni espressi e le risposte concrete da adottare. La sede nazionale si trova nella capitale, presso Alzheimer Uniti Roma, la sua sezione più numerosa, in via Alessandro Poerio 100, nel quartiere di Monteverde Vecchio, ospitata dalla Fondazione Roma. Alzheimer Uniti (AU) è membro di Alzheimer Europe e di Alliance Alzheimer Mediterranéenne, alle quali reca i propri contributi attraverso studi speciici ed esperienze. Le sue afiliate, una trentina sul territorio italiano in progress, non sono legate al nazionale da alcun vincolo inanziario, agendo in piena autonomia economica, e ad ognuna è consentito di mantenere la denominazione d’origine, se lo desiderano. In tale clima di libertà, ciò che le unisce è una comune ilosoia di fondo e gli obiettivi concreti, sanciti dallo statuto. Infatti la missione di AU è ottenere le cure adeguate per le persone affette da Alzheimer, o di altro tipo di demenza, e un appropriato sostegno alle famiglie, nel rispetto dei diritti e della tutela della loro dignità. AU si propone presso le istituzioni pubbliche e private come portavoce delle realtà locali, soprattutto situate in zone lontane e disagiate. Vuole dare risalto ai reali bisogni materiali e spirituali dei malati e di tutte le persone che se ne occupano, sviluppando un pensiero forte e responsabile nell’ambito della società attuale. Filosoia e metodo Costante impegno di AU è porre al centro la persona, valorizzando le sue capacità conservate, rinforzandone l’autostima, mantenendo il più a lungo possibile la sua autonomia, contrastando attraverso un ambiente favorevole l’insorgenza di disturbi comportamentali, sostenendo così la sua qualità di vita. Per raggiungere tali obiettivi l’associazione elabora e sperimenta nuovi modelli di assistenza: non vuole essere un’alternativa alle istituzioni, ma un laboratorio d’innovazione, uno stimolo al cambiamento, al miglioramento dei servizi, partecipando alla presa in carico delle persone più fragili e con particolare attenzione allo stress dei caregiver. Infatti, partendo da una profonda conoscenza della malattia e dei problemi che investono la persona colpita e i suoi familiari, AU opera in ciascuna regione 297 298 LuISA bARToReLLI di appartenenza in rete con gli enti locali e con tutte le risorse esistenti nel territorio. Attività Nel condividere il dificile percorso quotidiano con i malati e i loro familiari, l’associazione ha progressivamente arricchito il proprio bagaglio di esperienze e la sua attività è divenuta via via più complessa e articolata. Tale prezioso contatto diretto con le persone permette di sperimentare nuove strategie di cura e di sostegno, stimolando negli operatori dedicati una positiva lessibilità di comportamento, dinanzi agli imprevedibili cambiamenti delle persone a loro afidate. AU vuole essere una porta aperta all’accoglienza di chi ha bisogno di sollievo per fronteggiare i problemi della vita quotidiana, ma anche i momenti critici del decorso di malattia. Tabella 17.2 - I riferimenti di Alzheimer uniti Alzheimer Uniti Via Alessandro Poerio, 100 - 00152 Roma Tel. 06.58.33.39.54 oppure 06.58.89.93.45 www.alzheimeruniti.it info@alzheimeruniti.it Attività ordinarie • Telefono A (Alzheimer, Ascolto, Anziano, Accoglienza) Oltre a dare informazione a tutto campo sui dintorni della malattia e sui servizi esistenti, crea un duraturo legame di comunicazione e iducia con le famiglie. • Sostegno psicologico Professionisti formati ad hoc rispondono ai problemi espressi dai caregiver, attraverso colloqui individuali, effettuati nella sede dell’Associazione, ma anche per telefono. • Consulenza legale Un avvocato mette al servizio dell’Associazione la sua professionalità. Le consulenze riguardano problemi riferiti a situazioni legali emergenti a causa dei deicit cognitivi delle persone con demenza o dei loro comportamenti. In particolare viene trattata la questione dell’amministratore di sostegno. Formazione AU è convinta che parola chiave per una assistenza adeguata alle persone affette da demenza sia formazione a tutti i livelli, dagli operatori di settore, ai ca- 17. Le ASSoCIAzIoNI – ALzheIMeR uNITI regiver, agli assistenti familiari, ai volontari. Si è assunta il compito, quindi, attraverso corsi strutturati, di fornire competenze speciiche e di sviluppare capacità di osservazione e ascolto nei confronti di persone così fragili e complesse. Sapere, saper fare, saper essere accanto alle persone. Per una omogeneità tra le sezioni ha organizzato a Perugia, presso AMATA Umbria, “La stanza delle idee”, un incontro annuale che coinvolge tutte le sezioni in un dibattito sul tema “formare i formatori”. Altra iniziativa che quasi tutte le sezioni propongono è quella del Saggio Caregiver, consistente in una formazione dedicata ai familiari, attraverso un corso strutturato in sei incontri coadiuvati dal manuale del caregiver; così come avviene per il corso per assistenti familiari, strutturato in sessanta ore su dieci incontri settimanali. Gruppi di sostegno In tutte le sezioni AU vengono seguiti gruppi di familiari in dificoltà, che necessitano di chiarimenti sul decorso di malattia, sui comportamenti del proprio assistito, sulla gestione delle emergenze, ma soprattutto sul modo di relazionarsi con i propri parenti. I gruppi vengono coordinati solitamente da uno psicologo competente in materia. I gruppi sono aperti e si svolgono in generale a latere dei centri diurni territoriali. Caffè Alzheimer AU ha sviluppato una rete di Caffè Alzheimer allo scopo di favorire la socializzazione delle famiglie colpite, cominciando dal primo aperto nel lontano 2004 nel quartiere della Garbatella di Roma, che dette l’avvio ai cinque Caffè esistenti oggi nei quartieri metropolitani. L’esempio è stato seguito via via da molte altre sezioni, dal Piemonte alla Sicilia, ognuno programmato con diverse offerte a seconda delle esigenze locali. All’interno degli stessi, sia che siano chiamati Caffè Memoria o Caffè Incontro o Alzbar, si combatte l’isolamento delle famiglie, offrendo momenti piacevoli di diletto e di aggregazione, attraverso i quali far passare messaggi positivi di benessere e di conforto. Servizi socio-sanitari L’Associazione promuove servizi dedicati nel territorio di tutte le sue sezioni. In particolare, presso la sua sede romana, sin dal 2007 è funzionante il Centro Alzheimer della Fondazione Roma, articolato in un centro diurno e in un servizio di assistenza domiciliare speciici, che è stato modello per tutte le afiliate. Le attività del Centro sono inalizzate a ridurre l’impatto della malattia sul grado di autosuficienza, con strategie di riattivazione cognitiva, motoria, occupazionale, 299 300 LuISA bARToReLLI nonché a dare sollievo alle famiglie accompagnandole nel loro gravoso impegno. Tali attività hanno fatto sì che all’Associazione vengano richieste consulenze per la realizzazione e la gestione di servizi e strutture dedicate ai malati di Alzheimer o di altro tipo di demenza. Manifestazioni In occasione della Giornata Mondiale dell’Alzheimer, AU organizza sin dal 1999 un Convegno a Roma in Campidoglio, allo scopo di veriicare i progressi realizzati anno per anno nella ricerca e nelle attività assistenziali, con la presenza di professionisti altamente qualiicati e di operatori di esperienza. Durante il convegno viene assegnato il Premio Saggio Caregiver a chi si è particolarmente distinto nell’assistenza al proprio familiare. Inoltre, con l’obiettivo di sensibilizzare l’opinione pubblica e per favorire la raccolta di fondi, AU attraverso tutte le sue sezioni, partecipa a manifestazioni pubbliche, nella Giornata Mondiale dell’Alzheimer del 21 settembre, nelle piazze principali dei vari territori di appartenenza. Progetti Dall’associazione romana partono progetti speciici, già recepiti da alcune afiliate, con l’intenzione di estenderli a tutto il territorio nazionale: • Progetto regionale “Cer-CO Alzheimer”: formazione e inserimento di personale volontario per il sostegno domiciliare a famiglie colpite. • Progetto “Linda: un abito per l’Alzheimer”, mirato a mantenere la dignità del malato, attraverso la creazione di indumenti e arredi facilitanti l’autonomia. • Progetto Diogene: utilizzo di dispositivi di vigilanza satellitare per persone a rischio di perdersi o di fuga. AU ha attivato una collaborazione col Commissario per le persone scomparse del Ministero dell’interno e, attraverso la sperimentazione dei dispositivi effettuata sul territorio e con la formazione dei soggetti istituzionali, ha promosso il protocollo tra i tre ministeri interessati: interno, salute, welfare. • Progetto COTID: dall’Emilia-Romagna, la nostra Associazione ASDAM ha promosso esperienze di terapia occupazionale a domicilio, secondo tale metodo, che stanno dando buoni risultati. • Progetto “Tempo alle famiglie”: dalle Marche su iniziativa della nostra Associazione AFAM, nei territori di Camerino, San Severino e Matelica è stata realizzata una rete di servizi così denominata, con l’obiettivo di creare un sistema articolato, in grado di rispondere in modo personalizzato e lessibile alle esigenze individuali delle persone con demenza e delle loro famiglie. AFAM, il vero catalizzatore della rete ha svolto corsi anche per i familiari. L’offerta di servizi ha compreso, oltre a prestazioni specialistiche, laboratori di stimolazione cognitiva e motoria con riferimento ai Centri diurni esistenti e ai Caffè Alzheimer. 