21 aprile - SANT' ANSELMO D'AOSTA e PIETRO ABELARDO: credo per comprendere, comprendo per credere.

21 aprile - SANT' ANSELMO D'AOSTA e PIETRO ABELARDO: credo per comprendere, comprendo per credere.

ANSELMO (Aosta, 1033/1034 – Canterbury, 21 aprile 1109) dottore della Chiesa e santo è stato arcivescovo di Canterbury dal 1093 alla morte.
Paradossalmente nello stesso giorno ricordiamo anche nel 1142 PIETRO ABELARDO (Le Pallet, 1079 – Chalon-sur-Saône, 21 aprile 1142) filosofo, teologo e compositore francese, talvolta chiamato anche Pietro Palatino a seguito della latinizzazione del nome della sua città di origine.
Fu uno dei più importanti e famosi filosofi e pensatori del medioevo, precursore della Scolastica e fondatore del metodo logico.
Due giganti del pensiero occidentale, nel periodo "oscuro" del Medio Evo, la cui grandezza e la cui distanza dialettica l'uno dall'altro fa impallidire la tanto conclamata libera critica dei "lumi" e del pensiero moderno.
Il primo è soprannominato Doctor magnificus e padre della Scolastica. Il secondo soprannominato dagli avversari Golia (cioè figura grande e negativa) per la sua incidenza eccezionale nel suo tempo. (Il termine goliardia deriva da qui)
Per il suo pensiero vedi anche qui.

Anselmo nacque nel 1033 o nel 1034 ad Aosta, forse nella casa al numero 62 della strada che oggi porta il suo nome, da Gundulfo de Candia, il cui nome rivela la sua origine longobarda, e dalla nobile Eremberga di Ginevra, originaria della Borgogna e parente del conte Oddone di Savoia e di Moriana.
Spinto dall'esempio della religiosità materna, espresse il desiderio di dedicarsi alla vita conventuale, ma si scontrò con l'opposizione del padre. Seguirono difficili rapporti in famiglia, aggravati dalla prematura morte della madre. Poco più che ventenne, Anselmo lasciò Aosta per la Borgogna e poi la Francia, mentre il padre entrò in quel convento che paradossalmente aveva negato al figlio.

Nel 1059 Anselmo giunse nell'abbazia benedettina di Notre-Dame du Bec, in Normandia, per seguire le lezioni del noto Lanfranco di Pavia, priore e maestro della scuola del monastero.
Nel 1060 prese gli ordini in quella stessa abbazia, poi divenne collaboratore del suo maestro nell'insegnamento e, nel 1063, priore e maestro di arti liberali succedendo allo stesso Lanfranco, il quale si era trasferito nella vicina Caen per assumere la carica di abate nel convento di Santo Stefano. Nel 1078, morì il fondatore e abate del convento di Notre-Dame, il cavaliere Erluino; Anselmo venne eletto suo successore all'unanimità.

Anselmo visse nell'abbazia fino al 1092. Fu questo il periodo di sua più intensa attività, tanto pedagogica che di riflessione e composizione teologica e filosofica: vi compose le due opere più note, il Monologion e il Proslogion, oltre al De grammatico, il De veritate, il De libertate arbitrii e il De casu diaboli.

L'attività didattica si distinse, secondo quanto riferisce il suo biografo Edmero, dall'affermata tradizione di arcigna severità che costringevano gli alunni a una rigida disciplina e a un'arida ripetizione di principi da imparare a memoria.
Come abate e priore, Anselmo ebbe incombenze che lo costrinsero a frequenti viaggi, anche lunghi, come quello che intorno al 1080 lo portò in Inghilterra, a Canterbury, dove rivide l'antico maestro Lanfranco, ora arcivescovo, e conobbe quel monaco Eadmero alla cui biografia si devono le pur insufficienti notizie che lo riguardano.

Nel 1093 venne nominato arcivescovo di Canterbury: in Inghilterra si scontrò più volte con i re Guglielmo II ed Enrico I, e per questo motivo dovette intraprendere due volte la via dell'esilio, la seconda intorno al 1100. La pacificazione tra il re ed il papa gli consentì di ritornare a Canterbury, dove morì nel 1109. Anselmo fu canonizzato nel 1494 e proclamato Dottore della Chiesa nel 1720.

