La guerra tra Israele e Hamas un mese dopo: cosa è successo finora e quali sono le questioni aperte - la Repubblica

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La guerra tra Israele e Hamas un mese dopo: cosa è successo finora e quali sono le questioni aperte

La guerra tra Israele e Hamas un mese dopo: cosa è successo finora e quali sono le questioni aperte
(afp)

Le vittime, le accuse reciproche e le prospettive future: da chi governerà Gaza al possibile allargamento del conflitto. Una scheda con quattro certezze e quattro incertezze

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Sono passate quattro settimane dal 7 ottobre, lo Shabbat del massacro, in cui Hamas ha attaccato Israele, uccidendo più di 1.400 persone, per la maggior parte civili, inclusi anziani, donne e bambini, e prendendone più di 240 con sé a Gaza come ostaggi. Dal giorno seguente è iniziata la reazione militare israeliana, prima con bombardamenti di Gaza, quindi con l’invasione per via di terra, ora con la battaglia nelle strade di Gaza City, che secondo cifre di Hamas ha causato 9mila morti, un terzo dei quali bambini, accompagnata dall’evacuazione nel sud della striscia di oltre metà dei suoi due milioni e 300mila abitanti e da una crisi umanitaria che ha spinto l’Onu e gli Stati Uniti a chiedere pause o un cessate il fuoco per fare pervenire aiuti alla popolazione palestinese.

Intanto le milizie libanesi di Hezbollah, come Hamas manovrate dall’Iran, hanno provocato scontri limitati con le forze israeliane lungo la frontiera settentrionale dello Stato ebraico e razzi sono caduti su Israele dallo Yemen, minacciando un possibile allargamento del conflitto. Fuori dal Medio Oriente, grandi marce di sostegno alla Palestina attraversano le capitali europee e l’America; in Occidente risorge l’antisemitismo, con stelle di David messe sulle case di ebrei a Parigi e innumerevoli altri episodi di discriminazione; mentre Teheran, Mosca e Pechino segnalano diversi gradi di appoggio ai palestinesi o alla stessa Hamas, classificata come un’organizzazione terroristica da Usa, Unione Europea, Regno Unito e altri Paesi. Dopo un mese della nuova guerra di Gaza, questa è la situazione: il conflitto prosegue, si possono individuare alcune certezze che ne sono emerse, ma rimangono anche numerose incertezze. Ecco le une e le altre, per capire cosa ci si può aspettare nel prossimo futuro: quattro certezze e quattro incertezze dopo quattro settimane di guerra.

Niente più Hamas a Gaza

Il governo di Gerusalemme ha dichiarato che intende smantellare completamente Hamas da Gaza. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha detto che sarà una guerra “lunga e difficile”, ma che l’obiettivo sarà realizzato ad ogni costo. Al momento non è chiaro quanto tempo ci vorrà; né se lo sradicamento di Hamas promesso da Israele si riferisca ai suoi leader politici e militari, alla maggioranza dei suoi circa 30 mila militanti attivi, o al sostegno che Hamas riceve da almeno una parte della popolazione di Gaza e alla sua ideologia in quanto tale. Una cosa, tuttavia, sembra certa: dopo quello che è accaduto, lo Stato ebraico farà di tutto per non permettere più ad Hamas di governare Gaza.

Uno scenario analogo si è già visto in passato, quando l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (Olp), guidata da Yasser Arafat, lanciava attacchi e attentati contro Israele dal Libano, dove si era insediata dopo essere stata espulsa dalla Giordania nel corso di una violenta guerra civile contro il regno hashemita di Amman. Nel 1982 Israele reagì con una massiccia invasione del Libano, riuscendo nell’obiettivo di distruggere le basi palestinesi: Arafat e la sua leadership non vennero annientati, ma furono costretti a lasciare il Libano e a rifugiarsi in una nuova base più lontana, in Tunisia. Le conseguenze dell’invasione israeliana sono controverse, sia per la strage nei campi profughi palestinesi di Sabra e Chatila commessa da una milizia cristiana libanese alleata di Israele, sia perché il Libano è rimasto comunque una minaccia, diventando la base di un movimento anti-israeliano ancora più potente, gli Hezbollah. Ma la promessa di sradicare l’Olp dal Libano venne mantenuta. È probabile che Israele manterrà anche quella di non permettere più a Hamas di operare da Gaza, una minaccia troppo letale e troppo vicina al suo territorio per consentire che rimanga dov’è, dopo quello che è accaduto il 7 ottobre.