17. Le ASSoCIAzIoNI – ALzheIMeR uNITI • Progetto “pARTEcipo anch’io”: sulla base dell’esperienza delle visite a musei ed esposizioni, effettuate in dal 2010, e nella convinzione che il contatto con l’arte ed il bello sia fattore di grande riattivazione per le persone affette da demenza, è in atto ora un progetto svolto assieme alla sezione AMATA Umbria, in stretta integrazione con la Fondazione Roma e con l’Università di Perugia, con l’obiettivo di valutare e validare in senso sia qualitativo che quantitativo gli outcome di tale esperienza. A questo progetto si collegano altre iniziative denominate “Arte del qui e ora”, durante le quali si favorisce l’espressività creativa delle persone con demenza. Collaborazioni AU partecipa al Tavolo tecnico sulle demenze del Ministero della salute, nel gruppo dei Percorsi diagnostici terapeutici assistenziali (PDTA). Inoltre a livello delle varie sezioni collabora con altre Associazioni (Caritas, Fondazione Roma, Croce Rossa, Fondazione Di Liegro, Volontariato Vincenziano, Penelope, ecc.) per progetti comuni dedicati e con Club di Service per diffondere la conoscenza della malattia e dei problemi delle famiglie colpite. AU è sempre attiva nella collaborazione con riviste specializzate, nella presenza a convegni di studio nazionali e internazionali, allo scopo di contribuire con notizie, testimonianze e ipotesi di lavoro al sapere e all’approfondimento dei temi più signiicativi per l’assistenza ai malati e alle famiglie, nella prospettiva di mettere in atto sempre nuove strategie di cura e di supporto. Pubblicazioni AU ha promosso, non solo per i propri soci, ma anche per tutto il mondo degli operatori e dei caregiver, numerose pubblicazioni. Segnaliamo i seguenti titoli: • Alzheimer: un viaggio in due, Carocci, 2003 • Nutrizione per l’Alzheimer, CIC, 2003 • Gentlecare “Un modello positivo di assistenza all’Alzheimer”, Carocci Faber, 2005 • Smarrirsi, Armando, 2005 • CD: Convivere con un malato di Alzheimer, Carocci, 2007 • Manuale del caregiver, Carocci Faber, 2008 • Manuale del formatore, Carocci Faber, 2008 • La relazione possibile, Edigraf, 2009 (libro fotograico) • Attività “senza sconitta”, Edigraf, 2010 • Consigli per il caregiver, Edigraf, 2010 • Dementia: 50 domande ed altrettante risposte. Una guida per i caregiver, Stampa 3, 2011 301 302 LuISA bARToReLLI • • • • • Dolce Musica. Un violino per l’Alzheimer, Laser Film (Dvd) Living with an Alzheimer’s patient, Carocci, 2011 (Dvd) Oggi, domani, dopodomani, Fondazione Roma, 2012 (Dvd) Dalla parte dei fedeli, Stampa 3, 2015 Le buone pratiche per l’Alzheimer, Carocci Faber, 2015 In conclusione Alzheimer Uniti con tutte le sue attività vuole dialogare con la società civile, afinché non si faccia intimorire dalla indubbia pesantezza dei dati epidemiologici che potrebbe condurre a un disimpegno verso le persone con demenza, ma al contrario si prodighi ad eliminare lo stigma che ancora, soprattutto in certi territori, colpisce le famiglie. Si tratta di creare intorno ad esse, tramite la ilosoia del “qui e ora”, un ambiente che ormai tutti auspicano come comunità amichevole. È proprio in riferimento alla “friendly community” l’ultima iniziativa di AU, che coinvolge una città di medie dimensioni come Macerata e una località più piccola sui Castelli Romani, laddove si è già in contatto con enti pubblici e privati per sperimentare un luogo dove le persone con demenza possano essere aiutate a vivere iduciose di poter partecipare e contribuire alle attività che ritengono importanti in mezzo alla gente. Gabriella Salvini Porro, Claudia boselli 17. Le associazioni – Federazione Alzheimer Italia 17. Le ASSoCIAzIoNI – FeDeRAzIoNe ALzheIMeR ITALIA Federazione Alzheimer Italia Gabriella Salvini Porro e Claudia boselli La demenza è una malattia cronico-degenerativa caratterizzata da progressione più o meno rapida di deicit cognitivi, disturbi del comportamento e danno funzionale, con inesorabile perdita dell’autonomia e dell’autosuficienza, vario grado di disabilità e conseguente dipendenza dagli altri ino all’immobilizzazione a letto. La malattia di Alzheimer è la forma più comune di demenza (60%). Un quadro, questo, che ben giustiica l’affermazione “la seconda vittima, dopo il malato, è la famiglia”. Occuparsi di un malato con demenza, infatti, può inluire fortemente sull’integrità psico-isica e la qualità di vita delle persone che se ne occupano, ovvero i carer. Nella maggior parte dei casi, per mancanza o carenza dei servizi territoriali e domiciliari, i carer devono sostenere tutto il peso, non solo quello economico, delle cure e dell’assistenza. Un pesante fardello. Quanto sia importante essere vicini a malato e famiglia lo dimostra il Progetto Carer, promosso dalla Federazione Alzheimer Italia in collaborazione con il Laboratorio di Neuropsichiatria Geriatrica dell’Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri di Milano: un intervento strutturato di supporto e sostegno alla famiglia non solo ne allevia il carico assistenziale ma altresì riduce la frequenza di problemi del comportamento nel paziente, in particolare agitazione psico-motoria e deliri. Il panorama mondiale Il maggiore fattore di rischio della demenza è l’età ed ecco perché è in crescente aumento nella popolazione generale, trasformandosi da malattia in una vera e propria epidemia e diventando in tal modo un’emergenza sanitaria globale. Secondo il Rapporto Mondiale Alzheimer 2015 dell’Alzheimer’s Disease International (ADI) e la Prima conferenza ministeriale sulla lotta alla demenza dell’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) tenutasi a Ginevra nel marzo 2015 e diffuso nel nostro Paese dalla Federazione Alzheimer Italia, demenza e malattia di Alzheimer evidenziano cifre allarmanti: un nuovo caso ogni 3 secondi; 9,9 milioni di nuovi casi l’anno; 46,8 milioni di persone con demenza nel 2015, destinate a raggiungere 74,7 milioni nel 2030 e 131,5 milioni nel 2050; 818 miliardi di dollari i costi. Cifre più elevate di quelle stimate nei Rapporti mondiali Alzheimer 2009 e 2010. L’impatto globale della demenza era di 35,6 milioni di persone con demenza e i costi erano 604 miliardi di dollari. Secondo l’OMS i governi di tutto il mondo devono includere la demenza nei loro programmi di salute pubblica: a livello internazionale, nazionale, regionale e locale è necessario avviare, programmi e attuare un coordinamento su più livelli 303 304 GAbRIeLLA SALVINI PoRRo, CLAuDIA boSeLLI e tra tutte le parti interessate. Occorre assicurare la migliore qualità di vita possibile per il malato e un supporto adeguato per i familiari da parte dei sistemi sanitari, sociali, inanziari e giuridici. Pertanto si deve agire subito per: 1) promuovere a livello mondiale una società in grado di affrontare la demenza; 2) considerare la demenza una priorità sanitaria e sociale nazionale in tutti i Paesi; 3) migliorare l’atteggiamento e la conoscenza dei cittadini rispetto alla demenza; 4) investire nei sistemi sanitari