L'opera più famosa del periodo inglese (terminata, però in esilio in Italia, all'eremo benedettino di Villa Sclavia) fu il Cur Deus homo (Perché un Dio-uomo?).
Anselmo ha lasciato anche un'ampia raccolta di Preghiere e di Meditazioni, nonché un nutrito Epistolario, dal quale si possono ricostruire anche i legami di solida e tenera amicizia che aveva con i suoi discepoli.

Anselmo è ricordato non solo come teologo, ma anche come filosofo (viene talvolta definito il "padre della Scolastica"), soprattutto per la ricerca, sviluppata nel "Proslogion", di un "unum argumentum", un unico principio immediato e fondato solo su sé stesso per la dimostrazione dell'esistenza e degli attributi di Dio. Immanuel Kant definí questa dimostrazione prova ontologica dell'esistenza di Dio, sebbene Anselmo non abbia mai utilizzato questa espressione.

Fede e ragione
Fortissimamente speculativo, cercò, nel solco della tradizione di Platone e Sant'Agostino, una convergenza tra fides e ratio. Per Anselmo, la ragione umana è uno strumento essenziale per la speculazione teologica. Certamente, ogni intelligenza è sempre preceduta da una fede.
Infatti, egli dice:
«(...) credo per intendere, e se prima non crederò, non potrò intendere.»
Dunque, Anselmo riprende da Sant'Agostino (V secolo) la formula credo ut intelligam, intelligo ut credam (cioè "credo per comprendere, comprendo per credere").

La ricerca della verità ha come fondamento la fede. Tuttavia, la fede di per sé non è sufficiente: esige dimostrazioni e conferme razionali. E in questo, l'intelletto, proprio come la fede stessa, ha una sicura guida nell'illuminazione divina, concetto ripreso sempre dall'Agostinismo, e riproposto anche da San Bonaventura da Bagnoregio.

Dunque, tale illuminazione deve guidare l'intelletto, che altrimenti, di per sé, non può minimamente penetrare il mistero divino. Insomma, la ragione non dà giudizi, ma aiuta a capire la fede. Anselmo è uno dei primi filosofi e teologi ad unificare le due discipline, secondo il principio fides quaerens intellectum (cioè "la fede richiede l'intelletto"), che sarà il fondamento di tutta la filosofia Scolastica.

Centralità della problematica su Dio
La sua ricerca è tutta concentrata sulla figura di Dio, sulla quale pone due problematiche: la sua esistenza e la sua natura. Tale distinzione è espressa nel Monologion. Dice lui stesso: è questo il problema che sostiene e unifica le mie indagini.
Anselmo fornisce 4 prove che possano dimostrare, a partire dal mondo, che Dio esiste. È per questo, infatti, che vengono definite "prove a posteriori".

1) Ognuno tende a impossessarsi delle cose che giudica buone. Ma se esistono cose buone, il loro principio dovrà essere unico. Dovrà esistere cioè una Bontà assoluta.

2) L'esistenza di varie grandezze determina l'esistenza di una grandezza somma che include tutte le altre, di cui tutte le altre sono partecipazione.

3) Tutto ciò che esiste, o esiste in virtù di qualcosa, o esiste in virtù di nulla. Dunque, dato che ciò che esiste in virtù del nulla è il nulla stesso, e dato che qualcosa esiste, ciò esisterà grazie a un Essere supremo.

4) Tratta dalla gerarchia degli esseri viventi. Dovrà esistere un essere a sommità della gerarchia che sia perfetto. Una perfezione prima e assoluta.

Anselmo si rese conto ben presto della complessità delle proprie tesi che indicavano le cause "a posteriori", e, convinto del proprio ruolo di divulgatore della verità divina, si dedicò alla composizione di tesi che "a priori" potessero dimostrare l'esistenza di Dio. Esse si proponevano attraverso un'altra via, che come un lampo illuminasse i fedeli. Necessitava dunque di un argomento semplice, persuasivo e autosufficiente con cui convincere dell'esistenza di Dio.