Israeliani uniti nella guerra

La guerra è stata preceduta da una spaccatura nella società israeliana come raramente si era visto nella sua storia, provocata dalla controversa riforma della giustizia e in generale dalle scelte politiche del governo più di destra della storia israeliana, inclusa l’ulteriore espansione delle colonie ebraiche in Cisgiordania. Una spaccatura che aveva provocato il licenziamento del ministro della Difesa e il rifiuto di settori dell’esercito e dei servizi di sicurezza di servire il Paese. Eppure, dopo un mese di conflitto, Israele appare ora saldamente unito nel sostenere l’invasione di Gaza. L’opposizione è entrata a fare parte del governo, con l’ex-generale Benny Gantz in un ruolo chiave nel “gabinetto di guerra”, il governo ristretto di tre alti responsabili, più due membri “osservatori”, che prende tutte le decisioni chiave. Altri partiti appoggiano il governo dall’esterno. Nonostante media ed esperti non risparmino critiche al premier Netanyahu, il mondo politico appare compatto nell’approvare la determinazione ad andare fino in fondo contro Hamas: come accaduto anche in passato, quando si sente minacciato Israele reagisce nel segno dell’unità nazionale. Le critiche più pesanti a Netanyahu vengono dalle famiglie degli ostaggi, che chiedono sia data la priorità alla liberazione dei loro cari, attraverso accordi con Hamas o altri mezzi, ma nemmeno loro si oppongono alla guerra in quanto tale.

Che cosa ne sarà di Netanyahu?

“Bibi”, il diminutivo con cui lo chiamano gli israeliani, è stato sempre descritto come un politico dalle sette vite, sempre capace di risorgere, spregiudicato al punto da cambiare tutto quel che c’è da cambiare per mantenere il potere. Anche adesso sta chiaramente provando a posizionarsi per salvare il posto: in un post su X (l’ex-Twitter) ha addossato ai capi dei servizi di sicurezza la colpa del mancato allarme sull’attacco di Hamas, per poi cancellarlo e chiedere scusa quando il suo ora collega di governo Gantz lo ha ammonito a non criticare chi in questo momento partecipa alla guerra. Il premier ha detto che, dopo il conflitto, anche lui sarà chiamato a rispondere della incapacità di prevedere il massacro del 7 ottobre e di rispondervi celermente, ma a differenza di altri ministri e militari non si è scusato per il suo operato, pur essendo, come capo del governo, il responsabile numero uno. E si è fatto riprendere mentre abbraccia commosso i soldati al fronte e i familiari degli ostaggi. Ciononostante, i sondaggi indicano che è finito. I consensi nei suoi confronti sono crollati ai minimi termini. Anche all’interno del Likud, il suo partito, molti dicono che dopo la guerra dovrà dimettersi o sarà costretto a farsi da parte per una crisi di governo e nuove elezioni. Anche questo è già successo: nel 1973 Israele si fece cogliere impreparata dall’attacco di Egitto e Siria nella guerra dello Yom Kippur, per qualche giorno vacillò, poi vinse lo stesso anche quel conflitto, ma l’anno seguente la premier dell’epoca, Golda Meir, dovette dimettersi. E fatte le proporzioni, lo smacco sofferto da Israele il 7 ottobre è stato ancora più grave di quello del 1973, per il numero di vittime sofferte in un giorno e perché ad attaccare non sono stati gli eserciti regolari di due nazioni, bensì un migliaio di militanti di un’organizzazione considerata terroristica e teoricamente sempre sotto l’occhio vigile di Israele.