e sociali per migliorare l’assistenza e i servizi per i malati e i loro familiari; 5) aumentare la priorità data alla demenza nell’agenda della ricerca di salute pubblica. Già nel 2013, l’11 dicembre, per la prima volta i leader mondiali del G8 (Canada, Francia, Germania, Giappone, Italia, Regno Unito, Russia, Stati Uniti) si erano riuniti a Londra in uno storico vertice – presenti scienziati, ricercatori, esponenti di società farmaceutiche e organizzazioni non proit – per decidere come affrontare questa emergenza sanitaria. I rappresentanti della sanità degli otto grandi della terra hanno discusso vari punti cruciali: la ricerca deve diventare una priorità globale; serve urgentemente un piano d’azione comune tra governi, industrie e organizzazioni non proit, quali le Associazioni Alzheimer; bisogna riconoscere la priorità delle politiche di salute pubblica, dei servizi sanitari e sociali e dello sviluppo dei sistemi sanitari. Tra gli impegni presi, una sorta di road map da seguire: identiicare entro il 2025 una cura che guarisca la malattia o che ne modiichi sostanzialmente il decorso; costituire l’Osservatorio mondiale sulla demenza; sviluppare un piano d’azione internazionale per la ricerca; scambiare informazioni e dati degli studi sulla demenza; garantire libero accesso alle ricerche inanziate dalle istituzioni pubbliche; organizzare una serie di incontri. A febbraio 2014 è stato nominato Dennis Gillings quale Responsabile mondiale sulla demenza. Il panorama italiano L’Italia è uno dei Paesi europei più anziani: circa il 17 per cento della popolazione (9,5 milioni) ha superato i 65 anni di età. L’indice di vecchiaia, deinito come il rapporto percentuale tra la popolazione in età anziana (65 anni e più) e la popolazione in età giovanile (meno di 15 anni) colloca il nostro Paese al secondo posto in Europa dopo la Germania, con un rapporto di 144 anziani ogni 100 giovani. Le proiezioni demograiche mostrano una progressione aritmetica di tale indicatore ino a giungere nel 2051 per l’Italia a 280 anziani per ogni 100 giovani. Dal punto di vista economico stime dei costi socio-sanitari ipotizzano cifre complessive pari a circa 10-12 miliardi di euro l’anno, di cui 6 miliardi per la malattia di Alzheimer. Si calcola che in Italia la demenza colpisca 1.241.000 persone, che diventeranno 1.609.000 nel 2030 e 2.272.000 nel 2050. I nuovi casi nel 2015 sono 269.000 e i costi ammontano a 37,6 miliardi di euro. 17. Le ASSoCIAzIoNI – FeDeRAzIoNe ALzheIMeR ITALIA I servizi di assistenza forniti dalle strutture pubbliche non sono adeguati alle dimensioni del problema. Risultato: il malato è destinato inevitabilmente a non avere altro sostegno se non quello della famiglia, che si trova impotente di fronte a questa tragedia. La prospettiva di chi si deve occupare di un malato di Alzheimer è quella di un lungo cammino tutto in salita. La Federazione Alzheimer Italia In questo contesto, il 30 giugno 1993, viene costituita a Milano la Federazione Alzheimer Italia, su iniziativa di Gabriella Salvini Porro, attuale presidente. Una vita serena e normale, ino a quando la madre comincia a cambiare, dapprima in modo quasi impercettibile e poi sempre più evidente. Fino alla diagnosi: un medico comunica che si tratta di Alzheimer e che non c’è possibilità di cura. Il confronto con tanti altri casi fa capire che le emozioni provate – riiuto, isolamento, rabbia, senso di colpa, impotenza e frustrazione – sono comuni a tutti i familiari dei malati. “La forza di non essere soli” Questo lo slogan della Federazione Alzheimer Italia che nasce proprio per unire, confrontare e utilizzare le varie singole esperienze, ino a creare una rete nazionale di aiuto. E una missione: migliorare la qualità della vita dei malati e delle persone che ogni giorno se ne prendono cura. E un obiettivo: diventare un interlocutore autorevole presso la società, il mondo scientiico e le istituzioni. Un viaggio lungo oltre venti anni. Qualità di vita signiica rispetto del malato, della sua dignità in quanto persona e dei suoi diritti, sanciti nel 1999 dalla Federazione nella Carta dei diritti del malato di Alzheimer. Il progressivo e costante declino di chi è colpito porta infatti troppo spesso a considerare il malato più come un problema irrisolvibile che come una persona con una dignità pari a quella di ogni altra persona. Il suo obiettivo è: diventare interlocutore autorevole presso la società, il mondo scientiico e le istituzioni e contribuire a creare le basi di un percorso di ricerca, cura e assistenza. Lo slogan “La forza di non essere soli” che accompagna il logo della Federazione Alzheimer Italia descrive proprio la necessità e l’esigenza di lavorare insieme. Oggi la Federazione Alzheimer Italia, formata in prevalenza da familiari di malati, raggruppa 47 associate e afiliate su tutto il territorio, con 1.500 soci e oltre 300 volontari, e costituisce il principale punto di riferimento a livello nazionale. Per la sua forte rappresentatività in Italia, la capacità di dialogo con istituzioni e governo e l’innovatività dei suoi progetti, dal 1995 la Federazione è rappresentante per l’Italia dell’Alzheimer’s Disease International (ADI), la Federazione internazionale nata nel 1984 con sede a Londra che riunisce 83 Associazioni di quasi tutti i Paesi del mondo. La Federazione Alzheimer Italia fa inoltre parte di Alzheimer Europe, cui aderiscono 36 Associa- 305 306 GAbRIeLLA SALVINI PoRRo, CLAuDIA boSeLLI zioni nel Vecchio continente, del Consiglio nazionale della disabilità (CND), della Lega per i diritti degli handicappati (LEDHA), della Federazione italiana delle associazioni neurologiche (FIAN) e del Comitato editoriale del mensile “Vita non proit”. Collabora con istituzioni sanitarie e accademiche nazionali e internazionali. La Federazione Alzheimer Italia vive grazie alle donazioni, oltre a una piccola parte di contributi pubblici e privati. Le risorse inanziarie sono investite in progetti di ricerca e in programmi di sensibilizzazione, informazione e formazione per i familiari dei malati. Fondi e utilizzo dei fondi sono dichiarati in maniera trasparente nel bilancio di missione (www.alzheimer.it), che illustra ogni anno il proilo, la missione, i valori, l’assetto organizzativo e gestionale, il sistema delle relazioni e la strategia della Federazione. Gli organi direttivi dell’Associazione – Consiglio nazionale e Presidenza – sono eletti dall’Assemblea degli associati. Le attività della Federazione Il ilo rosso che unisce le attività svolte dalla Federazione Alzheimer Italia é dare voce ai malati e ai loro familiari. Nel dettaglio signiica: informare e sensibilizzare sulla malattia di Alzheimer; afiancare i malati e chi li assiste; rappresentare e tutelare i diritti dei malati; promuovere la ricerca scientiica e medica. Negli anni la Federazione Alzheimer Italia ha creato e sviluppato numerosi servizi e progetti, consulenze gratuite di tipo sociale, psicologico, legale, di terapia occupazionale e corsi di formazione speciica mirata a familiari, volontari, operatori socio-sanitari, infermieri e medici. Inoltre, ha partecipato a studi e ricerche, organizzato convegni ed eventi nazionali e internazionali e pubblicato libri e manuali rivolti sia ai familiari sia agli operatori professionali. Il 1993 è l’anno che sancisce la nascita di Pronto Alzheimer (02 809767), la prima linea telefonica in Italia di sostegno, assistenza e orientamento per i malati e i loro familiari. Il servizio, attivo dal lunedì al venerdì dalle ore 9 alle 18, è sostenuto da periodiche campagne di sensibilizzazione e raccolta fondi tramite sms solidale. Dal 21 settembre 1994, quando è stata dichiarata dall’OMS e ADI, promuove in Italia la Giornata mondiale Alzheimer e dal 2012 settembre come mese mondiale Alzheimer. 17. Le ASSoCIAzIoNI – FeDeRAzIoNe ALzheIMeR ITALIA Tabella 17.3 - I riferimenti della Federazione Alzheimer Italia Federazione Alzheimer Italia Via Alberto da Giussano, 7 - 20145 Milano Tel. 02.80.97.67 - Fax 02.87.57.81 www.alzheimer.it info@alzheimer.it Un viaggio lungo oltre 20 anni La storia della Federazione Alzheimer Italia si può sintetizzare attraverso alcune tappe principali, dal 1993 a oggi, che hanno come denominatore comune la centralità del malato di Alzheimer, i suoi bisogni e i suoi diritti. 