Il problema ontologico o prove "a priori"
È un'argomentazione dell'esistenza di Dio che parte dalla nozione stessa di Dio, nel famoso enunciato: Dio è ciò di cui non si può pensare il maggiore. In latino: Id quod maius cogitari nequit (d'ora in poi IQM). È stata definita in età contemporanea, con un anacronismo, "argomento ontologico".

Questa argomentazione si trova nel secondo libro del "Proslogion" di Anselmo.
Il ragionamento di Anselmo si può dividere in due parti. La prima è un'istanza logica riguardo alla nozione di IQM, da cui segue l'esistenza necessaria dell'IQM stesso; la seconda, invece, è un'istanza teologica, che identifica l'IQM con il Dio cristiano.
Anselmo dice che quando l'ateo dice che Dio non esiste, con il termine Dio intende "ciò di cui non si può pensare il maggiore", ovvero l'IQM. Tuttavia, per negarne l'esistenza, l'"insipiens" (ovvero il non credente) deve avere almeno nell'intelletto la nozione di IQM. Ma l'IQM non può esistere solo nell'intelletto, perché altrimenti sarebbe possibile qualcosa di "più grande" dell'IQM, ovvero questo stesso IQM dotato di esistenza reale, contraddicendone la definizione di partenza. In definitiva, se l'IQM esistesse solo nella mente e non nella realtà, non sarebbe l'IQM e quindi si verrebbe a creare una contraddizione. Da questo segue che l'IQM esiste necessariamente.

Critiche
Nel Proslogion Anselmo dialoga con l'insipiens (Salmi, XIII 1). Uno stesso discepolo di Anselmo, il monaco Gaunilone (chiamato anche Wenilo), obiettò che non è sufficiente pensare una cosa perché esista, anche se rappresenta la perfezione. Disse infatti che, nonostante si potesse immaginare un'isola piena di delizie, ciò non dimostrava la sua esistenza. Rifiutò insomma il passaggio obbligato dal mondo ideale a quello reale.
Anselmo ribatté dicendo che l'esempio dell'isola non era calzante, poiché non era "ciò di cui niente si può pensare più grande". L'isola meravigliosa ha infatti una perfezione relativa e limitata ad alcuni suoi aspetti, ma non una perfezione assoluta come Dio, che ha ogni perfezione, sotto ogni aspetto.
San Tommaso d'Aquino, nella sua "Summa contra Gentiles" scrive: "Tra gli atei non è a tutti noto che Egli è quanto di più grande si possa pensare". Dunque egli ammise l'infondatezza dell'affermazione di Anselmo e impose per la conoscenza dell'esistenza di Dio le prove a posteriori come le uniche valide.
Kant lo rigettò totalmente, riprendendo quella tesi di Gaunilone secondo cui non basta che qualcosa sia pensato, perché ciò esista (ad esempio la chimera, o Babbo Natale). La questione rimane ancora oggi aperta in ambito filosofico.

Adesioni
Anselmo fu invece appoggiato da San Bonaventura da Bagnoregio e Duns Scoto nel Medioevo, e da Cartesio e Leibniz in età moderna. In particolare Cartesio fu sostenitore della sua "prova a priori", dalla quale prese ispirazione per il suo "metodo dubitativo"; inoltre, avversò la critica di Gaunilone, tacciandola come ingannevole ed inutile sofisma. Nella filosofia moderna, in aggiunta, è notevole l'adesione di Hegel, che accetta la prova di Anselmo in quanto per lui non c'è il salto di cui parlava Kant tra la dimensione logica e quella ontologica, in virtù del ben noto principio idealista per cui "tutto ciò che è reale è razionale, tutto ciò che è razionale è reale".