Israele sotto accusa

Fin dal primo momento, sia in Israele, sia tra i suoi più stretti alleati a cominciare dal presidente americano Biden, c’era la consapevolezza che la reazione israeliana all’attacco di Hamas avrebbe fatto gradualmente aumentare le critiche al governo di Gerusalemme da parte della comunità internazionale, facendo quasi dimenticare o passare in subordine l’orrore del massacro di Hamas del 7 ottobre. Tale previsione si è puntualmente avverata, forse anche oltre le previsioni. Su Israele sono cadute le accuse delle Nazioni Unite, il cui segretario generale António Guterres ha perfino implicitamente dato l’impressione di giustificare l’attacco di Hamas (“non è avvenuto nel vuoto”, ha detto alludendo all’occupazione israeliana). Biden ha detto fin dall’inizio che Israele ha il diritto e il dovere di difendersi, “ma è importante come lo farà”; ora gli Stati Uniti chiedono apertamente a Israele una tregua per permettere aiuti umanitari e ammoniscono Israele a limitare le perdite di civili fra i palestinesi. I governi europei, dalla Germania alla Francia, dal Regno Unito all’Italia, continuano ad appoggiare l’azione militare israeliana, ma le loro capitali sono piene di dimostranti che marciano per la Palestina accusando Israele di crimini di guerra. In proposito, la Corte Penale Internazionale ha annunciato che sta appunto indagando su crimini di guerra commessi da Israele a Gaza (la Corte indaga anche su quelli commessi da Hamas il 7 ottobre in Israele). Infine, si è visto crescere in modo impressionante l’antisemitismo. Tutto questo era almeno in parte prevedibile. Si è verificato anche in passato, in occasione di altri momenti di estrema violenza fra Israele e palestinesi. E almeno in parte, almeno finora, Israele sembra accettarlo come una conseguenza inevitabile. “Ascoltiamo quello che ci dicono i nostri alleati, ma saremo noi a decidere”, ha detto il ministro della Difesa israeliano Gallant. Qualcuno ricorda una frase di Golda Meir: “Il mondo ama noi ebrei quando siamo deboli e timorosi, non ci accetta quando impugniamo la spada per difenderci”.

Chi governerà Gaza?

Ammesso che Israele smantelli Hamas da Gaza, chi governerà la striscia dopo la guerra? Sembra improbabile che Israele voglia rioccupare Gaza, da cui si ritirò completamente quasi vent’anni fa: il costo umano ed economico, oltre che politico, sarebbe troppo alto. Sembra troppo presto per immaginare che il posto di Hamas venga preso dall’Autorità Nazionale Palestinese (Anp), l’organismo che governa i Territori Autonomi in Cisgiordania e che governava anche Gaza fino al 2006, quando Hamas vinse le elezioni palestinesi e prese il potere nella striscia: Abu Mazen, erede di Arafat e presidente dell’Anp, già screditato in Cisgiordania, perderebbe ulteriormente consensi se si riprendesse Gaza praticamente sulla torretta dei carri armati israeliani. Una ipotesi è che una forza internazionale di pace, composta dall’Onu o dalla Lega Araba o da vari Paesi arabi o da un insieme di queste forze, governi temporaneamente Gaza come avvenuto in altre zone calde del mondo dopo conflitti e durante vuoti di potere: ma sarebbe complicato mettere d’accordo una forza di questo genere, gli arabi rischierebbero rivolte nei propri Paesi se dessero l’impressione di essere complici di Israele nell’esautorare Hamas e una forza multinazionale rischia di essere vista comunque come una forza di occupazione. E comunque quanto durerebbe questa transizione? Per poi consegnare Gaza a chi e in che modo? Non è chiaro.

Il conflitto si allargherà?