1993 • Attiva Pronto Alzheimer, la prima Helpline italiana che alla ine del 2015 ha risposto a 140 mila richieste • Realizza lo “Studio epidemiologico sui bisogni sanitari e assistenziali dei pazienti con malattia di Alzheimer che vivono a domicilio” 1994 • Diventa membro della Commissione delle Associazioni di auto aiuto per le malattie croniche presso il Ministero della sanità • Partecipa al Comitato tecnico della Regione Lombardia per il Piano Alzheimer. • Riceve l’Attestato di benemerenza civica del Comune di Milano • Realizza lo studio sul “Costo sociale della malattia di Alzheimer” con Cergas-Università Bocconi 1995 • Organizza il V Convegno Alzheimer Europe, primo progetto sull’Alzheimer inanziato dalla Commissione europea • Partecipa al progetto sull’etica nell’ambito dell’“European Alzheimer Clearing House” che issa gli standard delle buone pratiche mediche per l’Alzheimer • Partecipa alla Fondazione del Consiglio nazionale della disabilità 1996 • Organizza il primo corso in Italia di Validation Therapy • Partecipa al progetto europeo “Alzheimer Telephone Helpline” • Nasce il sito www.alzheimer.it 1997 • Presenta al Comune di Milano il progetto “Centro diurno Pilota” • Partecipa allo studio “Analisi transnazionale dell’impatto socio-economico della malattia di Alzheimer nell’Unione europea” inanziato dalla Commissione europea 307 308 GAbRIeLLA SALVINI PoRRo, CLAuDIA boSeLLI 1998 • Diventa membro del Comitato per il progetto Cronos presso il Ministero della sanità • Promuove lo studio “Carer – Un intervento a sostegno della famiglia per la gestione dei problemi del comportamento” • Partecipa allo studio “Predict – Transnational Study on Institutional Care” inanziato dalla Commissione europea 1999 • Pubblica il Manuale per prendersi cura del malato di Alzheimer • Elabora la Carta dei diritti del malato di Alzheimer • Diventa membro della Consulta del volontariato in sanità presso il Ministero della sanità • Entra nel Comitato scientiico OMS-SIN per il progetto demenze 2000 • Diventa membro della Commissione nazionale per le neuroscienze presso il Ministero dell’università e della ricerca scientiica • Deinisce con la Società italiana di neurologia le Linee guida per la diagnosi delle demenze • Sigla con la Federazione dei medici di Medicina generale il protocollo d’intesa per migliorare l’assistenza al malato di Alzheimer • Traduce e pubblica in collaborazione con l’amministrazione delle IIPPAB e l’Istituto geriatrico Golgi di Abbiategrasso la guida all’impiego della tecnologia nella cura della demenza “T.E.D. – Tecnologia, Etica e Demenza” inanziato dalla Commissione europea 2001 • Pubblica la traduzione italiana del libro Cara nonna • Partecipa al progetto europeo EPOCH sull’assistenza in famiglia con Alzheimer Europe • Collabora con la Cattedra di Psicologia medica dell’Ospedale San Paolo di Milano in due progetti di ricerca sulla comunicazione della diagnosi 2002 • Collabora al secondo progetto “Carer” per standardizzare gli interventi di assistenza • Diventa membro della Commissione di studio Alzheimer presso il Ministero della salute • Pubblica il libro Visione parziale – Un diario dell’Alzheimer • Organizza con l’Istituto Mario Negri di Milano il progetto pilota “Cara nonna” in una scuola elementare di Carate Brianza 2003 • Pubblica il libro Musicoterapia con il malato di Alzheimer 17. Le ASSoCIAzIoNI – FeDeRAzIoNe ALzheIMeR ITALIA • Pubblica la seconda edizione del Manuale per prendersi cura del malato di Alzheimer 2004 • Partecipa al progetto “Partecipasalute” per un’alleanza strategica tra associazioni di pazienti e comunità medico-scientiica • Partecipa alla prima maratona di solidarietà online “Solidarweb” • Realizza la seconda edizione del manuale Home care per i medici di famiglia Appoggia la campagna “+dai-versi” per sostenere la proposta di legge sulla deducibilità delle donazioni alle organizzazioni non proit 2005 • Partecipa alla seconda maratona di solidarietà online “Solidarweb” • Completa il secondo studio CARER per la standardizzazione degli interventi di assistenza 2006 • Sostiene in Italia la campagna europea per il riconoscimento dell’Alzheimer come priorità sanitaria • Promuove in Italia la sottoscrizione della Dichiarazione di Parigi che riassume le priorità politiche del movimento Alzheimer • Organizza, in occasione del centenario della malattia, il primo concerto al Teatro alla Scala di Milano per raccolta fondi e sensibilizzazione 2007 • Realizza il progetto “Censimento informatizzazione e valutazione dei servizi e delle strutture per la cura e l’assistenza dei malati di demenza in Lombardia” con l’Istituto Mario Negri di Milano • Diventa membro del Tavolo di lavoro sulle demenze presso il Ministero della salute • Organizza il secondo concerto al Teatro alla Scala di Milano per raccolta fondi e sensibilizzazione 2008 • Inaugura a Imola la prima Casa Alzheimer • Pubblica il primo bilancio di missione • Organizza il terzo concerto al Teatro alla Scala di Milano per raccolta fondi e sensibilizzazione 2009 • Realizza la prima campagna di raccolta fondi via sms solidale • Realizza la valutazione della qualità delle Unità di valutazione Alzheimer della Lombardia 2010 • Realizza la seconda campagna di raccolta fondi via sms solidale • Apre una pagina su Facebook e il canale You Tube Alzheimer Italia 309 310 GAbRIeLLA SALVINI PoRRo, CLAuDIA boSeLLI • Inserisce online la banca dati delle strutture per la cura e l’assistenza ai malati con demenza in Lombardia • Propone alle altre Regioni il “Censimento e valutazione dei servizi e delle strutture per la cura e l’assistenza in Lombardia” • Coinanzia e controlla lo studio quinquennale di popolazione sull’invecchiamento cerebrale InveCe.Ab che produce 6 articoli su riviste indicizzate internazionali con acknowledgment per la Federazione Alzheimer. La Federazione compare anche in 6 poster a Convegni internazionali e 11 abstract pubblicati in ambito nazionale o internazionale, fra il 2010 e il 2016. 2011 • Realizza la terza campagna di raccolta fondi via sms solidale • Premia otto tesi di laurea sulla malattia di Alzheimer in collaborazione con Millennium Sport & Fitness • Promuove il progetto per conoscere il parere dei familiari sulle terapie farmacologiche 2012 • Realizza la quarta campagna di raccolta fondi via sms solidale • Realizza una app iPhone/Android per i malati e i loro familiari • Premia i quattro vincitori del premio giornalistico “Alzheimer: informare per conoscere – cura, ricerca, assistenza” in collaborazione con UNAMSI 2013 • Realizza la quinta campagna di raccolta fondi via sms solidale • Promuove il progetto che prevede la presenza in associazione di terapisti occupazionali • Avvia una collaborazione con il canale televisivo Diva Universal • Apre una “iliale” di Pronto Alzheimer presso la Fondazione Golgi Cenci di Abbiategrasso • Premia i quattro vincitori del secondo premio giornalistico “Alzheimer: informare per conoscere – cura, ricerca, assistenza” • Premia sei tesi di laurea sulla malattia di Alzheimer 2014 • Realizza la sesta campagna di raccolta fondi via sms solidale • Sigla un accordo con Equitalia per consulenze gratuite ai familiari dei malati • Promuove la formazione di giovani laureati in terapia occupazionale • Premia i quattro vincitori del terzo premio giornalistico “Alzheimer: informare per conoscere – cura, ricerca, assistenza” • Partecipa al Piano nazionale demenze e alla sua presentazione presso il Ministero della salute 17. Le ASSoCIAzIoNI – FeDeRAzIoNe ALzheIMeR ITALIA 2015 • Realizza la settima campagna di raccolta fondi via sms solidale • Organizza il corso di formazione per le Associazioni 2015 • Sostiene la Dichiarazione di Glasgow irmata con Alzheimer Europe • Partecipa alla Prima conferenza ministeriale dell’OMS per la demenza a Ginevra • Premia i cinque vincitori del quarto premio giornalistico “Alzheimer: informare per conoscere – cura, ricerca, assistenza”. Bibliografia Alzheimer’s DiseAse internAtionAl (2013), The global Impact of Dementia 2013-2050, Alzheimer’s Disease International (ADI), London, December. Progetto