Andy Warhol: aura e choc nella storia del genio della Pop Art
Fonte immagine: napermultimedia.it

Artista-icona del movimento della Pop Art statunitense, Andy Warhol (Pittsburg, 1928 – New York, 1987) è stato in assoluto uno degli artisti più influenti del secondo dopoguerra a livello internazionale, sovvertendo le regole non soltanto delle arti visive ma, più in generale, della comunicazione e della multimedialità.

Figlio di due immigrati slovacchi di etnia Rutena, Ondrej Varchola e Júlia Justína Zavacká, Andy Warhol studiò al Carnegie Institute of Technology dal 1945 al 1949, anno in cui si trasferì a New York. La Grande Mela offrì subito all’artista diverse opportunità di lavoro: Warhol iniziò a lavorare ben presto come grafico pubblicitario presso riviste come VogueGlamour e Harper’s Bazar, ottenendo subito numerosi consensi.

Di tutti gli esponenti della pop-art americana, Andy Warhol è sicuramente il più noto, ma ciò che lo rende esemplare della mutazione ontologica dell’arte nella società postmoderna è la scelta di adottare di questa stessa società non solo i temi, ma soprattutto i metodi. La novità di Warhol, infatti, non sta nell’avere eletto i miti di massa – anche quelli musicali – a soggetti del proprio lavoro, ma nell’aver fatto del proprio lavoro un mito di massa. A questo scopo egli adotta tecniche di riproduzione industriale come la serigrafia, inoltre inventa la “Factory”, un’istituzione che a partire dalla metà degli anni Sessanta promuove azioni, produce film e lancia sulla scena newyorkese personaggi più o meno underground.

Un evento però cambierà radicalmente l’approccio mediatico dell’influente arista, procurandogli effetti postumi permanenti, fisici e psicologici: il 3 giugno 1968 Andy Warhol e il suo compagno Mario Amaya vengono feriti con 3 colpi d’arma da fuoco per mano della folle femminista Valerie Solanas, unico membro della S.C.U.M. (Society for Cutting Up Men). L’incontro con Andy Warhol avvenne nel 1967, quando Valerie gli consegnò una sua opera, “Up your ass”, che narrava di una prostituta e di un vagabondo, affinché se ne traesse un dramma. Inizialmente incuriosito dal titolo, il padre della Pop Art scartò poi il progetto, ma la Solanas non si diede mai per vinta e, convincendosi che lui volesse rubarle l’idea, cominciò ad assillarlo ai limiti del pedinamento, fino al tragico evento che fortuitamente ha avuto il suo lieto fine.

Si sa, lì dov’è il successo è facile che si nascondino insidie, e il libro di Enrico Pitzianti (caporedattore de L’indiscreto.org, si occupa di politica, cultura e reportage per Esquire, Il Foglio e Wired) incentrato sulla vita del padre della Pop Art, ne delinea chiaramente le dinamiche: la gloria e la fama di Andy Warhol poggiavano su esperienze infantili traumatiche di solitudine e violenza: insomma, un quadro ben diverso da ciò che ci si potrebbe aspettare da un artista che ancora oggi è considerato la personalizzazione del pop, della New York apparentemente scintillante degli anni ’70 e ’80.

Seguire la metamorfosi personale ed artistica di Warhol significa sviscerare le dinamiche sociali che egli visse prima e subito dopo essersi trasferito a New York, patria del consumo nonché della serializzazione di impianto capitalistico: i contorni della sua nascente visione estetica, già permeata nell’ideale del sogno americano, nell’utilizzo delle armi, nelle gelosie aspirazionali, nell’ossessione di apparire e persino nelle sofferenze delle migrazioni legate all’esperienza vissuta dai genitori (i quali emigrarono dalla cattolica Slovacchia), si intrecciano fortemente alla democratizzazione della società dei consumi, dove ricchi e poveri hanno accesso agli stessi prodotti. Tutti sono dominati da un sistema che non riescono a controllare. È più grande di loro. Ma è una routine che masticano quotidianamente senza accorgersene.

Democratizzazione o omologazione passiva? Warhol non vuole essere polemico, ma nel suo cinismo ironizza sul mondo capitalista. I frutti della produzione industriale riposano sugli scaffali dei supermercati, seducono lo spettatore. Seducono l’artista, che li toglie dalla concretezza del consumo per restituirli al mondo concettuale dell’arte. L’oggetto perde il suo valore di scambio e si annulla nella serializzazione della produzione artistica.

Se la maggior parte della critica considera Andy Warhol il più importante artista del Novecento è proprio perché risulta difficile, se non impossibile, trovare un artista osannato tanto dai “produttori” quanto dal grandissimo pubblico, capace dunque di rimescolare le concezioni di cultura “alta” e “bassa” all’interno di un unico filone estetico. 

