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L’integrazione delle melanzane
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L’integrazione delle melanzane
Michele Serra
Martedì 14 maggio 2024

L’integrazione delle melanzane

«Provenienti quasi certamente dall’Asia, le melanzane fanno parte dell’enorme categoria delle specie vegetali migranti, o perché importate o perché arrivate per conto loro, senza chiedere il permesso a nessuno»

Bambini vendono melanzane a Gaza, 2005 (Abid Katib/Getty Images)
Bambini vendono melanzane a Gaza, 2005 (Abid Katib/Getty Images)

Scartabellando tra i miei vecchi file (lo so, non si può scartabellare con il digitale, era per farmi capire) trovo un pensiero che mi aveva scritto Lupo. E lo avevo messo da parte, perché mi era molto piaciuto. Chi è Lupo? È uno dei miei corrispondenti di lungo corso, ci siamo scritti per molti anni sul Venerdì e anche in privato. Non ci siamo mai visti di persona e di lui non so più niente, nemmeno se c’è ancora. So solo che è sardo e di cognome fa Atzeni, come uno dei più affascinanti scrittori italiani di fine Novecento, Sergio Atzeni (1952/1995). Lui si è sempre firmato Lupo e come Lupo lo conosco.
Beh, Lupo mi scrisse questa frase: “Non sempre ha senso cercare spiegazioni, sciogliere nodi. Il significato sta nel nodo. Una corda diritta non ha niente da dire”. Forse sono proprio queste le parole giuste per chiudere la nostra lunga digressione sul cosiddetto woke, su come è difficile rispettare le diverse sensibilità senza creare nuovi moralismi, e come è difficile mettersi nei panni degli altri (la lettera di Claire è stata molto commentata e molto apprezzata), e come è difficile maneggiare le parole in modo che non facciano danni, e come è difficile evitare che il linguaggio, per diventare inclusivo e rispettoso, non diventi anche sterile e manierato, insomma: come è difficile tutto, accidenti.

Beh, come dice Lupo il significato sta nel nodo. Solo uno sciocco o un arrogante potrebbe pretendere di dire l’ultima parola su una faccenda – il linguaggio, dunque la nostra maniera di comunicare con gli altri – che di ultime parole non necessita, a meno che voglia morire. E dunque, bene così: non sappiamo come se ne verrà fuori, però sappiamo di esserci dentro, dunque rimbocchiamoci le maniche e apriamo bene le orecchie.

Bisognerebbe anche parlare d’altro, cosa che mi suggerisce di rinunciare a dare spazio all’ulteriore bordata di mail sull’argomento. Mi concedo due sole eccezioni. Una è la breve mail di Guido:

“In merito ai ‘panni degli altri’ ricordo una battuta fulminante di Edward Said. A un collega docente universitario statunitense che gli chiedeva: ‘Non capisco perché voi palestinesi ce l’avete così tanto con noi americani’, lui rispose: ‘Proprio per questo!’.”

L’altra è una mail che è al tempo stesso “dentro il nodo”, dentro l’argomento, e però, in modo molto diretto e perfino brusco, allarga l’attenzione su una ulteriore questione. Sentite un po’.

“Vorrei dire a Claire che è in buona compagnia. In Italia non occorre essere con la pelle di colore diverso per essere discriminati. Lo provo da quasi 40 anni come architetto del Comune. Quando vai per lavoro nelle case popolari il complimento più leggero è che siamo tutti scansafatiche uguali, pronunciato senza distinzione di provenienza, di accento nella parlata o di colore della pelle. Non ce l’hanno con me. È solo un modo per sfogare le proprie frustrazioni. All’inizio me la prendevo, poi ci ho fatto l’abitudine. Sono in buona compagnia. I politici (tutti ladri), i giornalisti (tutti corrotti), i taxisti (altri ladri), gli idraulici (nessuno che rilasci una fattura), gli insegnanti (incapaci) e via dicendo. Poi ho capito che è il popolo. Se uno va a sedersi a un bar di quartiere popolare in un giorno di mercato e prende nota di quel che sente ne viene fuori un sensazionale programma elettorale, sicuro di prendere milioni di voti. Ah, ma ci ha già pensato Salvini… A volte (ma non sempre funziona) esiste un antidoto: il grasso di foca da spalmarsi sull’anima per tirare avanti, e che il popolo andasse a quel paese”.
Fabrizio

Beh, caro Fabrizio. Il grasso di foca non so dove si compra (nei negozi di articoli sportivi? Ma con gli scarponi da montagna di oggigiorno, a che servirebbe?). Ma capisco il tuo mood. Il colpevole non è il maggiordomo, il colpevole è “il popolo”, o meglio la vox populi. È il “sentito dire” come sola fonte di quello che si dice. Non c’è pregiudizio o balordaggine o semplificazione un tanto al chilo che non trovi un uditorio al tempo stesso distratto ed entusiasta. “La gente mormora”, diceva Tina Pica. E ben di rado mormora cose affettuose e generose.

Ma “il popolo”, si sa, è un pretesto retorico, lasciamolo usare a chi ne ha fatto un business elettorale – in disgrazia quello di Salvini, in grande spolvero quello di Meloni, i due si contendono lo stesso segmento, anzi segmentone, del mercato. Prendiamo piuttosto per buono il nocciolo di quello che ci racconti: “Non ce l’hanno con me, è solo un modo per sfogare le proprie frustrazioni”. Questa mi sembra una verità. Più si è frustrati, più si è “sotto”, più si è facile preda dei pregiudizi, del rancore, del capro espiatorio come spiegazione del proprio disagio. La debolezza sociale è l’humus nel quale prosperano i peggiori fantasmi e le più miserevoli banalità. Non solo la minore cultura, anche la maggiore insicurezza producono a getto continuo malanimo e aggressività. Nel catechismo marxista che mi ha formato, si denunciava questa condizione come “subalternità delle masse” (il suo contrario era la “presa di coscienza degli sfruttati”). Suona ottocentesco (anche perché lo è…), ma tutto sommato non mi sembra un concetto così sbagliato. Comunicare “al popolo”, a noialtri, che i nodi sono più interessanti delle corde diritte è terribilmente difficile. Ma esiste un’altra strada?