La parola e la conoscenza
Anselmo parla anche del rapporto tra parola e conoscenza, intendendo la parola come intellezione della realtà mediante il nostro intelletto. La parola (o concetto) può essere vera o falsa a seconda del suo maggiore o minore grado di somiglianza con la cosa.
La conoscenza umana (derivata dalla parola) è dunque misurata dalle cose.
La conoscenza divina (derivata dalla parola) è misura delle cose perché suo modello.
La rettitudine dell'intelletto umano è la verità, e si ottiene avvicinandosi alla conoscenza divina, sapere cioè le cose come davvero sono. La rettitudine della volontà è la giustizia, e si ottiene sostituendo alla propria, personale volontà la volontà divina, che è stata rivelata al mondo da Cristo e che può essere donata all'uomo, attraverso la Grazia, nello Spirito Santo. L'agire bene definisce la libertà. Dunque, l'uomo non è libero quando può peccare, ma è libero quando può comportarsi bene (altrimenti ne deriverebbe che Dio e gli angeli non sono liberi). La libertà è potenza di fare il bene.
La giustizia (che è divina) è il bene supremo da inseguire, e deve essere raggiunta per sé stessa, e non per altri fini umani.
Ma come si accordano predestinazione e merito? Libertà umana e preconoscenza divina degli eventi? Anselmo risponde che la libertà umana non è in contrasto con la prescienza divina. Dio pensa nella dimensione dell'eternità gli eventi che si svolgeranno nel tempo e nel modo in cui si svolgeranno secondo necessità quando sono necessari e secondo libertà quando sono liberi. Dunque, essendo Egli sia necessità che libertà, non vuole e non può andar contro sé stesso, che è già perfezione, quindi imperfezionabile.
In occasione dell'ottavo centenario della morte del santo, il 21 aprile 1909 papa Pio X scrisse l'enciclica Communium Rerum in cui ne celebra la figura e ne promuove il culto.

PIETRO ABELARDO, filosofo, teologo e compositore francese, talvolta chiamato anche Pietro Palatino a seguito della latinizzazione del nome della sua città di origine. Fu uno dei più importanti e famosi filosofi e pensatori del medioevo, precursore della Scolastica e fondatore del metodo logico. Per alcune idee fu considerato eretico dalla Chiesa cattolica in base al Concilio Lateranense II del 1139.

Nel corso della sua vita si mosse da una città all'altra fondando scuole e dando così i primi impulsi alla diffusione del pensiero filosofico e scientifico. Conquistò masse di allievi grazie all'eccezionale abilità nel padroneggiare la logica e la dialettica, e all'acume critico con cui analizzava la Bibbia e i Padri della Chiesa. Ebbe come temibile avversario Bernardo di Chiaravalle, che non gli risparmiò nemmeno le accuse di eresia. Le sue idee religiose, e in particolare le sue opinioni sulla Trinità, si collocavano in effetti al di fuori della Dottrina cattolica, tanto da essere condannate dai concili di Soisson (1121) e di Sens (1140).

Tra i suoi principali allievi vi furono Arnaldo da Brescia, Giovanni di Salisbury, segretario dell'arcivescovo Thomas Becket, Ottone di Frisinga, grande letterato e zio di Federico Barbarossa e Rolando Bandinelli, il futuro papa Alessandro III.
Abelardo fu noto anche col soprannome di Golia: durante il Medioevo tale appellativo aveva la valenza di "demoniaco".

Pare che Abelardo fosse particolarmente fiero di questo soprannome, guadagnato in relazione ai numerosi scandali di cui fu protagonista, tanto da firmare con esso alcune delle sue lettere. Celebre è la sua storia d'amore con Eloisa, da molti considerato il primo esempio documentato di amore declinato in chiave "moderna", come passione e dedizione assoluta e reciproca.

La fonte principale delle notizie sulla vita di Abelardo è la Historia mearum calamitatum (Storia delle mie disgrazie), un'autobiografia scritta in forma di lettera ad un amico con l'evidente intento di destinarla alla pubblicazione; a questa possono essere aggiunte le lettere di Abelardo ed Eloisa, che erano intese anche per la circolazione fra gli amici di Abelardo.

L'Historia fu scritta intorno all'anno 1130, e le lettere nel corso dei seguenti cinque o sei anni. Fatta eccezione di questi documenti, il materiale a disposizione è molto scarso: una lettera di Roscellino ad Abelardo, una lettera di Fulco di Deuil, la Disputatio di Guglielmo di Saint-Thierry, la cronaca di Ottone di Frisinga, le lettere di san Bernardo ed alcune allusioni negli scritti di Giovanni di Salisbury.