Nel suo discorso di venerdì, Hassan Nasrallah, leader degli Hezbollah libanesi, ha minacciato di aprire un nuovo fronte contro Israele a nord, ma non ha dichiarato guerra, consapevole della durezza che avrebbe la risposta israeliana e della presenza di due portaerei americane nel Mediterraneo. Ma non è detto che rimanga a vedere, se la guerra si protrae e si inasprisce ulteriormente. Lo stesso vale per l’Iran, che probabilmente non avrebbe l’ardire di partecipare direttamente al conflitto ma potrebbe aizzare gli Hezbollah a farlo e, a quanto pare, lo sta già facendo con lo Yemen. Intanto ribolle la Cisgiordania, dove dal 7 ottobre sono morti già più di cento palestinesi in scontri con l’esercito israeliano e con i coloni ebraici: una nuova ovvero terza Intifada sembrava già sul punto di scoppiare in quei territori, ora è ancora più possibile. In tutti questi scenari, Israele sarebbe costretta a combattere su più fronti e potrebbe trovarsi in difficoltà. L’aiuto militare americano e forse anche di altri Paesi (Francia e Regno Unito lo hanno offerto) dovrebbe diventare più diretto. Questo a sua volta provocherebbe un aumento del rischio di attentati di terroristi islamici in Europa e negli Usa, come hanno già paventato l’Fbi a Washington e l’Mi5 a Londra. Il pericolo di un allargamento del conflitto cresce a mano a mano che la guerra va avanti.

Riprenderà il negoziato Israele-sauditi?

Molti analisti ed esperti hanno detto che una delle ragioni dell’attacco di Hamas del 7 ottobre, se non la principale, era ostacolare il negoziato avviato dagli Stati Uniti per portare a un accordo di pace fra Israele e Arabia Saudita, che sarebbe il completamento e l’elemento più importante degli accordi di Abramo fra Israele e tre Paesi arabi (Emirati Arabi Uniti, Bahrein e Marocco) mediati dalla precedente amministrazione Trump. Ai negoziati fra israeliani e sauditi partecipavano i palestinesi: non quelli di Hamas a Gaza, bensì quelli dell’Anp di Abu Mazen in Cisgiordania, l’interlocutore ufficiale del pur arenato processo di pace fra israeliani e palestinesi. Un obiettivo dichiarato di Riad era ottenere concessioni da Israele a favore dei palestinesi, in primo luogo la ripresa del processo di pace, per arrivare in futuro alla creazione di uno stato palestinese. Hamas non voleva tutto questo, come non lo voleva l’Iran: sia perché l’accordo Israele-sauditi avrebbe rafforzato l’Anp a dispetto di Hamas, sia per impedire una generale riappacificazione tra mondo arabo e Israele. Potrà andare avanti il progetto, dopo tutto questo sangue? Per Riad a questo punto la pace con Israele rischia di diventare una polpetta avvelenata. Come minimo dovrà passare più tempo, ci vorrà un nuovo governo in Israele e saranno necessarie maggiori concessioni ai palestinesi: tutti fattori carichi di incertezza.

Verranno liberati gli ostaggi?

Per i loro familiari è il dubbio più urgente. Finora Hamas ne ha rilasciati quattro. Gliene restano in mano circa 240, se sono ancora tutti vivi: il che non sembra, almeno stando a quanto afferma Hamas, secondo cui un certo numero di ostaggi sarebbero morti sotto i bombardamenti israeliani. Di certo c’è una trattativa in corso, mediata dal Qatar (amico di Hamas, che finanzia e di cui ospita i leader politici, ma anche amico degli Usa, di cui ospita la più grande base militare in Medio Oriente). L’impressione è che almeno una parte degli ostaggi potrebbe essere liberata, forse anziani, donne e bambini, ma non si capisce ancora in cambio di cosa: aiuti umanitari e carburante per Gaza, oltre a una pausa nei combattimenti? Oppure uno scambio con un certo numero di donne e bambini palestinesi detenuti in Israele? L’altra possibilità è che gli ostaggi vengano liberati dalle forze israeliane. Da un lato, Biden ha detto che serve una tregua “per avere il tempo di liberare gli ostaggi”, apparente allusione al negoziato. Dall’altro, venerdì il Pentagono ha reso noto che i suoi droni militari stanno sorvolando Gaza “per localizzare gli ostaggi”: apparente allusione a un’operazione per liberarli con la forza. Ma ogni operazione militare per liberarli, naturalmente, comporta l’alto rischio di morti fra i militari israeliani e fra gli stessi ostaggi. È una delle incertezze della guerra, la più angosciante per le famiglie degli ostaggi.

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