*****

Giovanna Marini è morta pochi giorni fa, a 87 anni. È stata una protagonista di primo piano non solo della musica italiana, ma della cultura italiana della seconda metà del Novecento. Giornali e telegiornali non l’hanno salutata come avrebbe meritato.
Fece una cosa ingegnosa e quasi impensabile: mise nello stesso sacco la tradizione orale dei canti popolari e la musica colta – era figlia di un compositore di talento morto giovanissimo, lei nata da poco, e fu allieva del grande chitarrista classico Andrés Segovia. Il basso dei campi e delle risaie (i canti delle mondariso sono il nostro blues) e l’alto dei Conservatori convivevano nella sua musica e nel suo canto. Prese parte al lavoro formidabile, e oggi quasi dimenticato, dell’etnomusicologia del dopoguerra, Ernesto De Martino, Gianni Bosio, il Nuovo Canzoniere, gente che andava in giro per le aie, nei campi e nelle fabbriche con i primi magnetofoni a registrare le voci della tradizione popolare italiana. Voci che erano eredità dei secoli. Aveva perfino provato a trascrivere sul pentagramma i timbri e i toni anomali, cadenti o strascicati o lamentosi o striduli delle voci di donna (per esempio Giovanna Daffini) che riproducevano antichissime maniere vocali, suoni atavici – chi conosce i tenores sardi capisce di che cosa stiamo parlando.

Grande affabulatrice sul palcoscenico, fondò la Scuola Popolare di Musica del Testaccio e con le allieve di quella scuola fece meravigliosi concerti in giro per l’Italia (ne ricordo uno memorabile al Franco Parenti di Milano, chissà in che anno). Ha incrociato chitarra e voce con gli altri del Canzoniere (Gualtiero Bertelli, Ivan Della Mea, Paolo Pietrangeli) e nel 2002 ha fatto un notevole disco “neo-popolare” con Francesco De Gregori, Il fischio del vapore.

Era una donna spiritosa, curiosa, colta e soprattutto semplice, come capita spesso alle grandi persone. Romana fino al midollo. Dovessi dire il meglio possibile della storia intellettuale della sinistra italiana, il suo nome sarebbe tra i primissimi. A chiunque non la conosca – e anche a chi già la conosce – suggerisco di ascoltare Lamento per la morte di Pasolini e I treni per Reggio Calabria. Quest’ultima una piccola Iliade della classe operaia.

La sua partenza mi suggerisce di dispensare un piccolo ma importante consiglio, anche se non richiesto. Con Giovanna non ci vedevamo da anni, ci eravamo sentiti per telefono un po’ di volte e promesso che ci saremmo presto incontrati. Ho letto della sua morte e ho sentito tutto il dispiacere e il rimpianto di non averlo fatto. Se avete qualcuno a cui tenete e rimandate da tempo l’occasione di incontrarvi, guardarvi negli occhi, raccontare, stringere le mani, alzare il bicchiere, non aspettate troppo. La vita è lunga, ma non eterna. Bisogna condividerla, bisogna festeggiarla.

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Molto scarna questa edizione di Zanzare Mostruose. Ci soccorre un refuso sull’edizione on line di Repubblica di pochi giorni fa, segnalato da Edda:

PORTATA VIA DA DUE UOMINI INCAPPUCCIATI
MI SONO SALVATA FINGENDOMI PORTA

Provateci voi, a imitare un infisso, e vi renderete conto quanto è difficile. Accontentiamoci poi di un altro genere classico, il cognome che ingenera equivoci, notato da Albino sulla Stampa ma sicuramente rintracciabile su molti altri media nazionali:

SPINELLI IN CASERMA

Non mi rimane che segnalare – ma ve ne sarete già accorti – che il meteo è decisamente migliorato e il rialzo delle temperature ha consentito un buon recupero ai miei pomodori (ancora non fuori pericolo, però) e un’ottima ripresa delle fragole. Bene tutte le insalate, ancora stranite e indecise sul da farsi zucche e zucchine. Male le melanzane. Che per altro non mi piacciono e non ho mai capito perché sono una presenza fissa del mio orto. Forse per non discriminare tra solanacee. Oppure – spiegazione meno politica e più terra-terra, come si conviene parlando di orticoltura – perché piacciono molto a mia moglie e sono, per giunta, esteticamente affascinanti.

Provenienti quasi certamente dall’Asia, le melanzane fanno parte dell’enorme categoria delle specie vegetali migranti, o perché importate o perché arrivate per conto loro, senza chiedere il permesso a nessuno. Le suole delle scarpe di marinai e viaggiatori sono tra le maggiori indiziate di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Ma anche i trasporti di legname esotico, di tessuti e di altri bottini più o meno leciti che gli europei si sono portati a casa da ogni parte del mondo. Dentro le cataste c’era qualunque cosa, anche i serpenti, figuratevi i semi.
Quasi nessuno è più capace di distinguere, in un orto o al mercato, le specie autoctone (poche) e quelle immigrate da pochi o parecchi secoli. Un buon segnale a favore dell’integrazione. Ancora qualche secolo e nessuno si chiederà più che cosa ci fa qui uno di là, e cosa ci fa là uno di qui.