L’opera di pop art è costruita con lo stesso linguaggio estemporaneo della pubblicità. È un oggetto che torna a dialogare con le persone, chiedendo in cambio solo pochi secondi di attenzione. L’opera pop va desacralizzata perché non resti espressione di pochi intellettuali che producono contenuti per un pubblico elitario. L’arte deve arrivare a tutti, sfruttare la comunicazione immediata, se serve deve perfino imitare le immagini commerciali.

Quando, nel 1962, Warhol rappresenta un barattolo di zuppa Campbell’s con la stessa devozione che in passato si rivolgeva ai soggetti religiosi, l’artista ci mostra il vero volto dell’America post bellica, la quale già coltivava, nemmeno troppo velatamente, il senso della ripetizione cedendo inesorabilmente alla meccanizzazione dei processi produttivi capitalistici.

Barattolo di zuppa Campbell's, Andy Warhol, 1962
Barattolo di zuppa Campbell’s, Andy Warhol, 1962
Fonte:inexhibit.com

I prodotti di massa rappresentavano per lui una espressione della democrazia sociale perché azzeravano le differenze tra ceti e annullavano il concetto di ricchezza e povertà. La sua adorata zuppa di fagioli, come una lattina di Coca Cola e tanti altri prodotti, potevano essere acquistati indifferentemente da un sovrano come da un operaio e questa era una realtà che nessuno avrebbe potuto né smentire, né cambiare.

Grandissimo fan della Polaroid non girava mai senza e molte delle sue opere più celebri nascono proprio da fotografie scattate a grandi miti della musica, della moda, del cinema. I VIP del tempo facevano a gara per farsi immortalare da Warhol e riuscire in questa impresa consolidava notevolmente il loro successo.

La vera rivoluzione è quella di portare gli slogan e le etichette dentro le gallerie. Anche le persone, ridotte al concetto di “icona”, si trasformano in semplici immagini da consumare. Le opere che Warhol dedica a Marylin Monroe sono l’emblema di questa dinamica estetica. L’artista trasforma una diva in uno stencil, la restituisce serigraficamente senza alcuna profondità. Ed è così, sui social network, per tutti noi: siamo insieme prodotti e consumatori seriali. La società dei consumi ha promesso a ciascuno di noi la fama e il successo, quel “quarto d’ora di celebrità” teorizzato proprio da Andy Warhol.

Andy Warhol, Marilyn Monroe, 1967, serigrafia a colori. Colorado, Powers Art Center, Collezione John e Kimiko Powers
Serigrafie di Marilyn Monroe, Andy Warhol, 1967
Fonte: analisidellopera.com

Ad interessarsi del destino dell’arte da un punto di vista politico (quindi personale) e filosofico fu Walter Benjamin, filosofo formatosi nell’ambiente neomarxista della scuola di Francoforte, che nel 1936 pubblica “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica”, universalmente riconosciuto come il saggio di Estetica più importante del Ventesimo secolo. All’interno dell’opera il filosofo (prima ancora che Andy Warhol stravolgesse la concezione estetica post-moderna e contemporanea) spiega come l’opera d’arte contemporanea abbia smarrito la propria “aura” (che si concretizza come forza sovrannaturale che risiede nella sua unicità spazio-temporale) sotto il peso di una tecnica che la riproduce all’infinito.

Andy Warhol è stato l’artista contemporaneo che più chiaramente ha mostrato (nel bene e nel male) come nel mondo attuale ogni evento ed ogni senso potessero esistere ormai solamente nella loro oggettività di simulacro. La sua grandezza artistica e filosofica consiste nell’aver compreso che nell’era del capitalismo avanzato il consumo, ancor prima che fisico, è soprattutto di ordine visivo ed emozionale, che la sola realtà che conta è la presenza pervasiva e serializzata delle immagini, e che queste, seppur seducenti, non sono semplici copie di un autentico, bensì “copia di copia” perché non si dà più alcun originale.

“Alcune aziende erano recentemente interessate all’acquisto della mia aura. Non volevano i miei prodotti. Continuavano a dirmi: ‘Vogliamo la tua aura.’ Non sono mai riuscito a capire cosa volessero. Ma sarebbero stati disposti a pagare un mucchio di soldi per averla. Ho pensato allora che se qualcuno era disposto a pagarla tanto, avrei dovuto provare ad immaginarmi che cosa fosse”.

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Mena Trotta

Classe 2001, laureata in filosofia e studentessa di antropologia culturale ed etnologia all'università di Bologna. Mi nutro di curiosità, fotografia e parole. Fermamente convinta del potere sovversivo dell'arte, in ogni sua forma.

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