pilota “Carer – un intervento a sostegno della famiglia per la gestione dei problemi del comportamento”, Federazione Alzheimer Italia e Istituto di Scienze farmacologiche Mario Negri, Milano 1998 (Alzheimer Dis Assoc Disord 2004;18:75-82). Secondo progetto “Carer – Standardizzazione degli interventi di assistenza”, Federazione Alzheimer Italia e Istituto di Scienze farmacologiche Mario Negri, Milano, 2002. Progetto “Censimento informatizzazione e valutazione dei servizi e delle strutture per la cura e l’assistenza dei malati di demenza in Lombardia”, Federazione Alzheimer Italia e Istituto di Scienze farmacologiche Mario Negri, Milano, 2007. Progetto “Valutazione della percezione dell’efficacia dei trattamenti antidemenza”, Federazione Alzheimer Italia e Istituto di Scienze farmacologiche Mario Negri, Milano, 2011. Rapporto mondiale Alzheimer 2009 (ADI) – Prevalenza della demenza Rapporto mondiale Alzheimer 2010 (ADI) – Impatto economico globale della demenza Rapporto mondiale Alzheimer 2011 (ADI) – Il beneficio della diagnosi precoce Rapporto mondiale Alzheimer 2012 (ADI) – Superare lo stigma della demenza Rapporto mondiale Alzheimer 2013 (ADI) – un viaggio per prendersi cura Rapporto mondiale Alzheimer 2014 (ADI) – Demenza e riduzione del rischio Rapporto mondiale Alzheimer 2015 (ADI) – Impatto globale della demenza uniteD KingDom government - DepArtment oF heAlth (2014), G8 dementia summit: Global action against dementia – 11 December 2013, April. worlD heAlth orgAnizAtion, Alzheimer’s DiseAse internAtionAl (2012), Dementia: a public health priority, World health organization, London. 311 GLI AUTORI GLI AUTORI Gli Autori Enzo Angiolini, architetto, indirizzato alla progettazione ed al miglioramento della qualità di vita di strutture destinate all’assistenza. Studia le reali capacità di “uso autonomo dello spazio” dell’anziano e del demente per aumentare il grado di soddisfazione di assistiti ed operatori. Con il suo laboratorio di professionisti, sovrintende alla progettazione di edifici, uso del colore e arredi. Verifica la diminuzione di stress e depressione mediante la corretta conformazione degli spazi. Partecipa a pubblicazioni di università e di riviste specializzate. L’ultima pubblicazione, curata con bortolomiol e Lionetti, è il libro Gentlecare: cronache di assistenza (Centro Studi erickson, 2015). Anna Banchero ha diretto fino al 2008 le Politiche socio-sanitarie e sociali della Regione Liguria. Docente all’università di Genova presso il Corso di laurea magistrale in Servizi sociali e socio-sanitari. esperta in Commissioni ministeriali per la programmazione socio-sanitaria, non autosufficienza e disabilità. Dal 2010 al 2015 è stata responsabile del Coordinamento tecnico politiche sociali delle Regioni presso la Conferenza Stato-Regioni. Attualmente esperto presso l’Agenzia nazionale servizi sanitari (AGeNAS). Luisa Bartorelli, per 20 anni primario ospedaliero di Geriatria e docente di Psicogeriatria presso la Scuola di specializzazione in Geriatria e Gerontologia dell’università Cattolica di Roma. Fa parte del Consiglio direttivo dell’Associazione italiana di Psicogeriatria. È presidente del Comitato scientifico della Fondazione Roma Sanità e presidente nazionale dell’Associazione Alzheimer uniti onlus. È membro dell’Alliance Alzheimer Méditérranéenne. Fa parte del Tavolo tecnico del Ministero della salute per l’implementazione del Piano nazionale demenze. È autrice di numerose pubblicazioni nel settore. Giuseppe Bellelli è attualmente professore associato presso il Dipartimento di Medicina e Chirurgia dell’università di Milano-bicocca e lavora come dirigente medico geriatra presso la Clinica geriatrica dell’Azienda ospedaliera S. Gerardo di Monza. I suoi principali interessi di ricerca sono i disturbi cognitivi (demenza e delirium) e la riabilitazione delle persone anziane. È nel Consiglio direttivo della Società italiana di Gerontologia e Geriatria e dell’Associazione italiana di Psicogeriatria. Angelo Bianchetti è medico specialista in Geriatria e Neurologia. È responsabile del Dipartimento Medicina e Riabilitazione dell’Istituto clinico S. Anna di brescia, Gruppo San Donato. È segretario scientifico dell’Associazione italiana di Psicogeriatria e membro del Gruppo 314 GLI AuToRI di ricerca geriatrica di brescia. È docente alla scuola di specializzazione in Geriatria dell’università degli Studi di brescia. Autore di pubblicazioni sulle tematiche geriatriche e psicogeriatriche. Claudia Boselli, laureata in Scienze politiche, nasce come giornalista scientifica a metà anni ’70 lavorando nella redazione del periodico per medici “Il Polso”. Poi è redattore capo all’Agenzia di stampa APM di Torino (braccio italiano dell’Agence de Presse Médicale francese, prima agenzia europea interamente dedicata a temi di sanità/medicina), quindi è responsabile della redazione milanese dell’Agenzia di stampa AdnKronos Salute, fino all’età pensionabile. Come free lance collabora al settimanale “Panorama” (Mondadori), alla Federazione Alzheimer Italia e al sito www.unamsi.it. È socia dell’uNAMSI (unione nazionale medico scientifica di informazione) e dell’uGIS (unione giornalisti italiani scientifici). Ovidio Brignoli è medico di Medicina generale dal 1980 e, dal 1998, è vicepresidente della Società italiana di Medicina generale e delle Cure primarie. Negli anni 1999-2001 è stato membro del Comitato scientifico del Progetto “Cronos” del Ministero della salute. Dal 2008 è presidente della Fondazione SIMG per la ricerca in Medicina generale. Enrico Brizioli, amministratore delegato dell’Istituto S. Stefano (gruppo KoS), è laureato in Medicina e Chirurgia e specialista in Neurologia ed in Igiene ed organizzazione ospedaliera. È dottore di ricerca in Neuroscienze. Da sempre coniuga l’attività manageriale con la ricerca nel campo della programmazione sanitaria. ha coordinato il Mattone n. 12 del Progetto Mattoni del Ministero della salute ed è stato membro dal 2003 al 2007 della Commissione ministeriale sui Livelli essenziali di assistenza. È autore di numerose pubblicazioni scientifiche e componente di NNA. Gianni Genga, direttore generale dell’Istituto di ricovero e cura a carattere scientifico “INRCA” di Ancona, è laureato in medicina e chirurgia e specialista in Igiene e Medicina preventiva. ha conseguito due master universitari di II livello in Diritto sanitario e Management delle aziende sanitarie. Già docente in vari corsi di formazione a carattere universitario in materie di disciplina sanitaria presso l’università degli Studi di Ancona e l’università degli Studi di Macerata. Autore e/o coautore di varie pubblicazioni a carattere scientifico in ambito sanitario. Simona Gentile, specializzata in Geriatria e Gerontologia presso l’università di Pavia nel 1992. Nel 2005 master di I livello presso la Scuola italiana di Medicina palliativa. Incarichi lavorativi in ambito geriatrico e riabilitativo. Attualmente responsabile Dipartimento di riabilitazione e dell’unità di valutazione Alzheimer della Fondazione Camplani, Ancelle della Carità di Cremona. I principali interessi clinici e di ricerca sono nell’ambito delle demenze, in particolare in riferimento alla riabilitazione e alle cure palliative, del delirium, delle gravi cerebrolesioni acquisite. Autore e coautore di più di 50 pubblicazioni su riviste scientifiche. GLI AuToRI Cinzia Giuli è psicologa e ricercatrice presso l’INRCA di Fermo. Dall’anno 2001 svolge attività clinica, neuropsicologica e assistenziale rivolta agli anziani con disturbi cognitivi e demenza. Svolge interventi psico-sociali rivolti ai caregiver dell’anziano fragile. L’attività di ricerca è principalmente rivolta allo studio multidimensionale degli aspetti cognitivi e psico-sociali riguardanti l’invecchiamento, secondo un’ottica multidisciplinare. ha collaborato a numerosi progetti di ricerca nazionali e internazionali, anche in qualità di coordinatore e responsabile scientifico. Stefano Govoni è professore ordinario di Farmacologia, università di Pavia. La sua attività di ricerca comprende più aree in ambito neurofarmacologico, neurotossicologico e neurobiologico. L’insieme di ricerche svolte è testimoniato da oltre 