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Quando a Settimo Torinese si producevano i mattoni

Dalle mani dei fornaciai settimesi uscirono i materiali da costruzione per gli edifici pubblici e privati del vecchio borgo e per i cascinali dei dintorni.

Quando a Settimo Torinese c'erano le fornaci

La presenza di fornaci nel territorio di Settimo Torinese è attestata in modo continuativo dal tardo Medioevo. Documenti quattrocenteschi menzionano la località «ad Fornacem» nonché la strada «ad Fornacem» e la «fornacem Socii». Fra i possedimenti che il castellano teneva «ad manus suas», in quanto parte della dotazione del castello di Settimo, compare anche il Campo della fornace «cum dicta fornace».

Gli impianti per la fabbricazione dei laterizi erano quasi tutti situati nella parte settentrionale del territorio, in genere nelle aree che oggi si trovano a nord dell’autostrada Torino-Milano, specie nelle regioni Moglia e Fornacino. Alle fornaci si richiama espressamente l’ultimo dei due toponimi. Altri impianti esistevano non lontano dalle cascine San Giorgio, Isola, Chela e Ratera. Nelle fornaci di Pramolle e dell’Isola si produceva la calce.

Intorno al 1864 l’impresa Rezzonico & Rinaldi aprì due impianti a fuoco intermittente nei pressi della cascina Nuova, sui terreni degli ex feudatari, i marchesi Falletti di Barolo.

A queste, per iniziativa di vari imprenditori, se ne aggiunsero alcune del tipo Hoffmann, a ciclo continuo, che consentivano un risparmio di carbone. Un ruolo di particolare rilievo svolse la famiglia Destefanis che possedeva impianti a fuoco intermittente e continuo sia in Settimo sia in Leinì.

IN FOTO Fornace a Settimo Torinese

IN FOTO Fornace a Settimo Torinese

L’attività dei fornaciai era stagionale: di solito il periodo lavorativo andava da aprile a settembre. «Monaté» e «copatin» si definivano rispettivamente gli addetti alla fabbricazione dei mattoni e dei laterizi di maggior pregio (coppi, tavelle, ecc.). Molti erano reclutati in province lontane, ad esempio nel Veneto e in Romagna. All’inizio della primavera si trasferivano con la famiglia nella fornace, in baracche per lo più malsane.

La loro giornata di lavoro aveva inizio alle quattro del mattino e si concludeva alle venti. Le donne e i fanciulli coadiuvavano gli uomini riempiendo di argilla gli stampi e allineando i mattoni all’aria aperta. Erano previste tre pause: la prima di mezz’ora o quarantacinque minuti, intorno alle sette, per la colazione; la seconda di un’ora, a mezzogiorno, per il pranzo; la terza di mezz’ora, alle diciassette, per un veloce ristoro.

Ogni quindici giorni i capifamiglia ricevevano un acconto sul salario, in attesa del saldo di fine stagione. Quando le piogge persistenti impedivano il lavoro primaverile capitava che i fornaciai si trovassero in debito verso gli imprenditori. Col ritorno del bel tempo occorreva assolutamente recuperare le giornate perdute, intensificando i ritmi e rinunciando al riposo festivo.

Oltre ai «monaté» e ai «copatin», nelle fornaci lavoravano i «focolant» o fochisti, addetti all’alimentazione del fuoco; i «teracin» o sterratori che estraevano l’argilla dalle cave e la depositavano nelle grandi aie annesse alle fornaci in modo che gli agenti atmosferici potessero iniziare l’opera disgregatrice; i «bërtolé a cui erano affidate tutte le operazioni di carico e di scarico dei laterizi.

Dalle mani dei fornaciai settimesi uscirono i materiali da costruzione per gli edifici pubblici e privati del vecchio borgo e per i cascinali dei dintorni. Interessante è un capitolato che l’architetto Luigi Formento redasse nel 1865 per il restauro della chiesa parrocchiale di San Pietro in Vincoli. Vi si legge che i mattoni occorrenti dovevano provenire «dalle migliori fornaci di Settimo» o da «altre di migliore od almeno egual bontà».

La crisi cominciò a manifestarsi negli anni fra i due conflitti mondiali: l’ultimo impianto chiuse nel secondo dopoguerra. 

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