I primi anni
Pietro Abelardo (scritto anche Abeillard, Abailard, Abelard o Abaelardus) nacque (1079) nel piccolo villaggio di Pallet, circa dieci miglia ad est di Nantes in Bretagna. Suo padre, Berengario, era il signore del villaggio, il nome di sua madre era Lucia; in seguito, ambedue divennero monaci. Pietro, il maggiore dei loro figli, era destinato alla carriera militare, ma, come narrava egli stesso, abbandonò "Marte" per "Minerva", la professione delle braccia per quella della cultura, che all'epoca non poteva prescindere dalla carriera ecclesiastica. Di conseguenza, in giovane età lasciò il castello del padre e andò in cerca di istruzione, come studioso errante, presso le scuole degli insegnanti più rinomati di quei giorni.

Dopo essere stato a Tours, si spostò dal nominalista Roscellino, che aveva la scuola a Locmenach, vicino a Vannes, prima di procedere per Parigi.
Anche se l'Università di Parigi non esistette come istituzione sociale fino a oltre mezzo secolo dopo la morte di Abelardo, erano floride nella Parigi dei suoi tempi le scuole della Cattedrale, di Sainte Geneviève e di Saint Germain des Prés, precorritrici delle università del secolo successivo. La scuola della Cattedrale era indubbiamente la più importante tra queste e il giovane Abelardo vi si diresse per studiare dialettica sotto il rinomato maestro (scholasticus) Guglielmo di Champeaux.

Il rapporto tra ragione e rivelazione
Riguardo al rapporto fra ragione e la rivelazione, fra le scienze (compresa la filosofia) e la teologia, Abelardo incorse, ai suoi tempi, nella censura dei teologi mistici come San Bernardo, la cui tendenza era quella di mettere da parte la ragione in favore della contemplazione e della visione estatica.

Se i principi «la ragione aiuta la fede» e «la fede aiuta la ragione» devono essere presi come ispirazione della teologia scolastica, Abelardo era propenso a dare risalto al primo senza tener conto del secondo. Inoltre, quando parlava di soggetti sacri, adottò un tono e impiegò una fraseologia che offesero i più conservatori fra i suoi contemporanei. Eppure, Abelardo fu senza dubbio un innovatore: benché il XIII secolo, l'età aurea dello scolasticismo, conoscesse poco di Abelardo, adottò la sua metodologia e, con coraggio uguale al suo, ma senza la sua frivolezza o la sua irriverenza, introdusse l'uso della ragione nell'esposizione e nella difesa dei misteri della fede cristiana.
San Bernardo riassunse le accuse contro Abelardo nell'Epistola CXCII scrivendo: "Cum de Trinitate loquitur, sapit Arium; cum de gratia, sapit Pelagium; cum de persona Christi, sapit Nestorium".
Non c'è dubbio che su questi argomenti Abelardo scrisse e disse molte cose che erano opinabili dal punto di vista dell'ortodossia: mentre combatteva gli opposti errori, cadde involontariamente negli errori che egli stesso non riconobbe come Arianesimo, Pelagianesimo e Nestorianesimo e che persino i suoi nemici potrebbero caratterizzare soltanto come in odore di Arianesimo, Pelagianesimo e Nestorianesimo. L'influenza di Abelardo sui suoi immediati successori non fu molto grande, in parte per il suo conflitto con le autorità ecclesiastiche e in parte per i suoi difetti personali, in particolar modo vanità e orgoglio, che dovettero dare l'impressione che stimasse la verità meno della vittoria.

Gli universali
Nel problema degli universali, che impegnava così tanto i dialettici di quel periodo, Abelardo assunse una posizione di intransigente ostilità sia nei confronti del grezzo nominalismo di Roscellino, che nei confronti dell'esagerato realismo di Guglielmo di Champeaux. Quale fosse, precisamente, la sua dottrina sulla questione è un aspetto che non può essere determinato con esattezza. Tuttavia, dalle affermazioni del suo allievo, Giovanni di Salisbury, è chiaro che la dottrina di Abelardo, espressa con i termini di un nominalismo modificato, era molto simile al moderato realismo che iniziò ad essere ufficiale nelle scuole circa mezzo secolo dopo la morte di Abelardo.