500 pubblicazioni a stampa (325 su riviste indicizzate) e da più di 400 comunicazioni a congressi internazionali e nazionali. L’analisi bibliometrica (Google Scholar) riporta oltre 10900 citazioni e un indice di hirsch pari a 52. Attualmente il suo principale impegno consiste nello studio della malattia di Alzheimer. Antonio Guaita, geriatra e fisiatra, è direttore della Fondazione Golgi Cenci di Abbiategrasso, che si occupa di studi e ricerche sull’invecchiamento cerebrale e la demenza, dal punto di vista biologico, psicologico e sociale. È componente, dalla fondazione, del “Network Non Autosufficienza – NNA”. È membro attivo della Associazione italiana di Psicogeriatria e della Gerontological Society of America. È autore di molte pubblicazioni divulgative e scientifiche sul tema degli anziani non autosufficienti e con demenza. ha 36 pubblicazioni su riviste indicizzate in “Pubmed”. Elena Lucchi, psicologa, lavora presso la Casa di cura Ancelle della Carità di Cremona (Fondazione Teresa Camplani) dove, nel Dipartimento di riabilitazione, si occupa di valutazione e riabilitazione neuropsicologica in persone adulte e anziane con disturbi neurocognitivi acquisiti. Inoltre svolge attività psicologica all’interno dell’unità operativa di cure palliative. Collabora con il Gruppo di ricerca geriatrica per la formazione in ambito psicogeriatrico. Insegna Neuropsicologia clinica e riabilitazione neuropsicologica al Corso di laurea in Fisioterapia dell’università di brescia. Giuseppe A. Micheli insegna Demografia e Corsi di vita e scelte collettive al Dipartimento di Sociologia dell’università Milano bicocca, dove ha presieduto la laurea in Sociologia e di cui è attualmente il decano. Nei contributi più recenti ha trattato i temi della ‘rivoluzione asilare’ in Psichiatria, del riduzionismo del paradigma cognitivo, delle peculiarità dei modelli familiari mediterranei, dei processi di mutazione di rapporti di non parentela in rapporti ‘di sangue’, delle logiche d’azione (e dell’inerzia) delle giovani generazioni. Alessandro Morandi è medico geriatra presso il Dipartimento di riabilitazione della Fondazione Teresa Camplani (Cremona, Italia). È il presidente della european Delirium Association ed esperto di delirium a livello mondiale. ha diretto numerose ricerche sul delirium nei pazienti ricoverati in setting intensivi e riabilitativi. Il suo attuale focus di ricerca è sul delirium sovrapposto alla demenza. 315 316 GLI AuToRI Alessandro Padovani è professore ordinario in Neurologia, direttore della Clinica neurologica e presidente del Corso di laurea in Medicina e Chirurgia dell’università degli Studi di brescia. Laureato presso l’università degli Studi di Verona ha svolto specializzazione in Neurologia e dottorato di ricerca in Neuropsicologia presso l’università “La Sapienza” di Roma con periodi all’estero presso la boston university. Autore di più di 490 pubblicazioni scientifiche internazionali in ambito neurodegenerativo e cerebrovascolare è membro del comitato scientifico di eFNS, SIN-DeM, ARIN e AIP. Franco Pesaresi è direttore generale dell’Azienda servizi alla persona «Ambito 9» di Jesi (An) che gestisce i servizi sociali per i 21 comuni dell’Ambito territoriale sociale. È stato direttore della zona territoriale di Senigallia dell’ASuR Marche e direttore dell’Area servizi alla persona del Comune di Ancona. Recentemente ha pubblicato RSA: costi, tariffe e compartecipazione dell’utenza (Maggioli, 2013), ha curato il volume Il nuovo ISEE e i servizi sociali (Maggioli, 2015) ed ha collaborato al volume Il reddito d’inclusione sociale (Reis) (Il Mulino, 2016). blog: http://francopesaresi.blogspot.it/. Andrea Pilotto è medico neurologo presso la clinica neurologica degli Spedali Civili di brescia. Laureato presso l’università degli Studi di Padova si è specializzato in neurologia presso l’università degli Studi di brescia. Autore di 30 pubblicazioni su riviste internazionali ha svolto attività di ricerca clinica in ambito neurodegenerativo a brescia e presso l’università di Tuebingen. Fausta Podavitte, attualmente direttore Dipartimento programmazione integrazione prestazioni socio-sanitarie con quelle sociali dell’ATS di brescia (ex ASL), è stata in precedenza direttore del Dipartimento ASSI e direttore sociale. Dal 1983 riveste incarichi di responsabilità, con ruolo programmatorio, organizzativo e di coordinamento in particolare delle reti di servizi per anziani, persone fragili e malati non autosufficienti. Particolare interesse viene dedicato alle demenze, attraverso tavoli di lavoro ed iniziative specifiche. Si rammenta il PDTA dedicato, primo elaborato in Italia e la nascita di sperimentazioni di varia natura, un modello di rete per le persone affette da demenza e le loro famiglie. Christian Pozzi, laureato in Terapia occupazionale (università degli Studi di Milano), ha conseguito nel 2015 il perfezionamento in “Disability and Case Manager” presso l’università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Precedentemente laurea specialistica in Scienze motorie. Membro della Società italiana di Terapia occupazionale. È docente a contratto presso l’università del Sacro Cuore sede di Roma. ha pubblicato articoli su riviste specializzate in riabilitazione geriatrica ed ha partecipato come relatore a numerosi congressi nazionali e internazionali in ambito geriatrico, psicogeriatrico e neurologico. Renzo Rozzini è direttore del Dipartimento di Geriatria, presso la Fondazione Poliambulanza-Istituto ospedaliero di brescia. Direttore del “Centro studi sull’organizzazione sanitariaCeSoS” dell’università Cattolica. Presidente della sezione lombarda dell’AIP – Associazione italiana di Psicogeriatria. Presidente del Gruppo di ricerca geriatrica di brescia. Coautore GLI AuToRI di più di 20 libri e di più di 150 pubblicazioni scientifiche indicizzate sugli argomenti delle sue principali linee di ricerca (disabilità, depressione, demenza, organizzazione dei servizi ospedalieri per gli anziani, fragilità). Gabriella Salvini Porro, milanese, diplomata in Lingue e letterature straniere, sposata e madre di due figli maschi è stata impegnata nella conduzione di una impresa commerciale insieme al marito. Alcuni anni dopo la morte della madre, malata di Alzheimer, e dopo aver vissuto il dolore e le difficoltà che comporta questa assistenza, insieme ad altri familiari decide di costituire l’associazione che nel 1991 assume la denominazione attuale di Alzheimer Milano. Successivamente, ritenendo essenziale la collaborazione fra coloro che si occupano del problema Alzheimer in Italia, alla metà del 1993, si impegna per la costituzione della Federazione Alzheimer Italia, di cui attualmente è presidente e che riunisce 47 associazioni locali. Patrizia Spadin, giornalista, ha fondato l’AIMA nel 1985. Per prima in Italia ha parlato pubblicamente di demenza e dei problemi delle famiglie; per prima ha dato visibilità al problema sociale, e ha cercato un modo nuovo per comunicarlo attraverso tv, cinema, grafica e letteratura. Instancabilmente ha lavorato e lavora, per migliorare la qualità della vita di malati e familiari, con attività nella politica, nella ricerca sociale e nella formazione. Con AIMA e la Linea Verde Alzheimer nazionale e gratuita, ha sostenuto e accompagnato decine di migliaia di famiglie nel doloroso percorso di malattia. Marco Trabucchi è professore ordinario nella Facoltà di Medicina dell’università di Roma – Tor Vergata, direttore scientifico del Gruppo di ricerca geriatrica di brescia e presidente dell’Associazione italiana di Psicogeriatria. È stato presidente della Società italiana di Gerontologia e Geriatria. È autore di oltre 500 pubblicazioni scientifiche su riviste indicizzate, prevalentemente in ambito geriatrico e gerontologico. È componente di NNA. Andrea Ungar, specialista in Geriatria e in Cardiologia, lavora presso la Geriatria e Terapia intensiva geriatrica della Aou Careggi e università di Firenze. Si occupa di Cardiologia geriatrica, sincope nell’anziano (membro task force Società europea di Cardiologia per le linee guida), fisiopatologia del rene senile e ipertensione arteriosa nell’anziano. Docente di Clinica medica e geriatria