Stralci di un’intervista rilasciata in inglese dal regista Mario Lanfranchi, inclusa tra gli extra del dvd di Sentenza di morte pubblicato dalla tedesca Koch Media.
Influenze? Piuttosto ho influenzato me stesso! Stavo scrivendo un serial per la TV italiana: la storia di un giovane a caccia degli assassini della sua famiglia. L’avevo ambientata in Sicilia. Però sentivo che non funzionava, che mancava qualcosa e, improvvisamente, ebbi un’illuminazione e dissi: questo è un western! Così trasposi la storia dalla Sicilia al Texas e tutto funzionò bene. Certamente, avevo visto dei western in precedenza ed ero affascinato soprattutto dalla loro filosofia, dalla loro poetica della violenza. Tuttavia penso che in questo film si possa vedere una sorta di sintesi di tutti i miei sentimenti e delle mie esperienze nel campo della televisione – ovviamente la TV di allora era di eccellente qualità, non quella di oggi! – e del teatro, per quanto riguarda la conoscenza nella direzione degli attori. Queste qualità mi furono riconosciute dai critici di Londra, che selezionarono
“Sentenza di morte” per il Festival del 1972. Non volevo fare un film spettacolare e i modelli di western americani che avevo in mente erano
“Mezzogiorno di fuoco” e
“Sfida infernale”, dove si vede a malapena un cavallo; mi piaceva fare film a basso budget. La Spagna era la location perfetta, con la sua natura aspra e selvaggia. In questo film volevo avere il controllo completo, quindi scelsi personalmente anche il cast, costituito da attori che mi conoscevano bene e con cui avevo già lavorato in passato, sia in TV che a teatro; per esempio, l’attore che interpreta il pokerista nell’episodio di Montero/Enrico Maria Salerno è
Glauco Scarlini, un tenore d’Opera.
Robin Clarke… Avevo un’ amica alla Columbia Pictures di New York, Joyce Selznick, nipote del grande produttore David Selznick, che mi cercò dei giovani attori che fossero “demoni con il volto d’angelo”; tra essi c’era Robin Clarke, che mi sembrò perfetto. Era un bravo attore, aveva studiato all’Actor Studio ed aveva appunto la qualità di essere “un demonio con la faccia d’angelo”. Così venne con me in Italia e in Spagna per girare il film, però era un po’instabile. Venne con la sua ragazza, Ali MacGraw, che poi divenne una famosa attrice, ma che all’epoca era del tutto sconosciuta: litigavano tutto il tempo! Così un giorno la rispedii a New York e Robin Clarke si arrabbiò moltissimo e finalmente ebbe l’espressione giusta per fare quello che volevo! L’idea centrale per il film era appunto quella dell’angelo della vendetta, tipo quelli che si vedono nei dipinti del Rinascimento; e si racconta che gli angeli bevano latte, proprio come Cash.
Enrico Maria Salerno, in Italia, era l’attore di teatro per eccellenza ed era molto contento di lavorare con me, in quanto come regista televisivo e teatrale ero piuttosto conosciuto. Il suo ruolo nel film è, in un certo senso, teatrale, perché si tratta di una partita di poker con le pistole sul tavolo e la vita sul tavolo. Avevo quindi bisogno di un Maestro della parola, del gesto e della mimica e Salerno era perfetto. E non dimentichiamo che aveva doppiato Clint Eastwood nei film di Sergio Leone, con la sua ruvida e particolarissima voce; Eastwood ne fu talmente impressionato che la usò lui stesso per tutta la sua carriera. Girai il film in inglese, ma Salerno si rifiutò perché riteneva che, parlando in inglese, si sarebbe dato una faccia americana alla Clark Gable, e preferì così recitare in italiano. Specificò inoltre nel suo contratto che non doveva lavorare per più di dieci ore: così, nel bel mezzo di una scena, in piena recitazione, capitava che dicesse: “Sono le sei. Signori, me ne devo andare”. Questo era Salerno
(ride)… ma che attore!
Tomas Milian era un attore fantastico, creativo e sensibile. Tra noi sorse una sorta di conflitto: lui amava moltissimo il suo ruolo, ma diceva che avrebbe preferito girarlo con un altro regista, che io ero troppo intellettuale, adatto a Shakespeare ma non ad un western. Sul set era pieno di rabbia e rancore e ciò era l’ideale per il personaggio nervoso ed isterico che interpretava. Ricordo che in un’intervista per un’importante rivista italiana di cinema, Tomas Milian disse che “quando Lanfranchi veniva sul set sembrava camminasse sulla merda”!
* . Questo disse! Ma alla fine, con lui e con gli altri attori, ci fu una sorta di love-story!
Adolfo Celi era un attore bravissimo; aveva questa faccia pulita, paterna, che ispirava fiducia completa, ideale maschera per celare quello che stava dietro: malvagità ed ambiguità.
Richard Conte era la leggenda dell’epoca d’oro del cinema americano, dove solitamente aveva un volto pulito, amabile, amichevole. Con me, invece, aveva un’espressione più forte, ma in un certo senso ancora amabile… Quindi, di nuovo l’ambiguità!
Io stesso avrei voluto occuparmi della
colonna sonora – ho studiato musica e ancora oggi suono il piano – ma i produttori si opposero. Così la affidai a
Gianni Ferrio, che già conoscevo e che pensavo avrebbe fatto proprio quello che desideravo. Era un bravo musicista, dotato di fantasia ed inventiva e fece un ottimo lavoro.
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*Lanfranchi si riferisce all’intervista a Tomas Milian pubblicata sul Nocturno dossier Eroi e antieroi del cinema italiano, allegato a Nocturno Cinema n.10, aprile 2003, pag. 17. Nella stessa intervista, Milian ricorda: “Anche il film di Lanfranchi lo feci per soldi e non l’ho mai visto: ho sempre cercato di seguire una linea nella mia carriera e questo film fu un compromesso. La mia agente spinse per convincermi a farlo. L’unica cosa buona è che mi diedero mano libera per la definizione di questo Albino e credo di averlo caratterizzato in maniera efficace.