Per Roscellino, primo maestro di Abelardo, gli universali erano soltanto emissioni di voce (flatus vocis) e dunque non possedevano una realtà indipendente dall'uomo: è la teoria del nominalismo.
Per Guglielmo di Champeaux, altro maestro di Abelardo, gli universali, ossia i generi (minerali, vegetali e animali) e le specie (uomo, cavallo, ferro) erano realtà esistenti al di fuori di noi. La specie è una sostanza unica presente in tutti gli individui che differiscono tra loro soltanto per accidenti (colore, peso, ecc): così la specie uomo è comune a tutti gli uomini che poi si distinguono in Socrate, Platone, ecc..
Abelardo così commentava la concezione di Guglielmo: «C'è una stessa realtà nei singoli individui che si distinguerebbero fra loro solo per la diversità degli accidenti…per cui, per esempio, nei diversi uomini la sostanza è uguale e solo una diversità di forme fa sì che uno sia Socrate e un altro Platone... allora la stessa sostanza di animale si troverà sia negli animali razionali che in quelli irrazionali e dunque nella stessa sostanza sussisterebbero attributi contrari i quali, trovandosi nella stessa identica realtà, non sarebbero più contrari».
Guglielmo per rispondere alla critica di Abelardo corresse la sua teoria sostenendo che gli universali sono presenti negli individui in modo indifferenziato: «ciò che è in una realtà non può essere in un’altra... ma la realtà dell'universale resta la stessa nel senso della non differenza, nel senso che, per esempio, gli esseri umani, distinti in sé fra loro, sono la stessa realtà nell'uomo, non differiscono nella loro natura umana, e così per ogni essere». Abelardo, tuttavia, continuò la sua critica specificando che «ciò che conta è la non differenza fra due esseri in senso positivo: se due uomini non differiscono fra loro perché entrambi non sono una pietra, in che cosa non differiscono se hanno la stessa natura?».

Per Abelardo, come per Aristotele, la sostanza (ousia) era l'esistenza nella forma di cosa, di animale o di persona, dunque era un soggetto: «Come certi nomi sono dai grammatici detti comuni e altri propri, così dai dialettici certi termini sono detti universali e altri singolari; l'universale è un vocabolo capace di essere predicato singolarmente di molti, come per esempio, il termine uomo si può unire a tutti gli uomini mentre singolare è il nome predicato di uno solo, per esempio Socrate. Dicendo che Socrate è uomo, Platone è uomo, Aristotele è uomo, uso una parola, uomo, predicato di molti individui: uomo è dunque una parola universale. Quando diciamo che questo o quell'individuo conviene nello stato di uomo... diciamo che è un uomo sebbene lo stato di uomo non sia una cosa, una realtà, ma è la causa comune per cui ai singoli viene dato il nome uomo».

In questo modo l'universale non è né una realtà, come voleva Guglielmo di Champeaux, né un puro suono, come sosteneva Roscellino. L'universale non può essere una cosa, poiché una cosa è un'entità individuale e in quanto tale non può essere predicato di un'altra cosa: e allora l'universale non è realtà. Ma non è neanche un puro suono, perché anche un suono è un'entità individuale e perciò non può essere predicato di altro suono.
«Quando ascolto la parola uomo mi sorge nell'animo un modello comune a tutti gli uomini ma proprio di nessuno; quando ascolto la parola Socrate mi sorge un’immagine che esprime una particolare persona… come si può dipingere una figura comune, si può concepire una figura comune: l'universale è questa immagine comune, l'immagine di una cosa concepita come comune.»