presso il corso di laurea in Medicina e Chirurgia dell’università degli Studi di Firenze. Dottore di ricerca in Fisiopatologia clinica e dell’invecchiamento. membro di Società scientifiche (SIGG, SIIA, AMNCo, SIMI, eSC, euGMS). Fellow Società europea di Cardiologia. ha pubblicato lavori internazionali e nazionali per un totale di circa 300 pubblicazioni. Ketty Vaccaro, sociologa, responsabile Salute e welfare del Censis dal 1995. esperta di politiche sociali e di valutazione, si occupa soprattutto di Politiche sanitarie e salute, analisi della domanda, studi farmaco-economici, comunicazione sanitaria, politiche socio-assistenziali, condizione femminile, minori e famiglia, invecchiamento. È presidente del Nucleo di valutazione dell’università Kore di enna, vicepresidente di IbDo Foundation e fa parte 317 318 GLI AuToRI del Collegio dei probiviri dell’AIMA (Associazione italiana malattia di Alzheimer). È docente del Master di II livello in Psicogeriatria c/o la facoltà di Medicina e chirurgia dell’università la Sapienza. ha partecipato a diversi tavoli istituzionali ed è autrice di numerosi articoli e pubblicazioni. Daniele Villani, geriatra, è specializzato in Medicina interna e in ematologia. ha sempre lavorato in ambito geriatrico-riabilitativo, prima nell’ospedale di Cremona, poi nella Fondazione benefattori Cremaschi come direttore sanitario, in seguito direttore del Dipartimento geriatrico della Fondazione Sospiro. Dal gennaio 2010 dirige la Riabilitazione neuromotoria e il CDCD delle Figlie di San Camillo a Cremona. Socio fondatore dell’Associazione italiana Malattia di Alzheimer, docente esperto della Scuola italiana di Medicina palliativa, membro del Comitato scientifico della Fondazione L. Maestroni Istituto di ricerca in cure palliative, consulente del CeF, Centro per l’etica di fine vita. Orazio Zanetti, geriatra, opera dal 1987 presso l’IRCCS San Giovanni di Dio Fatebenefratelli di brescia; dal 1999 è dirigente di II livello dell’unità operativa Alzheimer-Centro per la memoria dell’Istituto di ricovero e cura a carattere scientifico Centro S. Giovanni di DioFatebenefratelli di brescia. È autore di più di 150 pubblicazioni scientifiche su riviste nazionali ed internazionali. La sua principale area di ricerca riguarda le demenze con particolare attenzione per i problemi connessi alla definizione dei determinanti della disabilità, allo sviluppo di tecniche riabilitative per la memoria, alla definizione dello stress dei caregiver, nonché alla caratterizzazione dei pazienti affetti da mild cognitive impairment ed alle procedure per la diagnosi precoce di malattia di Alzheimer. Opere pubblicate nella stessa collana • Giovani, legalità e riqualiicazione degli spazi Liliana Leone • La comunicazione che cura Giuseppe Magistrali (a cura di) • Turismo sociale Giuseppe Magistrali (a cura di) • Il disabile adulto Alain Goussot (a cura di) • Complessità, organizzazione, sistema Silvio Coraglia, Giovanni Garena • La dirigenza dei servizi infermieristici Patrizia Nappini, Mauro Petrangeli, Maria Serina • Alzheimer e ambiente Marta Roncaglia, Damiano Mantovani, Letizia Espanoli • L’infermiere e la legge Marco Cazzola, Giovanni Chilin • Piccoli e grandi: la comunità protegge i suoi bambini Saveria Addotta, Maria Teresa De Camillis • Alzheimer in movimento Gianbattista Guerrini, Giuseppina Giorgi Troletti • Sistema di gestione per la qualità delle residenze per anziani non autosuficienti Adriano Guala, Bettina Gallia, Laura Cazzulino, Paola Garbella • I servizi dell’infanzia Mara Mattesini • Misurare la complessità assistenziale Bruno Cavaliere • Assistenza, etica ed economia Maila Mislej • Distretto e nursing in rete: dall’utopia alle pratiche Ofelia Altomare, Barbara Ianderca, Loreta Lattanzio, Cristina Stanic • Salute mentale e organizzazione che cura Livia Bicego, Cristina Brandolin, Annamaria Cociani, Adriana Fascì, Nicoletta Semeria • Alla scoperta del lavoro e dell’organizzazione Claudio Ruggiero • Nel nuovo welfare Giovanni Devastato • Accreditamento volontario di eccellenza Pierluigi Morosini e Paolo Piergentili (a cura di) • L’assistenza agli anziani non autosuficienti in Italia - Rapporto 2009 N.N.A. - Network Non Autosuficienza (a cura di) • Il lavoro minorile Paula Benevene • L’ansia: conoscerla e superarla Erica Elisei • Capire la psichiatria Maria Isabella Greco • Comprendere la povertà Francesco Marsico e Antonello Scialdone (a cura di) • Le informazioni e gli operatori sanitari Andrea Maccari, Gaetano Romigi • Le adolescenze Giovanni Amodio (a cura di) • Manuale di fund raising e comunicazione sociale Federico Spazzoli, Matteo Matteini, Marco Mauriello, Roberta Maggioli • Adatti e quasi adatti a scuola Antonio Iannaccone e Giuseppina Marsico • Assistenza in psicogeriatria Fabrizio Asioli e Marco Trabucchi (a cura di) • La progettazione terapeutica nelle strutture socio-sanitarie Monica Zanolla • Integrazione socio-sanitaria Luca Degani, Raffaele Mozzanica • Servizio sociale professionale e medicina legale Laura Brizzi, Claudia Cannoni • Cooperazione sociale Legacoop in Emilia-Romagna Alberto Alberani e Luciano Marangoni (a cura di) • Il capitale umano del terzo settore Paula Benevene • Siamo tutti stakeholder Marisa Parmigiani (a cura di) • Democrazia e nursing Maila Mislej • Riabilitazione psicosociale nell’infanzia e nell’adolescenza Giovanni Battista Camerini ed Enzo Sechi (a cura di) • Elementi di etica per operatori socio-sanitari Renzo Zanon • Adolescenza: stili di vita e comportamenti a rischio Susanna Testa (a cura di) • Accordi e contratti nel “rinnovato” sistema di remunerazione delle prestazioni e delle funzioni ospedaliere Francesco Ciro Rampulla, Livio Pietro Tronconi • Uscire dal buio Tommaso Mola • Esperienze di welfare locale Daniela Gatti e Paolo Rossi (a cura di) • La formazione sul campo Antonio Pignatto, Costantina Regazzo, Paolo Tiberi • Bisogni sospetti Emilio Vergani • Il mestiere dell’educatore Francesca Mazzucchelli (a cura di) • Oltre il motivo del proitto Maria Vella • Schiavitù di ritorno Francesco Carchedi (a cura di) • La responsabilità dell’infermiere e le sue competenze Stefano Bugnoli (a cura di) • Il personale nelle RSA e nelle strutture per anziani Franco Iurlaro • Nursing narrativo Silvia Marcadelli, Giovanna Artioli • Attraversare il dolore per trasformarlo Letizia Espanoli e Nicoletta Todesco (a cura di) • Qualità e Accreditamento dei Servizi Sociali Giovanni Garena, Anna Maria Gerbo • Elementi di Clinical Governance in Pneumologia Roberto Walter Dal Negro, Davide Croce, Antonio Sebastiano • L’assistenza agli anziani non autosuficienti in Italia - 2° Rapporto N.N.A. - Network Non Autosuficienza (a cura di) • Viva gli Anziani! Comunità di Sant’Egidio • Benchmarking e activity based costing in ambito socio-sanitario Antonio Sebastiano ed Emanuele Porazzi (a cura di) • Errore e apprendimento nelle professioni di aiuto Alessandro Sicora • Il personale nel non proit Federico Spazzoli e Francesco Liuzzi • Innovazione gestionale in sanità Riorganizzazione dei processi tecnico-amministrativi in materia di acquisti e logistica Esperienze a confronto Agenzia Regionale Socio Sanitaria del Veneto • L’analisi di bilancio nelle Aziende pubbliche di Servizi alla Persona Enrico Bracci • Governo clinico e cure primarie Carmelo Scarcella e Fulvio Lonati (a cura di) • Cura e assistenza al paziente con ferite acute e ulcere croniche Claudia Caula e Alberto Apostoli (a cura di) • Come cambia il welfare lombardo Cristiano Gori (a cura di) • Assistere a casa Giuseppe Casale e Chiara Mastroianni (a cura di) • Strategie per la fragilità Carmelo Scarcella, Fausta Podavitte, Marco Trabucchi • Anziani da slegare Maria Luisa Vincenzoni (a cura di) • Cooperare per l’infanzia Alfredo Morabito (a cura di) • L’assistenza agli anziani non autosuficienti in Italia - 3° Rapporto N.N.A. - Network Non Autosuficienza (a cura di) • Le disabilità complesse Alain Goussot (a cura di) • Tra normalità e rischio Cristina Faliva (a cura di) • Incontri di Mondi Saperi, luoghi e identità Giovanni Amodio e Milli Ruggiero (a cura di) • Non autosuficienza e territorio Koinè • 1° Rapporto provinciale delle politiche sociali territoriali comasche • Rilettere e agire relazionalmente Giovanna Rossi e Lucia Boccacin (a cura di) • Costellazione RSA Carmen Primerano e Valter Tarchini (a cura di) • Metodi e strumenti per la qualità dell’integrazione scolastica della persona disabile Sabrina Paola Banzato, Loretta Mattioli • Agorà Daniela Catullo, Barbara Mazzardis • La relazione come cura nell’assistenza geriatrica Giovanni Braidi, Giovanni Gelmini • L’aggressività nei servizi sociali Renata Fenoglio, Laura Nardi, Adriana Sumini, Aurelia Tassinari • Il problema obesità Paola Gremigni e Laura Letizia (a cura di) • L’educatore professionale ANEP • Il tempo del morire Marta Roncaglia, Roberto Biancat, Luca Bidogia, Francesca Bordin, Maurizio Martucci • Vita da OSS Gianluigi Rossetti, Patrizia Beltrami • Comunicazione profonda in Sanità Francesco Calamo Specchia • Metodologie e strumenti per la gestione delle cure primarie Carmelo Scarcella, Fulvio Lonati (a cura di) • Sette paia di scarpe Paola Rossi • Manuale di empowerment con i genitori Anna Putton, Angela Molinari • Professione Counseling Piera Campagnoli (a cura di) • Manuale di movimentazione del paziente Samanta Cianfrone • Guida al welfare italiano: dalla pianiicazione sociale alla gestione dei servizi Raffaello Maggian • Contro la contenzione Maila Mislej, Livia Bicego • Manuale dell’Operatore Socio-Sanitario Luca Cecchetto e Gianluigi Romeo • Oltre la crisi Giovanni Devastato • La programmazione sociale Angelo Mari (a cura di) • Fatica e bellezza del prendersi cura Beatrice Longoni, Enrica Picchioni, Antonio Musto (a cura di) • Animazione e demenze Walther Orsi, Clelia D’Anastasio, Rosa Angela Ciarrocchi (a cura di) • Take Care Giuseppe Imbalzano, Maria Grazia Silvestri • La leadership nella RSA Oscar Zanutto • Alzheimer: idee per la qualità della vita Letizia Espanoli • Anziani. Salute e ambiente urbano Rita Cutini • Nuove side per la salute mentale Giuseppe Bifi, Giorgio De Isabella • Diritto Sanitario Giampiero Cilione • Scherzo, litigio, bullismo, reato? Susanna Testa • Il progetto girasole AA.VV. • Tra cambiamenti e continuità Daniela Gatti, Graziano Maino, Anna Omodei (a cura di) • Le parole dell’immigrazione Daniela Pompei • Il controllo di gestione nelle aziende sanitarie pubbliche Emidia Vagnoni, Laura Maran • Alzheimer: curarlo e gestirlo in RSA Sara Angelini • Autismo e competenze dei genitori Alain Goussot (a cura di) • Servizio sociale e crisi del welfare Carmelo Bruni, Giovanni Devastato Enzo Nocifora, Lluis Francesc Peris Cancio Enrico Pugliese, Giuseppe Ricotta Giovanna Sammarco, Elena Spinelli • Primary Nursing Giorgio Magon, Tiziana Suardi (a cura di) • RSA Residenze Sanitarie Assistenziali Franco Pesaresi • Liberare la qualità Simone Peruzzi • Le demenze: mente, persona, società Antonio Monteleone, Antonio Filiberti Patrizia Zeppegno (a cura di) • Voci dalla strada Francesca Zuccari, Laura Paolantoni • Immigrazione Daniela Pompei • La metodologia pedagogia dei genitori Augusta Moletto, Riziero Zucchi • Le procedure disciplinari delle professioni sanitarie Mauro Di Fresco • Sala operatoria e terapia intensiva Francesca Ciraolo, Francesca Giofrè (a cura di) • Pediatri e bambini Giancarlo Cerasoli, Francesco Ciotti (a cura di) • Fondamenti di infermieristica in salute mentale Vincenzo Raucci, Giovanni Spaccapeli • OSS operatore socio-sanitario manuale e quiz per il concorso Luca Cecchetto, Gianluigi Romeo • Nuove dimensioni del servizio sociale Franca Dente (a cura di) • I principi dell’organizzazione professionale dell’infermiere Paola Ripa, Piera Bergomi, Enrico Frisone, Duilio Loi • Principi di risk management nei servizi sanitari e socio-sanitari Luca Degani, Oliviero Rinaldi, Massimo Monturano, Andrea Lopez, Marco Ubezio • La rendicontazione sociale nelle RSA Maura Marangon • Dove l’acqua si ferma: la cura e il benessere degli anziani fragili con il metodo gentlecare Marco Fumagalli, Fabrizio Arrigoni • L’assistenza agli anziani non autosuficienti in Italia N.N.A. Network Non Autosuficienza (a cura di) • Ginnastica mentale Cristina Gueli • De-mente? No! Sente-mente Letizia Espanoli • Manuale dell’animatore sociale Irene Bruno, Rabih Chattat, Stefano Canova (a cura di) • Nuova domiciliarità Massimiliano Di Toro Mammarella (a cura di) • Il lavoro con gli anziani in casa di riposo Luca Fazzi • Organizzazione e gestione delle strutture per il benessere isico Carlo Bottari, Pasqualino Maietta Latessa, Giovanni Paruto • Malati per forza Ferdinando Schiavo • I tumori cerebrali infantili: relazioni di cura Rosapia Lauro Grotto, Massimo Papini, Debora Tringali • Nordic Walking e salute Luca Cecchetto • La fragilità degli anziani Cristina Malvi, Gabriele Cavazza (a cura di) • Contenzione o protezione? Sara Saltarelli, Silvia Vicchi (a cura di) • Peer Counseling della disabilità Maurizio Fratea • Gestire l’impresa sociale Federico Spazzoli, Marta Costantini, Monica Fedeli • Quasi schiavi Enzo Nocifora (a cura di) • Il mobbing infermieristico Mauro Di Fresco • La responsabilità dell’infermiere e le sue competenze Stefano Bugnoli (a cura di) • Schiavitù latenti Francesco Carchedi (a cura di) • Dal valore della produzione alla produzione di valore Elena Meroni (a cura di) • La pratica del welfare locale Monia Giovannetti, Cristiano Gori, Luca Pacini (a cura di) • Il cittadino non autosuficiente e l’ospedale Enrico Brizioli, Marco Trabucchi (a cura di) • Il consenso informato e le misure di contenzione in RSA Luca Degani, Marco Ubezio, Andrea Lopez • Progettare sociale Alessandro Sicora, Andrea Pignatti • Il nuovo ISEE e i servizi sociali Franco Pesaresi (a cura di) • Guida alla gestione di IPAB/ASP, Fondazioni, RSA Adelaide Biondaro, Ladi De Cet, Virgilio Castellani, Egidio Di Rienzo (a cura di) • Non autosuficienza e qualità della vita Antonio Monteleone • Outcome infermieristici: documentare e fare ricerca Giorgio Magon, Alessandra Milani (a cura di) • Bullismo e cyberbullying Maurizio Bartolucci (a cura di) • La comunità-oficina Maria Sellitti • Primo rapporto sul lavoro di cura in Lombardia Sergio Pasquinelli (a cura di) • L’attrazione speciale Giovanni Merlo • Servizio sociale e complessità Giovanni Viel • L’educatore professionwale ANEP (Associazione Nazionale Educatori Professionali) • Social link Ricerche e azioni sui ricongiungimenti familiari dei minori Luca Salmieri, Lluis Francesc Peris Cancio (a cura di) • Corso di lingua italiana (L2) per operatori socio-sanitari Antonio Bria, Renzo Colucci Associazione Seneca - Bologna • Business intelligence nelle RSA Paolo Galione, Oscar Zanutto • Manuale critico di sanità pubblica Francesco Calamo-Specchia (a cura di) • Persone non autosuficienti: responsabilità degli operatori e delle strutture Antonio Caputo • L’assistenza agli anziani non autosuficienti in Italia - 5° Rapporto N.N.A. - Network Non Autosuficienza (a cura di) • Gli operatori sanitari e la demenza: case management e programmi di intervento Marco Fumagalli, Fabrizio Arrigoni • RSA: metodi e buone prassi per raggiungere l’eccellenza Franco Iurlaro • L’assistente sociale Milena Cortigiani, Paolo Marchetti (a cura di) • Complessità assistenziale: un metodo per orientarsi Giuseppe Marmo, Monica Molinar Min Aldo Montanaro, Paola Rossetto (a cura di) • Quanto costa l’RSA? Franco Pesaresi • Vittime fragili e servizio sociale Cristina Galavotti • E.P. educatore professionale Francesco Crisafulli (a cura di) • Il primo P.A.S.S.O. Cinzia Dalla Gassa Carlo Pettinelli • Lavoro sociale e azioni di comunità Giovanni Devastato • A cena in rsa: nutrizione, gusto, cultura Irene Bruno, Alessandro Meluzzi, Vincenzo Pedone (a cura di) • Il servizio sociale nel terzo settore Luca Fazzi • Il servizio sociale in comune Teresa Bertotti (a cura di) • Concorso per operatore socio-sanitario e socio-assistenziale Giuseppe Midiri • La qualità nelle RSA Giuseppe Midiri • Lavorare con la ricerca azione Francesca Falcone • Nidi e scuole dell’infanzia Diletta Basso, Emanuela Fellin Maurizio Gianordoli, Fabio Vidotto (a cura di) • La storia della mia vita Marco Fumagalli, Laura Lionetti • L’anziano attivo Anna Maria Melloni, Marco Trabucchi (a cura di) • Le demenze. La cura e le cure Antonio Guaita, Marco Trabucchi (a cura di)