L'etica
Nell'etica Abelardo pose una tale enfasi sulla moralità dell'intenzione da eliminare, apparentemente, la distinzione obiettiva fra bene e male. Non è l'azione fisica in sé stessa, egli disse, né qualche immaginaria ferita a Dio, che costituisce il peccato, ma piuttosto l'elemento psicologico dell'azione, l'intenzione di peccare.
«Il vizio dell'anima non si identifica col peccato; per esempio, l'iracondia è un vizio che spinge la mente a compiere cose che non si devono fare, alla lussuria sono inclini per complessione fisica molte persone che però non per questo peccano: il vizio dell'animo ci inclina ad acconsentire a cose illecite e peccato deve intendersi solo il fatto dell'acconsentire. Come non si possono eliminare le inclinazioni, perché fanno parte della natura umana, così non si può chiamare peccato la volontà o il desiderio di fare quel che è illecito, ma il peccato è il consenso dato alla volontà e al desiderio.»
È dunque nel consenso, anche solo interiore, la radice del bene o del male che commettiamo: possiamo fare del bene senza rendercene conto, senza intenzione buona: non per questo possiamo essere considerati buoni e virtuosi; allo stesso modo, possiamo fare del male senza intenzione: non per questo dobbiamo essere considerati malvagi e peccatori.
Su questa base, Abelardo riteneva che gli stessi persecutori di Cristo e dei martiri potrebbero non aver peccato se consideravano, in coscienza, giustamente punibili Cristo e i cristiani, perché l'ignoranza non è in sé peccato e anche il peccato originale, che colpisce i successori di Adamo, non può essere considerato peccato.
Anche se Abelardo si sforzava di mantenersi nell'ambito dell'ortodossia, questa dottrina sembrava negare valore alle opere: la grazia non era più il dono divino della permanenza dell'uomo nel bene ma solo la conoscenza del regno dei cieli e Cristo era un maestro, non un mediatore di salvezza; queste idee furono condannate dal concilio di Sens perché mostravano un ritorno al pelagianesimo.
Ma la sua morale consisteva soprattutto in una critica sia al rigorismo ascetico, che combatte le inclinazioni della natura umana, che al legalismo etico, che si conforma a schemi esteriori di comportamento, e il rifiuto del conformismo si estendeva alla valutazione del ruolo delle gerarchie ecclesiastiche il cui prestigio sarebbe dovuto essere conforme alla dignità morale dei singoli e non al carisma del potere di cui sono investiti.

La logica
Compito della logica è stabilire la verità o falsità di un discorso e solo la libera ricerca razionale può condurre alla verità. Nell'opera Sic et non (Sì e no), raccoglieva un centinaio di proposizioni, tratte dai diciassette libri del Decretum di Yves di Chartres, attraverso le quali indicava il corretto metodo per affrontare le controversie teologiche: distingueva i testi della Bibbia, ai quali bisognava credere necessariamente, dai testi patristici, che potevano essere liberamente analizzati. Occorreva accertare se le espressioni usate dagli autori non fossero state da loro successivamente corrette, se non fossero state riprese da altri, occorreva accertare il reale significato dei singoli termini dati dai diversi autori: in caso di contrasto avrebbe dovuto preferita la tesi più e meglio argomentata.
Abelardo discuteva anche il problema dei futuri contingenti: Dio, prevedendo gli eventi futuri, determina il loro necessario verificarsi o gli eventi futuri restano contingenti, cioè non necessari? L'uomo non sa se le proprie previsioni del futuro siano vere o false e dunque per lui gli eventi futuri sono contingenti, mentre per Dio, che li conosce in anticipo, è necessario che essi si verifichino.
Dio è libero ma vuole solo il bene e dunque deve fare il bene; allora, creando il mondo, ha creato una cosa necessariamente buona: la necessità del mondo non significa, secondo Abelardo, mancanza di libertà in Dio perché egli fa tutto di sua volontà e senza costrizione.

La teologia
«Composi il trattato De unitate et trinitate divina per i miei studenti che […] chiedevano ragioni adatte a soddisfare l'intelligenza [...] non si può credere a una affermazione senza averla capita ed è ridicolo predicare agli altri quel che né noi né gli altri comprendono.»
Nonostante questa affermazione, Abelardo poneva, comunque, la fede alla base di ogni ricerca teologica, cercando di giustificarla attraverso analogie razionali. Cercò di spiegare la Trinità utilizzando argomentazioni tratte dal Timeo platonico: lo Spirito Santo procederebbe dal Padre e dal Figlio perché in Platone l'Anima del mondo, assimilata da Abelardo allo Spirito Santo, contempla nell'Intelletto divino (il Figlio) le Idee del Padre e in questo modo «per mezzo della ragione universale governa le opere di Dio traducendo nella realtà le concezioni del suo Intelletto».

Nel cristianesimo, secondo Abelardo, sostanza del Padre è la potenza, del Figlio è la sapienza e dello Spirito Santo è la carità. Dovendo costituire un'unità, le persone divine devono derivare l'una dall'altra: il Padre genera il Figlio che è della stessa sostanza del Padre, perché la sapienza è una forma di potenza divina, mentre lo Spirito Santo procede dal Padre e dal Figlio, altrimenti la carità senza potenza sarebbe inefficace e senza la sapienza non avrebbe razionalità.
Questa concezione trinitaria fu attaccata da Norberto di Magdeburgo, fondatore dell'ordine dei Canonici Premonstratensi, da Bernardo di Chiaravalle e da Guglielmo di Saint-Thierry, perché considerata affetta da eresia modalista – il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, anziché tre persone, non sarebbero altro che tre manifestazioni o modi attraverso i quali si manifesta l'unico Dio.

Nel Dialogo tra un filosofo, un giudeo e un cristiano, l'ultimo scritto, rimasto incompiuto, di Abelardo, i tre personaggi dell'opera credono tutti in Dio, ma due seguono le Sacre Scritture, mentre il filosofo segue la ragione.

Il filosofo, nel dialogo col giudeo, conclude di non poter accettare una religione fondata esclusivamente sull'Antico Testamento, e non condivide le prove della razionalità della fede cristiana. Egli sostiene la necessità di valutare criticamente le scelte religiose in quanto ritiene che si aderisca alla fede di una religione positiva solo seguendo le proprie tradizioni familiari, tanto che, quando due persone di fede diversa si sposano, uno di essi si converte abitualmente alla fede dell'altro.

L'eredità di Abelardo
Abelardo è stata una delle figure fondamentali non solo del XII secolo, ma della storia del pensiero occidentale in generale. Con le sue opere, in particolare il Sic et Non, si può dire che ha fondato la logica occidentale, dimostrando come la ragione umana possa arrivare a importanti risultati senza bisogno di appoggiarsi pedissequamente alle Sacre Scritture. Egli ha elaborato i principi di identità e di non-contraddizione che furono alla base della filosofia scolastica nel secolo successivo.
Sebbene condannato dalla maggior parte della Chiesa più tradizionalista, il suo metodo venne ripreso con successo dal monaco giurista Graziano, che redasse una raccolta completa di diritto canonico (il Decretum), servendosi proprio della logica abelardiana. Dopo di lui il pensiero scolastico ebbe grandi esponenti che mediarono le innovazioni di Abelardo, tra i quali Alberto Magno, Tommaso d'Aquino e Duns Scoto. Essi applicarono il metodo logico-scientifico allo studio della teologia, che divenne una vera e propria scienza, quindi indagabile con i metodi della ragione umana. Questi studiosi si poterono avvalere anche delle traduzioni in latino di un altro grande pensatore, Averroé, che rese possibile la conoscenza di Aristotele e dei filosofi arabi in Occidente.

La Goliardia moderna
Al soprannome di Pietro Golia Abelardo si deve il termine Goliardia. Il termine stesso venne adottato dagli studenti universitari bolognesi sul finire del XIX secolo, quando il movimento venne fondato sotto l'impulso di Giosuè Carducci, allora insegnante presso la locale facoltà di lettere, che aveva assistito in Germania a manifestazioni studentesche simili a quello che sarebbe stato poi il modus operandi dei Goliardi. Gli studenti tedeschi erano effettivamente eredi (considerando le evoluzioni storiche del caso) di quei clerici vagantes tanto osteggiati dalla chiesa durante il XII secolo, e che avevano eletto Pietro Abelardo a proprio vessillo nella lotta – spesso più dozzinale che dottrinale – alle imposizioni ideologiche del Papa.
Per un approfondimento del suo pensiero vedi anche qui.